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Venezia e la crescita

Riccardo Graziano

In questi giorni abbiamo assistito e assistiamo con sgomento all’inabissamento di Venezia. Una città unica al mondo, che per giorni e giorni è rimasta ostaggio di quella “acqua alta” che periodicamente la invade, portando devastazione nella quotidianità delle persone e danni irreparabili a un patrimonio artistico senza eguali. Naturalmente, tutti hanno manifestato preoccupazione, solidarietà e la fattiva volontà di porre rimedio a questa situazione. Solo che…
Solo che coloro che propongono le soluzioni sono troppo spesso gli stessi che creano i problemi, peraltro con la “collaborazione” della grande massa che si commuove, si dispera, si indigna, ma non cambia di una virgola le proprie convinzioni e i propri comportamenti. Senza rendersi conto (o senza volersi rendere conto, perché è più comodo) che è il nostro modello di sviluppo, il nostro agire quotidiano, a provocare i disastri climatici che colpiscono un po’ ovunque e che sono perfettamente esemplificati dalla situazione di Venezia.
Sia chiaro: qui non si vogliono creare complessi di colpa, ma semplicemente fare chiarezza.
Le inondazioni periodiche note come “acqua alta” hanno sempre interessato Venezia. Quello che ora sta cambiando è la frequenza e l’intensità degli eventi. Come del resto accade per tutto quello che riguarda i fenomeni atmosferici: siccità prolungate che sfociano in piogge torrenziali, con relativi allagamenti, smottamenti, frane. Venti impetuosi, ondate di calore, grandinate devastanti.
È il cambiamento climatico, bellezza. E a causarlo siamo noi umani, come ci dicono da decenni gli ambientalisti e come conferma da anni la scienza, alla faccia dei – pochi – negazionisti che continuano a negare l’evidenza.
Ormai tutti sanno che i ghiacciai si stanno sciogliendo e che le loro acque, non più congelate, gonfiano i mari o direttamente – come nel caso delle calotte polari, che colano rapidamente negli oceani – o indirettamente, come avviene coi ghiacciai alpini, attraverso il deflusso di torrenti e fiumi che comunque prima o poi sfociano in mare.
Meno noto è il fatto che l’aumento delle temperature medie globali provoca a sua volta l’innalzamento dei mari, perché l’acqua, come qualunque sostanza, tende a dilatarsi man mano che la temperatura sale. Si tratta di un effetto impercettibile su piccola scala, ma che amplificato sull’intera superficie del globo, ricoperto per tre quarti dalle acque, diventa rilevante.
La somma dei due fenomeni determina un innalzamento lento e costante del livello dei mari, già oggi in grado di minacciare l’esistenza delle popolazioni degli atolli del Pacifico e di aumentare la vulnerabilità di città come Venezia o Genova, ma anche New York, Miami e in generale tutte quelle situate sulle coste. È difficile fare previsioni precise, ma le stime calcolano che entro il 2100 il livello delle acque possa salire da un minimo di 50 centimetri a un metro, cioè 0.5-1,2 centimetri all’anno. Può sembrare poco, ma non lo è: provate a immaginare la situazione attuale di Venezia anche solo con altri 10 centimetri di acqua in più e avrete un quadro piuttosto chiaro di cosa possa significare. Ebbene, ai ritmi attuali, quei dieci centimetri in più rischiamo di averli entro il 2026, l’anno delle tanto celebrate Olimpiadi Invernali di Milano - Cortina, quelle per cui la Regione Veneto si è spesa con ogni energia, ben più di quelle impiegate per difendere il suo capoluogo che sprofonda.
Provate a immaginare una sontuosa cerimonia di apertura dei Giochi, mentre a poche decine di chilometri, in laguna, si spala fango e si accatastano macerie. Che impressione farà?
Dovrebbe far riflettere su come spendiamo i fondi pubblici, peraltro sempre più scarsi. Su quali siano le reali priorità del Paese. Su cosa sia lo “sviluppo” e su come creare posti di lavoro. Negli stessi giorni in cui Venezia lottava contro l’invasione del mare, gli “sviluppisti” non cessavano di ripetere le loro ricette per la “crescita”, a base di infrastrutture, cemento e combustibili fossili. Le stesse che stanno provocando gli attuali disastri, con miliardi di euro di danni e purtroppo, non di rado, la perdita di vite umane.
Cosa serve ancora per far capire che è un modello sbagliato, antieconomico, dannoso?
Eppure, anche per Venezia, si insiste per il completamento del MOSE, ennesima “Grande opera” che, nelle parole dei proponenti, doveva salvare la città dalle acque. Qualcuno provò a obiettare sull’utilità dell’opera, ma venne zittito e additato come nemico di Venezia e del progresso. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dopo 16 anni i lavori sono incompiuti, quello che è già stato costruito presenta problemi di malfunzionamento e manutenzione, varie inchieste hanno scoperchiato il solito sottobosco di appalti truccati, tangenti e malaffare, mentre Venezia continua a subire allagamenti sempre più devastanti.
Cinque miliardi di fondi pubblici buttati letteralmente in mare. Quel mare che, lui sì, è in “crescita”, insieme al numero e all’entità dei disastri ambientali, che ormai non possono più essere definiti eventi “eccezionali”, ma semplicemente la nuova quotidianità con cui saremo costretti a convivere.
Tutto questo in ossequio a un paradigma “sviluppista” che sta mostrando chiaramente i suoi limiti e le sue devastanti conseguenze, ma che la maggioranza continua ad appoggiare incondizionatamente, nella convinzione che non esistano alternative. Mentre coloro che, oggi come allora, si oppongono alle “Grandi opere” continuano a venire definiti utopisti, nemici del progresso, “quelli che dicono di NO a tutto”. Anche se i fatti hanno dato loro mille volte ragione.
Oggi dovrebbe ormai essere chiaro che le soluzioni non possono venire dallo stesso modello che ha causato i problemi. Dire “Sì” al TAP, il gasdotto che ha tranciato chilometri di uliveti pugliesi, vuol dire puntare ancora sulle fonti fossili, ovvero quelle che aumentano l’effetto serra e il riscaldamento globale. Discorso analogo per il TAV, il tunnel fra Torino e Lione, la cui costruzione provoca più emissioni a effetto serra di quelle che promette di far risparmiare, oltre a propugnare le solite tesi di “crescita” degli scambi commerciali ormai obsolete, che non hanno più ragione d’essere.
Perché ormai l’attuale modello economico ci ha portato a sbattere contro il limiti fisici del Pianeta. Quindi è l’economia a dover cambiare, perché la fisica – come la matematica e la chimica – è una scienza esatta, e non può essere deformata a piacimento. L’economia, invece, non è una scienza esatta, a dispetto di quello che credono in molti, a partire dagli stessi economisti. Perché si occupa di qualcosa di inventato dall’uomo, quindi per sua natura mutevole e fallibile. I disastri economici degli ultimi anni sono la prova tangibile dell’inesattezza intrinseca dell’economia.
Dunque, occorre cambiare modello. E alla svelta, prima che la “crescita” sommerga Venezia e tutti noi.

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