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La biodiversità nella Costituzione?

Mauro Furlani

Edward O. Wilson nella sua opera più conosciuta del 1992 “La diversità della vita”, introduce il termine biodiversità, che da quel momento ha trovato ampia diffusione, non solo in campo scientifico, ma anche nel linguaggio comune. L’autorevolezza dell’Autore e le crescenti preoccupazioni da parte degli studiosi sulla perdita di specie nel mondo hanno indotto gli organismi istituzionali di più alto livello, grazie anche alla spinta dell’opinione pubblica, ad una più attenta riflessione sulle cause e la ricerca di strategie per interrompere il declino della biodiversità o almeno per rallentarlo.
La diversità delle forme di vita e il suo valore erano già ben presenti nella letteratura scientifica da molti decenni; lo stesso Charles Darwin chiude la sua opera centrale, “L’origine delle specie”, ancora oggi fonte inesauribile di riflessione e di interpretazione della natura e della biologia, affermando: “Vi è qualcosa di grandioso (…) da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano ad evolversi.”
Come noto, lo studio della diversità biologica non si esaurisce, come già percepito molti secoli prima di Darwin, fino alle indagini naturalistiche di Lucrezio e di Aristotele, nella semplice elencazione di specie, ma è comprensiva della diversità degli ambienti fino alla specificità dei comportamenti alimentari, riproduttivi e così via.
Oggi nuovi e ulteriori potenti strumenti di indagine accompagnano le metodologie classiche di differenziazione degli organismi, come le diversità genetiche, che hanno ulteriormente contribuito ad estendere il significato della biodiversità.

Negli anni, la stessa nostra normativa ha insistito sulla protezione e tutela delle specie fino ad elevare le specie animali vertebrate omeoterme, nella legge quadro sull’attività venatoria a, “patrimonio indisponibile dello stato”.
Dunque lo Stato riconosce una parte della fauna come proprio patrimonio la cui alienazione può avvenire limitatamente per alcune specie e comunque regolamentandone strettamente l’utilizzo. Un bel salto culturale e legislativo rispetto all’assenza di proprietà, res nullius, della precedente normativa.
La spinta emotiva e scientifica degli inizi del secolo scorso fece istituire i primi parchi nazionali, a partire da quello del Gran Paradiso, istituito nel 1922, che lega il suo percorso a quello di Renzo Videsot, fondatore del Movimento per la Protezione della Natura, divenuto poi Federazione Pro Natura. Negli stessi anni si concretizzò l’istituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo, grazie alla prima proposta di Alessandro Ghigi, presidente della società emiliana “Pro Montibus et Sylvis” che già nel 1917 presentò un progetto ufficiale di Parco molto esteso, accolto dal Regio Decreto del 1923, allo scopo di “tutelare e migliorare la fauna e la flora e di conservare le speciali formazioni geologiche, nonché la bellezza del paesaggio”. Gli anni successivi videro l’istituzione di altri gioielli naturalistici, custodi preziosi di specie e habitat messi a rischio di essere travolti da incuria e da uno sfruttamento sfrenato: Il Parco Nazionale del Circeo, dello Stelvio e via via tutti gli altri.
Furono questi i primi strumenti organici di tutela della fauna e degli ambienti geomorfologici e vegetazionali che li ospitano.

Più di recente, nel 1992 a Rio de Janeiro, la comunità internazionale, durante il Vertice sulla Terra, riconobbe in modo formale e con la massima autorevolezza l’importanza della biodiversità e condivise i principi e le strategie per la conservazione della diversità biologica. Appena due anni dopo l’Italia fece propria e ratificò la Convenzione di Rio.
Nonostante la consapevolezza del rapido declino e il grido d’allarme lanciato dalla comunità scientifica e protezionistica dell’importanza della salvaguardia della biodiversità, rivolto alle massime istituzioni internazionali, questa continua a subire a livello nazionale e mondiale una forte aggressione, con conseguente inarrestabile rarefazione del numero di specie e di habitat.
Proprio a causa di questa erosione del capitale biologico molti ricercatori parlano ormai esplicitamente di sesta estinzione di massa a livello mondiale, e sarebbe la prima volta la cui causa è riconducibile non a motivi naturali, ma all’espansione di un’altra specie, particolarmente aggressiva ed invadente: l’uomo.
Alla luce di tutto ciò l’Italia, detenendo per ragioni biogeografiche, geologiche, climatiche la maggiore biodiversità europea, dovrebbe avere un ruolo centrale per promuovere la conservazione della biodiversità nelle sue diverse articolazioni.

