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Estinzioni e cambiamenti climatici: il caso delle Alpi

Le modificazioni ambientali procedono a un ritmo troppo elevato perché le specie possano applicare meccanismi evolutivi di adattamento

Piero Belletti

Come giustamente ricorda Ferdinando Boero nel suo articolo pubblicato su questo numero di “Natura e Società”, l’estinzione di una specie, di per sé, è un fatto naturale. Così come lo è la morte di un individuo, per quanto dolorosa possa risultare. Lo conferma il fatto che delle numerose specie comparse sul nostro Pianeta (si parla addirittura di alcuni miliardi), la stragrande maggioranza (98-99%) risulti oggi estinta. Quindi una percentuale più alta rispetto a quella circoscritta al genere umano, ove gli individui oggi presenti sulla Terra rappresenterebbero all’incirca il 7% di tutti gli uomini mai vissuti. C’è inoltre da ricordare come spesso l’estinzione di una specie avvenga semplicemente perché le condizioni ambientali sono variate e gli individui hanno accumulato un numero sufficiente di modificazioni genetiche da non poter più essere considerati appartenenti alla specie originaria. È il concetto di “speciazione anagenetica”, in cui una specie si trasforma in un’altra, anche se in lassi temporali molto estesi, per cui la prima, di fatto, può considerarsi estinta. L’esempio forse più famoso riguarda proprio il genere umano, laddove l’Homo erectus (in passato chiamato anche pitecantropo di Giava, mentre oggi spesso lo si definisce Homo ergaster) ha via via assunto le caratteristiche dell’Homo sapiens, in un processo che è durato più di un milione di anni.

Esiste tuttavia un cosiddetto “tasso di estinzione” naturale, che quantifica la dinamica del processo di scomparsa delle specie, quanto meno in condizioni ordinarie. Questo parametro dovrebbe oscillare intorno all’unità per anno e per milione di specie. Ciò significa che, se ipotizziamo un numero di specie attualmente viventi sul nostro pianeta di 10 milioni, se ne dovrebbe estinguere più o meno una decina all’anno. Se invece le estinzioni avvengono con maggior frequenza, significa che è successo qualche evento eccezionale, quale ad esempio la caduta di un asteroide e le modificazioni ambientali da esso causate. Situazioni analoghe si sono già verificate in passato almeno 5 volte, l’ultima delle quali all’incirca 65 milioni di anni orsono, allorquando scomparve il 75% delle specie allora viventi sul nostro Pianeta, tra cui i dinosauri. Come ben sappiamo, oggi stiamo vivendo la cosiddetta “sesta estinzione di massa”, le cui cause però non vanno ricercate in fenomeni astronomici, ma solo nell’impatto delle attività antropiche: c’è chi afferma che oggi si estinguano svariate migliaia di specie all’anno, molte addirittura ancor prima di essere conosciute e classificate. Ma la sesta estinzione di massa non si differenzia dalle precedenti solo per il fattore causale: oggi, a differenza del passato, tutte le specie sono coinvolte dal fenomeno, e non solo, ad esempio, le più grandi o quelle che si nutrono di vegetali, o ancora quelle che abitano una determinata area geografica.

Le cause delle attuali estinzioni sono relativamente ben conosciute e non pare il caso farne, in questa sede, un elenco dettagliato. Ricordiamo solo che, a fianco di quelle intuitivamente più identificabili, ve ne sono altre, più subdole, perché spesso non percepite dai non addetti ai lavori. Tra queste, ad esempio, l’introduzione di specie alloctone, la frammentazione del territorio, le modificazioni climatiche. Ed è proprio di queste ultime che vogliamo trattare in questo articolo, facendo riferimento ad una specifica area geografica, che tra l’altro riguarda da vicino il nostro Paese: la regione alpina. Dove, tra l’altro, gli effetti dei cambiamenti climatici potrebbero risultare più evidenti che altrove, come conseguenza del fatto che già oggi si registrano incrementi di temperature più alti: mediamente 2°C, cioè poco meno del doppio rispetto al pianeta (1,1°C, che a sua volta rappresenta il valore combinato tra 1,6°C di ambienti emersi e 0,9°C di aree coperte dall’acqua).

D’altra parte, i segni del cambiamento climatico in ambito alpino sono già oggi tra i più evidenti: i ghiacciai hanno perso il 60% della loro superficie rispetto al XIX secolo, mentre il loro spessore si è ridotto, mediamente, di ben 34 metri. Ampie porzioni di territorio sono state rese disponibili per l’insediamento della vegetazione, anche se si tratta di un processo che richiede tempi molto lunghi e difficilmente compatibili con la velocità con cui i cambiamenti stanno avvenendo oggi.

