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ILVA di taranto: un caso locale e globale

Riccardo Graziano

Il caso dell’Ilva di Taranto è un perfetto paradigma di come troppo spesso il diritto al lavoro e il diritto alla salute vengano artificiosamente contrapposti per privilegiare i profitti. Ovvero di come gli interessi di pochi vengano anteposti al bene comune dei molti, non di rado con la complicità di ampi settori delle istituzioni e del sistema mediatico. Tuttavia, c’è chi si oppone con fermezza agli abusi di un sistema economico deviato e insostenibile, nel quale multinazionali senza scrupoli decidono di sacrificare territori e popolazioni in nome di uno “sviluppo” che ormai non è più tale sotto nessun aspetto, né sociale né economico, anzi impone pesanti costi e ricadute sulla salute delle persone e sull’ambiente.
L’opposizione allo strapotere economico diventa una rete di contatti e di persone che, pur a volte lontanissimi tra loro, scoprono di essere in ugual modo vittime di un sistema produttivo insensato, autoreferenziale, che spesso si regge solo grazie a sovvenzioni pubbliche e interventi legislativi ad hoc, che mirano a tutelare gli interessi del Capitale, mascherandoli con la scusa di salvaguardare posti di lavoro. Ma dopo gli anni ruggenti della globalizzazione incontrollata dell’economia, pian piano sta ora crescendo la globalizzazione della protesta verso le storture e i danni di questo sistema economico. Una protesta, appunto, che mette in contatto persone e comunità distanti fra loro, ma con una lotta comune da portare avanti. In questo modo si creano legami indissolubili e tenaci che, nel caso in questione relativo all’industria siderurgica, possono ben essere definiti “Legami di ferro”, esattamente il titolo del libro di Beatrice Ruscio (edito a cura di PeaceLink e il cui costo di 10 euro va a sostegno della campagna di informazione) che ci racconta i dettagli della vicenda, facendoci scoprire connessioni insospettate e allargando gli orizzonti dal caso specifico alla globalità.

