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Transizione energetica: la vogliamo fare per davvero?

Riccardo Graziano

La transizione energetica è una necessità assoluta, sia in termini ambientali, sia in termini economici. L’Italia sembrerebbe esserne pienamente consapevole, tanto da aver istituito un apposito Ministero, che ha preso il posto di quello che era il Ministero dell’Ambiente. Sembrerebbe, appunto. Perché alle volte l’impressione è che il Ministro sia lì per ostacolarla, la transizione, o perlomeno per attuarla avendo come bussola di riferimento gli interessi di alcune compagnie energetiche, piuttosto che l’emergenza climatica. Infatti, suona abbastanza strano che per attuare il necessario e ormai indifferibile abbandono dalle fonti fossili che provocano l’effetto serra, si punti sul metano, gas fossile a elevato effetto serra. O che per diminuire la dipendenza dal gas russo si punti sul gas dell’Azerbaijan, paese contiguo alla Russia stessa. O ancora, che si indichi la soluzione miracolistica del nucleare di “quarta generazione”, che di fatto non esiste e che potrebbe essere operativo, forse, fra trent’anni, senza peraltro risolvere l’annoso problema delle scorie radioattive. Invece, dalle parti del Ministero si parla troppo poco di energie rinnovabili, che sono la vera soluzione ai problemi energetici del nostro Paese e la strada giusta per mitigare il riscaldamento globale, oltre a presentare vantaggi anche dal punto di vista economico e occupazionale.
Le ragioni per spingere in questa direzione sono essenzialmente tre: la necessitò di arginare la crisi climatica, la crescente competitività economica delle rinnovabili e il forte ritardo accumulato dall’Italia nel percorso di decarbonizzazione, che rischia di porci in difetto e farci sanzionare per il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dagli accordi internazionali.

Il fatto che le rinnovabili rappresentino il futuro della produzione energetica è ben chiaro da tempo agli ambientalisti e a una fetta crescente di opinione pubblica, ma soprattutto lo hanno capito anche molti operatori del settore, che hanno fiutato ottime possibilità di business, specialmente in vista della pioggia di soldi in arrivo col PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da attuare con i fondi previsti dalla UE.
Sono proprio questi produttori a premere sull’acceleratore e a mettere in risalto i vantaggi delle rinnovabili, fornendo forse la spinta decisiva verso la necessaria svolta energetica, da tempo auspicata dagli ecologisti. Ma non è tutto “verde” quello che luccica…

Partiamo dalle considerazioni economiche, che sono quelle più care ai produttori. Il prezzo dei contratti di acquisto a lungo termine di energia rinnovabile sono scesi a precipizio nell’arco di pochi mesi, passando da 270 €/MWh a 68 €/MWh, meno di un quarto rispetto all’autunno scorso. Inoltre, sul lungo periodo la IEA (International Energy Agency) prevede che almeno la metà degli asset (i beni di proprietà) delle aziende legate al fossile subiranno sensibili deprezzamenti già entro il 2036, abbassando la capitalizzazione di questi soggetti, motivo per cui anche le nazioni più retrive, Cina e India (che prevedono l’uscita dal fossile rispettivamente al 2060 e 2070) potrebbero decidere di anticipare la transizione, per evitare dissesti finanziari.

Accelerare sulla decarbonizzazione, oltre che una necessità ambientale, è dunque anche una scelta strategica vincente sul lato economico, con importanti ricadute positive tecnologiche e occupazionali. Le stime ci dicono che puntando in maniera decisa verso l’elettrificazione (nel settore della mobilità, nell’ambito domestico eccetera) nel 2030 il fabbisogno energetico italiano dovrebbe aggirarsi sui 340-350 TWh, anche se non è semplice calcolare i risparmi derivanti dall’aumento dell’efficienza e dalla progressiva dismissione delle raffinerie di combustibili fossili, impianti altamente energivori, oltre che fonte di inquinamento. Questo fabbisogno andrà soddisfatto aumentando la quota di rinnovabili nel mix energetico italiano, passando dall’attuale 40% al 72%. In termini assoluti, si tratta di passare dai circa 180 TWh prodotti col gas nel 2019 a 80 TWh nel 2030, mettendoci anche parzialmente al riparo dal’impennata dei prezzi di questo combustibile, che oggi pesa tantissimo sui rincari delle nostre bollette. Questi 100 TWh di differenza dovranno essere garantiti dall’installazione di nuovi impianti rinnovabili per 70 GW di potenza, essenzialmente fotovoltaico ed eolico, il cui prezzo è decisamente meno soggetto ai capricci del mercato, al limite un po’ a quelli del meteo. Per capirci, i rincari dei prezzi del gas hanno provocato un incremento della bolletta nazionale dai 44 miliardi del 2019 ai 75 del 2021, un aumento di 31 miliardi che ci saremmo risparmiato se avessimo già avuto un maggior apporto dalle fonti rinnovabili pari a quello previsto per il 2030, appunto 70 GW di potenza in più. Un obiettivo teoricamente a portata di mano, se si considera che Terna, il gestore della rete di distribuzione nazionale, ha già ricevuto richieste di allacciamento per 155 GW di nuovi impianti, più del doppio della cifra ipotizzata. La stessa Enel, maggior produttore nazionale, prevede 210 miliardi di investimenti “verdi” da qui al 2030 e l’uscita completa dal fossile nel 2040.

