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Ricordo di Laura Conti a cent’anni dalla nascita

GiVa

Il nome di Laura Conti evoca immediatamente la coraggiosa battaglia sul caso Seveso e la ricerca delle responsabilità di una delle prime tragedie ambientali di innegabile impronta industriale.
Una catastrofe annunciata che scoppiando consentì di alzare il velo di omertà e di accondiscendenza sino ad allora in atto sulle industrie ad alto rischio per il territorio circostante ma anche per chi vi lavorava.
Accadeva il 10 luglio 1972. Dalla Icmesa di Seveso una nube di diossina invade il territorio. Ma non era che l’ultimo caso. Prima la vicenda dell’Ipca, la fabbrica di coloranti all’anilina di Ciriè con i lavoratori colpiti da cancro alla vescica e quello della Val Bormida sacrificata sull’altare delle produzioni dell’Acna di Cengio. In seguito la Caffaro di Brescia e l’inquinamento da Pcb ,e le aziende del settore amianto dalla cava dell’Amiantifera a Balangero, alla Eternit, per citare solo i casi più clamorosi.
Trovo nel settore ambientalista della mia biblioteca tre libri affiancati di Laura Conti: Visto da Seveso, Una lepre con la faccia di bambina e Che cos’è l’ecologia. Poco prima, nell’ordine alfabetico c’è Virginio Bettini con Ecologia e lotte sociali,  poco oltre Raffaele Guariniello e il suo Se il lavoro uccide.
Laura Conti diventò nota al grande pubblico proprio per l’impegno profuso nella battaglia per stabilire le responsabilità del caso Icmesa che, alla fine di un lungo percorso, portò alla conquista della Direttiva Seveso del 1982 che impose agli Stati dell’Unione Europea di dotarsi di una politica comune in materia di prevenzione dei grandi rischi industriali. Una battaglia nella quale, tra gli altri, fu affiancata proprio da Bettini, docente di ecologia, che aveva studiato gli effetti della diossina in Vietnam, da cui scaturì il saggio a due mani con Barry Commoner sopra citato.
Laura era nata a Udine il 31 marzo 1921 (morirà a Milano il 24 maggio 1993); staffetta partigiana venne arrestata e fu internata nel campo di Bolzano; nel 1949 si laureò in medicina in Austria, poi si trasferì a Milano dove, insieme all’attività medica, iniziò la militanza nel Partito Comunista. Consigliere provinciale nel 1960 per un decennio, poi in Regione Lombardia per quello successivo, infine  deputata dal 1987 al 1992, si occupò di Seveso proprio in qualità di consigliera regionale.
Forte, allora, la sua denuncia «della mancanza di controlli pubblici contro lo strapotere degli interessi privati, dell’impotenza della pubblica amministrazione di un Paese, pur industriale e civile, come l’Italia, di fronte a un disastro ecologico imprevisto, ma non imprevedibile».
Sempre schierata sui diritti delle donne e alla salute, si impegnò contro le centrali nucleari, per una rigorosa gestione della caccia, per una agricoltura naturale, portando nel movimento ambientalista la coscienza dei temi del lavoro e della salute in fabbrica nella tradizione di movimenti e di riferimenti giornalistici da Medicina Democratica a Sapere.
A sorreggere la sua riflessione e la sua azione un rigoroso ambientalismo scientifico che ha profondamente contribuito ad affermare, attraverso una critica puntuale di quelle politiche che determinano conseguenze ambientali devastanti e impattano sulla vita delle persone.
Nota la sua polemica, in Parlamento, con i Verdi e con il mondo ambientalista, nel 1990, sulla questione dell’attività venatoria. Commentò così nel libro Discorso sulla caccia (1992): «Quello che mi stupì non fu il rozzo machiavellismo di politicanti di fresca nomina…ma piuttosto il fatto che le associazioni ambientaliste accettarono di farsene asservire, firmando annunci pagati dalle liste dei Verdi nei quali la proposta di legge veniva calunniata in perfetta malafede». E sui due modi opposti di vedere il mondo, con severità concluse: « i deputati Verdi, che avevano escogitato l’ostruzionismo, pensavano di imporre i propri principi etici con la furberia e con la violenza; sembrano persone miti e dolcissime, ma sono dei fanatici della Santa Inquisizione».
Laura apparteneva al filone di pensiero che intendeva dare all’ambientalismo una connotazione politica di sinistra, evitando ogni forma di buonismo ecumenico, e per questo arricchendolo di istanze egalitarie nella convinzione che non esistono problemi ambientali che non siano anche problemi sociali.
Un atteggiamento non solo fatto proprio da chi più propriamente proveniva dal pensiero socialista o  marxiano (Giorgio Nebbia, Dario Paccino, lo stesso Virginio Bettini...) ma che fu ben presente anche nella componente cattolica progressista come ad esempio nel presidente della Pro Natura di quegli anni Valerio Giacomini.
Naturale dunque incontrare Laura Conti nel nucleo dei fondatori, nel 1979, della Lega per l’Ambiente.
Così come averla protagonista nella critica alla non neutralità della scienza, al riduzionismo e alla “inevitabilità” del progresso. Interprete di un impegno che trovava il nucleo aggregante intorno alla rivista Sapere e al suo motore, Giulio Maccacaro.
Per questo fu in prima fila nella battaglia contro la pretesa superiorità e oggettività della scienza, una scienza «quintessenza astratta delle forze produttive». Seguendo Marcello Cini, la scienza e lo scienziato non hanno un ruolo al di sopra delle parti ma va invece dichiarato il contesto in cui ci si colloca, da che parte si sta: quella dell’ambiente e della salute. Non ammetteva, tuttavia, quella pretesa di “pensiero unico”, ancor oggi maggioritario, pur se non più unico, all’interno della comunità scientifica. In questo si trovò in contrasto nel suo stesso partito e verso il Sindacato, accecati entrambi dal credo nelle «magnifiche sorti e progressive» e la base riduzionista su cui poggiava. Peccato che la sinistra si è trascinato per decenni e che ancora oggi sembra avvinghiare la sua classe dirigente incapace di liberarsi da un acritico “sviluppismo” industrialista accecato dal mito della crescita senza limiti.
Una deriva che Laura non esitò a contrastare ricorrendo anche alla provocazione. Al punto che  arrivò a sostenere che in fin dei conti Malthus aveva ragione nei confronti di Marx. Questo colpo dritto al cuore della sinistra era portato per evocare la cultura del limite e cercare di fare breccia nel pensiero appiattito delle dirigenze politiche e sindacali ormai rassegnate all’imperante liberismo consumista.
E questa è una parte del messaggio e della testimonianza militante di Laura Conti su cui sarebbe opportuno ritornare a riflette con serietà e autocritica, proprio adesso, davanti all’urgenza di un radicale cambio di registro nella programmazione di un futuro possibile.
Per porci un altro dei suoi dubbi e dei suoi interrogativi: «Ci dobbiamo chiedere se è possibile salvare l’equilibrio vitale del pianeta, o almeno iniziare un’azione efficace in tale direzione, già all’interno del sistema capitalista, oppure se il sistema capitalista ci farà arrivare alla catastrofe…».
È lo stesso sistema che combatte il movimento ambientalista che chiede soluzioni serie –che non possono che essere radicali, a cominciare da quelle economiche, come solo Papa Francesco sa indicare – e che blandisce invece i “verdi ragionevoli” disponibili a essere normalizzati entrando a far parte dell’ordine internazionale dominato dal pensiero unico della prevalenza del profitto e del consumo, incompatibile con il futuro delle nostra specie.
Un ambientalismo di sistema per il quale va bene la transizione ecologica vuota di contenuti e un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che nulla cambia per il futuro delle prossime generazioni.
È da ciechi non rendersi conto che questo è il tempo dell’individuazione puntuale delle responsabilità precise e di soluzioni efficaci che proprio per questo non possono né essere rinviate, né essere condivise da tutti.
O pensiamo davvero che i ritmi di crescita economica di oggi basati sullo sfruttamento degli uomini e delle risorse, sulle diseguaglianze, sul mantenimento in situazioni di degrado e di ingiustizia sociale della maggior parte del mondo, possano perdurare senza scatenare tra le masse disperate pressioni migratorie, conflitti, rivolte e guerre da cui l’intera umanità non ha che da perdere?
Davvero pensiamo che il progresso tecnologico da solo risolva gli effetti dei cambiamenti climatici, della sovrappopolazione, delle migrazioni ambientali, della carenza di risorse naturali essenziali a cominciare dall’acqua, dell’effetto globale degli inquinamenti?
La transizione ecologica l’abbiamo ridotta a transizione digitale e tecnologica. Ci illudiamo possa metterci al riparo da questa allarmante prospettiva?
O, per chiudere ancora con le domande premonitrici di Laura Conti dovremmo porci questo ulteriore interrogativo: «Si potrà evitare che l’elettronica, coi suoi meravigliosi progressi, finisca col fare di ciascuno di noi un sorvegliato speciale?»

Nota
Valeria Fieramonte, a cento anni dalla nascita, ha dedicato a Laura un libro importante La vita di Laura Conti (Enciclopedia delle donne, 2021) in cui ha saputo raccontarci la vita di una interprete straordinaria del nostro tempo dalla scelta partigiana alla militanza ambientalista prima di tutto come medica poi di studiosa ricercatrice divulgatrice scrittrice, parlamentare. Come abbiamo cercato di sintetizzare, una vita segnata dalla passione e dall’impegno sviluppati con umanità e con  piglio battagliero dalla parte dei beni comuni a cominciare dalla salute pubblica.

Recovery Fund o Next Generation EU?

Riccardo Graziano

La pandemia Covid-19, oltre a provocare una tragedia sanitaria, ha innescato una crisi economica profonda, tanto da convincere l’Europa a mettere da parte le prassi rigoriste e allargare i cordoni della borsa facendo piovere una montagna di denaro sui Paesi membri. Ma non è tutto oro quello che luccica, in particolare per l’Italia, dove i finanziamenti del piano denominato “Next Generation EU” sono stati salutati con grande giubilo e ribattezzati Recovery Fund, spesso storpiato in Recovery “Found”. Potrebbe sembrare una sottigliezza semantica per pignoli, ma in realtà è indice di un approccio inappropriato alla questione, che rischia di vanificare l’opportunità offerta da questa mole di denaro per far ripartire il Paese su basi nuove e di canalizzare ulteriormente la ricchezza verso le solite tasche, lasciando gran parte della popolazione in difficoltà, con l’effetto paradossale di peggiorare la situazione socioeconomica e ambientale.
Ma andiamo con ordine.