Le vicende del colosso industriale tarantino sono state a lungo sotto i riflettori nel periodo in cui, a causa delle emissioni nocive che rilasciava in atmosfera, la fabbrica è stata posta sotto sequestro dalla Magistratura, per essere immediatamente dissequestrata con decreto urgente del Governo di allora, in quanto ritenuta sito di interesse nazionale strategico. Vale la pena entrare nel dettaglio, perché è quello il momento in cui la vicenda Ilva travalica i confini di Taranto e della Regione Puglia per diventare, appunto, una questione nazionale. Già nel 2008 la Regione aveva vietato il pascolo in un raggio di 20 chilometri dalla fabbrica, a causa della contaminazione da diossine e PCB (entrambi composti persistenti e cancerogeni) di terreni e bestiame. Fin da allora era parsa chiara la responsabilità dello stabilimento Ilva per il pesante inquinamento che interessava l’area di Taranto, sia sulla terraferma che nelle acque prospicienti, in particolare il Mar Piccolo. Ma invece di intervenire con provvedimenti severi che imponessero alla proprietà di sanare la situazione, i vari Governi iniziano a varare misure che consentono allo stabilimento di proseguire le attività nonostante i rischi per la salute.
Si comincia con l’Esecutivo capeggiato da Berlusconi il 4 agosto 2011, quando l’allora ministro dell’Ambiente (sic), Stefania Prestigiacomo, firma il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), sottoscritto anche da Regione ed Enti locali, che consente la prosecuzione delle attività purché vengano messe in atto 462 (!) prescrizioni volte a migliorare la sicurezza ambientale. Ma per carità, senza fretta, diamo pure qualche annetto di tempo, tanto l’inquinamento se lo respirano i tarantini, mica i parlamentari. In pratica, si certifica che l’Ilva può continuare a produrre inquinando, anziché imporre l’immediata messa in sicurezza o meglio ancora la totale riconversione produttiva. L’AIA prevede anche un cronoprogramma degli interventi, che naturalmente non viene rispettato, perché ovviamente la messa in sicurezza è un costo che va a erodere i profitti, che sono l’unica cosa che conta per la proprietà. E poi perché tanto si sa che lo Stato impone dei provvedimenti, ma poi mica si mette a controllarle se vengono attuati davvero.
Però ci pensa la Magistratura, con il Gip di Taranto che nel luglio 2012 pone sotto sequestro gli impianti, a causa dell’inadempienza aziendale rispetto alle prescrizioni stabilite. Ma ecco che il Governo, assopito quando doveva controllare la messa in atto dei provvedimenti, si risveglia efficientissimo quando lo stabilimento viene bloccato e provvede in un lampo a convertire in legge un apposito decreto salva-Ilva, che concede all’azienda altri 3 anni per adempiere all’80% delle prescrizioni iniziali. Inutile dire che anche stavolta le norme vengono sistematicamente violate, tanto c’è sempre pronto un nuovo decreto salva-Ilva, veloce e tempestivo come raramente accade nella legislazione italica.
Qualcuno ne ha contati ormai nove, di questi decreti. Non male, per uno stabilimento che ha appestato le campagne tarantine a tal punto da dover abbattere gli animali da pascolo e distruggere i prodotti dell’industria lattiero-casearia, compromettendo irrimediabilmente questo settore. Analogamente a quanto è accaduto per le colture di mitili e l’attività di pesca nelle acque del Mar Piccolo, a causa delle concentrazioni di sostanze tossiche ben superiori ai limiti di legge rilevate negli organismi marini, a loro volta eliminati perché insalubri per il consumo. Attività lavorative cancellate che evidentemente non sono mai entrate nel computo dei costi e benefici da valutare per decidere se tenere in vita una produzione che a sua volta compromette la vita delle persone.
È imperativo evidenziare, infatti, che gli effetti di questo inquinamento sono ormai ben noti a livello epidemiologico. Diossine e PCB sono composti di sintesi altamente tossici, persistenti e bioaccumulanti. Significa che non vengono distrutti dai processi metabolici, dunque risalgono la catena alimentari accumulandosi nei predatori primari, compreso l’uomo, in quantità assolutamente nocive per la salute, specie in relazione alla massa corporea. Ne consegue che i più esposti sono i bambini, che rischiano di assorbire queste sostanze tossiche fin dai primi giorni, perché sono state individuate anche nel latte materno. Perfino con l’atto più amorevole e naturale, una madre rischia di intossicare il figlio a causa dell’inquinamento ambientale in cui entrambi sono costretti a vivere da interessi economici ingiustificabili.
L’incidenza di queste sostanze tossiche è lampante anche sotto il profilo sanitario, in particolare oncologico, con le evidenze cliniche che denunciano “una mortalità per gli uomini in eccesso per tutte le cause – come evidenziato da uno studio epidemiologico riportato nel libro di Beatrice Ruscio – tutti i tumori (inclusi tumore del polmone e della pleura), le demenze, le malattie del sistema circolatorio […] respiratorio […] digerente […] “. Anche la mortalità infantile a Taranto è superiore alla media regionale e nazionale, in particolare nelle zone limitrofe agli impianti, come l’ormai tristemente famoso quartiere Tamburi e gli insediamenti limitrofi dei quartieri Paolo VI e Statte.
Insomma, è noto senza ombra di dubbio che a Taranto le persone, compresi i più piccoli, si ammalano e muoiono più precocemente che altrove in Italia a causa dell’inalazione delle polveri ferrose e degli altri inquinanti che continuano a provenire dall’Ilva. Ma non si interviene in maniera efficace per scongiurare questo pericolo, neppure ora che la proprietà è passata di mano, manco a dirlo, a un’altra multinazionale, che a sua volta non sembra essere molto sensibile ai danni sanitari e ambientali causati dalle sue produzioni in giro per il mondo.

