La Nature Restoration Law e la conservazione della fauna terrestre
Ettore Randi
Il 17 giugno 2024 il Parlamento Europeo ha approvato la Nature Restoration Law (NRL), la legge per il ripristino della natura. Il percorso istituzionale della legge è stato lungo e contrastato; fino all’ultimo la sua approvazione è rimasta in dubbio. I rappresentanti del governo italiano hanno votato contro! Ora la NRL è pienamente esecutiva e vincola i Paesi EU alla sua applicazione. Il testo definitivo conferma i target fondamentali previsti fin dall’inizio e quindi richiede ai Paesi EU di ripristinare le funzionalità ecologiche di almeno il 20% del territorio europeo marino e terrestre entro il 2030 e di tutti gli habitat e specie a rischio entro il 2050. Il testo approvato è il risultato di lunghe discussioni e molte mediazioni; per alcuni aspetti è insoddisfacente, soprattutto perché concede agli stati membri numerose possibilità di deroghe. Tuttavia, la NRL è stata valutata positivamente dalle associazioni conservazionistiche, costituendo un passaggio essenziale per andare oltre la conservazione delle aree naturali ancora esistenti, il che comunque resta di indiscutibile e fondamentale importanza, verso il ripristino di ecosistemi naturali, agricoli e urbani attualmente degradati, danneggiati e in cattivo stato di conservazione. Entro due anni ogni paese EU dovrà redigere il proprio programma di ripristino nazionale specificando i progetti e le modalità di realizzazione che verranno attuati per il raggiungimento dei target previsti entro il 2030 ed il 2050. I parametri fondamentali e le variabili da monitorare per accertare il raggiungimento dei target, sono area-based, cioè: quale area è necessario tutelare/ripristinare per garantire che le popolazioni/comunità caratteristiche di ogni sito restino vitali nel lungo periodo di tempo? I siti della Rete Natura 2000 dovranno essere ripristinati per primi, ma la NRL consente di attivare misure di ripristino della biodiversità anche negli ecosistemi al di fuori di Natura 2000 e, in generale, anche al di fuori delle aree protette. Se le aree protette attuali avranno estensioni insufficienti, le azioni di ripristino dovranno estendersi anche oltre. Quando le funzionalità ecologiche saranno ripristinate pienamente, le aree ripristinate potranno essere incluse nel sistema europeo delle aree protette. Perciò la NRL dovrebbe costituire lo strumento legislativo fondamentale per ottenere significativi ampliamenti delle aree protette EU al 2050. Le azioni necessarie per il raggiungimento dei target fondamentali definiti dalla NRL saranno molto impegnative ed è facile prevedere che incontreranno opposizioni e boicottaggi da parte di quei portatori di interessi da sempre contrari alla realizzazione del green deal europeo. Anche per questo riteniamo che le associazioni ambientaliste dovrebbero collaborare alla coerente realizzazione dei target, fornendo indicazioni tecniche basate sulla scienza e controllando rigorosamente lo sviluppo delle azioni che verranno (o non-verranno!) attivate. La necessità della NRL viene da lontano, collocandosi nell’ambito del Green Deal Europeo (2019-2021), della Strategia Europea per la Biodiversità (2020) e del Global Biodiversity Framework, adottato nel dicembre 2022 dalla COP15 della Convenzione sulla Biodiversità (CBD; Rio de Janeiro 1992-1993). Una imponente quantità di documenti che costituiscono il quadro legislativo di riferimento per la transizione ecologica in Europa. Il confronto fra le esigenze e gli obiettivi declamati per contrastare la crisi climatica, la distruzione di biodiversità, la perdita di servizi ecosistemici, e quanto poco è stato realizzato in questi decenni, può risultare deprimente. Ma il contrasto alle cause di degrado della natura rimane una necessità imprescindibile, prima di tutto per conservare la natura in quanto tale e in tutte le sue componenti (individui, popolazioni, specie, comunità, ecosistemi), poi per mitigare le conseguenze nefaste dei cambiamenti climatici e, ultimo ma non ultimo, per gli innumerevoli benefici che ne derivano alle società umane (Fig. 1).
Fig. 1 Le relazioni funzionali fra il ripristino della natura, le crisi climatiche e le società umane (wwf_climate__nature_and_our_1_5c_future_report.pdf (panda.org)).
Il ripristino funzionale degli ecosistemi è importante per consentire l’avvio di processi più complessi di rinaturalizzazione spontanea o assistita. Il 68% degli ecosistemi italiani si trova in uno stato di conservazione sfavorevole e fra questi il 35% è in condizioni critiche ed è in pericolo di scomparsa come per es., gli ecosistemi forestali estremamente frammentati in Pianura Padana, praticamente tutti gli ecosistemi relitti delle fasce costiere e nelle isole, le zone umide, le torbiere e molti altri. Inevitabilmente, in queste aree di natura danneggiata il 54% delle specie di flora ed il 53% della fauna terrestre e delle acque interne si trovano in stato di conservazione sfavorevole. È molto importante notare che la NRL richiede che il ripristino degli habitat debba essere attuato al fine di garantire uno stato di conservazione favorevole e la vitalità a lungo termine (> 100 anni) delle popolazioni vegetali e animali caratteristiche dei siti. Ciò apre interessanti prospettive per la conservazione della fauna tramite azioni indirette o dirette che dovranno essere individuate e attuate a partire dai piani nazionali richiesti dalla NRL. Le necessità del ripristino sono ben sintetizzate nell’elaborazione grafica prodotta dal WWF (Fig. 2).
