La scuola e le scienze naturali al tempo del coronavirus
Mauro Furlani
In questi mesi di forzata segregazione e di sospensione di molte attività si è parlato diffusamente degli effetti che la prolungata sosta potrà avere, oltre che sul tessuto produttivo, anche su quello sociale, economico e più in generale sul futuro del Paese.
Ripartenza, ripresa, sono forse i termini più usati, come se si fosse trattato di una sosta forzata del tutto accidentale, con la certezza che da lì si ripartirà, esattamente da dove ci si è fermati, e, soprattutto diretti nella stessa direzione verso cui stavamo andando.
Crediamo che così non sarà, così non dovrebbe essere. Seppure quanto accaduto non ci abbia insegnato molto, gli eventi difficilmente ci consentiranno di percorrere la stessa direzione.
Il meccanismo trituratore dell’informazione, diventato spettacolo, protratto per mesi, oltre che numeri, statistiche e curve esponenziali, ha macinato e fagocitato anche la scienza che oltre a trovarsi impreparata rispetto a questa pandemia, ancora più disarmata è apparsa a resistere all’assalto mediatico a cui è stata sottoposta. Scienziati consultati come oracoli, dalle cui parole sembrava far derivare il futuro, si sono spesso sottoposti ad una sovraesposizione mediatica a cui non erano preparati.
La vanità personale, il momento di ribalta mediatico ha soppiantato spesso la cautela, il rigore scientifico e un linguaggio misurato che l’incertezza dei dati e l’imprevedibilità delle proiezioni avrebbe richiesto.
Dal dibattito, scienziati diventati improvvisamente nuovi protagonisti di talk-show, in contraddizione frequente tra loro, sono rimasti lontani o assenti due soggetti: l’ambiente e il sistema dell’istruzione.
Entrambi sono cardini di un nuovo assetto i cui fatti ci costringono a considerare e a porre al centro di modelli di sviluppo; la pandemia ha solo reso ineludibile e stringente questa necessità.
Le alterazioni dell’ambiente naturale, la sua usurpazione, e dunque l’inderogabile riconciliazione, dovrebbero essere poste al centro di ogni piano di sviluppo; al contrario, la tutela ambientale viene percepita come un fastidio, un impiccio nella ripresa di un cammino interrotto.
Se di ambiente altri riflettono su queste pagine, la scuola e l’istruzione meritano un primo approfondimento e una prima riflessione.
Quali saranno gli effetti che produrrà per il futuro dei ragazzi questo loro allontanamento forzato dai luoghi che gli sono più familiari, non credo sia al momento valutabile.
Per quanto riguarda l’istruzione una grande energia è stata destinata ad affrontare il contingente: come proseguire le lezioni mantenendo coesione di intere generazioni con l’istituzione scolastica; con quali modalità e precauzioni sanitarie affrontare gli esami nei vari ordine di istruzione; come valutare gli esiti didattici di uno studente la cui partecipazione al processo formativo è stata solo virtuale.
Qualche proiezione è stata fatta in merito alla ripresa della didattica del prossimo anno. Nessuna visione prospettica, nessuna riflessione in merito agli effetti culturali e le ricadute che l’assenza del contatto fisico, del confronto culturale, generazionale, spesso assente in famiglia, potrà avere per il futuro, soprattutto se questa situazione riapparirà e si protrarrà anche nel prossimo anno scolastico.
Attraverso la scuola, con i suoi studenti, passa la visione del futuro, quella di un paese e del mondo. L’istruzione dei giovani pone orizzonti ampi con ricadute nei decenni.
Nei mesi precedenti lo scoppio della pandemia, pur con mille contraddizioni, questo soggetto giovanile si è reso visibile e protagonista con le manifestazioni per il clima e per l’ambiente, che proprio all’interno del mondo della scuola ha trovato la sua coesione.
Questo incrina anche un’altra certezza, quella di coloro che riteneva questi movimenti giovanili altro non fossero se non una estensione del mondo virtuale autoalimentato dalla rete.
I fatti dimostrano che non era così, o forse non solo così. Il luogo fisico di aggregazione, di scambio di idee, di emozioni, non era la rete. Al contrario, durante questi mesi di isolamento, l’uso di strumenti informatici, pur avendo avuto una forte espansione, non è riuscito a sostituire i luoghi fisici di aggregazione e di discussione reali, come avviene nel mondo della scuola.
È proprio all’interno di questo insostituibile spazio fisico e culturale che può maturare il confronto di idee, la consapevolezza e, attraverso il confronto, lo studio e anche lo scontro, la crescita.
Da parte di molti, mai come in questo periodo è stata forte la tentazione, per sfuggire alle ansie di una situazione nuova e angosciante, rifugiarsi in spiegazioni e in atteggiamenti irrazionali.
Quanto è emerso non è stato solo una carenza di informazione, ma il riemergere di dogmatismi mai sopiti, che evidenziano una carenza di base nella cultura naturalistica e scientifica, un deficit culturale di questo Paese. Come spiegare altrimenti l’acuirsi di fobie e ostilità, ad esempio nei confronti dei pipistrelli, ritenuta essere stata la specie serbatoio dalla quale il virus pandemico ha effettuato il salto, lo spillover? Fenomeno questo che può essere anche vero ma che non può certo accomunare tutte le specie.
Addirittura analoga fobia irrazionale ha coinvolto anche i nostri animali domestici, cani e gatti, il cui abbandono è aumentato significativamente.