Parte II
Dopo le vicissitudini della proprietà Riva, quando per anni l’Ilva ha prodotto un inquinamento ben superiore ai limiti di legge, nonostante blocchi e commissariamenti, l’acciaieria di Taranto è stata infine acquisita dal gruppo indo-francese ArcelorMittal, dopo una trattativa complessa, nella quale l’abbattimento delle emissioni inquinanti era uno dei punti centrali. Dunque, non è un caso se in questi giorni si è aperta una nuova crisi per l’azienda proprio su questo tema.
Nello specifico, a provocare lo strappo è stata la questione dell’immunità civile e penale che finora veniva garantita alle figure apicali (prima i commissari, oggi i vertici aziendali) per evitare loro di incorrere in reati ambientali nel periodo di transizione necessario ad attuare le prescrizioni anti-inquinamento. Ma l’attuale Esecutivo ha deciso di abolire questo trattamento di favore, probabilmente per evitare che questa garanzia di impunità inducesse a un minor impegno nell’attuare le disposizioni governative. Quindi un modo per “incentivare” i responsabili ad adottare velocemente le misure atte a salvaguardare l’ambiente e la salute dei cittadini, cosa che forse si poteva ottenere anche con uno stretto controllo sull’attuazione del cronoprogramma degli interventi, sanzionando le eventuali inadempienze contrattuali.
È possibile che sulla decisione del Governo abbia pesato negativamente la sistematica violazione dei tempi e delle normative da parte delle gestioni precedenti, fatto sta che i vertici della multinazionale hanno colto l’occasione per decidere il ritiro dall’accordo, ufficialmente proprio per questo strappo sulle tematiche ambientali. Ma potrebbe esserci dell’altro, perché il mercato dell’acciaio è in crisi in tutto il mondo, dunque questa potrebbe essere almeno in parte una scusa per abbandonare uno stabilimento che in realtà avrebbe anche qualche problema di sostenibilità economica. Per valutare correttamente il peso dei due fattori, economico e ambientale, in questa vicenda, occorre però ampliare lo sguardo oltre le ciminiere dello stabilimento pugliese, osservando la questione in un’ottica globale.
Perché purtroppo la storia di Taranto non è un unicum. Nel suo libro-inchiesta “Legami di ferro”, Beatrice Ruscio dedica ampio spazio a ricollegare la vicenda della città jonica con quella di Piquià de Baixo, popoloso insediamento della selva brasiliana originariamente circondato da una vegetazione rigogliosa, oggi colonizzato dall’industria siderurgica e ribattezzato Pequia, acronimo che sta per “Polo Petrol-Quimico de Acailandia”, il petrolchimico della terra dell’acciaio. Il minerale di ferro che pervade aria, strade e polmoni dei cittadini di questo sito (per noi) remoto è lo stesso che viene esportato a Taranto, le lavorazioni sono analoghe, la produzione di sostanze tossiche e l’impatto sulla popolazione e sull’ambiente anche.
Due comunità geograficamente distanti hanno scoperto di essere unite da uno stesso destino atroce, che si ripete in molte, troppe zone del globo: quello di essere scientemente e cinicamente sacrificate da un sistema produttivo che, in nome di uno “sviluppo” assiomatico - che si sovrappone al mero interesse economico - condanna determinati luoghi e popolazioni a pagare i costi di un modello produttivo obsoleto e insostenibile. Un’oscenità immorale sotto il profilo etico, un’ingiustizia sotto quello sociale, un disastro dal punto di vista ambientale e, come se non bastasse, non conveniente sotto l’aspetto economico.