Fig. 2. Stato della biodiversità in Italia. La conservazione della natura ed il ripristino degli ecosistemi danneggiati sono essenziali. Molte altre informazioni e valutazioni sono riportate nel report Biodiversità fragile. Maneggiare con cura. WWF Italia ETS, maggio 2023 - www.wwf.it/uploads/Report-Biodiversita-w_v7def.pdf
Nota. In questo articolo farò riferimento esclusivamente alla fauna selvatica terrestre: popolazioni e specie naturali, non addomesticate, di mammiferi e uccelli. Quando parliamo di ripopolamento intendiamo l’immissione di animali che appartengono alla stessa specie (e, se possibile, anche alla stessa sottospecie e con genotipi simili) di popolazioni ancora esistenti, ma rarefatte, declinanti ed in stato di conservazione sfavorevole. Per reintroduzione si intende l’immissione di animali di una specie (e sottospecie) in aree dove la specie è scomparsa recentemente. Una specie viene introdotta in aree in cui non è mai stata presente. Sono state sviluppate linee guida che definiscono le condizioni necessarie per realizzare correttamente le immissioni faunistiche (per es., www.isprambiente.gov.it/files/pubblicazioni/quaderni/conservazione-natura/files/6767_27_qcn_specie_faunistiche.pdf). Le introduzioni volontarie sono da evitare. Le introduzioni illegali o accidentali hanno avviato i processi di diffusione planetaria delle specie aliene, una parte delle quali diventa invasiva (Alien Invasive Species - AIS) producendo consistenti danni alle biocenosi autoctone e significativi costi per contrastarne gli impatti. I programmi di ripopolamento e reintroduzione dovrebbero venir realizzati esclusivamente sulla base di studi di fattibilità sviluppati sulla base delle migliori conoscenze tecnico-scientifiche disponibili.
La fauna e la caccia
I programmi e le azioni di conservazione attiva della fauna sono, ovviamente, presenti da decenni, ma rimangono temi centrali anche per la corretta ed efficace realizzazione della NRL. La gestione faunistica in Italia è stata piagata per decenni dai cosiddetti ripopolamenti a scopo venatorio. Secoli di deforestazioni, bonifiche, espansione dell’agricoltura e degrado degli ecosistemi naturali hanno causato il prolungato declino delle popolazioni di tutte le principali specie cacciabili di fauna stanziale. Fino a pochi anni fa, i tentativi (scarsi) di ripristino della produttività faunistica delle aree naturali o degli agroecosistemi aperti alla caccia sono sostanzialmente falliti. Le pubbliche amministrazioni e le associazioni venatorie hanno generalmente risposto con improvvide politiche di ripopolamento utilizzando animali di allevamento importati dall’estero o allevati in Italia. Ma le condizioni e le metodologie di allevamento non sono mai state in grado di produrre animali di qualità in grado di contribuire al recupero delle residue e spesso estremamente esigue popolazioni naturali. Negli anni sono stati rilasciati milioni di esemplari di piccola selvaggina, soprattutto fagiani, lepri, starne e pernici (ma anche cinghiali!) spesso incapaci di sopravvivere in natura a causa di inadeguatezze etologiche (per es., incapaci a difendersi dai predatori), sanitarie (diventando così diffusori di patologie estranee alla fauna selvatica locale) e genetiche. Animali destinati a soccombere rapidamente ed a fornire cibo a buon mercato ai predatori (es., volpi). Così si è imposto il concetto dei ripopolamenti “pronta caccia” effettuati con animali inadeguati, destinati a scomparire nel giro di poche settimane, uccisi dai cacciatori o dai predatori, vanificando le risorse economiche investite, spesso propagandisticamente, dagli enti responsabili della gestione faunistica. Solo più recentemente si sta facendo strada il concetto di produzione “naturale” si selvaggina in aree gestite di “ripopolamento e cattura”. In queste realtà l’impegno delle associazioni venatorie è importante ed è benvenuto (si vedano per es. i programmi dichiarati dall’Ente Produttori Selvaggina; https://epsitalia.org/direzione/).
Le vicende delle popolazioni di lepre europea (Lepus europaeus) rappresentano bene i limiti e gli errori delle strategie di ripopolamento fatte male a scopo venatorio. La lepre vive in quegli ambienti naturali aperti, oppure tenuti ad agricoltura tradizionale che sono quasi scomparsi negli ultimi 70-80 anni. Le sue popolazioni sono costantemente declinate a seguito della perdita degli habitat e per colpa di prelievi venatori insostenibili. Le risposte al declino hanno puntato su metodologie di allevamento quasi sempre artigianale, ma ad imitazione degli allevamenti di tipo industriale usati per i conigli domestici. La produzione di lepri allevate è stata sempre insoddisfacente. Ancora peggio sono andati i risultati deludentissimi delle immissioni di lepri allevate in natura. Le massicce importazioni di lepri alloctone hanno ulteriormente aggravato la situazione portando alla estinzione di genotipi autoctoni ben adattati agli ambienti delle nostre pianure e colline. La distribuzione naturale della lepre in Italia è settentrionale, delimitata grossomodo a nord di una ipotetica fascia di confine che va dalla Maremma toscana al Gargano. A sud di questo confine erano e sono tuttora presenti le popolazioni, oggi assai ridotte e frammentate, della endemica lepre italica (chiamata anche lepre appenninica; in latino Lepus corsicanus perché descritta per la prima volta da pelli reperite in Corsica, ma di origine toscana). Le massicce immissioni di lepri europee nell’areale naturale della lepre italica (immissioni che dal punto di vista biogeografico dovrebbero essere considerate vere e proprie introduzioni) sono state del tutto insoddisfacenti, direi fortunatamente, poiché in questo modo i danni dovuti alla competizione con la lepre italica sono stati forse limitati. Le massicce immissioni di lepri europee in Sicilia non hanno avuto alcun risultato: non ci sono lepri europee sopravvissute in Sicilia, dove invece sopravvive la più importante popolazione di lepri italiche. Più recentemente stanno prendendo piede tentativi di produzione di lepri nelle aree di ripopolamento e cattura. Possiamo immaginare che i target fondamentali e vincolanti della NRL che riguardano gli interventi di ripristino ecologico per l’aumento delle popolazioni di insetti impollinatori, la riduzione programmata e incrementale dell’uso di fitofarmaci e concimi chimici, il sostegno all’agricoltura biologica, l’incremento della diversità vegetazione in terreni inclusi nell’ambito delle aree agricole, possano contribuire, almeno indirettamente, anche al ripristino di habitat favorevoli per la lepre europea a nord e per la lepre italica a sud. Inoltre, è auspicabile che, nell’ambito della NRL, vengano sviluppati programmi finalizzati specificatamente al ripristino di habitat adatti alla ripresa demografica delle popolazioni naturali di lepri, anche ma non solo nell’ambito dei siti Natura 2000.