Il percorso
A fine marzo 2020, quando in Italia già serpeggiava velocemente SARS-CoV-2, il virus responsabile della pandemia Covid-19, il resto dell’Europa era ancora relativamente immune dal contagio. Pertanto, Germania, Austria, Olanda, Danimarca e Svezia, definiti spesso impropriamente “paesi frugali”, avevano rifiutato di costruire una strategia comune europea per arginare il diffondersi della malattia e della conseguente crisi economica, il che la dice lunga su quanto la cosiddetta “Unione Europea” sia unita…
Tuttavia, i “frugali” hanno cambiato radicalmente prospettiva quando i contagi sono arrivati anche a casa loro, come succede spesso con molti problemi che non vengono considerati tali finché coinvolgono qualcun altro e diventano priorità assolute quando finiscono fatalmente per diventare anche problemi nostri. Un egoismo, una miopia e un opportunismo che stonerebbero in qualunque contesto umano, ma che diventano particolarmente urticanti ai vertici di quella che dovrebbe essere, appunto, una “Unione”.
A quel punto, per arginare la diffusione del virus, si è deciso di sospendere, giustamente, il Trattato di Schengen, che da decenni autorizzava la libera circolazione delle persone nell’UE. Ma si è anche messo finalmente da parte (provvisoriamente, s’intende…) quel famigerato Trattato di Maastricht che da decenni tiene inchiodata l’economia europea su vincoli tanto rigidi quanto arbitrari. L’impostazione rigorista e austera di matrice tedesca è stata accantonata, perché finalmente  si è capito che, in assenza di poderose misure di sostegno, tutta l’economia europea sarebbe collassata (non solo quella dei Paesi in crisi pregressa, tra i quali l’Italia). Per questo si è arrivati a varare, soltanto nel luglio 2020 e attraverso questo percorso tutt’altro che lineare e spontaneo, il Next Generation EU, faraonico piano di sostegno ai Paesi dell’Unione attraverso un’enorme iniezione di liquidità.

Le cifre
Il Next Generation EU prevede stanziamenti aggiuntivi oltre al bilancio standard 2021-2027 dell’UE per 750 miliardi di euro, dei quali 390 sono erogazioni a fondo perduto e 360 finanziati da prestiti, il tutto così ripartito: 10,6 mld innovazione e agenda digitale, 721,9 coesione, resilienza e valori, 17,5 risorse naturali e ambiente. L’Italia, proprio perché duramente colpita dalla pandemia, ottiene la fetta più grossa, 210 miliardi di euro, dei quali oltre due terzi destinati a nuovi progetti, il restante a quelli in essere. Ma come abbiamo visto non si tratta di un regalo: 120 miliardi di questi fondi sono prestiti che andranno restituiti. È per questo che le manifestazioni di giubilo appaiono fuori luogo: per un Paese che ha già un debito pubblico enorme, oltre 2.650 miliardi di euro, circa il 160% del PIL, la possibilità di indebitarsi ulteriormente non sembra una grande idea, anche se in questo caso il debito originario lo contrae l’UE, quindi a condizioni di mercato più favorevoli di quanto potrebbe fare l’Italia. Tuttavia, forse la scelta più saggia sarebbe stata quella di ridurre il debito, utilizzando le aperture di credito europee per abbassare sia l’indebitamento che il tasso di interesse gravante su di esso, in modo da avere minore esposizione debitoria sui mercati, dunque  anche un rating – ovvero una valutazione finanziaria – migliore, tale da poter pagare interessi minori sul debito stesso. Ma il Next Generation EU non funziona così, l’Europa finanzia a piene mani i suoi stati membri per dare una scossa all’economia, puntando in particolare sulla digitalizzazione e sulla riconversione ecologica, nel convincimento – peraltro condivisibile – che tale strategia porterà a una ripresa più sostenibile e quindi duratura. Dunque, l’approccio vuole essere quello di un investimento sul futuro, che dovrebbe in prospettiva fruttare assai più di quanto costi oggi e garantire benessere anche  alla Next Generation EU, appunto, la prossima generazione di europei.

Il fondo recupero
Purtroppo però in Italia questo messaggio pare non essere passato. Infatti qui ben pochi lo chiamano Next Generation, pensando alla prossima generazione. La denominazione corrente nel nostro Paese è appunto quella di Recovery Fund, fondo “di recupero”, spesso storpiato anche come Recovery “Found”, cioè letteralmente “recupero trovato”. Come dicevamo sopra, non è una sottigliezza semantica. È piuttosto indice della nostra mentalità miope e priva di strategia, che non pensa realmente a degli investimenti veri per il futuro, perché è rivolta al passato, cioè a fornire un “recupero” a chi ha avuto delle perdite o non ha potuto fare affari. E per ottenere questo si orienta verso strade già percorse e obsolete, senza riuscire a capire che questa pandemia ha comunque provocato una cesura netta, tale per cui occorre cambiare, rivoluzionare, modernizzare il nostro paradigma socioeconomico per ripartire su basi nuove, altrimenti non ci sarà alcuna ripresa e l’unica cosa che produrranno gli aiuti europei saranno nuovi debiti da pagare con i sacrifici di tutti, a fronte dell’arricchimento di pochissimi, peraltro già abbienti. Anziché programmare una serie di investimenti strutturali, ci stiamo comportando come se avessimo trovato un forziere stracolmo di denari da sperperare all’insegna del “ce n’è per tutti”, senza pensare che prima o poi i padroni del forziere ci chiederanno conto delle nostre spese. Anzi, sia prima sia poi, nel senso che l’UE vaglierà preventivamente con attenzione i piani preparati dalle singole nazioni per valutare se sono in sintonia con le linee guida dettate dall’Europa e solo se li riterrà adeguati erogherà i finanziamenti, salvo poi farsi restituire i prestiti con gli interessi, anche se su tempi molto dilazionati.

Generazione Futura
Se davvero si vuole pensare alla generazione futura, per prima cosa occorre investire nel luogo dove essa si trova attualmente: la scuola. Sia in termini di revisione dei programmi e dei corsi di studi, sia intervenendo fisicamente sulle strutture che ospitano i nostri ragazzi, quasi sempre inadeguate, spesso addirittura fatiscenti. Occorrerebbe un piano di investimenti strutturale, nel senso di “dedicato alle strutture”, per renderle energeticamente efficienti e adeguarle alle nuove esigenze didattiche, con l’ingresso massiccio del digitale, ma soprattutto con la maturazione di una coscienza ecologica e globale, che insegni subito ai ragazzi l’importanza di preservare l’ecosistema Terra, ma che li prepari anche ad affrontare un futuro nel quale i mutamenti climatici renderanno le condizioni di vita assai più problematiche, a meno che non si rimedi nei pochi anni in cui ancora abbiamo la possibilità di farlo, cosa che non stiamo facendo.

Economia verde
Da più parti è stato criticato il PNRR, il Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, che esplicita le linee di intervento attraverso le quali si intendono utilizzare i fondi europei. In generale, l’accusa è quella di greenwashing, un risciacquo “verde” di pratiche e strategie che nulla hanno a che vedere con la riconversione ecologica necessaria e urgente di cui abbiamo bisogno. Lo hanno detto le associazioni ambientaliste, i ragazzi di FFF, esponenti della società civile. Quello che si delinea è un progetto di “ammodernamento” del Paese, come se il problema fosse la nostra arretratezza, mentre il nocciolo della questione è l’insostenibilità del nostro sistema di “sviluppo”, basato su una crescita insostenibile e su un’economia ancora troppo “lineare”, ovvero programmata in senso unidirezionale dalle materie prime ai prodotti ai rifiuti, anziché su una economia “circolare”, in grado di lavorare a ciclo chiuso, come Madre Natura, ovvero dove i rifiuti di una lavorazione diventano la materia prima di un’altra.

Economia digitale
Un altro grande pilastro della strategia UE è la digitalizzazione, in sé positiva, ma solo se si tiene conto dei suoi effetti sull’occupazione. Senza dilungarci troppo, sottolineiamo che è facile prevedere come lo sviluppo dell’intelligenza artificiale produrrà nel giro di pochi anni macchine e robot in grado di sostituire gli umani in modo autonomo in un numero enorme di mansioni, il che può essere positivo se ci evita lavori onerosi o pericolosi, ma occorre tenere conto degli effetti devastanti che può avere sull’occupazione. Il rischio è di aumentare in modo esponenziale i disoccupati, sia per la crisi post-Covid, sia per l’arrivo delle macchine intelligenti. Per evitare una crisi occupazionale e sociale, occorre anche qui invertire il paradigma, che finora ha visto allungare progressivamente l’età pensionabile, strategia che ha inopinatamente tenuto fuori dal mondo del lavoro i giovani, costringendo i lavoratori anziani a rimanere a occupare i pochi posti disponibili. Una follia. Occorre programmare un massiccio ricambio generazionale, che consenta l’ingresso di forze giovani, in grado di metabolizzare meglio le dirompenti innovazioni tecnologiche. Al tempo stesso, occorre prendere atto che i tempi di lavoro andranno ridotti a parità di salario, ridistribuendo le risorse in surplus ottenute grazie all’efficienza delle macchine. Il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti” torna prepotentemente attuale ed è l’unica soluzione possibile, se si vogliono evitare conflitti sociali devastanti.

Cosa fare, cosa no
Per avviare sul serio la riconversione ecologica, occorre puntare su cose già dette e ridette, ma mai messe sufficientemente in pratica: sostituire le fonti fossili con energie rinnovabili; utilizzare le energie rinnovabili per implementare la mobilità elettrica dismettendo i veicoli a carburanti fossili; arrestare il consumo di suolo e riqualificare gli edifici esistenti; rinaturalizzare le pratiche agricole; diminuire i consumi di carne ed evitare gli allevamenti intensivi: salvaguardare le foreste primarie, i ghiacciai e in generale gli habitat naturali; proteggere la biodiversità; mettere in sicurezza il territorio; bonificare i siti inquinati, eccetera, senza dilungarci troppo su cose già dette e ripetute, in particolare dagli ambientalisti, ma non solo. Purtroppo inascoltati, come dimostra il caso esemplare della Regione Piemonte, che ha stilato un elenco di 1.273 (sì, milleduecentosettantatre) progetti, una vera pletora di richieste per un totale di 27 miliardi, senza ombra di strategia e di visione, solo un lungo elenco di progetti spesso già accantonati perché inutili, ma ripresi nella speranza di trovare nuovi finanziamenti (all’insegna del “ce n’è per tutti”, appunto), a volte addirittura in conflitto fra loro. Per giustificare questo approccio da burocrate privo di qualità di governo, la Regione Piemonte si è vantata di aver dato voce a tutti. A parte che non è vero, perché ovviamente non ha minimamente preso in considerazione le associazioni ambientaliste, ma comunque non è quello che doveva fare. Il compito delle Regioni era quello di indicare progetti propri o presentati da altri soggetti che fossero compatibili con le linee guida dettate dalla UE, per andarli a inserire in un unico documento nazionale da presentare e sostenere in Europa. Altro che uno sterminato elenco di “progetti” che sembra più una richiesta di elemosine da distribuire a una pletora di questuanti.

Conclusioni
L’approccio doveva essere quello di un investimento sul futuro, ma sembra che l’orientamento sia quello di una serie infinita di ristori e regalie mascherate da appalti, una “strategia” in linea con un Paese che invecchia guardando al passato, invece che aprirsi guardando ai giovani e al cambiamento necessario e urgente. Senza dimenticare i soliti favori ai “poteri forti”, che si ammantano di un’aura fintamente “verde” per mettere le mani sul ricco piatto offerto dalla UE. Se non riusciremo a incidere sui decisori politici per cambiare rotta, povera Next Generation, senza ripresa, senza occupazione, con un pianeta devastato da inquinamento e mutamenti climatici e, se ancora non bastasse, anche con un debito enorme da ripagare.