A fronte di ciò, i produttori lamentano la lunghezza degli iter autorizzativi (cinque anni il tempo medio per il via libera) e l’elevata percentuale di mancate autorizzazioni: su 42 pareri espressi dalle Regioni, 41 sono negativi, su 45 pareri espressi dal Ministero della Cultura, 35 sono negativi. Sempre i produttori pongono l’accento sulle calamità provocate dall’emergenza climatica, che ogni anno costano all’Italia miliardi di danni per compensare le devastazioni del territorio, sostenendo che la difesa del territorio medesimo passa proprio attraverso quegli impianti che spesso non vengono autorizzati per ragioni paesistiche e ambientali.

Ed è proprio qui che si annida il rischio che qualcuno ha giustamente intravisto nella modifica dell’articolo 9 della Costituzione, dove alla tutela del paesaggio si affianca quella dell’ambiente, anche a vantaggio delle “future generazioni”. Lo stesso rischio ancora più evidente nel “Decreto semplificazioni” studiato per eliminare i “lacci burocratici”, o nel continuo depotenziamento delle Soprintendenze. Il rischio, per dirla chiaramente, che il territorio e il paesaggio, elementi caratteristici e vincenti del Belpaese, vengano sacrificati per piazzare un po’ ovunque pale eoliche gigantesche o impianti fotovoltaici a terra, con la scusa di “tutelare l’ambiente a vantaggio delle future generazioni”. Secondo le previsioni dell’ISPRA – l’Istituto nazionale che si occupa di ricerca e protezione ambientale – e del GSE (Gestore Servizi Energetici) potremmo subire una perdita compresa tra i 200 e i 400 chilometri quadrati di aree agricole entro il 2030 per il fotovoltaico a terra, a cui secondo Enel se ne aggiungerebbero altri 365 per nuovi impianti eolici.

E pensare che abbiamo una porzione enorme di territorio già ampiamente cementificato, asfaltato, impermeabilizzato, spesso già in stato di abbandono e degrado, senza necessità di devastare altro suolo. Sempre secondo l’ISPRA, la superficie di tetti dove sarebbe possibile installare pannelli fotovoltaici è sui 700/900 chilometri quadrati, quanto basterebbe per produrre i 70 GW in più che ci servono. Se poi aggiungiamo parcheggi e aree dismesse, possiamo valutare un’ulteriore superficie in grado di fornire altri 60 GW di potenza installata, senza consumare un metro di suolo. Eppure queste ipotesi non vengono minimamente prese in considerazione, mentre ci si ostina a voler occupare terreno vergine, che invece andrebbe riservato alla produzione agricola o alla tutela della biodiversità e dei servizi ecosistemici.

La sfida per le Associazioni ambientaliste è dunque quella di far capire all’opinione pubblica e ai produttori di energia che questa è la strada da percorrere, evitando il consumo di suolo e generando l’energia direttamente dove serve, sui tetti delle case e dei capannoni industriali o nei parcheggi dei centri commerciali, anziché in mezzo alle campagne. Facendo capire che non siamo quelli del “NO” allo sviluppo, bensì che vogliamo indirizzare il progresso in modo tale da ottenere la riconversione energetica senza danneggiare l’ambiente, puntando sull’innovazione tecnologica sia degli impianti di produzione e accumulo, sia della rete di distribuzione.

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