È stato ripetutamente documentato l’inquinamento genetico delle residue popolazioni di coturnice appenninica (Alectoris graeca graeca) e siciliana (A. g. whitakeri) prodotto dalle massicce immissioni di pernice orientale (A. chukar), specie aliena, facilmente allevabile e in grado di incrociarsi in natura ed in allevamento con la coturnice. Questi ripopolamenti non hanno mai contribuito significativamente al recupero delle popolazioni naturali di coturnice. Le popolazioni di coturnice mostrano tendenze declinanti in tutta Europa ed in Italia. La specie è considerata vulnerabile nella Lista Rossa dei vertebrati italiani 2022. La coturnice vive in ambienti naturali aperti, non forestali, in aree di macchia mediterranea, ma anche in prati-pascolo ed in agroecosistemi estensivi di montagna. Il declino è dovuto al progressivo abbandono delle tradizionali attività agro-pastorali nelle aree rurali alpine e appenniniche. L’espansione delle foreste, favorita anche dai rimboschimenti artificiali con conifere o con eucalipti in Meridione e in Sicilia, ha contribuito negativamente. Le popolazioni appenniniche di coturnice sono quasi sempre piccole, frammentate ed isolate. In queste condizioni la caccia ha esercitato ovunque pressioni eccessive contribuendo al declino. Molte popolazioni residue di coturnice vivono all’interno dei siti Natura 2000 in Appennino ed in Sicilia. Anche in questo caso la NRL potrebbe e dovrebbe costituire lo strumento legislativo forte per avviare le indispensabili azioni di conservazione, a partire dal ripristino ambientale, come per es., il ripristino ed il mantenimento di praterie ed ambienti aperti a margine di aree boscate o in fase riforestazione; il sostegno alla ripresa di attività agricole biocompatibili ed al pascolo in aree collinari abbandonate; la riduzione fino al divieto dell’uso di pesticidi. Importante è l’ampliamento delle zone protette e la creazione di reti ecologiche che consentano da un lato di vietare le attività venatorie, e dall’altro favoriscano la dispersione naturale di coturnici fra i nuclei isolati, alleviando così i rischi dovuti alla perdita di diversità genetica ed all’inbreeding. In certi casi appropriati progetti di ripopolamento delle piccole popolazioni ancora esistenti, oppure di traslocazione e colonizzazione di nuove aree idonee (analogamente a quanto è stato fatto per il camoscio d’Abruzzo e a quanto è in corso per il cervo della Mesola), possono essere utili. Sono utili anche programmi di reintroduzione con coturnici d’allevamento, purché progettati e realizzati nel rigoroso rispetto delle condizioni essenziali a garantirne la correttezza e le probabilità di successo (a differenza di quanto è avvenuto da tempo con le immissioni illegali ed incontrollate di cinghiali e molto più recentemente di castori in Appennino). Condizioni essenziali per le reintroduzioni (non solo di coturnici) sono: l’identificazione di aree con habitat idonei alla reintroduzione; la rimozione dei fattori che hanno causato la scomparsa della specie e quindi, dove necessario, i ripristini ambientali (NRL); l’utilizzo di animali riprodotti esclusivamente in allevamenti strettamente controllati e certificati per garantire l’idoneità genetica e sanitaria; la sospensione, almeno temporanea, ma prevedibilmente prolungata per diversi anni, di ogni attività venatoria. Per quanto riguarda le coturnici, dovrebbe restare in essere il divieto di importazione e immissione di qualsiasi specie del genere Alectoris. Il prelievo venatorio dovrebbe pure essere interdetto, almeno per tutte quelle popolazioni che non sono in grado di autoriprodursi con successo. È auspicabile che l’applicazione della NRL, a seguito degli indispensabili ripristini delle funzionalità ecologiche, possa produrre buone pratiche per la conservazione delle popolazioni di galliformi in Italia, anche generalizzando le esperienze in corso, come per es., la salvaguardia e reintroduzione dalla starna italica, finanziata da un progetto LIFE+ specifico.
La starna (Perdix perdix) probabilmente è la specie cacciabile della fauna stanziale che è stata più maltrattata. Praticamente tutte le popolazioni europee ed italiane hanno subito i danni conseguenti alla crisi dell’agricoltura tradizionale, al dilagante uso di pesticidi ed al prelievo venatorio insostenibile. Anche per questa specie si è tentato di far fronte al declino con l’importazione e con l’allevamento di ceppi di starne alloctone. Le immissioni di starne allevate non hanno mai ottenuto risultati apprezzabili. Disprezzabile invece è stato l’esito di portare alla estinzione in natura della sottospecie italiana (P. p. italica), cioè di quei genotipi verosimilmente meglio adattati di altri alle condizioni tipiche dei nostri agro-ecosistemi. A questa situazione deplorevole, sia dal punto di vista faunistico che dal punto di vista della gestione venatoria, si sta cercando di ovviare con il programma EU LIFE Perdix (2019-2024), per la reintroduzione della starna italica nelle Valli del Mezzano (FE). Il principale obiettivo del progetto è il recupero della sottospecie estinta in natura, ma ancora presente nel Centro Faunistico dei Carabinieri Forestali di Bieri (in Garfagnana), tramite: - identificazione genetica di starne per quanto possibile vicine ai genotipi autoctoni presenti in natura in passato e distrutti dalle immissioni di genotipi alloctoni; - riproduzione di genotipi selezionati in allevamenti controllati; - reintroduzione nella Zona a Protezione Speciale (ZPS) IT4060008 “Valli del Mezzano” (FE), in parte inclusa nel Parco del Delta del Po. Le Valli del Mezzano hanno ospitato in passato le ultime popolazioni di starne (alloctone) in Pianura Padana, in ambienti particolarmente adatti caratterizzata da estesi seminativi con disponibilità di acqua distribuita nei canali e fossati, con siepi frangivento utilizzabili per il ricovero e la nidificazione. Le identificazioni genetiche dei riproduttori selezionabili sono state fatte confrontando i genotipi mitocondriali delle starne allevate con DNA estratto da campioni museali raccolti in periodi antecedenti le massicce immissioni di starne alloctone. La riproduzione in cattività delle coppie selezionate avviene in voliera, non in incubatrice, tramite deposizione e cova a terra, nel tentativo di mantenere attivi moduli comportamentali quanto più possibile simili ai comportamenti naturali. Gli esiti delle immissioni nel Mezzano vengono attentamente monitorati. I risultati di questo progetto, oltre alla ricostituzione di una prima popolazione naturale di starne autoctone, contribuiranno dati utili per comprendere le esigenze ecologiche della specie e per informare futuri progetti di conservazione. Come si diceva, le Valli del Mezzano sono ZPS e quindi rientrano a pieno titolo fra le priorità delle NRL, in particolare azioni per favorire l’aumento delle popolazioni di insetti impollinatori entro il 2030. Il declino degli insetti, non solo impollinatori, nelle aree agricole di cui i pulcini di starna ed altri galliformi devono necessariamente alimentarsi è fra le principali cause di declino delle loro popolazioni.