Le tante minacce che si nascondono dietro la transizione ecologica

Mauro Furlani

La galassia di sigle, associazioni, comitati di cittadini, che affolla il campo dell’associazionismo ambientale è da svariati decenni molto ampio, articolato e diversificato. Si va da settori attigui alla ricerca scientifica in campo zoologico, botanico o altri settori, fino a quelli che sfiorano il mondo animalista, passando attraverso campi più legati all’urbanistica.
Sicuramente l’ambiente, inteso nel suo significato più ampio, si presta ad interpretazioni, a sensibilità, ad applicazioni quanto mai diversificate e ampie, che, se da un lato arricchiscono culturalmente il contesto operativo generale, dall’altro lo rendono anche particolarmente fragile.
Il rischio di un facile scivolamento verso l’idea che l’oggetto del proprio campo di interesse, dove si sono acquisite le maggiori competenze, sia centrale e attorno al quale far ruotare altre problematiche è sempre dietro l’angolo delle nostre attività.
Coloro che ormai molti decenni fa decisero di impegnarsi nella costituzione di una Associazione ambientale, come la Federazione nazionale Pro Natura, caratterizzata da una forte connotazione scientifica e naturalistica, hanno intuito che l’impegno ambientale non poteva essere costretto, limitato all’interno di un confine culturale chiuso, dotandolo altresì di un forte carattere locale.
In questi ultimi anni, tra le diverse realtà ambientaliste nazionali, è stato compiuto un grande sforzo per cercare di trovare dei terreni comuni di condivisione su importanti tematiche, seppure settoriali.
Sono sorti numerosi tavoli tecnici, sviluppati per indirizzare la politica nazionale ed europea verso una visione ambientale più attenta e rispettosa degli ambienti naturali e spingerla alla compatibilità di scelte economiche e di gestione del territorio attente e coerenti con i principi di conservazione.
Lo sforzo compiuto è stato quello di sottrarre l’ambiente, il paesaggio, la biodiversità alla marginalità rispetto alla visione economica, anzi, porla al centro rispetto ad essa. Questa idea, che è riuscita a sfondare il muro di ostilità da parte di settori politici ed economici, ha spesso trovato localmente una difficile applicazione. Si pensi solamente alla difficoltà di applicazione locale della Rete Natura 2000, oppure le richieste regionali di deroga alle specie oggetto di attività venatoria o ancora il quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino e numerose altre.

Proprio per sopperire alla debolezza e inefficacia di azioni locali delle singole Associazioni, e per il carattere nazionale ed europeo delle questioni affrontate, sono nati tavoli tecnici sullo sviluppo di un'agricoltura compatibile con la salvaguardia della natura, sulle strategie di conservazione, sulle aree protette e sulle minacce incombenti derivate dalla riforma della Legge quadro sulle aree protette, oppure recentemente sulle infrastrutture da destinare alle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026, sul verde urbano, ecc. La nostra “Agenda ambientale” è stata elaborata in modo concordato e sottoposta sempre alle diverse forze politiche nazionali.
Alcuni recenti interventi e prese di posizione di una parte del mondo ambientalista - riconosciamolo pure - mediaticamente più influenti, rischiano di minare la costruzione di aree di confronto e di condivisione su alcuni grandi temi, mettendo in evidenza non solo le differenze che si sono, ed è bene che ci siano, ma anche la fragilità di quanto costruito in decenni di protezione ambientale.

Uno dei principi che ha sempre ispirato la politica ambientale della Federazione, proprio per le diverse anime che raccoglie, è la sua apartiticità e l’equidistanza politica nei confronti di tutti i governi che si avvicendano nel nostro Paese, comprese quelle espressioni politiche arricchite di qualificate componenti tecniche.
Anche queste ultime, nonostante talune figure particolarmente rappresentative siano attinte dal mondo accademico e scientifico, talvolta prossime al mondo ambientalista, nel momento in cui sono chiamate ad una responsabilità istituzionale, assumono a pieno titolo una connotazione politica, con cui il mondo ambientalista deve dialogare e si deve confrontare, mantenendo tuttavia una propria identità separata e libera di scelte autonome.
Negli ultimi tempi sembra che qualcosa sia cambiato, in modo molto evidente.
Quella costruzione di piattaforme comuni, frutto di faticose mediazioni, rispetto reciproco, condivisione, lealtà sembra essere venuta meno, sotto la spinta di un coinvolgimento privilegiato in un momento storico che prevede una forte trasformazione economica, oltre che sociale, della nostra società.
Seppure, fortunatamente, alcune collaborazioni tra le Associazioni siano rimaste aperte, è innegabile che aver seguito un percorso istituzionale autonomo, con la partecipazione ai tavoli di consultazione dell’ancora in formazione Governo guidato da Draghi da parte di tre Associazioni (Legambiente, WWF e Greenpeace), all’insaputa di gran parte della altre Associazioni, è sembrato a molti uno sgarbo nelle relazioni tra Associazioni. Non aver peraltro discusso alcune priorità da portare all’attenzione del Presidente incarico è sembrata a molti una fuga autonoma, certamente inaspettata, seppure legittima.
Tutto ciò, legittimamente, ha portato, al termine dell’incontro, alla comunicazione della soppressione di quel Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che, pur con tutti i limiti e contraddizioni manifestati, conservava, nel suo nome, l’ambiente come mission istituzionale principale.

A nostro parere, l’istituzione del Ministero della Transizione Ecologica, che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente, non ha comportato solamente una mutazione terminologica; è ben manifesto che la cosiddetta transizione ecologica prevalga sulla tutela dell’ambiente, anzi sembra proprio che questa sia del tutto marginale.
Se, infatti, si legge il Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza si nota facilmente l’irrilevanza con la quale viene trattata la protezione dell’ambiente e della biodiversità, degli habitat naturali ,ecc.
Ancor di più si evidenzia l’allontanamento culturale esaminando i fondi che sono stanziati per la tutela dell’ambiente e della biodiversità: solo 0,8% del totale di 248 miliardi di euro. Praticamente briciole cadute dalla tavola dei grandi investimenti infrastrutturali ed energetici.
Aver accolto e manifestato favorevolmente da parte delle tre Associazioni ambientaliste chiamate alla consultazione questo cambiamento di nome e di finalità, in assenza di una discussione preventiva, o almeno di una comunicazione, ha di fatto creato un fossato di diffidenza non facilmente colmabile, indebolendo ulteriormente la posizione ambientalista in un momento in cui, al contrario, avrebbe dovuto confrontarsi con scelte a nostro parere negative e senza precedenti per l’ambiente.
Il Decreto Semplificazione, infatti, che interviene sulle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), unite alle modifiche del Codice degli Appalti, oltre a ridurre i tempi di realizzazione di un’opera, limita fortemente la partecipazione delle popolazioni alle scelte sul territorio, rischiando di compromettere definitivamente molti ambienti naturali e deturpando paesaggi che sono la vera ricchezza di questo Paese.
Purtroppo, altre prese di posizione pubbliche non hanno certamente favorito le condizioni per rimarginare la ferita prodotta, che sembra resa volutamente più profonda, come per tracciare una distanza e dei distinguo insanabili, giungendo, in alcuni casi, a delle vere e proprie delegittimazioni del pensiero dissonante.
Così come l’attacco effettuato da parte del Presidente di Legambiente, dalle pagine del quotidiano La Repubblica il 19 maggio, nei confronti delle Sovrintendenze ai Beni Culturali e Paesaggistici, evidenzia, a nostro parere, una fuga autonoma su un tema particolarmente delicato. Attacco giunto proprio in un momento in cui queste Istituzioni, nate ormai un secolo fa a presidio della tutela del nostro patrimonio artistico e paesaggistico, sono fortemente sotto attacco da parte di altre Istituzioni per presunte limitazioni e rallentamenti alle azioni imposte dal Decreto Semplificazioni. Delegittimare presidi istituzionali come questi rischiano di aggravare e diffondere quanto purtroppo sta accadendo, ad esempio, nella Tuscia (Lazio), dove tre impianti fotovoltaici (il più grande dei quali sarà anche il più grande d’Europa) andranno a sostituire oltre 250 ettari di aree agricole. Si è ben consapevoli della necessità di uscire dalle fonti energetiche fossili, tuttavia, ciò che non può essere accettabile è la corsa selvaggia in assenza di una rigida pianificazione, in grado individuare le aree idonee e privilegiando l’ utilizzo di spazi degradati come le aree industriali dismesse o le grandi infrastrutture viarie o in manufatti di alcun pregio.

Fortunatamente, se da un lato a livello nazionale sono ben evidenti queste contraddizioni e questi contrasti,  dall’altra, nei territori e a livello periferico, continuano attive forme di collaborazioni con tutte le principali Associazioni su temi locali specifici.
Forse, proprio per cercare di porre un argine a questa marcia forzata in nome della transizione ecologica che può provocare ferite dolorosissime all’ambiente naturale e ai beni paesaggistici del nostro territorio, autorevolmente il Presidente della Repubblica ha ritenuto di porre al centro e all’attenzione della politica quell’art. 9 della nostra Carta, mai così fortemente minacciato come in questo periodo.
Il Presidente scrive, infatti, in un messaggio affidato alle pagine di Vanity Fair per celebrare i 75 anni della Repubblica e il grande patrimonio artistico e culturale dell'Italia, “non c’è transizione ecologica senza rispetto per la nostra ricchezza culturale e paesaggistica” e ancora “ecco perché la ripartenza pone in primo piano l’esaltazione delle nostre risorse e virtualità culturali”.
Se il Ricovery Plan non riserva attenzioni alla tutela della biodiversità e degli ambienti naturali, la Commissione Ambiente del Parlamento Europeo approva la relazione sulla nuova strategia che gli Stati dovranno attuare, modificando radicalmente le proprie politiche ambientali.

L’amara constatazione è il sostanziale fallimento delle strategie fin qui adottate in tema di protezione della Natura e della biodiversità. Ciò, secondo la Commissione, impone che entro il 2030 la politica dell’Unione europea dovrà porre al centro della propria politica ambientale, al pari alla centralità posta per il clima, la biodiversità e le aree protette.
Secondo la Commissione, i paesi membri in questo decennio dovranno mettere in atto un profondo ripristino degli ecosistemi degradati, destinando almeno il 30% del proprio territorio alla protezione della natura e della biodiversità, cercando di contrastare i processi di desertificazione, di degrado del suolo e degli habitat.
Quale dunque tra le due strade sarà quella che l’Italia privilegerà?

Valerio Giacomini, eretico dell’ecologismo

Attualità di un pensiero-testamento a quarant’anni dalla morte

Valter Giuliano

Il 6 gennaio di quarant’anni fa moriva a Roma una delle figure più importanti nella storia della botanica e dell’ecologia del nostro Paese, il professor Valerio Giacomini.
Al di là del suo impegno scientifico lasciò anche un’ impronta significativa nella storia del movimento ambientalista internazionale con la sua partecipazione alla prima Conferenza mondiale sull’ambiente di Stoccolma, nel 1972, e per il suo contributo al Programma MAB (Man and Biosphere) dell’Unesco.
Ma vogliamo ricordarlo su queste pagine per la conduzione della nostra associazione (dal 1968 al 1979, poi Presidente onorario sino all’improvvisa scomparsa)che, proprio sotto la sua presidenza passò dalla denominazione di Pro Natura Italica -erede del MIPN (Movimento Italiano Protezione della Natura)- all’attuale, in quegli anni comunemente contratta nel termine Federnatura.
Valerio Giacomini fu certamente un ambientalista scomodo, un po’ eretico rispetto all’allora pensiero egemone dei “sacerdoti” di Italia Nostra e del WWF. Specie sul tema delle aree protette cui dava un significato ben oltre il conservazionismo e il naturalismo, avanti di decenni rispetto al resto del mondo ambientalista e anticipatore di quelle che saranno le conclusioni della Conferenza mondiale di Rio de Janeiro.
Per la Pro Natura, formidabili quegli anni! Con lui alla Presidenza, la segreteria era retta da  Dario Paccino, autore dell’altrettanto eretico e anticipatore L’imbroglio ecologico (1972) in cui si spiegava che il “progresso”, così come veniva comunemente inteso, portava inevitabilmente con sé la violenza alla natura. La tesi era lucida: le regole sociali ed economiche, avendo come fine ultimo il profitto, impongono il massimo sfruttamento delle risorse del Pianeta e dunque, al termine di questo percorso, la sua distruzione e con essa - conseguenza ineludibile - la fine anche della nostra specie. E la colpa non è di un astratto “uomo” miope e imprevidente, quanto nell’indisponibilità a cambiare le regole.
Dall’accoppiata Dario Paccino - Valerio Giacomini nacque, nel 1970 questa testata, con il nome di Natura - Società, la prima rivista di ecologia politica del nostro Paese che aveva l’intento di rivolgersi non solo al mondo degli appassionati dell’ambiente, agli studiosi e ai naturalisti, ma all9uomo della strada.
    
