Membro di
Socia della

Un manifesto per la salvaguardia del Po

Franco Rainini

Il 29 maggio del 2017 un gruppo folto e articolato di enti istituzionali, associazioni, rappresentanze professionali e altre istanze territoriali ha pubblicato il Manifesto per il Po, un documento che ha raccolto numerose adesioni, giungendo ad essere espressione di centinaia di soggetti che rappresentano 800.000 persone.
Il Manifesto per il Po si propone la definizione di un soggetto collettivo flessibile che si ponga come “sindacato territoriale”, con capacità di coordinamento interregionale, di riordino delle normative e sostegno delle iniziative locali.  Una sorta di Parco del Po, che possa contrastare le tendenze al degrado ambientale e territoriale, un soggetto che dia forza ai bisogni e alle istanze che forza non hanno. La Federazione Nazionale Pro Natura, giudicando l’iniziativa opportuna e necessaria, ha aderito.
Nel corso dei mesi, attraverso i contatti con l’Autorità di Bacino, si è delineata la necessità di contribuire al lavoro di questo ente, proponendo un “Piano Strategico per il Po”. Il lavoro è in corso di definizione e vede, o dovrebbe vedere, impegnati i soggetti firmatari del Manifesto, con proposte e osservazioni.
La Federazione ha prodotto negli anni  una grande mole di azioni, dibattiti, iniziative e sollevato istanze riguardo al territorio del fiume, crediamo pertanto che il nostro contributo al Manifesto e all’ipotesi di redazione del Piano strategico sia essenziale.
Scopo del presente scritto non è quello di definire le linee del nostro contributo al dibattito sul Po, piuttosto tentare una ricognizione parziale delle ferite aperte sul territorio del Grande fiume, che non è limitato al corso d’acqua, ma a tutto il bacino imbrifero che occupa quasi un quarto del territorio nazionale e dove vivono 16 milioni di italiani.
Il Manifesto per il Po non entra nel merito dei problemi del fiume, in qualche modo li lascia sullo sfondo, dando quasi per scontato la gravità di una situazione per certi versi prossima al collasso.
Un modo per valutare le criticità presenti potrebbe partire da una scorsa ai “planetary boundaries” ovvero ai limiti planetari che l’attività umana sta approcciando, mettendo a rischio la sopravvivenza della vita su questo pianeta.

Utilizzando l’elenco dei limiti planetari possiamo cercare per quanto utile e sensato di valutare a che punto siamo nella pianura del Po con il degrado ambientale provocato dall’uomo e come chiunque, padano o no, può immaginare, il risultato non è per nulla rassicurante.
Tra i parametri rappresentati nel grafico circolare sopra rappresentato si possono reperire facilmente informazioni qualitative relative al bacino del Po riguardo a uso delle acque, disfunzionalità dei cicli biogeochimici di azoto e fosforo, situazione della biodiversità, cambio d’uso (consumo) del suolo.
È evidente che l’attività umana condotta nel bacino del Po Può avere effetti negativi anche su altri parametri, ad esempio l’inquinamento atmosferico e la creazione di disfunzionalità in ambiente marino, oppure, grazie all’intensa attività zootecnica intensiva e al forte carico demografico, sono possibili criticità dovute allo sviluppo di antibiotico resistenza nei batteri, che qualcuno ha recentemente proposto come ulteriore limite planetario, riguardo a questa faccenda vale ricordare che proprio grazie alle forme particolarmente intense di allevamento che si registrano nella pianura lombardo veneta il quantitativo di farmaco somministrato mediamente ad ogni animale (valore normalizzato attraverso l’unità standard – PCU) di popolazione è pari a 294,8 mg/PCU contro la media europea di 129 mg/PCU.

