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Ci mancava la peste suina...

Roberto Piana e Piero Belletti

Le vicende legate alla presenza del cinghiale sul territorio sembra non possano mai avere pace. A fianco delle ormai croniche problematiche legate ai danni all’agricoltura, si è recentemente aggiunta anche l’epidemia di peste suina africana, di cui alcuni focolai sono stati individuati nei mesi scorsi nelle zone al confine tra le Province di Alessandria, Genova e Savona.
La reazione del mondo politico, ma soprattutto di quello venatorio, è stata improntata più all’isterismo che alla pacata e razionale analisi dei fatti. Da un lato, infatti, si sono adottati provvedimenti di eliminazione generalizzata di cinghiali, ma anche di maiali, nelle aree coinvolte. Non solo, è anche stata confermata la concessione ai cacciatori di effettuare i cosiddetti piani di prelievo (ci rifiutiamo di considerarli “selettivi”…), anche con l’aiuto dei cani. Cosa che è unanimemente riconosciuta come deleteria, sia per la diffusione dei cinghiali che viene provocata, sia per il pesantissimo impatto su molte altre specie animali che condividono l’areale con il cinghiale. Dall’altra parte si sono sentite assurde accuse contro la presenza del lupo, che invece rappresenta forse l’arma più efficace per contrastare la diffusione dell’epidemia.
Va in ogni caso riconosciuto che le difficoltà del mondo agricolo legate alla diffusa presenza della specie sul territorio, reali ed oggettive, non hanno trovato adeguate risposte da parte degli Enti Pubblici, a partire dallo Stato fino a giungere alle varie Amministrazioni Regionali.

Il cinghiale, all’inizio del secolo scorso, era scarsamente presente in Italia e limitato ad alcune aree dell’Italia centro-meridionale e della Sardegna. Di fatto era assente in tutto il nord del Paese. In seguito, una forte espansione dell’areale venne ottenuta da un lato a seguito dell’abbandono di numerose aree fino ad allora coltivate, ma soprattutto a seguito di massicce immissioni di esemplari provenienti da allevamenti oppure dall’estero, unicamente per fini venatori e incoraggiate dagli Enti Pubblici di riferimento: Regione e Province. Tra l’altro, tali interventi hanno riguardato la sottospecie centro-europea (e non quella maremmana autoctona nel nostro Paese), più grande e prolifica, ma anche più esigente dal punto di vista alimentare. Nel giro di pochi anni la presenza di questo suide si è così radicata sul territorio nazionale, interessando sempre di più le aree agricole e causando danni ingentissimi alle coltivazioni. I danni, mai adeguatamente ristorati o mitigati dalle politiche gestionali di settore, hanno messo in difficoltà e spesso in ginocchio le imprese agricole. La compromissione degli ambienti naturali è progredita in parallelo, impoverendo la biodiversità degli ecosistemi. L’abnorme diffusione del cinghiale, voluta dal mondo venatorio, ha causato la sottrazione di ambienti e risorse trofiche alle altre specie selvatiche. Le politiche venatorie, per decenni seguite ed ancora oggi propagandate come metodo di gestione della specie, sono miseramente fallite. Oggi assistiamo in tutta Italia a una situazione di fatto in cui l’allevamento dei cinghiali allo stato brado avviene a spese del mondo agricolo e degli ambienti naturali.
Braccate e girate con l’utilizzo dei cani determinano la disgregazione dei gruppi sociali di questo suino, la dispersione dei capi, la perdita della sincronizzazione dell’estro delle femmine, la costituzione di nuovi branchi a spese dei campi coltivati, l’aumento degli incidenti stradali, il danno alle altre specie selvatiche, la “militarizzazione” del territorio ad opera delle squadre dei cinghialai, l’aumento del pericolo anche per gli esseri umani. Ormai nessuno crede più che i cacciatori, cioè coloro che hanno contribuito a realizzare questa situazione, possano proporsi come gestori e solutori del problema.