La maniera migliore per ricordare oggi la memoria di Giacomini è continuare a nutrirsi del suo pensiero. Ed è per questo che sembra utile riproporre qui alcune sue riflessioni, sui temi che da sempre ci appassionano e ci vedono impegnati.
A cominciare dalla messa a punto del termine e della scienza cui ci riferiamo.
«L’ecologia è una scienza e voi non siete ecologi, semmai siete persone informate su ciò che l’ecologia ci insegna e, sensibili a ciò, vi battete perché i principi dell’ecologia siano seguiti dall’Umanità».
Fu il suo primo insegnamento.
Non volevamo essere chiamati conservazionisti e anche ambientalisti ci stava un po’ stretto: ma ecologisti poteva andare bene.
Non ecologi, ecologisti.
Seconda base del suo insegnamento: non cedere all’irrazionale dell’emotività, ma ricondurre ogni impegno, ogni azione, al vaglio delle scientificità.
«Forse mai come oggi, di fronte a problemi gravissimi che accomunano in una indissolubile solidarietà tutti i viventi, si ha la percezione dei reali, autentici valori della scienza, anzi di tutto il sapere. Solo un sapere che si dedichi veramente alle più urgenti esigenze umane raccoglie credito e prestigio. Per questo molti parlano di un nuovo “Umanesimo”, di un umanesimo scientifico.
É quindi un segno dei tempi nuovi il sorgere e l’affermarsi, con crescente e impensata fortuna, di una scienza, che già esisteva, che risale anzi al secolo scorso, ma che oggi prorompe e si afferma con straordinaria significazione: si tratta dell’Ecologia. Ne scrivono i giornali, se ne parla ovunque; si direbbe sia diventata una moda. Tutti sanno che si occupa delle relazioni fra esseri viventi ed ambiente; tutti intuiscono che queste relazioni si estendono anche alla sfera e alla dimensione umana quindi  alla vita stessa e alla casa dell’uomo. Quindi l'ecologia avanza perfino con atteggiamenti di rivendicazione e di contestazione: se si fosse più curata la conoscenza dei rapporti delicatissimi che legano - e quindi sottopongono a rigorose complesse legalità - tutto ciò che viene al mondo con tutto ciò che costituisce il substrato fisico della vita, non saremmo giunti oggi ad una così disastrosa degradazione dell'ambiente in cui dobbiamo vivere. Proprio l'ignoranza di preziosi delicatissimi equilibri dell'involucro vivente del Pianeta - della Biosfera - ha permesso lo sconvolgimento e talora la distruzione di questi equilibri su vastissimi territori. Questa ignoranza è ancora molto diffusa, ma si sta insinuando ormai nella pubblica opinione un maggior bisogno di sapere qualche cosa di più di quanto non sia insegnato fino ad oggi nelle scuole a proposito del reale significato che il mondo fisico, e gli animali e le piante assumono in relazione con la vita nostra in questo coesistere, coabitare, che si rivela sempre più condizionatore, sempre più determinante per il nostro benessere, anzi per la nostra sopravvivenza. (...)
Architetti, urbanisti, ingegneri, naturalisti generici, cominciano ad ostentare una dignità di preparazione ecologica del tutto inesistente. Altro è intuire il significato moderno della ecologia, altro è essere ecologi e saper applicare l'ecologia nei molti campi nei quali dovrebbe essere introdotta: primo tra tutti quello delle pianificazioni territoriali, intese nel senso più complessivo ed integrale.
Certo oggi un preciso dovere incombe sui responsabili della scuola italiana: colmare la grave deficienza costituita dalla mancanza di insegnamento ecologico in tutti gli ordini di scuole. Si tratta di una deficienza destinata ad aggravare il tanto lamentato “divario tecnologico” che ci stacca dai paesi più progrediti che oggi pongono su base ecologica le loro più vaste programmazioni riguardanti l'abitabilità, la produttività, la salubrità dei loro territori.
Se consideriamo che la conservazione della natura non è altro ormai che il capitolo conclusivo della dottrina ecologica, possiamo renderci conto che nessuna efficiente attività conservazionale è attuabile altrimenti che su fondamento rigorosamente scientifico ecologico. Ma alla conservazione sono legati ormai i destini stessi dell'umanità: basterebbe questa considerazione per dimostrare il carattere umanissimo dell'ecologia e per rivendicare la sua fattiva presenza nella nostra cultura scientifica». (Solo con metodo scientifico si tutela l’ambiente naturale, in Natura e Società, a. I, n.2,  settembre 1970)

E, a cornice del nuovo umanesimo scientifico, un più ampio richiamo ai valori che dovrebbero appartenere ad ognuno.
«Io credo anzitutto profondamente che la crisi immane che stiamo attraversando, che tutto il mondo attraversa e che forse è il momento culminante di una crisi permanente nella storia degli uomini, è anzitutto una crisi di valori. I valori vengono troppo spesso scambiati con le ricchezze, con le risorse che contribuiscono a dare il potere, l’egemonia, o un benessere molto più apparente che reale. I valori vengono troppo spesso falsificati, travestiti, adattati ai più diversi trionfalismi, quando non accede, come oggi accade, che diventino le motivazioni di ogni fanatismo, la giustificazione di ogni delitto.
I valori reali, autentici, che appartengono – come oggi si vuol dire con una espressione abusata – alla “qualità della vita”, non sono circonfusi di artificiosi splendori, non sono compatibili con i clmori pubblicitari, non appartengono ai ludi del consumismo sfrenato, e tanto meno alla corsa delirante verso il possesso e lo sfruttamento fino all’osso di tutte le risorse, di tutti i beni della terra. Appartengono, per usare una espressione di Fromm che sta avendo in questi giorni una certa fortuna, più all’essere che all’avere». (1978)
    
Sulla base di queste riflessioni che suonano profetiche e, ahimè, a tutt’oggi in gran parte inascoltate (al punto che non dobbiamo stancarci di riproporle, né tantomeno darle per scontate), in quegli anni la Federazione impostò il suo impegno e il suo ruolo.
Ma Valerio Giacomini invitava anche a vigilare sulle possibili strumentalizzazione della nuova presa di coscienza ecologica per ancorarla alla serietà scientifica che enunciava la rivoluzione ambientale. Vi propongo questo efficace stralcio da un appunto manoscritto dal titolo “Ecologia e non ecologia” emerso dai materiali di una parte del suo archivio che mi sono stati affidati e che sono depositati presso il Centro Studi Valerio Giacomini della Federazione Nazionale Pro Natura.
«Si potrebbe dire dell'ecologia oggi ciò che si è detto suo tempo e che forse continua ad essere valido per la pace “pacs, pacs et non erat pacs”. Tutti parlano a proposito e a sproposito di ecologia, alcuni con scienza, alcuni con passionalità, alcuni con distaccata ironia, in tutti gli ambienti culturali o sedicenti tali. Deve essere veramente cosa importante questa ecologia che non cessa di essere una novità così dibattuta, diventata pane quotidiano dell'informazione a tutti i livelli. É una scienza sfuggita al controllo degli uomini di scienza? É una nuova filosofia e quindi una nuova visione del mondo? É semplicemente una moda effimera destinata presto o tardi ad essere soppiantata da un'alta moda? Accade comunque che in ambienti scientifici abbastanza informati - e non tutti lo sono adeguatamente - non si conosca più facilmente nell'ecologia che corre su tutte le bocche una originaria concezione che pareva dovesse poggiare su basi scientifiche e non su interpretazioni soggettive e perfino emozionali.
È accaduto qualcosa di simile a ciò che si è verificato al primo sorgere e diffondersi del verbo evoluzionista, quando parve a molti che si aprisse finalmente la via maestra per la conoscenza del divenire della vita del mondo, in una sintesi così vasta da poter assumere senso filosofico e perfino religioso. Chinon  ricorda le infiammate lezioni universitarie di uomini di scienza che dimenticavano le reali dimensioni del sapere scientifico, le acerrime dispute fra evoluzionisti e antievoluzionisti, fino a giungere alle allucinanti giornate di Dayton, e ha assistito poi al comporsi nelle sue linee più equilibrate e significative di una rivoluzione del pensiero scientifico, che proprio in più giuste proporzioni assumerà la più grande importanza».
    
E ancora, dal primo capitolo “La rivoluzione ecologica” del manoscritto La concezione ecologica della natura (s.d.) testo di cui sto verificando l’eventuale edizione:
«Come si è parlato di tante rivoluzioni della prassi e del pensiero in campo tecnico, scientifico e filosofico, così si è giustificato parlare di una rivoluzione ecologica. Ma poiché rivoluzione significa mutamento rispetto a qualche cosa di precedente, così parrebbe giustificato contrapporre a la rivoluzione ecologica in special modo a quel mondo di opinioni, di convinzioni, di azioni che è derivato da una precedente grandiosa rivoluzione, i cui effetti si sono fatti sentire e continuano a farsi sentire pesantemente a scala universale: la rivoluzione industriale. Con questa l'uomo era stato posto praticamente nelle condizioni di poter attuare il disegno di dominio assoluto sulla natura al quale lo autorizzavano le filosofie positiviste e meccaniciste. Era ed è il trionfo definitivo dell'uomo e la sua collocazione al vertice della natura, come arbitro dei destini della natura. Ciò che vantava Cicerone, che esaltava Buffon era diventata realtà schiacciante e travolgente.
La rivoluzione ecologica non detronizza l'uomo per porlo a livello di tutta la restante natura, ma intende far riemergere una grande verità praticamente caduta nell'oblio: che l'uomo è anche natura, che è legato con molteplici legami alla natura, che non può sottrarsi impunemente dall'intreccio di interrelazioni che costituiscono una totalità naturale del mondo.
Questo intreccio di interrelazioni più che una precisa legalità tanto a lungo esaltata da naturalisti e filosofi, è la realtà dinamica del mondo naturale, è la realtà ecologica della natura, nella quale l'uomo è coinvolto e condizionato assai più di quel che credevano e continuano a credere molti esaltatore di un dominio dell'uomo destinato a condizionare e a vincolare con arbitrio illimitato la natura a servizio degli interessi umani. I quali interessi quando vengano approfonditi e portati all'essenziale si rivelano sempre più coincidenti con gli interessi della natura.
Non è facile dire quando abbia avuto inizio una rivoluzione ecologica. Essa è la risultante di un convergere di ricerche scientifiche, di avvenimenti minacciosi, di spinte razionali ed emozionali, ma certo non si deve confondere con le origini dell'ecologia intesa come branca delle scienze naturali».
Fatta questa premessa Giacomini sviluppa il suo pensiero e la sua analisi attraverso i paragrafi “La natura sfera della vita”; “Concezione sistemica della natura”; “La natura trasformata dall’uomo”: “Le prime rotture dell’ordine originario” e “La distruzione dell’ordine naturale”.
A concludere, il capitolo “L’uomo ordinatore della natura” che approfondisce il tema attraverso i paragrafi “Ordine e regolazione dei sistemi naturali” e “Responsabilità umana.
Ma che, soprattutto introduce il concetto di Antropocene.
É relativamente recente la richiesta dell’Anthropocene Working Group affinché sia riconosciuto come era geologica dopo l’Olocene, durata 12.000 anni e a loro giudizio terminata visto che da tempo il pianeta terra e i suoi sistemi sono influenzati più dagli umani che da tutti gli altri fattori naturali.
Ma leggiamo ancora Valerio Giacomini: «Una concezione ecologica della natura sarebbe sterile sintesi se si limitasse a rivelare i processi di degradazione, dando occasione a più o meno severe, talora violenti e perfino nichilisti atteggiamenti di protesta. Se è veramente una concezione valida deve essere non solo speculativa, ma costruttiva. Anche l'atteggiamento che oggi prevale nei confronti della natura da parte di coloro che hanno preso coscienza dei nuovi problemi è forzatamente inadeguato: per arginare una preponderante pressione di opere di distruzione, si manifesta soprattutto come attività difensiva, arginatrice. É assolutamente necessario passare a una “conservazione” attiva e costruttiva. Non è sufficiente difendere i resti che sono salvati dalla distruzione e dalla degradazione, è necessario avviare un'opera di restaurazione di equilibri naturali.
Ma il primo passo in tale direzione si deve compiere attuando una conoscenza concettuale e sperimentale di questi equilibri, tenendo conto della presenza ormai preponderante dell'uomo, cioè dell'esistenza di una antroposfera».