Potenzialmente, e auspicabilmente, ci sarà molto da fare anche per il ripristino ecologico nelle zone alpine, per realizzare uno dei target prioritari della NRL, e cioè la protezione degli ecosistemi forestali, per es. evitando la rimozione di legno morto in piedi e a terra, favorendo l’espansione delle foreste disetanee, migliorando la connettività e aumentando la diversità delle specie forestali, conservando aree aperte e di ecotono. Ne beneficerebbero le popolazioni di tutte le cinque specie di galliformi alpini: il fagiano di monte Tetrao tetrix, la pernice bianca Lagopus muta, il francolino Bonasa bonasia, la coturnice alpinaed in particolare il gallo cedrone Tetrao urogallus. Anche se la specie non è cacciabile, le popolazioni di cedrone sono in declino quasi ovunque a causa della distruzione degli habitat, in particolare delle aree di corteggiamento (lekking), del disturbo dovuto alla continua espansione degli impianti sciistici, da un turismo molto invasivo e da una gestione forestale inadeguata. In prospettiva gli effetti di questi fattori di rischio verranno aggravati delle conseguenze dei cambiamenti climatici. Le strategie di conservazione e le future azioni in ambito NRL dovranno prevedere le conseguenze del riscaldamento globale e delle trasformazioni ambientali peraltro già in corso, per favorire le inevitabili risposte adattative che la fauna alpina dovrà adottare. L’aumento delle temperature sta causando lo spostamento in quote più elevate degli habitat utilizzabili dai tetraonidi alpini, che non dovrebbero incontrare ostacoli agli spostamenti.
La fauna delle acque interne e delle zone umide
La fauna delle acque interne - fiumi, laghi, stagni, lagune dolci o salmastre - ha subito le pesantissime conseguenze degli inquinamenti, della cementificazione delle rive e costruzione di dighe e sbarramenti, espansione delle infrastrutture turistiche, degrado degli ecosistemi ripariali, bonifiche delle zone umide, subsidenza, urbanizzazione e gestione privatistica dei litorali e delle zone costiere, immissioni volontarie o accidentali di specie alloctone, soprattutto pesci e invertebrati. Per anni si è temuto che le popolazioni italiane di lontra (Lutra lutra) fossero destinate all’estinzione. Fino a tutti gli anni ’80 veniva accertata la presenza di due sole popolazioni isolate. La prima piccola e limitata ad alcuni bacini fluviali fra Abruzzo e Molise; la seconda distribuita più ampiamente in meridione – Campania, Basilicata e Calabria. Le residue popolazioni in Italia settentrionale, Valle Padana e Toscana, venivano date progressivamente per estinte. Alla fine degli anni ’80 si stimava che le lontre in Italia fossero fra 100 e 150. Ma mentre i nuclei sopravvissuti in Italia settentrionale e centrale hanno continuato a declinare fino all’estinzione alla fine degli anni ’90, le popolazioni meridionali hanno dati i primi apparenti segni di ripresa fin dalla metà degli anni ’80. Non è del tutto chiaro se quei primi segnali di ripresa fossero sintomo di miglioramento delle condizioni ambientali (riduzione dell’inquinamento, ripristino graduale delle fonti alimentari) e della protezione totale della specie, oppure se siano stati i risultati dell’avvio di validi programmi di monitoraggio che hanno consentito di accertare la presenza delle lontre in zone mai monitorate e da dove mancavano dati. Non dimentichiamo che per decenni, dal 1939 al 1971, la lontra è stata considerata “specie nociva” (assieme al lupo, al gatto selvatico, volpe e altre specie di carnivori), per la presunta competizione con i pescatori, legalmente cacciata per la pelliccia e per le taglie che venivano pagate. Nel 1983 è stato vietato l’uso dei policlorobifenili (PCB) e del DDT, contaminanti delle acque. Nel 1992 con la legge n. 157 la lontra è stata riconosciuta specie particolarmente protetta. Resta il fatto positivo che a partire dai primi anni 2000, tutte le popolazioni italiane di lontra hanno mostrato segni di consistenti espansioni e la specie è ritornata in molte aree dell’Italia settentrionale. Oggi le popolazioni meridionali contano almeno 800 – 1000 individui. Inoltre, la lontra è ritornata spontaneamente in Friuli, in Veneto, in Trentino e Alto Adige movendosi lungo le aste fluviali dalla Slovenia e Austria, ed in Liguria (dal meridione francese). La lontra è ricomparsa nelle Marche, Lazio e Toscana. La più recente segnalazione riguarda una giovane femmina morta incidentalmente e recuperata il 21 gennaio 2024 in provincia di Rovigo nel delta del fiume Adige vicino al Comune di Rosolina. La popolazione di lontra in Italia è ancora molto al di sotto dei 4.000 – 5.000 individui considerati necessari per garantire la vitalità a lungo termine. Ma, probabilmente, siamo sulla buona strada. L’espansione e gli eventi di ricolonizzazione della lontra sono tutti naturali e avvengono con una rapidità imprevista, come peraltro sorprendenti sono le espansioni in corso di altre specie: l’orso bruno nelle Alpi (a seguito della reintroduzione), lupo (per espansione naturale), tutte le specie di ungulati selvatici, le tartarughe marine e, più sorprendente di tutte, il ritorno della foca monaca. La fase di rinaturalizzazione in corso dagli anni ’50 sta favorendo il ritorno spontaneo di molte specie; resta comunque ancora molto da fare. Il 40% dei fiumi italiani ancora oggi non presenta un buono stato ecologico. La bonifica delle acque e la rinaturalizzazione delle rive, la rimozione delle barriere che impediscono la connettività entro e fra i bacini fluviali, rientrano fra gli obbiettivi prioritari della NRL. I fiumi sono i principali corridoi ecologici per le lontre e per moltissime altre specie. Le lontre si spostano anche nuotando in mare. Con la NRL si dovrebbe intervenire per favorire la dispersione delle lontre tramite la rinaturalizzazione delle rive dei fiumi, delle loro foci e di alcune aree costiere che sono utilizzabili per popolare aste fluviali altrimenti irraggiungibili. Molte popolazioni vivono all’interno di siti Natura 2000. La presenza della lontra in 40 SIC è accertata, ma non è ancora stata registrata ufficialmente. La specie è stata rilevata in alcuni aree fluviali non protette. I monitoraggi per aggiornare la distribuzione della lontra entro e fuori le aree protette forniranno le evidenze necessarie per avviare azioni NRL di ripristino e per richiedere l’ampliamento dei siti Natura 2000.
