Per una rivalutazione della ricerca scientifica in Italia
Paolo Pupillo
Stiamo uscendo, forse, dal momento apicale della peggior crisi economica, sociale e sanitaria che si ricordi negli ultimi cent’anni e i giornali sono pieni di auspici o raccomandazioni su ciò che il Paese dovrà fare in futuro per risollevarsi e per non ricascarci, con quello hashtag “niente sarà come prima” che va a fare il paio con l’iniziale (e surreale) “andràtuttobene”. La “scienza” è tornata al centro della scena, i politici contano quanti malati occorrono per infettarne un altro e i luminari si contendono la ribalta spiegando al popolo che deve lavarsi le mani … e infatti il consumo di acqua e di plastiche usa e getto è aumentato esponenzialmente. Manca, come sempre, l’uso ragionato della scienza vera: la scienza diffusa, vasta, popolare, quella che dà a ciascuno di noi una percezione immediata e autonoma degli eventi, delle probabili verità e delle sciocchezze. Quello che solo una scuola di qualità può assicurare a tutti, o a una maggioranza; farne cittadini consapevoli, non marionette in balia dell’ultima novità da smartphone.
Com’è indietro la scienza diffusa in Italia, ragionavo in questi mesi. Non che manchino i ricercatori e neppure i centri di ricerca, le università sono abbastanza buone, tanti studiosi italiani formati qui da noi si recano all’estero dove si distinguono nella ricerca scientifica, e in fondo che male c’è in questo fenomeno, nella “fuga dei cervelli”? Non esiste forse un ambiente sovranazionale della scienza creato apposta per superare le antiche barriere, ridare slancio alla ricerca della vecchia Europa in affanno e offrire maggiori opportunità ai giovani? Certo, ma la domanda è: l’Italia fa qualcosa di serio per trattenerli?
Perché se guardiamo dentro alle cose senza infingimenti, il problema non è di oggi. Un giorno ebbi occasione di entrare nel rettorato di una cittadina tirolese chiamata Innsbruck e vedo alle pareti dell’atrio una fila di ritratti di premi Nobel per la chimica che lì hanno servito. Poi vidi il rettorato di Strasburgo, in Francia, altra sfilza di Nobel per la fisica, e a Friburgo in Germania… Ma come, vien da riflettere, e gli Italiani vincono dei Nobel (20 in tutto) per materie scientifiche? Non troppo male con la Fisica 5 su 20 (da Marconi 1909 a Fermi 1938, Segré 1959, Rubbia 1986, Giacconi 2002) e nemmeno in Medicina con 6 (da Golgi 1906 a Bovet 1952, Luria 1969, Dulbecco 1975, Levi Montalcini 1984, Capecchi 2007), non fosse che molti di loro hanno operato in prevalenza altrove per scelta o per necessità (le cosiddette “leggi razziali”). Ma è mai possibile che abbiamo un solo vincitore in Economia (Modigliani 1985) e in Chimica (Natta 1963), con la quantità di economisti e di chimici che sono passati per le nostre università e il CNR? Della biologia non parlo non esistendo Nobel ad hoc, in quanto all’epoca di Darwin e di Mendel non era nemmeno considerata una scienza e non aveva ricevuto il suo nome (ma è una bella mancanza, anche se chimica e medicina suppliscono in parte!). Ma insomma converrete che un primo sintomo c’è: pochi Nobel per una nazione che era stata prima nella cultura e nella scienza in un passato lontano, e oggi si scopre ad arrancare in tutti i campi. Perciò una cosa andrebbe detta a gran voce agli italiani e a chi li governa a vario titolo e livello: senza una cultura e una scienza diffusa, almeno in vasti strati della popolazione, non c’è speranza di ripresa per l’Italia. La globalizzazione non farà sconti, se non ci si prepara ad essere competitivi in tutti i settori. Dall’ambiente all’informatica alle tecnologie.