Il suo appello per una responsabilizzazione è accorato,
«Siamo giunti ormai al punto che la natura, anche se non aumentasse ulteriormente l’azione vulneratrice, non è più in grado in molti ecosistemi, che sono parti vitali della biosfera, di risollevarsi da sola. Spetta ora all'uomo di aiutare la natura. L'uomo che ha usato e sta usando forze schiaccianti a danno della natura è chiamato ora a usare le stesse forze per recare aiuto ad una natura che langue e che muore.
Né questo e chiamato a fare per ragioni sentimentali o per motivi culturali astratti, ma per se stesso. Glielo insegna oggi il più elementare discorso ecologico. O l'uomo salva con se stesso la natura, o perisce insieme con la natura e con quella parte della natura che più essenziale al suo sopravvivere. Molti segni indicano un risvegliarsi di responsabilità umana, ma troppe sono ancora le dimostrazioni di sordità, incoscienza, di egoismo, di ingiustizia. Soprattutto di ingiustizia: l'avidità insaziabile di alcune popolazioni nei confronti dell'inedia di altre popolazioni, costituisce un atto di ingiustizia che riguarda un equilibrio umano che prima condizione perché sia possibile ricostruire concordemente insieme un equilibrio della biosfera.
Non abbiamo sottolineato senza intenzione un progressivo accentuarsi di interessi ad un tempo sociali e naturali nell’evoluzione storica del concetto di natura. Questo affermarsi di un’attenzione progressivamente più viva nel rapporto fra uomo sociale natura, se viene spogliato di interessi ideologici ma viene restituita alla più autentica sfera di interessi universali costituisce la mentalità più aderente ai problemi urgenti che si pongono oggi in campo ecologico umano. A tutti livelli, a tutte le dimensioni il problema va posto nel senso di una ristabilita indivisibile giustizia fra gli uomini, assolutamente prioritaria, perché si possa attuare un'opera comune di salvazione di tutti valori dell'uomo insieme a tutti valori della natura. Impresa gigantesca se vien guardata nelle sue più grandi dimensioni, impresa possibile se ogni uomo sentirà questa responsabilità umana nella sfera della sua attività quotidiana».
    
Parole forti che esprimono la sua capacità di visione del futuro che vedeva associato al grido di allarme sulle condizioni ecologiche del Pianeta il desiderio di giustizia tra Nord e Sud del mondo,
Una dimensione politica che ci sembrò tanto ineludibile quanto necessaria e che ci fece seguire con passione la Conferenza di Stoccolma piuttosto che quella successiva di Budapest leggendone resoconti e approfondimenti su Natura Società.

Questo il suo commento ai lavori della Prima Conferenza Intergovernativa sull’ambiente: «È certo comunque che a Stoccolma i grandi problemi che attanagliano il mondo con una morsa dilaniante sono emersi. Sono emersi anche per merito delle Controconferenze o Conferenze Alternative che si sono fatte sentire vivacemente dalla stessa Conferenza Intergovernativa dell’Onu. Il primo e più grave problema è la divisione del mondo in Paesi ricchi e Paesi poveri, da cui deriva la necessaria insopprimibile interdipendenza dei problemi dello sviluppo e dei problemi dell'ambiente in un quadro radicalmente rinnovato di giustizia sociale ed ecologica» (Natura  Società, a. III, n. 3, mag-giu.1972).
Il Presidente Giacomini si impegnò da quegli anni, in prima persona, e non solo nella “sua” Pro Natura, per la causa ambientalista. E per l’annunciata necessità non solo di conservare, ma anche di recuperare la natura compromessa e degradata, rappresentò un riferimento internazionale per il Programma MAB (Man and Biosphere dell’Unesco).
La sua interpretazione dei temi legati alle aree naturali protette isolò lui personalmente, ma anche la Pro Natura per il fatto che rivendicava con forza e in anticipo sui tempi (il concetto di “territorializzazione delle politiche ambientali” fu sancito nella Conferenza Internazionale sull’ambiente di Rio de Janeiro del 1992) l’urgenza di coinvolgere nella loro gestione le comunità, come testimonierà il volume “Uomini e parchi” che grazie a Valerio Romani fu pubblicato postumo.
Concetti che già aveva anticipato sulle pagine di questo foglio in maniera ben chiara – e per l’epoca lucidamente provocatoria - nell’articolo “Affidare alle popolazioni i Parchi Nazionali” (Natura Società, a. III, n. 2, mar-apr. 1972)
    
È utile ricordare, in conclusione, queste parole della Relazione al 30.mo delle Federazione, (in Natura e Montagna, a.XXVII, n.3, 1980).
«Veniva contraddistinguendosi Federnatura, piuttosto vivacemente, nei confronti di altre associazioni italiane, per un crescente superamento del protezionismo tradizionale, che aveva avuto tanti meriti, ma che non ci sembrava più come tale adeguato alle esigenze imposte dalla rivoluzione ecologica nel suo più sostanziale significato. Questo superamento si delineava nel senso di una esplicita, e non solo sottintesa, affermazione dei legittimi interessi dell'uomo e in particolare delle società umane. Culminava la manifestazione di questo principio nella forma e nel contenuto del periodico “Natura Società”, che tanti consensi ha ottenuti. (...)
La Carta di Forlì, uscita da un dibattito appassionato è un documento limpido che nella premessa afferma due principi fondamentali: il carattere naturalistico, quindi la costante ricerca di una prassi ecologica metodologicamente attendibile e il richiamo delle responsabilità che oggi investono in tal senso tutti i cultori di scienze e conoscenze della natura; e il carattere sociale, umano, della conservazione della natura che non ha fine in se stessa, ma deve servire agli autentici interessi dell'uomo, che viene però richiamato alla responsabilità di un controllo e una regolazione permanente dei processi di trasformazione, di utilizzazione ed anche di conservazione.
Ho avuto occasione di richiamare più volte gli amici di Federnatura alla necessità di agire più solidamente, di fare quadrato intorno a questi concetti non tanto perché ci contraddistinguono, ma perché corrispondono ad una nuova rivoluzione ecologica o, meglio, ad una verifica dei contenuti essenziali dell'ecologia, che è in atto irresistibilmente nel mondo, ma che solo noi in Italia avevamo anticipata, arrischiando, tuttavia, come stiamo ancora arrischiando, di essere sommersi dalle spinte, che anche all'interno di Federnatura si fanno sentire nel senso di troppo esclusivi orientamenti protezionistici».
È altrettanto doveroso ricordare che ci furono momenti di divergenza di opinione, come sul tema dell’opposizione al Piano Nucleare da 20 mila MW presentato dall’allora ministro Carlo Donat Cattin (1975) che trovò un Valerio Giacomini molto tiepido, anche se non si oppose a una presa di posizione dell’associazione che nella “Dichiarazione di Orvieto” - redatta in occasione del convegno  dal 30 aprile 1978 “Federnatura per un controllo democratico delle scelte energetiche”-  ribadiva una ferma opposizione alla scelta nucleare, chiedeva una moratoria e sosteneva il ricorso prioritario alle fonti di energia rinnovabili.
Allo stesso modo non condivise l’opportunità di dare un obiettivo politico elettorale alle tematiche ambientaliste, con la formazione delle Liste Verdi nelle quali tuttavia le associazioni non si esposero se non con esponenti che lo fecero a titolo personale.
Posizione tuttavia personale, che non ebbe mai la pretesa di chiamare le associazioni a un loro coinvolgimento diretto. Semmai si trattò di una forte sollecitazione a militanti e iscritti e di scelte personali di chi accettò di candidarsi a quella avventura
Valerio Giacomini, fortemente critico mise sull’avviso circa i possibili rischi e manifestò la sua opinione in uno scritto dal titolo “La tentazione politica dell’ecologismo”. (Nuova Scienza, a. XIX, n. 6, giu.1978)
Ho cercato, sia pure in una inevitabile frammentarietà, di dare conto, nel quarantesimo della sua scomparsa di quanto Valerio Giacomini ebbe una visione lucida e conseguente del suo impegno di studioso e accademico, fino al punto di mettersi in gioco e di impegnarsi direttamente, senza timore alcuno, in quella che, a un certo punto, si configurò come una vera e propria radicata passione.
Un generoso mettersi a disposizione e mettere a disposizione le proprie capacità, le proprie conoscenze e la maturata consapevolezza di un futuro che non è dato senza una forte presa di coscienza delle necessità, per l’umanità, di rientrare nella fragile armonia della natura.
Si spese senza riserve a favore di quella “rivoluzione ecologica” che riteneva obiettivo da perseguire.
Con scienza e coerenza, indicando a tutti noi la linea da seguire: «Qual è la via giusta? Coincide con la via più fortunata, più ricca di adesioni, più ricca di mezzi?
La via più fortunata é purtroppo quella dei facili slogans, delle posizioni rumorose, degli appoggi politici (personali o ufficiali), della quantità e del numero, e della forza del denaro.
Soprattutto la via più facile è quella del “no”, dei pronunciamenti negativi, meramente protezionistici e difensivi; dell'invocazione di leggi “forti”; di una stratificazione culturale, per cui si fanno discendere dall'alto pronunciamenti assoluti, indiscriminati, in nome dei diritti di una natura astratta che ha valore soprattutto per se stessa.
Difficile è la via costruttiva e ricostruttiva della partecipazione, del controllo scientifico luogo per luogo, caso per caso, del riconoscimento ben vagliato delle legittime esigenze delle popolazioni perché tutto questo richiede assai più impegno e preparazione che nobilitanti e perentorie posizioni codificate, accusatrici, impulsivamente radicalizzanti, più emozionali che razionali.
A mio parere la scelta fatta da Federnatura doveva essere questa scelta difficile, quindi quella che corre inevitabilmente i rischi del misconoscimento, dell'ostilità, dell'isolamento. Soprattutto allo stato attuale delle cose e nel momento confusionale che attraversa il nostro paese e il Mondo questa posizione è sgradevole, è svantaggiosa, è faticosa, perché richiede un impegno umano e scientifico che pochi si sentono di affrontare. I problemi dell'ambiente cessano di essere un hobby, un'attività di vacanze, un'ostentazione di atteggiamenti, ma diventano profonda presa di coscienza, coinvolgimento di tutto il nostro agire quotidiano.
Io credo fermamente che questa è la via realistica e costruttiva del presente e più dell'immediato avvenire. Molti segni lo annunciano. (...)
Più volte ho ricordato che la mia stessa persona, per le convenzioni da anni apertamente espresse, è un motivo di contraddizione e pesa su Federnatura come un condizionamento limitante, nei confronti di certe ampie e facili convergenze che senza di me sarebbero così facilmente realizzabili. Ritengo che siamo giunti ad un momento critico che richiede chiarezza. Chiarezza non vuole dire rigidità  - io sono accusato anzi di “permissività”, di “flessibilità” – ma realismo, rifiuto del dilettantismo, informazione puntuale, partecipazione costruttiva.
Tutto questo sia detto esprimendo ogni apprezzamento per generose battaglie condotte da altre organizzazioni e da noi stessi contro le illegalità, gli abusi, gli sfruttamenti dissennati e profittatori, quando queste battaglie sono state condotte anzitutto per autentici e ben verificati interessi umani». (1977, lettera al Consiglio Direttivo, Natura e Società, genn. 1978)