La nutria Myocastor coypus, specie alloctona di origine sudamericana, invasiva nel nostro paese, è stata allevata per la pelliccia in Francia fin dal 1882 e già ritrovata in natura nel 1935. I primi allevamenti in Italia sono iniziati nel 1928. Ben presto le nutrie sono sfuggite dalle gabbie ed hanno invaso le zone umide, i canali di bonifica, le foci ed altri ambienti in Valle Padana, poi via via in moltissime altre zone con presenza di habitat acquatici. La nutria è prevalentemente vegetariana ed ha impatti significativi sulla presenza di piante acquatiche o delle zone umide come per es., ninfee e Phragmites. Ma può danneggiare la riproduzione di specie di uccelli acquatici mangiando le uova, danneggiando i nidi e disturbando gli adulti. Può trasmettere parassiti patogeni come leptospire e fasciole ad altre specie di animali selvatici o domestici ed anche all’uomo. Senza dubbio le popolazioni di nutria danneggiano le coltivazioni di cereali, barbabietole e ortaggi. I danni maggiori derivano dalle tane che vengono scavate negli argini di fiumi, canali e bacini, anche se non sembra che questi scavi possano aver contribuito significativamente alle recenti alluvioni in Pianura Padana o altrove. A bilanciare almeno parzialmente questi danni, occorre dire che la nutria è diventata preda privilegiata di lupi in espansione dalle colline verso le pianure e le zone umide padane. Le normative comunitarie e nazionali prescrivono che le specie aliene invasive siano eradicate, il che pare realisticamente impossibile nel caso della nutria. La specie è sottoposta ad operazioni di controllo numerico esercitate in vari modi, tutti più o meno cruenti, anche se sono in corso tentativi di prevenzione dei danni e prime sperimentazioni di metodi incruenti come la cattura, la sterilizzazione ed il trasferimento in aree recintate. Valuteremo i risultati. Intanto la nutria è un ottimo esempio che dovrebbe insegnarci cosa evitare di fare con le specie potenzialmente invasive: primo non introdurle; se già presenti, monitorarne la diffusione e decidere rapidamente le strategie di controllo. Spesso le AIS hanno demografie di tipo epidemico: in una prima fase del ciclo demografico la loro presenza non viene individuata; poi le AIS vengono individuate, ma le popolazioni sono poco numerose, non sollevano preoccupazioni, è difficile convincere le amministrazioni dei potenziali rischi e costi, le prospettive di rimozione possono urtare la nostra sensibilità, soprattutto quando si tratta di specie carine ed apparente inoffensive come gli scoiattoli grigi, i parrocchetti, le tartarughine ecc. ecc., e come quasi tutte le piante aliene. Gli impatti si manifestano quando le AIS entrano nella fase invasiva. A questo punto l’eradicazione è impossibile, il contenimento e le compensazioni dei danni diventano molto costose ed inefficaci.
Il castoro europeo Castor fiber, specie protetta, era scomparso dall’Italia da alcuni secoli soprattutto a causa della caccia per la pelliccia, la carne e per il castoreum l’olio essenziale estratto dalle ghiandole perianali ed usato come medicamento e nella fabbricazione di profumi. Recentemente è ritornato, ricolonizzando naturalmente habitat fluviali alpini in Trentino-Alto Adige e in Friuli-Venezia Giulia. Come tutti sanno, il castoro è un potente roditore, in grado di abbattere alberi con tronchi del diametro di oltre 70 cm. Il castoro è uno dei più noti ingegneri ambientali, modellando con dighe vegetali, con tane e nidi, estesi habitat fluviali e lacustri. Le strutture vegetali costruite dai castori originano vere e proprie zone umide, che sono poi colonizzate e utilizzate da molte specie vegetali e animali - invertebrati, pesci, anfibi e rettili inclusi, aumentando così la biodiversità locale. Per contro i danni alle cortecce e l’abbattimento di alberi adulti può danneggiare i frutteti e le piantagioni a scopo commerciale (per es., pioppi). Perciò le recentissime (2021?) reintroduzioni non autorizzate, quindi illegali, in poche aree della Toscana, Umbria e Marche, in Molise e in Campania, destano qualche preoccupazione. Queste immissioni, effettuate senza gli indispensabili studi di fattibilità, rischiano di essere controproducenti per i castori stessi (per es., immissioni in habitat non del tutto idonei; immissione di pochi individui in aree isolate che genera inevitabilmente perdita di diversità genetica e aumento dell’inbreeding) e di generare conflitti con le attività produttive locali. Non sorprende quindi che l’indicazione di ISPRA e di ATIt (l’Associazione Teriologica Italiana) sia stata di rimuovere questi castori, indicazione corretta dal punto di vista legale e delle buone pratiche di biologia della conservazione, ma di difficile attuazione non solo per ragioni tecniche, ma anche giuridiche e di opportunità. Così, dopo aver riaffermato il principio che le immissioni non autorizzate sono illegali e gli animali vanno rimossi, è probabile che dovremo prepararci a valutare le conseguenze eco-economiche (anche positive) della presenza dei castori in Appennino. Pare accertato che gli impatti dei roditori sulla vegetazione siano significativi solo entro i 20 metri dal sito utilizzato dall’unità familiare. Perciò si dovrebbero evitare attività commerciali a rischio di danneggiamento all’interno di fasce di protezione per i castori. È possibile, anche se costoso, mitigare i danni con recinzioni elettriche e uso di repellenti, oppure compensando equamente i danni. Occorrerà quindi verosimilmente stabilire, anche nell’ambito della NRL, zone di protezione delle colonie di castori, misure di coesistenza con le attività produttive e di contenimento degli impatti con infrastrutture come strade e ponti.