Quando nel 1963, grazie anche alla spinta del nascente Movimento per la Protezione della Natura, venne reintrodotto in tutte le scuole l’insegnamento delle Scienze naturali, emarginato dal regime fascista, questo insegnamento rispondeva ad una nuova sensibilità naturalistica prima che ambientalista.
Questa emarginazione della cultura scientifica, in particolare delle scienze naturali, ha origini ancora più profonde rispetto a Giovanni Gentile, che le mise in atto con la riforma scolastica durante il regime fascista. Benedetto Croce così si espresse:
“Gli uomini di scienza (...) sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico” (da “Il risveglio filosofico e la cultura italiana”, 1908).
Per riportare questo insegnamento nelle nostre scuole un ruolo centrale lo ebbe proprio Alessandro Ghigi, il cui percorso scientifico e personale, con luci e ombre, si interseca profondamente con quello della Federazione. Il suo giudizio rispetto alla Riforma Gentiliana, almeno rispetto alle scienze naturali, era netto e senza appello “eliminò dalla cultura italiana la conoscenza della natura”.
Il ripristino delle Scienze naturali ha restituito dignità a questa disciplina, senza tuttavia mai farle raggiungere il peso formativo di altre ritenute più centrali, quali la fisica, la matematica e in parte la chimica. Nonostante questo ritrovato interesse per le scienze, l’eredità gentiliana della netta separazione tra il mondo umanistico e quello scientifico ancora oggi fa fatica a trovare un momento di sintesi e di riappacificazione. Le scienze naturali, per questa loro collocazione a cavallo tra le due, potrebbero rappresentare quel ponte culturale tra due mondi che ancora oggi stentano a riallacciare un legame e un dialogo.
Le scienze naturali, nelle loro indagini e argomentazioni, utilizzano sia strumenti tipici delle discipline scientifiche cosiddette dure, sia strumenti tipici delle discipline storico/umanistiche. Si pensi al riguardo alla formalizzazione matematica applicata all’ecologia di popolazione, esattamente un secolo fa dal matematico Vito Volterra, oppure interi volumi, senza neppure una formula matematica, dedicati alla definizione del concetto di specie.
Questa contraddizione non si è mai del tutto sanata, anzi, le scienze naturali, spingendosi sempre più in campi biochimici, si sono ulteriormente allontanate da quello studio della natura e dell’ambiente da cui sono nate.
Del tutto emarginate dall’insegnamento attuale sono le discipline più direttamente afferenti allo studio della natura, degli ecosistemi, della biodiversità e alla comprensione delle dinamiche e delle interazioni tra dimensione antropica e naturale.
La biologia divenuta sempre più lo studio e l’insegnamento dell’infinitamente piccolo, in una dimensione estraniante dalla sperimentazione. Il microscopico non legato al macroscopico.
I pochi timidi tentativi che la scuola aveva cercato di portare avanti in questi anni, rispetto ad una innovazione non solo metodologica, ma anche didattica con l’apertura a tematiche come quelle dello studio dell’ambiente, sembrano al momento quasi completamente azzerati, sopraffatti dal contingente. Lo studio della natura ha bisogno di esperienze reali, di confronto, di sperimentazione laboratoriale e osservazione sul campo e quel poco che la scuola stava portando avanti è stato brutalmente interrotto.
L’allontanamento delle scienze della natura dal vissuto quotidiano, alienando le discipline sperimentali dell’approccio emozionale ed empatico, mina profondamente una acquisizione consapevole.
Certo, la tecnologia offre numerosi strumenti didattici, incrementati notevolmente in questi ultimi tempi sotto la spinta della necessità didattica. Tuttavia l’assenza del contatto fisico con l’oggetto della sperimentazione attenua quel saper fare e quel coinvolgimento emotivo e partecipato che dovrebbe accompagnare il sapere teorico.
Se la normale frequentazione degli spazi didattici riprenderà in tempi brevi, già dall’inizio del prossimo anno, gli effetti dal punto di vista educativo e culturale potranno essere limitati. Al contrario, se l’anno che si aprirà presenterà le stesse problematiche vissute nell’ultima parte di quest’anno, queste potranno incidere in profondità sui livelli culturali di queste generazioni con ferite profonde e forse non rimarginabili.
L’educazione ambientale che ogni Ministro negli ultimi anni ha interpretato in genere come una sorta di educazione alle buone abitudini ambientali, e quasi mai come scienze dell’ambiente, come scienza dotata di una propria metodologia di indagine, dovrebbe diventare strumento di formazione insostituibile, con un suo apparato teorico in grado di legare attorno a sè tutte le altre discipline. Ricongiungendo quell’unico sapere che dai due rami principali, umanistico e scientifico si è poi diramato ulteriormente in mille rivoli perdendo di vista i punti di partenza.
La paralisi del sistema scolastico fa emergere anche un altro problema, ben noto, ma sempre accantonato e ora non più eludibile, quello degli spazi fisici dentro i quali la didattica è praticata. Spazi fisici e strutture scolastiche spesso inadeguate, sia ad assicurare il distanziamento che il Covid-19 obbligherebbe, sia a sviluppare una didattica adeguata.
Un piano di rilancio del sistema produttivo del Paese dovrebbe ripartire proprio dalla centralità del sistema dell’istruzione, da una ridefinizione dei contenuti didattici ma anche degli spazi all’interno dei quali questi contenuti sono discussi ed elaborati, accantonando definitivamente quelle infrastrutture faraoniche che ciclicamente, come un fiume carsico, riemergono.