Covid, visoni e zoonosi varie

Riccardo Graziano

Qualche settimana fa, in Danimarca, sono stati soppressi circa 17 milioni di visoni di allevamento, perché nella loro popolazione era stata individuata una variante mutata del Covid-19 trasmissibile all’uomo, tanto che erano già state contagiate 12 persone. Poco tempo dopo, si è reso necessario prendere una decisione analoga anche per gli allevamenti italiani, dove il numero di animali era per fortuna notevolmente inferiore. Questo significa che gli allevamenti intensivi di visoni, dove questi ultimi erano a stretto contatto con gli umani, avevano consentito al virus di passare dalle persone agli animali, di adattarsi a questo nuovo ambiente mutando le proprie caratteristiche e di tornare quindi a infettare l’uomo con un ceppo diverso da quello originario.
Un’ulteriore riprova di come gli allevamenti intensivi funzionino come veri e propri serbatoi di virus sconosciuti e potenzialmente pericolosi, che potrebbero in ogni momento effettuare il temuto spillover, il salto di specie verso l’uomo, con il conseguente rischio pandemico. Eppure, anche in questo terribile 2020, funestato dall’epidemia globale Covid-19 provocata proprio da un patogeno di origine animale, l’Unione Europea ha promulgato una PAC, Politica Agricola Comune, che destina la maggior parte dei finanziamenti ancora ai grandi allevamenti intensivi.
Una decisione improvvida e un grave errore strategico, con cui l’Ue continua a trascurare le aziende a conduzione familiare o di piccole dimensioni, per loro natura maggiormente sostenibili, ma stritolate in un sistema che le costringe a operare con gravi difficoltà o addirittura a chiudere, mentre si persevera a destinare ingenti risorse a un sistema agricolo industrializzato non più sostenibile dal punto di vista ambientale e potenziale fonte di ulteriori rischi sanitari.

Quello dei visoni non è infatti un caso isolato. Durante questa epidemia si sono registrati focolai di contagio anche presso i mattatoi, altri ambienti dove si riscontra promiscuità fra grandi quantità di animali ed esseri umani. E certamente molti ricorderanno in anni recenti alcune epidemie influenzali dai nomi estremamente indicativi, quali “aviaria” o “suina”, che lasciano capire molto bene quale fosse l’origine del virus. Più in generale, gli esperti rilevano che oltre il 70% delle malattie infettive emergenti sono zoonosi, ovvero patologie di origine animale.
Ciò è dovuto, oltre alle criticità già elencate per quanto riguarda gli allevamenti intensivi, a un altro fattore rilevante, il cambio di destinazione d’uso dei suoli, in particolare per quanto concerne la deforestazione. Tagliare zone sempre più ampie di foresta per fare spazio a coltivazioni, allevamenti o insediamenti urbani ci mette infatti nelle condizioni di entrare in contatto con patogeni in precedenza sconosciuti, perché ospitati da una fauna selvatica che in precedenza raramente si avvicinava all’uomo o ai suoi animali domestici, che spesso fungono da specie “di transito”. È noto inoltre che gran parte delle coltivazioni insediate dove prima c’era la foresta non sono destinate direttamente all’alimentazione umana, bensì alla produzione di mangimi esportati poi verso i mercati europei, dove vengono impiegati proprio per foraggiare una quantità di animali che non sarebbe possibile nutrire con le sole risorse locali.
Per questo sempre più soggetti chiedono a gran voce di utilizzare i fondi della PAC e, in aggiunta, quelli del Next Generation UE, per riconvertire un sistema foriero di rischi epidemiologici e criticità ambientali, sostenendo le produzioni biologiche e su piccola scala e abbandonando progressivamente l’approccio industriale che ha pervaso l’agricoltura. La terra, le colture, gli animali da allevamento non sono macchine per la produzione di cibo, ma organismi complessi che richiedono tempi e modi in sintonia con clima, stagioni e cicli naturali in genere.

Le “fabbriche di carne” nelle quali abbiamo trasformato gli allevamenti ci espongono a maggiori rischi di nuove epidemie, o a livelli più elevati di incidenza. Vale la pena far notare che la regione più colpita da Covid-19, la Lombardia, è anche quella dove sono presenti la maggior parte degli allevamenti intensivi italiani: solo per quanto riguarda i suini, parliamo di quattro milioni di capi, la metà dell’intera produzione italiana. Questi “assembramenti” di bestiame non sono soltanto un comodo serbatoio per i virus in attesa di trasferirsi alla specie umana. Sono anche fra le maggiori fonti di inquinanti, a partire dall’ammoniaca fino al PM, il particolato sottile capace di infiltrarsi fino in profondità nel nostro apparato respiratorio, provocando affezioni di varia natura e favorendo l’attecchimento di patologie come Covid-19.

Proprio a fronte del rischio sanitario e delle sue ricadute socio-economiche, in aggiunta alle problematiche di ordine ambientale, non sembra davvero opportuno che l’UE continui a destinare la parte più consistente del proprio bilancio comunitario alla sovvenzione di allevamenti intensivi. Anche in questo settore, urge un cambio di paradigma, con una veloce ed estesa riconversione di agricoltura e allevamento verso modelli più sostenibili ed ecocompatibili. In questo caso, non c’è nemmeno l’ostacolo troppo spesso sbandierato della mancanza di risorse: qui i soldi ci sono in abbondanza, basterebbe solo decidersi a utilizzarli bene.

Dalle mascherine monouso all’economia circolare

Riccardo Graziano

L’emergenza sanitaria conseguente all’epidemia Covid-19 ha sconvolto le nostre vite sotto ogni aspetto. Nulla è rimasto come prima a causa del pericolo della trasmissione del contagio. E quasi tutto è cambiato in peggio. Per questo in molti auspicano di tornare al più presto a “come prima”. Ma è necessario che ci ficchiamo in testa una volta per tutte e alla svelta che tornare a “come prima” non sarà possibile e, a ben vedere, nemmeno auspicabile. Perché già prima le cose non andavano granché bene e se cerchiamo di rifare le cose “come prima” non potremo che peggiorare la situazione. Al contrario, sarebbe bene sfruttare questo momento di strappo per ricucire le nostre società su basi diverse, cosa che in parte e per alcuni aspetti abbiamo già iniziato a fare. Ora occorre proseguire su questa strada, abbandonando modelli precedenti che sono ormai obsoleti e che comunque si erano già dimostrati fallimentari.

Per esemplificare il concetto, prendiamo un esempio che è drammaticamente sotto gli occhi di tutti: quello delle “mascherine” monouso, strumento divenuto indispensabile per proteggere noi stessi e gli altri dalla diffusione del virus, un oggetto entrato prepotentemente nella quotidianità di ognuno di noi.
All’inizio dell’epidemia, le mascherine erano diventate praticamente introvabili, le poche disponibili venivano vendute a prezzi esorbitanti. Questo soprattutto perché in Italia non venivano prodotte, per cui per il loro approvvigionamento dipendevamo totalmente dalle importazioni dall’estero, in particolare dai paesi asiatici, Cina in testa. Come molte produzioni considerate “a basso valore aggiunto”, anche quella delle mascherine era stata delocalizzata all’estero, verso quelle economie dove il costo del lavoro è più basso, il che consente di contenere il prezzo finale del prodotto e renderlo “competitivo”, nonostante il ricarico dei costi di trasporto per migliaia di chilometri. È il sistema della globalizzazione neoliberista, basato appunto sulla delocalizzazione delle produzioni verso i paesi con basso costo della manodopera, scarse tutele sindacali, magari anche pochi diritti civili e totale indifferenza verso le norme igienico sanitarie e la tutela ambientale. Al tempo stesso, il modello globalista prevede un caotico turbinio di merci che viaggiano per migliaia di chilometri da e per ogni angolo del mondo, per la quasi totalità trasportate con l’utilizzo di combustibili fossili, quindi con l’emissione di sostanze nocive e gas serra che a loro volta hanno seri impatti sull’ecosistema e sul riscaldamento globale.

Ma di tutto questo al consumatore medio finale non interessa nulla, l’importante è che, al momento dell’acquisto, il prodotto deve “costare poco”. Soltanto che, troppo spesso, confondiamo il “prezzo”  basso con il “costo” reale. Un costo che paghiamo prima di tutto in termini ambientali, come si è detto, ma in genere di questo importa poco al consumatore, attento soprattutto al portafoglio piuttosto che all’inquinamento. Ma ci sono anche altri costi che ricadono sulla pelle di tutti, quelli sociali ed economici. La delocalizzazione selvaggia degli ultimi decenni ha contribuito in misura determinante a creare disoccupazione, desertificazione industriale, perdita di redditività diffusa, aumento della spesa pubblica per misure di sostegno e altro ancora. Quello che risparmiamo all’acquisto lo paghiamo con un peggioramento generalizzato delle nostre condizioni di vita.
Non solo. La dipendenza dai prodotti di importazione crea anche una debolezza strategica, che però in genere non viene percepita. Ma l’improvvisa necessità di quantità industriali di mascherine ha reso drammaticamente evidente a tutti questo vulnus, la fragilità intrinseca di un’economia che dipende in larga parte o totalmente dalle importazioni dall’estero. I paesi produttori di mascherine se le tenevano per soddisfare il loro stesso fabbisogno, mentre noi restavamo senza, esposti al virus.
E la paura del contagio, per lunghe settimane, ha messo a rischio l’intero sistema dei commerci globali, perché si temeva che il virus potesse viaggiare e diffondersi insieme alle merci, prima di capire che in realtà lo faceva esclusivamente o quasi tramite le persone. Le quali tuttavia a loro volta viaggiano tantissimo, sempre in ossequio al modello globalista, che impone trasferte di lavoro transcontinentali. È a causa di questo interscambio continuo se un virus sbucato in una remota provincia cinese, nel giro di poche settimane si è diffuso su tutto il pianeta, prima che ci decidessimo a frenare gli spostamenti.