Parallelamente alla crescita numerica dei cinghiali si è realizzata una filiera clandestina della carne, con pericoli sanitari ed una economia sommersa che sfugge ai controlli fiscali. Si realizza così l’illecito guadagno di pochi a danno di tutti.
Per cercare di migliorare la situazione è stato avviato in Piemonte un confronto tra ambientalisti ed agricoltori. Confronto che prosegue tuttora e che coinvolge anche altre Organizzazioni professionali.
Un primo importante risultato è stato ottenuto: le Associazioni ambientaliste ed animaliste del "Tavolo Animali & Ambiente" di Torino (tra cui Pro Natura Torino e Pro Animali e Natura, entrambe aderenti alla Federazione Nazionale Pro Natura) hanno convenuto sulla assoluta necessità di riduzione numerica della specie cinghiale a livelli compatibili con il legittimo diritto di chi coltiva di poter raccogliere ciò che semina, a partire dalla corretta applicazione dell’art. 19 della Legge n. 157/1992, che antepone gli interventi ecologici a quelli cruenti, affidandone la gestione agli Enti Pubblici e non ai cacciatori, per i quali è fin troppo evidente il conflitto di interesse.
Alla luce dell’attuale drammatica situazione, il COAARP (Comitato Amici degli Ambienti Rurali del Piemonte) ed il citato Tavolo, pur nella differenza degli interessi rappresentati e delle diverse metodiche di approccio al problema, si sono trovati concordi sull’analisi della situazione in atto e sugli irrinunciabili principi e obiettivi, riassunti in un manifesto articolato in cinque punti.

1. La riduzione numerica della specie cinghiale sul territorio a livelli compatibili è obiettivo irrinunciabile, a partire dalla corretta applicazione dell’art. 19 della Legge n. 157/1992, che antepone gli interventi ecologici a quelli cruenti, affidando la gestione agli enti pubblici e non ai cacciatori. La gestione del cinghiale deve essere sottratta al mondo venatorio, che non ha alcun interesse a vedere ridotta numericamente la specie e per il quale è fin troppo evidente il conflitto d’interesse. Le attività di controllo competono alle Province e alle Città Metropolitane attraverso il proprio personale e non ai cacciatori.

2. L’agricoltore ha diritto di poter raccogliere ciò che semina. I ristori, peraltro doverosi che arrivano dalla politica, interessano poco: alle già tante difficoltà create dagli eventi atmosferici non vi è bisogno si aggiungano le calamità create dal mondo venatorio per soddisfare i propri interessi ludici ed economici.

3. L’attività venatoria non costituisce alcun valore aggiunto per l’agricoltura Il cacciatore usufruisce gratuitamente dei terreni privati, coltivati e non, a spese dei proprietari e spesso è anche di ostacolo ad utilizzi turistici e culturali in grado di sviluppare economie locali ecologicamente compatibili. L’agricoltore ha il diritto di poter escludere dai propri fondi coloro che ritiene possano essergli causa di danni. Il superamento della deroga pro caccia dell’art. 842 del Codice Civile, che consente al cacciatore di poter entrare nei fondi privati contro il volere del proprietario, dovrà trovare accoglimento da parte del legislatore.  

4. No alla realizzazione di una filiera della carne di cinghiale L’ipotesi della realizzazione di una filiera della carne di cinghiale determinerebbe unicamente la permanenza e l’incremento dell’attuale situazione.

5. Il futuro dell’attività agricola sarà nel tempo sempre più improntato a produzioni ecologicamente sostenibili, rispettose degli equilibri ambientali e del benessere degli animali nonché valorizzanti le produzioni e le eccellenze locali con il saggio decremento delle importazioni dai Paesi esteri.
Un primo passo, lungo una strada difficile ma che è necessario intraprendere, nella speranza che anche in altre realtà regionale si organizzi qualcosa di simile.

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