Non c’è questa consapevolezza, purtroppo. Per il “rilancio” post CoVid leggo la dichiarazione della viceministra Laura Castelli, torinese, che indica in “turismo, ristorazione, made in Italy” le priorità da rifinanziare; e dispero. O se no il coro greco di quanti invocano, panacea d’ogni male, le “grandi infrastrutture” (tri-quadriplicazione di autostrade col fatale completamento della famigerata PiRuBi, pedemontane, trasversali di pianura e gronde a grandine, alte velocità e trafori a pioggia: forse per scongiurare tutto ciò parlava d’altro la sig.a Castelli) con tanto di commissari ad acta per l’inevitabile “abolizione della burocrazia”; e qui si intende l’evirazione finale delle soprintendenze, già ora semivive, con ogni residua remora ambientale paesaggistica. Già si rivedono cose che credevamo d’un tempo che fu, sfasci brutali come in questi giorni quello del piccolo Lago Santo di Cembra, delizioso e remoto SIC ridotto a spiaggia tipo Alassio con rive di ghiaia. Mentre si buttano i pochi soldi a palate in grandi imprese spesso inutili o dannose, i nodi di fondo restano sempre gli stessi. Una nazione in cui si sono sottratti linearmente fondi e posizioni alla sanità, alla scuola, all’università e alla ricerca: se ci dicono che l’Italia spende troppo, mentre gli evasori assommano alla metà dei contribuenti al fisco, noi tagliamo il 10% a quello che funziona e avanti così.
Certo, gli ultimi avvenimenti hanno convinto tutti o quasi che la sanità non può essere smantellata e richiede personale qualificato, investimenti adeguati, un’idea del futuro. Come diceva giorni fa il ministro della sanità della Repubblica Federale di Germania Jens Spahn, parlando con legittimo orgoglio della difesa tedesca dal virus: la tutela della salute crea lavoro qualificato, progresso scientifico e occupazione. Se facessimo così anche noi, i medici tornerebbero a fare i medici, gli infermieri gli infermieri, biologi e i farmacisti i rispettivi mestieri, i sofisticati macchinari di diagnosi e cura sarebbero rifinanziati e aggiornati.
Ma la necessità di un ripensamento complessivo (verrebbe da dire “un nuovo modello di sviluppo”, ma fa un po’ ridere quasi 50 anni dopo la vacua voga di quella vaga terminologia), investe molti altri settori vitali per l’Italia e il suo posto nel mondo. Le arti, i beni culturali, l’archeologia, di cui abbiamo patrimoni favolosi che si possono meglio salvaguardare e, questi sì, valorizzare: vedere per credere il rilancio del complesso di Pompei o della reggia di Caserta. Le materie tecnologiche d’avanguardia naturalmente, oggi la fisica e l’informatica, l’intelligenza artificiale, su cui l’Europa investe molto, ma sempre con un occhio prevalente a finanziare le imprese più che ai contenuti scientifici. La nuova chimica e la farmaceutica molecolare, non solo in funzione delle pandemie che ci sono e che verranno: ma anche della sanitazione dell’ambiente dalla “vecchia” chimica, un compito gigantesco a cui ogni Paese che si voglia dire avanzato dovrebbe attendere con priorità assoluta. L’energia, in primis quella da risparmiare. Le centrali nucleari (e non) da dismettere, riconvertire, smantellare. L’enorme questione irrisolta dei rifiuti, che va affrontata con indipendenza di giudizio e innovazioni tecnologiche adeguate, senza più pensare di risolverla trasferendola sull’estero. Tutto questo ha a che fare con la questione centrale delle questioni, che è quella climatica. L’elenco delle cose da fare in un domani che si voglia rendere “sostenibile” - e scusate quest’uso appropriato di un temine di cui si fa abuso - è immenso e qui si può solo accennare a qualcuna delle grandi tematiche aperte, su cui il Paese intero dovrebbe confrontarsi per un rilancio che torni a renderlo protagonista. O, se non si arriva a questo, almeno ne faccia un soggetto sano che non sia da trattare come un paziente sintomatico, come l’Europa sta (giustamente) facendo con l’Italia.