Uso delle acque
La portata del Po è imponente: in media (idrometro di Pontelagoscuro – FE presso la foce) il fiume versa in mare 1536 m3/s (valore medio calcolato sugli ultimi decenni, ma in diminuzione a causa del cambiamento climatico), si tratta circa di 48 miliardi e mezzo di metri cubi d’acqua, derivate dalle abbondanti precipitazioni, al netto della evaporazione e della traspirazione delle piante, della creazione di nuovi ghiacciai, che, come sappiamo, è un dato negativo e frutto anche del lento flusso delle falde acquifere sotterranee, dove l’acqua, in parte si infiltra.
L’Autorità di Bacino stima che di questa quantità circa venti miliardi e mezzo di metri cubi sono utilizzati, in parte preponderante per scopi agricoli (17,5 miliardi di m3), 2 miliardi e mezzo per usi civili “potabili” ed un miliardo e mezzo per usi industriali. Si tratta teoricamente di acqua temporaneamente distratta dal flusso del fiume, che rientra rapidamente in ciclo e ritorna nel reticolo idrografico principale. Il problema è quanto dura questa distrazione e quali altri funzioni l’intercettazione delle acqua preclude.
Un caso interessante è quello del medio corso dell’Adda, interessato da alcune centrali idroelettriche risalenti all’inizio del secolo scorso. Queste centrali, che hanno contribuito alla prima elettrificazione di Milano, hanno un grande valore storico e architettonico, ma a causa dei canali di derivazione delle acque avviate alla turbinazione hanno un impatto pesante sul regime idrologico del fiume. In alcuni periodi dell’anno (un tempo solo in inverno, ora purtroppo anche durante la stagione calda) il fiume è quasi completamente in secco. Come noto, per ogni fiume dovrebbe essere calcolato e assicurato un “deflusso minimo vitale” (DMV): la portata minima per mantenere le condizioni ecologiche essenziali dell’ecosistema acquatico ed evitare anche modifiche dell’assetto del letto del fiume, contenere le erosioni nel corso delle successive piene e simili conseguenze.
La Regione Lombardia adotta, nel decretare il DMV, un criterio interessante e senz’altro discutibile: ad esempio i DMV della zona citata sono stati adottati con il DGR 7392 del 20/11/17, nel quale è indicato un DMV per l’Adda (che in quel tratto ha una portata media di oltre 160 m3) che in alcuni mesi è di 9,1 m3, nel tratto, lungo alcuni chilometri interessato dal canale di alimentazione della centrale Esterle. Altre criticità sono presenti su altri tratti del grande fiume e, aldilà del documento allegato alla delibera, che risulta essere assai poco illuminante riguardo ai parametri ecologici valutati nel corso della sperimentazione, la decisione  ha semplicemente preso atto della situazione esistente. Quale destino avrà la coesistenza delle Centrali e del fiume a fronte dei cambiamenti climatici che hanno, per effetto della riduzione dei ghiacciai e della instabilità delle precipitazioni) un sempre maggiore impatto sulle portate del bacino per effetto delle precipitazioni?
L’impatto dei prelievi, a volte abusivi, sul reticolo idrografico minore ha effetti devastanti che spesso colpiscono aree protette; ad esempio ne sono testimonianza le ripetute segnalazioni fatte da Giovanni Barcheri dell’Associazione per i Vivai ProNatura che segue l’Oasi del Ticinello (PV), dove a causa dei prelievi effettuati ad uso irriguo non viene assicurato il DMV a quel corso d’acqua, che posto al confine tra Area Metropolitana di Milano e pavese ha grande importanza ecologica (anche per le reintroduzione di specie vegetali autoctone e le ripetute interessanti segnalazioni di entomofauna e avifauna colà effettuate) e storica. Il caso del Ticinello, un’area seguita con attenzione e competenza, è utile soprattutto per immaginare cosa succede in tutte le altre aree che lungo il bacino del fiume non sono oggetto di presidio: la riduzione della disponibilità di acqua ad uso irriguo è un fenomeno più volte segnalato, che ha provocato riflessioni su possibili modifiche dei sistemi agricoli utilizzati, ne sono esempio le sperimentazioni svolte dall’Università di Milano per la coltura del riso in asciutta, soprattutto aumenta la pressione sul sistema idrografico dei canali irrigui, anche con interventi di pulizia dei canali in periodi dove massimo è l’impatto sulle comunità biotiche presenti.