Tuttavia, sembra che in parte abbiamo capito la lezione. Nel giro di poco tempo, molte aziende nostrane hanno riconvertito le loro filiere per produrre mascherine e, quando si è scoperto che in Gran Bretagna circolava una variante più insidiosa del virus, i collegamenti sono stati immediatamente sospesi a livello cautelativo, nonostante questo abbia creato un enorme caos alle frontiere, con migliaia di camion bloccati e autisti giustamente esasperati. Già, perché la globalizzazione la fa ancora da padrona e le merci continuano a circolare furiosamente, ma forse questa crisi può servire a cambiare le cose.
Per esempio, quanti sarebbero disposti, in presenza di un calo dell’epidemia, a delocalizzare nuovamente all’estero la produzione di mascherine? Per avere un “costo”, o meglio un prezzo più basso di pochi centesimi, saremmo di nuovo disponibili ad accettare il rischio di rimanere senza dispositivi di protezione? Forse no, ora che sappiamo quali sono i costi reali, in termini di aumento delle spese sanitarie e, soprattutto, di perdite di vite umane.

Ma senza arrivare al caso limite di un’epidemia, saremmo disposti a rinunciare alla nostra sovranità alimentare, costruendo un modello che ci renda dipendenti dall’estero per l’approvvigionamento del nostro cibo? No? Bhè, però lo stiamo facendo. A causa della cementificazione costante del territorio, abbiamo perso centinaia di chilometri quadrati di terre fertili. Abbiamo seppellito i nostri campi coltivati sotto il cemento di centri commerciali dove si vendono prodotti coltivati da altri, provenienti da migliaia di chilometri di distanza. E così facendo, siamo passati in pochi anni da una produzione nazionale in grado di soddisfare oltre il 90% del fabbisogno alimentare del Paese a poco più dell’80%. Una tendenza che continua, anche perché, in testa alle “ricette” per far ripartire il Paese, c’è l’immancabile e sempreverde parolina magica, “infrastrutture”. La nostra classe dirigente e buona parte dell’opinione pubblica continuano a pensare che, per far ripartire l’economia, l’unico modo sia buttare altro cemento, altro asfalto, per implementare gli scambi. Ancora oggi, quando ormai dovremmo aver capito i danni, i rischi e le fragilità di questo sistema basato sulla globalizzazione, qualcuno continua a predicare il verbo del commercio globale.

Eppure per molti aspetti abbiamo riscoperto i vantaggi delle filiere locali. Non solo l’utilità di produrre le mascherine a casa nostra, senza dipendere da paesi stranieri per proteggerci dal virus, ma più in generale la rete del commercio di prossimità, delle produzione a chilometro zero, di una comunità coesa e legata al territorio. Non perdiamo questa nuova consapevolezza, questa preziosa opportunità per consegnarci di nuovo nelle mani del modello neoliberista della globalizzazione, che così tanti danni ha creato. Non cediamo alle brame di “cementari” e “sviluppisti” che vorrebbero asfaltare ovunque, o che vaneggiano di linee ad alta velocità per trasportare merci provenienti da chissà dove, piuttosto ricominciamo a produrre qui, che è poi il vero modo per aumentare l’occupazione, specialmente se lo si fa seguendo i principi dell’economia circolare.
Anche in questo caso, è utile rifarsi all’esempio delle mascherine. La necessità di utilizzarle in maniera generalizzata e in modalità monouso, oltre alle esigenze produttive mette in luce le problematiche relative allo smaltimento. Parliamo di 90 milioni di pezzi al mese che devono essere cestinati. L’ Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) valuta che ciò equivalga a una quantità di rifiuti pari a oltre 700 tonnellate al giorno su scala nazionale. Se non vogliamo esse sommersi da una montagna di mascherine usate, dovremo imparare non solo a produrle, ma anche a riciclarle, secondo i principi dell’economia circolare, che portano il rifiuto a diventare nuovamente materia prima. Un approccio in grado di ridurre la quantità di rifiuti e di creare nuove opportunità di lavoro, ma che necessita della creazione di una filiera che vada dalla progettazione di un prodotto interamente riciclabile alla collaborazione con chi si occupa della raccolta rifiuti, passando per l’impegno responsabile dei cittadini che dovranno differenziare e conferire correttamente il materiale da riciclare.

L’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico) ha già messo in campo un progetto in tal senso, che prevede l’utilizzo di mascherine sanabili e riutilizzabili sulle quali inserire filtri monouso di un solo materiale, i quali una volta utilizzati andranno poi raccolti in punti comodi (farmacie, supermercati) per essere riciclati e rimessi nel circolo produttivo. Esiste già un’esperienza pilota in tal senso a Bergamo e Brescia, ma è chiaro che un modello di questo tipo va esteso a tutto il territorio nazionale e replicato per ogni tipo di produzione, dagli scarti organici della filiera alimentare ai residui delle lavorazioni industriali.
È in questo tipo di approccio, basato su produzioni locali a filiera circolare, che deve basarsi una ripresa sostenibile e duratura, piuttosto che inseguire malsane idee di tornare a una economia “come prima”, con tutti i danni che comportava. Solo se sapremo cambiare paradigma potremo uscire da questo cataclisma meglio di come ne siamo entrati e molto meglio di come stiamo ora.

Pets? No Pets!

Giovanni Costa
Presidente di Pro Natura Catania e Ragusa

Una notizia apparsa su vari quotidiani italiani poco prima dello scorso Natale mi ha fornito l’occasione per trattare un argomento che mi sta a cuore da qualche tempo, e che ho avuto modo di discutere con il mio grande (e indimenticato) amico Danilo Mainardi. La notizia riguardava il rinvenimento di un pitone reale in una strada del vecchio centro storico di Catania, incastrato tra le grate di una caditoia per le acque piovane. Il Pyton regius è una specie di origine africana, appartenente a una famiglia di serpenti costrittori e non velenosi, considerata raramente pericolosa per l’uomo per le ridotte dimensioni, che non superano di solito i 150 cm di lunghezza. Si tratta di un animale tutelato dalla Convenzione di Washington del 1973, che ne prevede la possibilità di commercio e detenzione solo alla presenza di apposita certificazione e documentazione. L’esemplare trovato a Catania, lungo circa un metro e venti, probabilmente abbandonato da chi lo deteneva, era riuscito a entrare tra i cunicoli e i canali di scolo della fognatura per alimentarsi, incontrando poi qualche difficoltà a venirne fuori. Esso è stato liberato e consegnato ai rappresentanti del Raggruppamento Carabinieri CITES di Catania dalla nostra brava, sempre pronta e disponibile, Grazia Muscianisi, colonna, assieme al vulcanico ed intramontabile Luigi Lino, di Pro Natura Catania e Ragusa.

Per quanto esistano restrizioni ed impedimenti di natura legale, il commercio di specie animali esotiche (o anche di loro parti, vedi zanne di elefante, corna di rinoceronte, ossa di tigri di Sumatra, e così via) è uno straordinario business in crescita in tanti paesi del mondo, inferiore solo al traffico di droga e di armi. Si tratta di alcune centinaia di miliardi dollari l’anno (solo in Italia è stato recentemente calcolato un giro d’affari di circa 2 miliardi di euro l’anno). Sono acquistati e tenuti in cattività tanti pesci, anfibi, rettili (soprattutto tartarughe, iguane e serpenti), uccelli (soprattutto pappagalli), mammiferi (fra cui primati non umani, orsi e financo grandi felini), e, perché no, scorpioni e ragni velenosi! La cattura riguarda molto spesso esemplari di giovanissima età, strappati agli adulti che tentano di difenderli e non di rado vengono uccisi (e si tenga conto che in tanti casi si tratta di specie a rischio di estinzione). Gli animali, catturati frequentemente da abitanti locali poveri e ignoranti, vengono tenuti in gabbie non sempre di dimensioni ottimali, talvolta anche in condizioni di sovraffollamento, senza cibo o acqua per giorni in attesa di essere consegnati ai commercianti acquirenti. Questi, a loro volta, spediranno quelle povere bestie stivandole a bordo di navi o aerei. Il risultato è che difficilmente giungeranno vive a destinazione più del 50% di quelle catturate. E quelle sopravvissute dovranno poi affrontare condizioni di vita difficili sia per motivi climatici sia per un’alimentazione spesso non idonea. A parte tutto, non bisogna dimenticare che l’asportazione di animali selvatici costituisce una seria minaccia per la biodiversità, soprattutto per quelle specie che sono ormai al limite della sopravvivenza. Basti considerare il caso delle tigri di Sumatra, di cui non meno di 500 esemplari sono tenuti come “pets” negli Stati Uniti d’America, un numero che supera probabilmente quello degli individui ancora esistenti in natura!

Quello che occorre puntualizzare è che non è possibile trattare da animali domestici, che gli inglesi denominano “pets”, animali che domestici non sono! Si fa sovente una grande confusione tra animali domestici e animali addomesticati. È chiaro che animali domestici sono propriamente quelli che teniamo a casa, come i classici cani o gatti. È chiaro pure che questi animali sono stati addomesticati. Ma sono stati addomesticati anche cavalli, asini, maiali, ecc., che di solito non ospitiamo nella nostra casa! Orbene sono numerosi i casi di persone di tutto il mondo che mantengono nella loro abitazione animali quali pitoni, lemuri, orsi, tigri, leopardi, leoni e tanti altri ancora. Questi animali riescono ad assuefarsi alla presenza umana e a offrire persino prestazioni del tutto innaturali in cambio di cibo o per evitare terribili punizioni, come gli elefanti che devono sostenere il loro peso poggiando solo una zampa o le tigri che devono saltare nel cerchio di fuoco al circo. Essi rimangono pur sempre animali selvatici e non di rado si ribellano producendo rischi e danni, che poi si concludono con la loro “sacrosanta (!)” e inevitabile uccisione.
L’addomesticamento è un processo che ha riguardato un ristretto numero di specie animali e una buona quantità di specie vegetali. Esso è durato migliaia di anni, coinvolgendo un’innumerevole serie di generazioni, con una selezione artificiale che ha progressivamente prodotto notevoli differenze genetiche rispetto al genoma delle popolazioni selvatiche. Il processo è iniziato forse intorno a quindicimila anni fa (se non prima e comunque nel tardo Pleistocene), si ritiene con l’accoglimento e l’allevamento di cuccioli di lupo negli accampamenti umani: quindi più propriamente si dovrebbe parlare dell’addomesticamento del lupo, più che del cane, che è il risultato del processo e non il punto di partenza! I lupi presenti in quel periodo (probabilmente una specie estinta, diversa da quella attuale) si avvicinavano agli insediamenti temporanei degli uomini preistorici alla ricerca di avanzi da mangiare; e il ritrovamento occasionale di qualche cucciolo più intraprendente degli altri potrebbe avere determinato l’inizio di una convivenza risultata vantaggiosa sia per la caccia sia per la difesa. A partire da una fase iniziale dell’Olocene (intorno a dodicimila anni fa), in quello straordinario periodo denominato “Rivoluzione neolitica”, seguì tutta un’altra serie di processi di addomesticamento che hanno riguardato varie specie vegetali, e per quanto riguarda gli animali, in una probabile successione, capre, pecore, buoi, maiali, cavalli, asini, gatti, dromedari, galli, e così via.