Gli ungulati selvatici, lupi e orsi
La ripresa di tutte le specie autoctone di ungulati selvatici dal dopoguerra ad oggi è stata quasi sempre imponente, ma non così lineare come si potrebbe pensare. Lo stambecco alpino (Capra ibex), anticamente diffuso e cacciato in tutte le alte montagne d’Europa, ha rischiato l’estinzione per colpa esclusiva della caccia. Gli ultimi esemplari, poche decine, vennero salvati da re Vittorio Emanuele II che istituì una riserva privata di caccia in Valsavarenche nel Gran Paradiso. Ma non dobbiamo pensare che da quel momento la popolazione di stambecco sia stata tutelata efficacemente. Infatti, le cacce riservate alla famiglia reale, talvolta vere e proprie stragi, continuarono fino al 1913, quando Vittorio Emanuele III cedette allo Stato le sue proprietà nel Gran Paradiso, a patto che si costituisse un parco nazionale. Il Parco Nazionale Gran Paradiso venne istituito nel 1922, ma la popolazione di stambecco restò a rischio fino al secondo dopoguerra a causa della cattiva gestione del parco, del bracconaggio e delle conseguenze della guerra. La vera e definitiva ripresa della popolazione iniziò solamente nel dopoguerra grazie a programmi di riproduzione in cattività e alla reintroduzione di nuovi nuclei in zone adatte lungo tutto l’arco alpino non solo italiano. Oggi la popolazione conta circa 50.000 esemplari distribuiti in numerose colonie frammentate, spesso troppo piccole e isolate. Perciò la specie richiede ancora interventi di conservazione attiva, è e dovrebbe restare non cacciabile. I rischi derivano dall’erosione di diversità genetica, aumento di inbreeding con rischi, per es., di sensibilità alle malattie infettive, assenza di dispersione e flusso genico fra le colonie, e da ultimo, come recentemente documentato, ibridazione con capre domestiche. Le popolazioni alpine degli altri ungulati, camoscio, cervo e capriolo, hanno pure subito declini storici più o meno imponenti e riprese demografiche spesso molto significative nel dopoguerra. Oggi le popolazioni di ungulati selvatici alpini sono sostanzialmente in buone condizioni di conservazione, anche grazie ad attività di gestione pianificate e meglio controllate di quanto avvenga nel resto d’Italia. Gli ungulati alpini hanno poi consentito l’espansione del lupo e la ripresa, tuttora in corso delle popolazioni di grandi rapaci, aquile e avvoltoi, in passato estremamente ridotte o del tutto estinte, come nel caso del gipeto (Gypaetus barbatus). La continua protezione di queste specie e le azioni di ripristino ambientale degli ambienti alpini e degli ecosistemi forestali, anche in ambito NRL, potranno stabilizzare le popolazioni e contribuire ad estendere la rinaturalizzazione di aree protette o ancora non protette.
La sorprendente ripresa demografica e l’espansione territoriale della popolazione italiana di lupo è il risultato delle trasformazioni ambientali che hanno interessato l’Italia del dopoguerra: abbandono dell’agricoltura di montagna, collina ed altre aree improduttive, urbanizzazione, espansione dei boschi e degli incolti, ritorno ed espansione rapida delle popolazioni di ungulati selvatici, soprattutto cinghiali e caprioli, a cui è puntualmente seguito il ritorno dei lupi, certamente aiutato della protezione per legge della specie. Il ritorno del lupo ad oggi nel circa 60% dei territori adatti è stato del tutto naturale: nessuno ha mai liberato lupi e non è mai stato attuato alcun programma di reintroduzione o ripopolamento. Non possiamo escludere che qualcuno dei pochi lupi, quasi tutti di origine alloctona, che negli anni 70-80 era presente in cattività zoo o presso privati, sia sfuggito o sia stato liberato occultamente. Ma le analisi genetiche ormai effettuate da decenni su migliaia di campioni biologici di lupi appenninici non hanno mai evidenziato tracce di genotipi non-italiani. Le analisi genetiche hanno invece piuttosto frequentemente individuato tracce di incroci e introgressione nella popolazione selvatica di varianti genetiche originate nei cani domestici. Non abbiamo evidenze a disposizione, ma non si può escludere, almeno in teoria, che l’input di variabilità genetica di origine domestica possa avere aumentato l’eterozigosi e ridotto l’inbreeding della piccola popolazione di lupo sopravvissuta ai lunghi secoli di persecuzione, e quindi ne abbia in qualche modo sostenuto l’espansione. Non possiamo neppure escludere ipoteticamente, anche in questo caso in completa assenza di evidenze, che l’introgressione di varianti genetiche domestiche abbia in qualche modo modificato certi moduli comportamentali, facilitando l’avvicinamento dei lupi ad are urbane e abitazioni in cerca di cibo (rifiuti alimentari di vario tipo). Oggi l’ibridazione, il bracconaggio e varie tipologie di incidenti che colpiscono i lupi in molte delle aree profondamente antropizzate nel nostro paese, sono i principali fattori di rischio a cui la popolazione è sottoposta. Difficile pensare che attualmente il lupo italiano sia a rischio immediato. Ma la probabile imminente declassificazione in tutta Europa da specie particolarmente protetta e specie protetta, potrà rendere più semplice ottenere le autorizzazioni in deroga alla rimozione letale (= uccisioni) di lupi considerati predatori dannosi agli allevamenti o, perché no, pericolosi per l’umanità. Poiché è plausibile che la mortalità dovuta alle rimozioni non sia compensativa, ma sia aggiuntiva alla mortalità da bracconaggio, avvelenamenti e incidenti vari, si rischia l’avvio di un processo incontrollato che potrebbe seriamente danneggiare lo stato di conservazione del lupo. Il lupo dovrebbe restare ancora, in Italia e in Europa, specie particolarmente protetta. La convivenza con il lupo sembra migliorare in molte regioni, anche se la stampa locale non riesce ad evitare periodiche campagne allarmistiche, quasi sempre fondate su interpretazioni errate o tendenziose dei fatti. Dopo il censimento nazionale del 2022 la distribuzione e consistenza delle popolazioni di lupo nelle regioni alpine ed in Italia peninsulare sono accettabilmente note. Sono pure ben noti alcuni sperimentati metodi di prevenzione e contrasto delle predazioni sugli animali domestici. Se tutte le amministrazioni regionali attivassero programmi decenti di compensazione dei danni da predazione, di divulgazione e sostegno tecnico ed economico per l’installazione di presidi anti-predazioni, i danni potrebbero ridursi significativamente. La consapevolezza che le istituzioni non lasciano soli i cittadini che operano e vivono in condizioni di compresenza dei lupi è lo strumento migliore per la convivenza con i predatori e con gli altri grandi vertebrati.