Quelli che abitano la valle del Po non ci pensano, ma se ci si ferma a riflettere è bizzarro che questa valle relativamente piccola, circondata da montagne altissime, ancora relativamente ricche di nevi perenni con un flusso costante e particolarmente abbondante d’estate di acqua dolce sia costretta a cavare l’acqua potabile dalle profondità del suolo. È una situazione non generale in Italia e in Europa, la cui causa è da ricercarsi nell’inquinamento delle acque superficiali.
Nei maggiori fiumi è esplicitamente vietato bagnarsi per il rischio biologico e l’acqua non si può bere per uguale ragione, con l’aggiunta del cocktail chimico fornito dai possenti apparati industriale ed agricolo che, insieme alla popolazione civile, forniscono al Po un carico inquinante pari a 114 milioni di abitanti equivalenti (un numero di abitanti due volte l’Italia intera). Una settantina di anni fa la situazione era diversa: i braccianti impegnati nelle bonifiche dei terreni a ridosso della linea delle risorgive sceglievano con cura le sorgenti a cui indirizzare i ragazzi che li rifornivano di acqua, l’acqua era buona e abbondante, l’unico problema era andare a prendere quella più fresca.
La questione del prelievo di acqua dalle falde dell’alta pianura milanese è stato recentemente affrontato in un articolo di Umberto Guzzi – geologo e aderente alla Federata Gruppo Naturalistico della Brianza – su Natura e Società (n.4 dicembre 2018 “Finirà il tempo delle cicale?”), a cui si rimanda per un approfondimento del tema. Le cicale del titolo, dopo aver avvelenato le acque superficiali, hanno fatto lo stesso con l’acquifero superficiale, ed ora devono estrarre l’acqua dall’acquifero profondo, che non è una risorsa rinnovabile, ma acqua imprigionata in epoca passata, la cui estrazione mette in pericolo la sua qualità, perché inevitabilmente la collega con gli acquiferi sovrastanti. L’acqua scorre ancora abbondante e “i mille ruscelli…” dell’Adda di Manzoni arricchiscono ancora il Po, ma dal punto di vista dell’acqua potabile stiamo già raschiando il fondo del barile di “una riserva che a ragione si può definire strategica”. In realtà questa risorsa è fornita in abbondanza per tutti gli usi, compresi quelli non strettamente potabili.

Consumo di suolo
Il sito dell'Autorità Distrettuale del Bacino del Po contiene una pagina di presentazione che, nonostante un quadro complessivo molto ricco e interessante della situazione del Po, purtroppo, come succede generalmente sui siti e dalle pubblicazioni istituzionali non consente di cogliere le differenze di dettaglio che danno il senso della realtà. Ad esempio, se si valuta il dato della densità di popolazione umana che risiede nel bacino (degli abitanti equivalenti abbiamo già riferito il dato spaventoso), risulta un valore poco superiore ai 200 abitanti per km2, non di molto superiore alla media nazionale. Deve essere rilevato però che quasi due terzi della popolazione risiedono in Lombardia (ab. 10.060574 su 23863 km2: questi e i dati successivi sono i valori ISTAT al 1 gennaio 2019), insieme a gran parte del patrimonio zootecnico (mezzo milione di vacche da latte, quasi quattro milioni di suini, il 15% del patrimonio avicolo nazionale più il resto della zootecnia) e a una parte cospicua dell’apparato industriale.