Intanto una considerazione generale. Con il cambiamento climatico, e in particolare con l’innalzamento delle temperature (sia medie che intese come valori estremi), la più immediata risposta degli esseri viventi è la migrazione, alla ricerca di condizioni il più possibile simili a quelle preesistenti, cui le specie si erano adattate durante la loro evoluzione. Ciò significa, ad esempio, spostarsi a nord, oppure verso quote più elevate. Ma questo, in ambito alpino, non sempre è possibile: infatti, a prescindere dalla presenza di barriere, sia naturali che artificiali (bacini idrici, insediamenti umani, aree agricole, ecc.), spostandosi verso nord si scende a quote più basse, e ciò annulla il beneficio dell’avvicinamento a regioni più fredde. Anche l’innalzamento della quota cui vivere non sempre è possibile, sia perché anche le montagne, come ogni cosa, hanno un termine, sia perché, alle quote più alte, subentrano altri fattori, quali la ventosità, l’incoerenza del suolo, ecc., che rendono estremamente difficoltosa la sopravvivenza.

Ricordiamo anche come le Alpi siano un vero e proprio scrigno di biodiversità: vi si trovano, ad esempio, ben 13.000 specie di piante, un migliaio delle quali “endemiche”, che cioè non vivono in nessuna altra parte del nostro pianeta. Circa la metà di queste specie sono oggi considerate “a rischio” e se ne ipotizza la scomparsa addirittura entro la fine del secolo. Se, infatti, si concretizzerà lo scenario che prevede un aumento medio di temperatura di circa 3°C entro il 2100, cosa tutt’altro che improbabile, dato l’andazzo attuale…., le piante dovrebbero spostarsi, per trovare condizioni accettabili per la loro sopravvivenza, di 600 km verso nord oppure di 600 m di quota. Tale migrazione, al di là delle considerazioni già viste in precedenza, risulta tuttavia molto improbabile, stante la lentezza con cui le popolazioni vegetali si spostano (o meglio si spostano le generazioni successive), con punte che possono arrivare a un chilometro lineare o pochi metri di quota all’anno nel caso delle popolazioni forestali ma molto, molto di meno per quanto riguarda le specie erbacee. Insomma, le piante alpine presentano uno straordinario adattamento alle difficili condizioni delle alte quote, ma sono scarsamente competitive e molte di loro potrebbero soccombere allorquando specie meno rustiche dovessero salire dalle quote più basse, a loro svolta spinte dalle mutate condizioni climatiche che ovviamente riguardano anche le altitudini inferiori.

Da numerosi studi effettuati in vari istituti di ricerca risulta che non tutte le specie rispondono allo stesso modo ai cambiamenti che si verificano nel loro habitat: nel caso delle specie vegetali, ad esempio, si è osservato che le specie già di per sé rare sono quelle maggiormente esposte al rischio di scomparsa, mentre quelle alloctone rispondono in maniera più rapida ed efficace. Al primo caso si possono, ad esempio, ricondurre numerose specie di orchidee (quali Orchis purpurea e O. morio), le quali necessitano di spazi aperti, come i pascoli semi-naturali, i quali si stanno riducendo per il progressivo abbandono delle attività di pastorizia e che non riescono a formarsi a quote più elevate, dove invece le orchidee tendono a migrare alla ricerca di condizioni climatiche più favorevoli. Un esempio del secondo gruppo è la Buddleja davidii, noto come l’arbusto delle farfalle. Originaria dell’est asiatico, la specie si è diffusa anche nelle nostre zone, invadendo in misura sempre più massiccia aree antropizzate e soprattutto quelle umide lungo i corsi dei fiumi.

Nel complesso, vari studi scientifici hanno ipotizzato che circa un quinto delle specie vegetali alpine potrebbero estinguersi, quanto meno localmente, nel possibile (o forse addirittura probabile) caso di totale scomparsa dei ghiacciai dalle Alpi. Tra queste, specie che potremmo definire “iconiche”, quali il genepì (Artemisia genipi), la Saxifraga bryioides, la sassifraga a foglie opposte (Saxifraga oppositifolia), il billeri pennato (Cardamine resedifolia), il ranuncolo dei ghiacciai (Ranunculus glacialis).

Ovviamente, per gli animali le cose non vanno molto meglio, anche se essi sono decisamente più propensi a muoversi velocemente. Facciamo il caso di uno degli animali simbolo delle Alpi: lo stambecco .Negli ultimi decenni la popolazione di questo superbo animale si è all’incirca dimezzata, soprattutto a causa di una maggior mortalità infantile. Cosa che tra l’altro sembrerebbe un paradosso, viste le condizioni climatiche (temperature miti, scarsa presenza di neve) che caratterizzano con sempre maggior frequenza la stagione invernale e dovrebbero quindi mitigare il più importante fattore naturale limitante le popolazioni. Ma il clima pare c’entri comunque: L’aumento delle temperature, infatti, stimola le piante a vegetare più precocemente che in passato. In questo modo, quando nascono i giovani stambecchi (nei mesi di giugno e luglio) le madri si nutrono di piante che si trovano in uno stadio più “maturo” rispetto al passato, con maggior presenza di fibre ma riduzione nel contenuto proteico. Il latte, quindi, presenta una sostanziale diminuzione del potere nutritivo, per cui la crescita dei capretti risulta rallentata e l’inverno li coglie non sufficientemente irrobustiti.

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