Abbiamo già detto [nella prima parte di questo articolo] come a Taranto la stessa fabbrica che “garantisce” alcuni posti di lavoro nella siderurgia (peraltro sottoponendo i dipendenti a rischi sanitari inaccettabili) ne abbia in realtà cancellati innumerevoli altri nell’agricoltura, nella pastorizia, nel settore ittico e in quello della trasformazione degli alimenti, discorso che vale anche per tutte le altre comunità sparse per il globo che subiscono gli effetti di produzioni inquinanti o più in generale non ambientalmente sostenibili. Ma c’è dell’altro.
Nella prefazione al libro “Legami di ferro”, Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, sottolinea l’insensatezza di un sistema economico che pullula di storture, compreso un settore siderurgico con una capacità produttiva di 1,8 miliardi di tonnellate/anno a fronte di una domanda di sole 1,5 tonnellate. Quindi un settore che è strutturalmente in sovrapproduzione e che conseguentemente sovra sfrutta le risorse e produce ancora più inquinamento di quanto sarebbe “necessario” per soddisfare la domanda ordinaria. Dunque un settore che, analogamente a molti altri, a partire da quello cementiero-edilizio, ha la necessità di implementare artificiosamente la domanda.
Come?
Per esempio sostenendo l’indispensabile e strategica necessità di nuove infrastrutture e “Grandi Opere”. Guarda caso, esattamente la ricetta che ci viene propinata ciclicamente e da tempo immemore da Governi di diverso colore e da gran parte del sistema mediatico che influenza il pensiero della cosiddetta “opinione pubblica”, inducendoci a pensare che non esista alternativa all’attuale sistema economico-produttivo. E che dunque ci si debba rassegnare ai suoi effetti collaterali, anche quando incidono sulla salute delle persone e sulla salvaguardia dell’ambiente, pena la perdita dei posti di lavoro.
È esattamente la forma di ricatto che da sempre viene imposta ai cittadini di Taranto, costretti a scegliere se subire un inquinamento gravemente lesivo per la loro salute, o rischiare di veder chiudere la fabbrica e perdere migliaia di posti di lavoro. Senza mai prendere in considerazione due alternative perfettamente praticabili, anche se non semplicissime. La prima, continuare a produrre utilizzando tutti gli accorgimenti possibili per abbattere l’inquinamento, da porre in essere il prima possibile, anche se ciò dovesse comportare la riduzione o il fermo temporaneo della produzione, cosa che ovviamente inciderebbe sugli utili aziendali, ma la salute delle persone deve avere la precedenza.
La seconda, di pensare di riconvertire completamente la fabbrica, visto anche il surplus produttivo esistente nel mercato dell’acciaio, superiore alla domanda effettiva. Tanto per fare un esempio, un settore in rapida crescita è quello delle batterie per la trazione di auto elettriche, comparto nel quale in Italia (ed Europa) al momento regna un vuoto cosmico. È solo un esempio, naturalmente. Ma occorre anche tenere conto dei posti di lavoro che potenzialmente potrebbero essere recuperati in agricoltura o nel settore ittico, quelli cancellati a causa dell’inquinamento ambientale, ma che potrebbero essere ripresi se si risana il territorio. Purtroppo, nei conteggi di certa politica, imprenditoria e informazione pubblica, gli unici posti di lavoro che vengono presi in considerazione sono quelli della fabbrica. Una visione obsoleta, in un mondo di fatto già post industriale, eppure ancora largamente dominante, così come l’idea che in nome dei posti di lavoro si possa anche inquinare e mettere a rischio la salute delle persone.

Ma nel mondo continua a crescere un movimento, una rete di persone sempre più consapevoli che il diritto al lavoro non deve entrare in conflitto con il diritto alla salute e che non accetta più passivamente vecchie tesi volte a giustificare un modello produttivo insostenibile, difeso a oltranza dalle classi dominanti in nome dei loro guadagni. Persone che hanno compreso l’urgente necessità di ripensare radicalmente l’attuale paradigma economico e produttivo in un’ottica di sostenibilità. La storia di alcune di queste persone e comunità, che non si rassegnano a essere vittime di un sistema produttivo malato e si battono per un nuovo modello di sviluppo, è quella che ci racconta con empatia e partecipazione Beatrice Ruscio nel suo libro, annodando “Legami di ferro” sottili ma tenaci fra Piquià de Baixo e Taranto.

Per approfondimenti e aggiornamenti:
www.peacelink.it
www.legamidiferro.eu
www.beatriceruscio.eu

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