All’interno di questa Regione, che è evidente rappresenti gran parte dei problemi del grande fiume, la parte compresa tra il Ticino e l’Adda costituisce il “cuore nero” della questione che stiamo affrontando (chi scrive ci è nato, ci vive, lavora, opera come volontario, ed è emotivamente legato a questi territori, l’espressione non ha una connotazione dispregiativa, ma solo l’amara constatazione del loro profondo degrado). La questione è particolarmente grave dal punto di vista delle costruzioni, infrastrutture industriali e commerciali, abitazioni civili presenti. La popolazione residente supera i sei milioni di abitanti (province di Varese, Como, Lecco, Monza e Brianza, l’Area Metropolitana di Milano, su circa 6000 km2. Le province a Nord costituiscono una conurbazione unica e in effetti un’unica metropoli, che tende a collegarsi ad est con le zone di pianalto di Bergamo e Brescia, uno schema simile a quello che si registra nella zona pedemontana veneta, con sistemi produttivi simili.

L’immagine di ISPRA sul consumo di suolo, unita ai dati demografici e alla osservazione che tra Lambro e Ticino si trovino tre tra le più potenti Associazioni Provinciali industriali d’Italia (Milano, Monza e Varese) dà abbastanza conto della gravità della situazione del suolo perduto in quest’area.
In prospettiva le cose non andranno meglio e la tendenza ad investire in nuove costruzioni su questo territorio non pare destinata a fermarsi. Il brutto termine usato è Gentrificazione e riguarda in prima battuta la valorizzazione degli immobili all’interno del territorio di Milano. In un articolo apparso il 16 giugno di quest’anno su l’Espresso viene illustrata abbastanza bene la situazione che si sta creando a Milano. L’articolo può essere sintetizzato in un solo dato: Milano raccoglie il 60% degli investimenti immobiliari stranieri in Italia. Ma Milano è nella valle del Po che paga già un prezzo pesante allo crescita di quella metropoli.
La marea di denaro che viene investito su Milano ha anche conseguenze negative sulla crescita della comunità civile che la abita e attualmente la città è interessata da numerosi scontri tra il potere amministrativo e gruppi di cittadini, che riguardano il destino delle grandi aree derivate dalla modificazione della struttura della città, da polo industriale a città fortemente dipendente dal terziario. Si tratta di fenomeni noti, che hanno prodotto lacerazioni in altri luoghi (Londra, Parigi, Amsterdam, Detroit) dove si è assistito al progressivo spopolamento del centro in cui si sono insediati gli uffici di banche, assicurazioni, direzioni amministrative varie, l’esclusione dei meno abbienti da fasce sempre più ampie della città , trasformate in residenze per ricchi.
A Milano ciò deve fare i conti con uno spazio molto ridotto e con un ancora più ridotta quantità di spazi verdi, e anche (questo è bene) con una scarsa propensione dei cittadini a sopportare la trasformazione della loro città. E le occasioni di scontro non mancano: oltre cento ettari sono oggetto di un tentativo speculativo perseguito da Sistemi Urbani Spa (gruppo Ferrovie Italia) per “ valorizzare” gli scali ferroviari in via di dismissione, attraverso un accordo di programma stabilito dall’Amministrazione comunale con la stessa società (considerata pubblica o privata secondo necessità). Contro questo tentativo è stato redatto un documento che ha portato a una forte opposizione, concretizzatasi in tre ricorsi al TAR e a un esposto alla Magistratura, oltre che a un dibattito tuttora aperto. Aperte sono anche le questioni relative ai trenta ettari della ex Piazza d’Armi, che ha portato a un confronto tra l’Amministrazione e il gruppo delle Giardiniere tuttora aperto. Altri gruppi si sono attivati per la difesa dell’area della Goccia, dove una volta erano localizzate le stazioni di distribuzione del metano (i gasometri). Si tratta di operazioni urbanistiche che valgono (potenzialmente e comunque in sede di redazione dei bilanci delle società proprietarie, pubbliche o private che siano) enormi quantità di denaro, solo per l’operazione degli scali si parla di uno stretto rapporto esistente tra finanziarizzazione dell’edilizia e degrado dell’ambiente.