La nostra Carta Costituzionale è riconosciuta unanimemente come espressione particolarmente avanzata, soprattutto nei sui principi cardine. In particolare, l’art. 9 della Carta promuove la tutela del Paesaggio, in modo estremamente mirato e sintetico “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
Questo articolo riconosce nel Paesaggio e nella sua tutela un principio identitario e unificante delle popolazioni della Penisola.
Il suo riconoscimento, che oggi vantiamo giustamente come principio elevato di cultura, ha avuto una lunga elaborazione culturale, come riporta Salvatore Settis nel suo libro “Paesaggio Costituzione cemento”, prima di approdare con forza tra i più alti principi della nostra Costituzione.
Certamente, all’epoca della formulazione di questo sobrio articolo il paesaggio era inteso e circoscritto all’interno di un contesto storico, artistico ed estetico. Probabilmente, ancora oggi, il sentire comune interpreta il paesaggio come luogo di valore identitario, in cui l’intervento storico dell’uomo si è fuso, e nel caso dell’Italia, magistralmente integrato, con l’evoluzione naturale dei luoghi.
Il concetto di biodiversità nella pienezza della sua espressione non poteva appartenere né alla cultura del tempo e neppure alle priorità condivise in un paese appena uscito dalla guerra, con tutte le sue lacerazioni e le immani distruzioni materiali e morali.

Oggi, tuttavia, questo termine, oltre che ben delineato dalla scienza, fa parte in modo integrante della nostra cultura, la cui conservazione appartiene agli orizzonti condivisi non solo delle persone particolarmente attente agli aspetti e alla conservazione della natura, ma anche di molta parte della popolazione.
Forse, proprio in forza del significato universale della biodiversità, nasce la proposta di inserire all’interno della nostra Carta Costituzionale questo valore, in aggiunta a quanto afferma l’art. 9.
Il nuovo testo, approdato alla Camera dopo l’approvazione quasi all’unanimità del Senato, è formulato in questi termini, in aggiunta a quanto già presente: “Tutela l’integrità e la salubrità dell’ambiente, protegge la biodiversità e gli habitat naturali, opera per la salvaguardia degli ecosistemi, come condizioni necessarie per il benessere dell’umanità”.
Come si può notare, alla enunciazione essenziale dell’attuale art. 9 si sostituisce una dizione più “verbosa”, come fa notare Salvatore Settis in un articolo molto critico e preoccupato, pubblicato su La Stampa di Torino. Il termine paesaggio perde l’attuale centralità, stemperato all’interno di una formulazione più ampia e complessa, con termini aggiuntivi come habitat naturali, biodiversità, ed ecosistemi.
Questi termini, pur essendo ormai entrati nel linguaggio comune colloquiale, esprimono significati scientifici la cui comprensione non è per nulla semplice e il cui inserimento tout court nella Carta Costituzionale rischia di subire una banalizzazione dei loro reali significati scientifici.