La sfida per la conservazione del lupo sembra essere quasi vinta, ma purtroppo non si può dire altrettanto per l’orso. Il programma LIFE Ursus ha consentito la ricostituzione di una popolazione vitale di orso bruno (Ursus arctos) nelle Alpi. Fra il 1999 e il 2002 vennero rilasciati in Trentino 10 orsi provenienti dalla Slovenia. Nell’area del rilascio sopravvivevano gli ultimi tre orsi dalla passata popolazione alpina, con una sola femmina non più in grado di riprodursi. La popolazione era di fatto estinta. Quindi si è trattato non tanto di un ripopolamento, quanto piuttosto di una reintroduzione. Il progetto è stato un successo: da un punto di vista biologico i risultati sono andati ben oltre le previsioni. L’obbiettivo del LIFE Ursus di ricostituire una popolazione vitale di 40 – 60 orsi in circa 25-30 anni è stato superato: la popolazione attuale conta più di 100 individui, distribuiti in un’area minore del previsto. La densità della popolazione attuale in zone antropizzate, ma soprattutto frequentate da un turismo di massa sia invernale che estivo, è probabilmente la principale concausa degli incidenti registrati negli ultimi anni. Da un punto di vista biologico, non ha senso chiedersi se gli orsi in Trentino siano troppi. La popolazione è ancora in crescita anche se l’areale tende ad espandersi molto lentamente. Evidentemente le risorse ambientali sono sufficienti a sostenere la popolazione. I problemi nascono dalle interazioni con gli umani. Prima dei rilasci, oltre il 70% degli abitanti delle comunità locali era a favore della presenza dell’orso, ora probabilmente molti non lo vorrebbero. La convivenza uomini-orsi in Trentino e nelle Alpi in generale richiede prima di tutto la realizzazione di ovvie misure di mitigazione degli impatti sulle attività produttive (apicoltura, frutticolture, allevamenti all’aperto), e dei contatti con i residenti (protezione dei rifiuti, degli orti privati e degli animali domestici), misure che però non sembrano essere più sufficienti. Servirebbe adeguare il PACOBACE (il piano d’azione interregionale per la conservazione dell’orso bruno sulle Alpi centro-orientali) sviluppando un piano pluriennale di gestione della convivenza che preveda misure, obbligatorie e concretamente implementabili indipendentemente dalle maggioranze politiche del momento. Misure di tutela contemporaneamente della presenza delle comunità umane e della popolazione di orsi. L’orso bruno è fra i più grandi mammiferi sopravvissuti all’estinzione della megafauna del Pleistocene/Olocene. Non ha predatori naturali, eccetto gli altri orsi. È noto che i maschi sono infanticidi: talvolta aggrediscono e uccidono i cuccioli che le femmine hanno concepito con altri maschi. La difesa dei cuccioli attiva le reazioni delle femmine, anche in risposta ad incontri imprevisti con gli umani. I servizi faunistici della Provincia Autonoma di Trento e delle altre regioni con presenza di orsi dovrebbero migliorare significativamente i monitoraggi, certamente costosi, ma indispensabili. Gli abitanti delle vallate e soprattutto i turisti dovrebbero conoscere in tempo reale in quali zone e in quali periodi dell’anno circolano femmine di orso con cuccioli. Chiunque frequenti zone con orsi dovrebbe seguire alcune procedure di sicurezza: - non andare soli, ma in piccoli gruppi di almeno 2-3 persone per scoraggiare eventuali tentativi di false o vere aggressioni; - non andare con cani e mai con cani liberi che possono attaccare gli orsi sollecitandone le risposte; - non correre in silenzio, ma farsi sentire per segnalare la propria presenza; - frequentare solamente sentieri noti per evitare curve cieche e incontri improvvisi. Oltre a questi programmi capillari di informazione, la gestione della popolazione di orsi alpini richiederà robusti interventi ambientali che favoriscano l’espansione dell’areale tramite la colonizzazione di altri territori ecologicamente adatti. Possiamo pensare che, in questi ultimissimi anni, le amministrazioni locali siano restie a sostenere interventi di questo tipo che, peraltro, sono in corso di implementazione per il sostegno dell’espansione dell’areale dell’orso marsicano (si veda: https://rewilding-apennines.com/life-bear-smart-corridors/).