Queste istanze sono fortemente legate alla coesistenza sostenibile dell’area urbana collegata a Milano con la salute del Po. La situazione attuale della città è evidentemente insostenibile. Si possono fare numerosi esempi, dalla qualità dell’aria a cui si tenta di porre una pezza (limitata al centro della città) con l’istituzione di aree escluse dal traffico. Un esempio che permette di comprendere il collegamento tra questi fenomeni urbani e la situazione del bacino del Po può essere compresa alla luce dell’impegno di Umberto Guzzi per la tariffazione delle acque meteoriche. In premessa dobbiamo dire che, ad onta della fama di città ordinata e ben amministrata, Milano vede periodicamente la propria periferia Nord sommersa dall’esondazione dei fiumi Lambro e Seveso. È un fenomeno talmente comune che è diventato consuetudine, nessuno si stupisce di sentire la notizia alla radio e neppure si arrabbia troppo quando si trova bloccato sulle bretelle di accesso alla Tangenziale Nord, il cui tracciato scavato per ampi tratti in galleria finisce periodicamente e inevitabilmente sommerso.
Non si tratta di un fenomeno naturale, ma del più clamoroso esempio di cattiva gestione del regime idrologico del bacino Po.
Della questione se ne è occupato ancora Umberto Guzzi che così scrive:
"C’è un territorio privilegiato dalla natura rispetto al pericolo di inondazioni, questo è il Nord Milano. Ticino, Adda, Lambro e Seveso corrono in alvei ben definiti; l’acqua di pioggia, anche nel caso di piogge persistenti e intense, potrebbe agevolmente infiltrarsi nel sottosuolo, raggiungere le falde idriche sotterranee". (“Bacini di laminazione? No grazie”. Natura e Società n. 2 dicembre 2015), Il marasma idrologico è dovuto quindi alla sigillazione dei suoli causata da una urbanizzazione tanto intensa quanto mal condotta. Per questo la Federazione si è fatta portavoce all’interno de Contratto di Fiume Lambro Settentrionale (contratto di sottobacino del Po) della proposta di Guzzi di far pagare a chi è responsabile delle aree di suolo sigillate il costo derivante dalle opere necessarie per permettere l’infiltrazione dell’acqua nel sottosuolo. Una proposta di questa natura ha già ottenuto il diniego della Regione, la quale ammette tuttavia che le norme attuali promosse per imporre l’invarianza della situazione idraulica a seguito di nuovo consumo di suolo possono al più evitare un peggioramento della situazione e non risolverlo. È quindi necessario che l’iniziativa di internalizzare i costi sociali all’interno dei bilanci di chi ha provocato un danno che si rinnova ad ogni pioggia meno che intensa, sia assunta.
Purtroppo il degrado idraulico e idrologico di questa zona del bacino è tale che questa che sarebbe una necessaria misura di semplice buon senso e civiltà; in una situazione minimamente sotto controllo avrebbe comunque l’effetto di accrescere il livello delle falde sotterranee sotto Milano, mettendo a rischio le numerose infrastrutture sotterranee (Metropolitana!), lì poste per guadagnar spazio agli edifici sopra terra. Tuttavia prioritario in questo parte, come nell’intero bacino del Po, è restituire in parte la dinamica naturale dei flussi d’acqua, in modo che il Po possa tornare ad essere un fiume vivo e in una certa misura libero di creare e fare evolvere il territorio della Pianura.
La lunga digressione relativa a Milano e alla sua area è utile per comprendere la realtà del Po, sia per il grande ruolo sulle criticità presenti anche per un’altra ragione, vividamente illustrata su Natura e Società da Valter Giuliano: “Le madami-ne irridono la decrescita felice e sognano treni passeggeri che inseguono quelli merci, e viceversa, in un continuo transito da Lisbona a Kiev, con l’unica pianura fertile d’Italia, quella padana, trasformata in uno sfavillante susseguirsi di poli per la logistica. Invece di campi di mais e grano, pile di container da movimentare non si sa bene come, visto che i famigerati TIR sono da mettere al bando...” . L’urbanizzazione ai livelli immaginati da Giuliano è già presente in larghi tratti della Pianura padano-veneta, Se il Piemonte è stato, per ora,  n parte risparmiato, lo stesso non si può dire dell’immensa fascia che va dal Ticino al Friuli. In questo senso è opportuno ricordare il rilievo assolutamente cruciale e nazionale della battaglia che è condotta contro il rinnovo della linea Torino Lione, l’opposizione alla quale sembra a volte espressa fuori dal Piemonte solo da considerazioni economiche (soldi buttati!). È invece fondamentale, almeno così ritiene chi scrive, che questa lotta diventi anche occasione di riflessione sul destino che la realizzazione (per quanto al momento difficile da immaginare in tempi e modi), recherebbe con se per il bacino padano e per l’Italia.