Tornando ora all’argomento iniziale, ci si potrebbe domandare per quale motivo una persona decide di ospitare a casa sua un leone, uno scimpanzé, un pitone, e così via. Molti dichiarano di farlo perché amano gli animali. Ma questa motivazione appare assai poco credibile, ove si consideri che anche chi non ha adeguate conoscenze etologiche può onestamente pensare che i bisogni e i comportamenti naturali di un animale selvatico possano essere soddisfatti in una casa, per attrezzata ed accogliente che possa apparire. Tenere un animale, che vivrebbe libero in condizioni naturali, rinchiuso in un ambiente circoscritto necessariamente determina condizioni di sofferenza fisica e mentale. Nell’ambiente naturale ci sono ampi spazi; gli animali di specie territoriali possono scegliere le zone più opportune da acquisire e difendere dagli intrusi; possono realizzare le interazioni sociali tipiche delle specie di appartenenza; predatori e prede possono mettere in atto le loro rispettive strategie comportamentali; raggiunta la maturità sessuale possono essere attuate le fasi riproduttive che la loro specie prevede, dal corteggiamento alle cure parentali; e così via. Tutto ciò non può essere garantito ad un animale selvatico, qualunque sia la specie e chiunque sia il soggetto ospitante.
La conseguenza di ciò è frequentemente un articolato quadro di patologia comportamentale, che nei vari casi può andare da uno stato di noia alla frustrazione, dalle forme di automutilazione dei pappagalli a malattie spesso causate da un’inadeguata alimentazione o insufficienti condizioni igieniche per specie esotiche di qualsiasi gruppo tassonomico, fino alla morte. Non di rado alcuni animali esotici tenuti a casa possono “ribellarsi” e diventare pericolosi per gli stessi proprietari, per la loro famiglia, per gli occasionali visitatori, e persino per gli eventuali effettivi animali domestici: ogni tanto vengono, infatti, pubblicizzate notizie di bambini o di adulti sbranati da tigri, morsi da scimmie o asfissiati da serpenti costrittori. Altri rischi per chi sta in continuo contatto con animali esotici sono connessi con la possibilità di contrarre malattie zoonotiche di tipo virale, come l’Herpes B (trasmissibile all’uomo dai macachi) o il vaiolo delle scimmie (trasmissibile anche da roditori o Primati non umani) o di tipo batterico, come la salmonellosi (trasmissibile da vari Rettili, tartarughe incluse), eccetera.

Non sono pochi i casi di abbandono (illegale) di esemplari, anche acquistati a caro prezzo. E ciò per vari motivi, come, ad esempio, perché il loro mantenimento è risultato troppo costoso in termini di spese per il vitto o delle condizioni climatiche idonee, o anche solo per mancanza del tempo da dedicare a questi ospiti per garantirne uno stato di salute ottimale. Gli animali abbandonati spesso costituiscono una potenziale minaccia per l’incolumità delle persone che ne possono venire in contatto. Questo non è certo il caso del pitone reale, considerato un serpente non pericoloso anche per l’indole poco aggressiva nei riguardi di chi lo maneggia; però quest’animale può trasmettere virus, batteri, nematodi, ecc., all’uomo. E, sempre restando nell’ambito dei pitoni, c’è anche il caso di chi decide di tenere in casa esemplari di Malayopython reticulatus (pitone reticolato), una specie di origine asiatica che può superare la lunghezza di 6 metri e che è riconosciuto capace di ingoiare per intero una persona ! Numerose sono poi le cronache che riportano incidenti, spesso mortali, di animali esotici abbandonati o evasi dalle loro “gabbie dorate”. Per non parlare di un altro rischio per la biodiversità, che si somma a quello causato dal prelievo della fauna selvatica. E cioè quello, sia pure limitato almeno finora a un contenuto numero di casi, di animali esotici che vengono a trovarsi liberi e riescono a sopravvivere in un ambiente diverso da quello loro naturale, incontrando condizioni ambientali ottimali: essi competeranno con le specie native per le risorse locali e, se carnivori, potranno anche predarle, alterando gli equilibri naturali e divenendo nuclei di specie invasive. Questo è già successo, ad esempio, in vari casi in Florida, dove il clima e le caratteristiche topografiche del Parco Nazionale delle Everglades hanno consentito ad alcune specie di acclimatarsi e stabilizzarsi. Fra queste, sempre a proposito di pitoni, è noto il caso della specie birmana Pithon bivittatus, che può raggiungere 5 metri di lunghezza, alcuni esemplari della quale sono riusciti ad evadere da uno zoo a seguito di un uragano. Ebbene, sono stati recentemente censiti nelle Everglades oltre mille individui di questa specie invasiva, mentre sono scomparsi volpi e conigli e fortemente diminuiti procioni, opossum, coyote, e varie altre specie locali.

In conclusione, penso che chi ami veramente gli animali, se vuole incrementare la propria famiglia, e avere “un compagno di vita o di lavoro con cui comunicare”, per dirla alla Mainardi, un fedele amico che si lega morbosamente al suo padrone, potrebbe limitarsi a tenere in casa un cane. O, se si vuole come membro della famiglia un animale più autosufficiente, una “piccola tigre”, ma sempre ben pulita e abitudinaria, un giocherellone atletico ed elegante quanto intelligente, ci si potrebbe accontentare di tenere un gatto. Senza dunque scomodare gli animali selvatici che stanno bene nel loro ambiente. Dove starebbero ancora meglio senza le intrusioni e gli squilibri causati dalla specie umana.

Il podio della vergogna

Piero Belletti

L’emergenza sanitaria che stiano tuttora vivendo ha suscitato una enorme quantità di commenti e prese di posizione. Molti di essi sono stati di encomio nei confronti delle categorie che maggiormente si sono distinte e prodigate a favore del prossimo, ad esempio il personale sanitario, le forze dell’ordine, le Associazioni di volontariato e tante altre. Ovviamente ci troviamo d’accordo, anche se, come sempre, non è possibile una generalizzazione al 100% e qualche lazzarone si annida sempre anche negli ambiti più virtuosi. Ma tant’è: ci pare inevitabile.
Sulle categorie che, al contrario, si sono distinte in modo negativo si sono invece spese meno parole, se non per motivi di pura strumentalizzazione politica o per amor di protagonismo, magari favorito dall’anonimato garantito dal Web.
Cerchiamo quindi di bilanciare la situazione, ipotizzando un podio virtuale di chi ha sfruttato la pandemia unicamente per perseguire interessi personali o dare una chiara dimostrazione della propria inadeguatezza, se non addirittura grettezza e immoralità. Si tratta, ovviamente, di considerazioni personali, che potranno anche non essere condivise.
Iniziamo dal gradino più basso del podio, assegnato ai giornalisti. Ovviamente, di nuovo, non possiamo generalizzare, ma semplicemente indicare una tendenza comune a una parte cospicua dei rappresentanti della categoria. Hanno fatto un’enorme confusione, dimostrando di anteporre l’obiettivo del titolone ad effetto a quello di fornire una seria ed equilibrata informazione. O quanto meno di essere totalmente impreparati a scrivere di argomenti sui quali avevano scarse competenze (ma nemmeno hanno ritenuto di colmare la lacuna…). Per mesi abbiamo continuato a ragionare sul numero degli individui risultati positivi ai tamponi, considerando questo dato come l’unico in grado di fornirci precise indicazioni sull’andamento epidemiologico della malattia. Solo dopo sei mesi ci siamo finalmente accorti che la percentuale di positivi non ci dice nulla senza il dato del numero totale di tamponi effettuati. E anche in questo caso ci dice poco. Però nessuno se ne è accorto e si è continuato a fornire numeri del tutto insignificanti se non addirittura fuorvianti. E poi siamo stati invasi da dati spesso contraddittori, distribuiti con troppa leggerezza e che altro risultato non hanno avuto che quello di aumentare nell’opinione pubblica una confusione già di per sé pericolosamente alta. Ma quello che ha maggiormente infastidito è stata l’esasperata ricerca della spettacolarizzazione della notizia: quanto volte abbiamo visto giornalisti (o presunti tali) chiedere ad una persona in lacrime che aveva appena perso un caro “che cosa prova in questo momento?”. Domanda stupida, fuori luogo e soprattutto da non porre in quella particolare circostanza. E che dire poi dei cosiddetti “talk show”, in cui i conduttori fanno di tutto per scatenare risse violente tra i presenti e comunque monopolizzano la discussione, interrompendo di continuo gli ospiti, a volte impedendo di capire cosa volessero dire? Ma tant’è: se gli ascolti poi premiamo, allora buttiamo a mare ogni esitazione e comportiamoci pure in modo così azzardato.
Ma se ai giornalisti possiamo a volte riconoscere almeno la buona fede, lo stesso vale molto meno per chi ha conquistato il secondo gradino del podio: i politici. Qui, l’innocenza può essere tirata in ballo molto più forzatamente. Abbiamo assistito spesso a uno squallido teatrino, nel quale questo o quel politico contestava, a turno, le decisioni prese da qualcun altro al solo scopo di cavalcare il malessere della gente e quindi incrementare il numero di potenziali elettori. Quando il Governo (che pure non è esente da responsabilità sulla gestione della crisi) decideva di applicare norme restrittive, ecco che i vari politici (soprattutto quelli felpati o falso biondi) inneggiavano alla libertà, salvo poi chiedere chiusure più drastiche non appena il Governo approvava qualche concessione. Un teatrino veramente squallido. Così come la decisione di aprire una crisi per motivi indefinibili: magari il ragazzaccio fiorentino avrà anche avuto ragione, però alzi la mano chi è riuscito a capire davvero perché ha voluto far cadere il Governo. Ma il massimo è stato raggiunto dalla petrol-vicepresidente della Regione Lombardia, allorquando ha proposto di distribuire i pochi vaccini disponibili in base al PIL delle varie Regioni. E per fortuna non si è sbilanciata su come procedere poi con le priorità all’interno delle Regioni. Prima i redditi più alti e poi i poveracci? Non contenta di aver dato un contributo essenziale allo sfascio del sistema scolastico e universitario del nostro Paese, questo fulgido esempio di amministratore pubblico ha pensato bene di aggiungere una nuova perla al suo invidiabile curriculum.
Ma veniamo al posto più ambito: il gradino più alto del podio. Se lo sono aggiudicato, e con distacco, i cacciatori. Nonostante la drammatica situazione, il loro unico pensiero è stato quello di poter continuare ad andare in giro a sparare su tutto ciò che si muove. Hanno fatto di tutto per non subire nemmeno la più piccola limitazione alla loro perversa attività, qualunque fosse il “colore” vigente in quel periodo. In questo favoriti da un mondo, quello politico, che è ormai legato alle Associazioni venatorie come mai forse in passato. Hanno addirittura fatto passare la caccia come un’attività “necessaria” per mantenere gli equilibri naturali ed impedire non si capisce bene quali drammatiche conseguenze derivanti dal silenzio delle doppiette. Incredibile: è ormai ampiamente appurato come la caccia sia una delle principali cause degli squilibri ambientali (classico il caso del cinghiale), eppure costoro hanno la faccia tosta di trasformarsi da causa in unica categoria in grado di sistemare le cose… E qui, a differenza delle altre categorie, non abbiamo sentito una voce dissenziente dalle folli pretese della categoria. Quindi la generalizzazione è pienamente giustificata.