Possiamo domandarci perché reintrodurre orsi in zone turistiche abitate e mediamente antropizzate. In generale, i grandi e medi vertebrati e gli uccelli sono essenziali per ripristinare la biodiversità e la struttura trofica degli ecosistemi. Nel caso specifico occorre ricordare che gli orsi già c’erano, non solo in Trentino, ma anche in Friuli-Venezia Giulia nel tarvisiano dove gli orsi entrano da decenni dalla Slovenia. Sono orsi maschi in dispersione che non hanno mai fondato una popolazione stabile, ma appartengono alla medesima popolazione che in passato occupava anche le Alpi orientali, come le analisi genetiche hanno evidenziato. L’orso bruno ha fatto e ancora fa parte degli ecosistemi forestali ben strutturati di tutta Europa, svolgendo funzioni importanti. L’orso bruno è onnivoro, si nutre prevalentemente di vegetali, di invertebrati (formiche) e di carcasse, raramente preda attivamente. In questo modo contribuisce alla dispersione dei semi delle piante di cui si nutre, alla pulizia del bosco ed al riciclo delle carcasse in decomposizione. È dimostrato che le popolazioni di grandi vertebrati, ungulati e carnivori, lupi ed orsi inclusi, costituiscono attrattori turistici e possono generare un valore economico molto importante, come ci dimostra, per es., l’esperienza del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Certamente i conflitti vanno gestiti attentamente per equilibrare le esigenze delle popolazioni umane e delle popolazioni animali. Non è sufficiente dichiarare, ma purtroppo sempre dopo ogni uccisione, che la rimozione letale di orsi “problematici” non è la soluzione dei problemi. Occorre agire proattivamente per evitare il rischio che uno dei progetti di ripopolamento di grandi carnivori di maggior successo al mondo, si trasformi in un triste programma di de-popolamento.
In conclusione
I risultati di una ricerca scientifica pubblicata recentemente indicano che circa 117 milioni di ettari, corrispondenti al 25% del territorio europeo, potrebbero essere rinaturalizzati (Araujo & Alagador, 2024, Current Biology 34, 1–10. September 9, 2024). Si tratta in buona parte di aree agricole abbandonate che, però, non sono distribuite omogeneamente. Il 76% di queste aree sono in Europa settentrionale (per es., Scandinavia, stati Baltici e Scozia), nelle catene montuose dell’est Europa e nella Penisola Iberica. Molte di queste aree sono poco abitate, prive di disturbi antropici significativi e si estendono per oltre 10.000 ettari. In molti casi, ed in circa il 25% delle aree già attualmente protette, sono possibili processi di rinaturalizzazione spontanea e di ricolonizzazione naturale da parte di specie chiave come i grandi ungulati, i carnivori, gli onnivori, gli altri mammiferi di medie e piccole dimensioni e tutte le specie di uccelli. In altri casi le specie chiave che sono assenti dovranno essere reintrodotte. Altri paesi più densamente popolati ed antropizzati (per es., Belgio, Olanda, Danimarca, Europa centrale) dovranno adottare strategie di rinaturalizzazione più impegnative. Secondo questo studio, per raggiungere gli obbiettivi della NRL, l’Italia dovrà rinaturalizzare circa 7 milioni di ettari (24% del territorio nazionale), di cui circa 2,6 milioni (10%) dovranno essere strettamente protetti. L’Italia presenta limitate prospettive di rinaturalizzazione spontanea, a causa dalla frammentazione delle aree naturali e dall’eccessiva antropizzazione di parte del territorio. Anche la maggioranza delle aree protette in Italia peninsulare, inclusi gli Appennini e le isole maggiori, sono troppo antropizzate per consentire esclusivamente rinaturalizzazioni spontanee. Tuttavia, negli ultimi decenni il ritorno di specie assenti da tempo e considerate ad alto rischio di estinzione come per es., la lontra, il castoro nelle Alpi e il lupo, o addirittura l’espansione naturale e l’ingresso nel nostro Paese di specie alloctone, come lo sciacallo dorato (Canis aureus), indica che sono possibili processi di rinaturalizzazione spontanea. Mentre in nord ed est Europa e in Penisola Iberica gli obbiettivi della NRL sembrano raggiungibili entro il 2050, più complessa appare la situazione di buona parte dell’Europa centrale e dell’Italia. In questi paesi, fra l’altro, si dovrà tener conto degli impatti negativi sulla biodiversità dei cambiamenti ecologici già in atto ed in prospettiva, in conseguenza della crisi climatica. Il rewilding in Italia richiederà interventi attivi più forti che altrove.
Nei passati decenni immissioni faunistiche spesso pianificate approssimativamente o non pianificate affatto, hanno prodotto risultati modesti o addirittura impatti negativi. Al contrario progetti ben pianificati hanno ottenuto risultati molto positivi, come nel caso dell’orso bruno, dello stambecco e del gipeto nelle Alpi. Il camoscio d’Abruzzo (Rupicapra pyrenaica ornata), specie distinta dal camoscio alpino (R. rupicapra) e sottospecie endemica a rischio di estinzione, in passato era ampiamente distribuito nell’Appennino centro-meridionale. La distruzione dell’habitat e soprattutto la caccia distrussero tutte le popolazioni ad esclusione di un piccolo nucleo sopravvissuto nell’attuale P. N. d’Abruzzo, Lazio e Molise. Fra il 1991 e il 2013 alcuni gruppi di camosci sono stati traslocati ed hanno rifondato popolazioni vitali in aree adatte all’interno del P. N. della Maiella, P. N. del Gran Sasso, P. N. dei Monti Sibillini e del parco regionale del Sirente – Velino. In quelle aree i camosci da soli non avrebbero mai potuto arrivare, a causa degli ostacoli infrastrutturali e per mancanza di corridoi ecologici praticabili.
Prima che gli ecosistemi degradati possano ospitare popolazioni di specie chiave di vertebrati, si dovranno ripristinare le funzioni fondamentali prodotte da comunità vitali di microorganismi e invertebrati dei suoli e acque dolci, vegetazione e insetti, non solo impollinatori, ricostituzione di praterie, arbusti e, nel tempo, di boschi e foreste. Come viene indicato anche nella NRL, in molte aree il ripristino potrà procedere spontaneamente semplicemente eliminando le cause del degrado e interrompendo ogni azione di disturbo o sfruttamento delle risorse naturali. A seguito della ricostituzione degli habitat, anche i mammiferi e gli uccelli ritorneranno spontaneamente. Queste aree dovranno essere sottoposte ad un regime di stretta protezione e lasciare che la natura faccia da sé. In altre aree dove non esistono popolazioni sufficientemente vicine per la colonizzazione spontanea sarà necessario pianificare le traslocazioni e le immissioni faunistiche. L’implementazione della NRL potrebbe essere l’occasione per migliorare la pianificazione ed il controllo dei processi di rinaturalizzazione, indipendentemente se spontanea o assistita.