La trasformazione d’uso del suolo non riguarda solo la cementificazione: la pianura Padana è creatura del fiume che l’ha modellata in tempi relativamente brevi e, dal punto di vista dei tempi geologici, è ancora in costruzione.
L’attività dell’uomo in epoca storica ha bloccato questa evoluzione: sul sito dell'Autorità di Bacino è presente una ampia cartografia tematica del corso principale del fiume, dalla quale è evidente quanto sia ridotta la sua possibilità di divagazione: il fiume non può che depositare i suoi sedimenti sul fondo del proprio letto, se gli è impedita la possibilità di mutarlo il destino non può che essere quello di innalzare continuamente gli argini per impedire che le rotture portino a distruggere le opere dell’uomo. Un destino in parte inevitabile, ma che potrebbe essere temperato e dilatato nel tempo lasciando ampie aree di golena e non impedendo alcuni inevitabili cambiamenti di corso. Così si esprime Guido Nigrelli, geologo del CNR (Guido Nigrelli, www.naturaweb.net, Il Fiume Po ed il suo Bacino. Torino 2013): “Attualmente, per i tre tratti sopra individuati, la fascia fluviale delimitata dagli argini maestri presenta una superficie media nell’ordine di: 2,4 km2/km da Becca a Cremona; 3,2 km2/km da Cremona a Borgoforte; 1 km2/km da Borgoforte a Pontelagoscuro. Da segnalare che col tempo la realizzazione del sistema difensivo continuo, unitamente alla realizzazione di altre opere idrauliche (per stabilizzazione e protezione delle sponde, attraversamenti e derivazioni), hanno alterato la naturale evoluzione morfologica del corso d’acqua nei primi due tratti. In particolare, nel primo tratto sono stati impediti i naturali tagli di meandro nonché la loro graduale migrazione/evoluzione (processi frequenti nel diciannovesimo secolo). Nel secondo tratto, è stata pesantemente inibita la libera mobilità planimetrica del corso d’acqua”. Queste considerazioni non possono essere eluse e qualsiasi piano strategico non può non tenerne conto, pagando ora il debito che abbiamo contratto in termini di superfici sottratte al fiume.
Cambiare la destinazione dei suoli significa cambiar le abitudini di vita; il fenomeno è particolarmente intenso nel bacino del Po. Questo porta tra l’altro al fenomeno che è percepito come visivamente il più grave da chi opera lungo l’asta principale del Fiume. È la fondata impressione dei Volontari de Il Nibbio Pro Natura di Spinadesco, che per conto dell’Autorità di Bacino cura, protegge e ripulisce centinaia di ettari lungo il fiume, in territorio cremonese e piacentino. Questo lavoro comporta, oltre ai controlli antibracconaggio, anche la riqualificazione vegetazionale e la raccolta di rifiuti, alla quale sono opportunamente indirizzate anche le persone sottoposte a misure penali alternative assunte in carico dall’Associazione.
Ma il lavoro de Il Nibbio, come quello delle altre Associazioni ambientaliste che più o meno spesso si impegnano in questa attività è la proverbiale goccia nel mare. La Stampa annuncia che sono mille le tonnellate di plastica che transitano ogni anno nel Po a Torino. La quantità quadruplica alla foce. Anche qui non possiamo che rilevare l’enormità del problema e la necessità di porre mano a misure più efficaci per ridurre il disastro. Sarebbe tra l’altro opportuno per altre ragioni: come reso lampante dai roghi dolosi che si verificano in sequenza a carico dei centri si stoccaggio dei rifiuti (ancora Lombardia…). il problema dei rifiuti è una vera emergenza, ecologica, sociale e giudiziaria e deve essere affrontata attraverso divieti di produzione che anticipino i tempi della sonnacchiosa normativa Europea.