Una considerazione merita la massima attenzione, a mio avviso: non basta privilegiare la ricerca “eccellente”, come fanno in tutta Europa e come si è voluto fare in questi anni in Italia (al solito modo, s’intende): è la ricerca di base buona e diffusa quella che crea sviluppo e progresso. Oggi occorrono più ricercatori, mentre si è abolita e svuotata la categoria nominale e si è resa la vita più difficile ai giovani. Occorre un finanziamento adeguato della ricerca, attingibile da qualsiasi proposta razionale e innovativa anche se non necessariamente giudicata “eccellente” - che poi è termine largamente autoreferenziale. Una volta si diceva: piove sempre sul bagnato… ma una simile zonizzazione delle piogge è evidente che non aiuta gli assetati. Fuor di metafora, non ha davvero senso concedere fondi a una proposta di ricerca su venti. Occorrono poi valutazioni obiettive non influenzate da appartenenze politiche, logge o altre lobbies, e soprattutto senza confini disciplinari invalicabili. Voglio dire: noi siamo sempre stati quelli delle conventicole che si scambiano favori all’interno di un orticello chiuso. Col risultato di non aprire veramente all’innovazione, al confronto, alla visione di ciò che si fa in campi attigui o all’estero, al pieno riconoscimento dei valori dei vicini di casa. Una chiusa settorialità, come il localismo, come il familismo, non possono portare a reali avanzamenti. Ancora oggi le avare porte della scienza in Italia si aprono prima per gli italiani, con svantaggio per l’Italia.
Ma torniamo al nostro primo scopo come Federazione Pro Natura, che è non solo scopo sociale ma impegno individuale: esso sta principalmente nella Natura e in tutto ciò che la riguarda. E qui un minimo di bilancio va fatto. Dalla grande novità della legge 394 in poi, con la fioritura dei parchi nazionali e la creatività delle Regioni in campo ambientale, ci siamo illusi che vincolare il 10% del territorio nazionale avrebbe finalmente assicurato la tutela complessiva del territorio, di animali, piante, microrganismi, la conservazione del paesaggio che da tutti questi fattori nasce con l’apporto dell’uomo, e quindi la tutela della storia stessa del paesaggio. Abbiamo creduto che i fattori di disturbo e distruzione si sarebbero attenuati da soli col crescere dell’acculturazione e del benessere. Negli ultimi anni ci siamo resi conto che non è così. Regioni ed enti locali sono sempre più orientati alla rincorsa sfrenata alla “crescita” ad ogni costo (il piccolo esempio del Lago Santo di Cembra ne è una ennesima prova), con sguardo miope e scarso successo; le leggi urbanistiche vengono svuotate e irrise, l’agricoltura e l’allevamento industriale dilagano con labili e flebili misure di contenimento dei danni all’ambiente ed alla biodiversità. E le aree protette? Queste servono soprattutto a fare business.
No, qui ci vuole una inversione di tendenza. La ricerca va rilanciata, con priorità sull’ambiente e sulla biodiversità: che oggi col venir meno di ogni supporto pubblico sono diventati dominio di volontari e pensionati che per indagare e tutelare i nostri preziosi beni naturali, gli animali e le piante, le foreste e i prati, ci mettono molto del proprio tempo, lavoro e soldi. Che lo Stato e le Regioni dunque riprendano il loro compito primario di conservare il territorio dando anche ossigeno alla ricerca naturalistica, e a quella ricerca che cerca soluzioni tali da annullare l’uso nefasto della chimica in agricoltura, salvando gli insetti dallo sterminio in atto. Di questo si deve parlare, anche, quando si fanno proposte per lo sviluppo, l’occupazione, la benedetta “crescita”: che il bene pubblico primario, la Vita, riprenda il suo ruolo primario nel dibattito pubblico; con tutto ciò che ne deve conseguire.