Avrebbe l’art. 9 necessità di una riformulazione così estensiva oppure già il termine paesaggio esprime i significati che si vogliono aggiungere?
Sandro Pignatti, nostro Presidente Onorario, ridefinisce il significato di paesaggio estendendolo rispetto alla sua formulazione voluta dai costituenti e parla esplicitamente di ecologia del paesaggio, titolo di un suo libro del 1994: “L’ecologia del paesaggio si pone lo scopo dello studio del paesaggio sulla base del metodo scientifico(...). Per raggiungere questo scopo almeno tre campi di indagine sono necessari: l’ambiente fisico ed i viventi che su esso sono stabiliti: tra questi viene considerato separatamente anche l’uomo quando sia presente”.
Settis, nel citato articolo, richiama alcune delle sentenze della Corte Costituzionale, che di fatto ampliano l’attuale art. 9, estendendo il valore del paesaggio ben oltre il significato estetico a cui probabilmente i padri costituenti avevano pensato, adeguando il testo e il termine paesaggio, proprio nel senso ridefinito da Pignatti.
Senza alcuna forzatura estensiva, la stessa Convenzione Europea sul Paesaggio, firmata dall’Italia a Firenze nel 2000, all’art. 1, nelle definizioni, sottolinea "Salvaguardia dei paesaggi indica le azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, giustificate dal suo valore di patrimonio derivante dalla sua configurazione naturale e/o dal tipo d'intervento umano”.
In questo periodo storico particolare, in cui molte nubi minacciose si addensano sia sugli ambienti naturali che su pregevolissimi paesaggi, e attacchi violenti vengono diretti alle Sovrintendenze, custodi istituzionali delle ricchezze paesaggistiche del nostro territorio, appare quanto mai inopportuno aprire un ulteriore elemento di debolezza di quell’art. 9 della Costituzione, richiamato di recente anche dal Presidente della Repubblica.

Infine, l’assenza di qualsiasi apertura di un dibattito pubblico di approfondimento e di discussione in grado di coinvolgere il più ampio numero di soggetti fa apparire questa modifica così profonda un’operazione tutta interna alle istituzioni politiche.
Appare quasi un diversivo per non affrontare efficacemente le numerose problematiche ambientali che ci sono e che l’applicazione del PNRR (Piano Nazione Ripresa e Resilienza) rischia di aggravare ulteriormente.
È sufficiente leggere il rapporto ISPRA appena uscito e riferito al quinquennio 2013-18 sulla biodiversità e sullo stato di conservazione delle specie prioritarie appartenenti agli allegati II e IV e V della direttiva Habitat (92/43/CEE) per evidenziare alcune criticità preoccupanti nello stato di conservazione di molte specie e degli habitat. I dati allarmanti richiamano la necessità di interventi immediati e non fuorvianti. Infatti, tra le specie marine il 22% manifesta uno stato di conservazione sfavorevole, mentre lo stesso status lo hanno il 54% di specie floristiche e il 53% delle specie faunistiche terrestri. Ancora più allarmante è il precario stato di conservazione degli habitat terrestri, 89%, e di quelli marini, 63%.
Tra le cause di questo deperimento faunistico non troviamo la carenza di normative di protezione quanto piuttosto un’applicazione distratta, poco efficace delle stesse, che va ad aggiungersi ad una agricoltura industriale fortemente impattante, ad uno sviluppo di infrastrutture invasive, ai cambiamenti climatici, alla diffusione di specie alloctone, ecc.
Non meno preoccupante il recente rapporto ISPRA sul consumo di suolo. Malgrado il periodo di pandemia con conseguente rallentamento economico, il suolo continua a subire un’erosione ad un ritmo di ben 2 m2 al secondo, rendendo non più rinviabile una legge che cerchi di porre un freno a questa folle corsa.
Tutte cause che potrebbero essere affrontate con una normativa ordinaria oppure facendo in modo che quelle esistenti trovino piena e convinta applicazione, sia a livello nazionale che nelle istituzioni amministrative periferiche. Diversamente dalla quasi unanimità con cui il Senato ha licenziato favorevolmente la modifica dell’art. 9 della Costituzione, l’applicazione concreta delle misure di conservazione, o la legge sul consumo di suolo, non ulteriormente rinviabile e altre, vedono arroccamenti ostili, spesso trasversali a numerose forze politiche.

Il rilancio della legge quadro 394/92 sulle aree protette, abbandonate ad un mesto declino, oppure l’applicazione dei piani di gestioni delle aree appartenenti alla Rete Natura 2000, il contrasto alla diffusione di specie alloctone, l’abbandono di velleità locali di un turismo di rapina, soprattutto legato agli sport invernali, sono tutte misure che possono e devono essere applicate senza mettere mano alla Costituzione.
Il rischio che si corre con una modifica così importante della Carta Costituzionale è che si vada a depotenziare uno dei più elevati principi di tutela, quello del paesaggio, e con esso tutte le sentenze prodotte dalla Corte Costituzionale negli anni, per deragliare su una via incerta se non addirittura pericolosa.

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