Disfunzionamento dei cicli biogeochimici
Dei cicli di azoto e fosforo si parla poco, articoli sulla fioritura algale in Adriatico sono diventati rari, anche se il problema persiste, mentre della perdita di interi ecosistemi oligotrofi nelle aree umide della pianura se ne parla ancora meno. Del resto, quindici milioni di abitanti e altri quaranta milioni di animali d’allevamento espressi come abitanti equivalenti (oltre ai carichi industriali) sono un carico tanto alto da non avere termini di paragone in Europa. Naturalmente ci sono i depuratori, che in occasione di forti piogge non funzionano e le acque vengono scolmate direttamente nei corsi d’acqua (diluition is solution for pollution …). Per il carico zootecnico va anche peggio. Una norma Europea pone limiti, non strettissimi ma significativi, alla quantità di deiezioni che possono essere sparse per unità di superficie (Direttiva Nitrati 91/676/CEE). Data la situazione dei carichi zootecnici presenti e il disaccoppiamento tra attività zootecnica e coltivazione (“le coltivazioni per la produzione di energia hanno distrutto l’agricoltura”, dichiarazione di un tecnico dell’industria sementiera allo scrivente due giorni fa) non è infrequente che le pubbliche amministrazioni siano forzate a chiedere proroghe ai limiti di legge. Queste richieste si basano su sottostime dell’apporto di azoto da altre fonti, come è stato dimostrato almeno in un caso da Giovanni Guzzi, che ha puntualmente contestato il mancato computo delle deposizioni atmosferiche di azoto.
L’apporto di fosforo ai terreni della bassa pianura lombarda è spesso inutile, lo dicono il professor Tommaso Maggiore, ordinario di Agronomia all’Università di Milano (che ad ogni convegno ha ripetuto per decenni che alcuni terreni sono miniere di fosforo) e il dr Gianni Tartari dell’ISPRA, riportando in sede di Assemblea del Contratto di fiume Lambro Settentrionale i recentissimi dati raccolti a Sud di Milano. Ma le concimazioni fosfatiche continuano ad essere effettuate e attraverso l’erosione dei limi e delle argille il fosforo arriva nelle aree umide e nel mare provocando i danni noti spesso con maggior effetto rispetto all’azoto.

Perdita di biodiversità
Al momento manca una relazione circostanziata completa e organica dello stato della biodiversità in Pianura Padana.  Questo elemento di conoscenza dovrebbe essere prioritario e propedeutico a qualsiasi piano strategico per il fiume.   Naturalmente ci sono moltissime informazioni sparse ma, a volte, gli studi sembrano avere un carattere agiografico, un'imbellettatura con interventi parziali e limitati su una realtà spesso naturalisticamente squallida. Non sembra essere solo un vizio nazionale, ma piuttosto il risultato della politica europea, fondata sulla Direttiva Habitat, la quale pone come prioritaria la difesa di specie cruciali per la definizione, conservazione e ripristino di un dato habitat. Forse però il problema è un altro e non riguarda solo SIC e ZTL ma tutto il territorio, comprese le aree urbane.
Dal punto di vista delle conoscenze da raccogliere un termine di paragone di quanto sarebbe necessario fare (e magari, ci auguriamo, da qualche parte è in corso di effettuazione) è lo studio svolto in Germania sulla perdita di entomofauna alata nel corso degli ultimi tre decenni in Germania. Il titolo contiene i risultati della ricerca (vale la pena fare attenzione sul termine biomassa, ricordando che la biodiversità non è costituita solo da variabilità di specie ma anche funzione del numero di individui, geneticamente diversi, all’interno di ogni specie) che sono una critica al sistema di gestione della biodiversità in Germania, e per estensione in Europa, dove le stesse cose succedono ma si evita di studiarle.
In assenza di un resoconto scientifico da richiamare riferiamo l’impressione raccolta in trent’anni di attività dell’Associazione per i Vivai ProNatura rispetto alla biodiversità nelle zone dove operiamo: produciamo piante autoctone di origine locale e mai come oggi siamo convinti della utilità del nostro contributo. Il resoconto non può che essere aneddotico e frammentario, ma non smettiamo di stupirci quando troviamo all’interno del vivaio presenze ornitiche ed entomologiche, ma anche botaniche “non programmate” diventate rare. Un caso: Lycaena dispar che è abbastanza comune in vivaio, benché occupi un posto come specie minacciata, ma anche Utricolaria australis, il rigogolo e una messe di impollinatori (non solo imenotteri), che è difficile trovare altrove e che sono presenti da noi per l’oggettiva abbondanza di piante presenti. Il piccolo segnale che rappresentiamo, insieme a quanti nella Federazione e fuori gestiscono oasi o simili aree protette, cozza brutalmente contro l’andazzo generale, che vede l’intervento distruttore compiersi anche in aree all’interno della fascia di protezione assoluta a ridosso dell’alveo del Po (comunicazione di Giovanni Barcheri).  Il semplice rispetto delle norme e la relativa vigilanza potrebbero essere d’aiuto.
Infine il cambiamento climatico, che il fenomeno sia in atto e stia portando ad un inasprimento delle criticità che abbiamo cercato di descrivere e rappresentato bene da Silvano Pecora dell’Arpa Emilia Romagna in una presentazione per la Fondazione ENI “Enrico Mattei”.
Il 2012 è passato e anni peggiori si sono presentati o si profilano, per certo qualsiasi piano strategico per il Po non può prescindere dalle trasformazioni climatiche in atto e chiedersi quali effetti potranno avere le tendenze urbanistiche, agricole, della mobilità, e del sistema dei consumi, sul Po e sulla vita di chi ci abita, umano o non umano.
Nel decennio a cavallo del 1930 una terribile serie di tempeste di sabbia pose fine alla coltivazione di seminativi nelle pianure meridionali degli USA. Il fenomeno ebbe parte tra le cause della crisi finanziaria di quegli anni e nel carico di sofferenze sociali ed ambientali conseguenti. In un recente libro “Dust Bowls of Empire” di Hannah Holleman, Yale U.P. 2018, viene tracciato un parallelo tra quella situazione e la crisi ecologica attuale e viene posta enfasi sull’abbondanza di segnali relativi alla crisi in arrivo, e alla consapevolezza dell’establishment: “C’erano sufficiente messe di dati scientifici e conoscenze tecniche per affrontare la crisi nascente, ed erano noti esempi storici di sforzi per prevenire le erosioni. Inoltre soggetti appartenenti alle elite di potere, da presidenti degli Stati Uniti a capitani di industria, erano parte della coorte internazionale di agenti coloniali, scienziati, uomini d’affari e alti funzionari impegnati nella conservazione [della natura ndt] erano avvertiti della necessità di conservare il suolo sulla più ampia scala”.
Se cerchiamo per un attimo di astrarci dalla dimensione globale e ci concentriamo per un attimo sulla realtà del bacino del Po (o forse meglio sulla pianura padano-veneta) possiamo forse riconoscere che noi italiani dell’inizio del 21 secolo siamo sulla soglia della nostra catastrofe ambientale, che ci travolgerà tutti insieme come nazione, anche se non abitiamo tra Cuneo e Ferrara. Come gli americani degli anni ’30 del secolo scorso siamo pienamente avvertiti che la parte più produttiva del nostro paese corre il rischio di essere vittima delle contraddizione che lo stesso sviluppo ha creato, come loro dopo essercelo detto ci occupiamo di altro, generalmente opposto a quanto sarebbe necessario.

Torna indietro