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Salvaguardare la biodiversità per salvaguardare noi stessi

Riccardo Graziano

Gli allarmi sul declino della biodiversità si succedono sempre più pressanti, ma nonostante la gravità della situazione sia ormai evidente agli occhi degli scienziati, a livello di opinione pubblica non si sono ancora ben compresi i rischi legati a questa situazione, mentre i decisori politici stentano a delineare strategie improntate alla conservazione della biodiversità stessa, sia a livello globale, sia nel nostro Paese.
Con l’insediamento del Governo Draghi, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare è diventato Ministero della Transizione Ecologica, raccogliendo anche le deleghe in materia di energia precedentemente appannaggio del Ministero dello Sviluppo Economico. Si tratta di un dicastero strategico, dal momento che i fondi stanziati dall’UE sono vincolati alla messa in atto di politiche di riconversione ecologica a tutto campo, dall’agricoltura all’industria, dai trasporti alla produzione di energia. Senza dimenticare la vocazione originaria di tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, che dovrebbe restare centrale nelle azioni del Ministero, tanto che nel loro sito si legge: “La nostra prosperità economica e il nostro benessere dipendono dal buono stato del capitale naturale, compresi gli ecosistemi che forniscono beni e servizi essenziali. La perdita di biodiversità può indebolire un ecosistema, compromettendo la fornitura di tali servizi ecosistemici”. Dunque, uno dei compiti principali del nuovo dicastero dovrebbe essere la tutela della biodiversità nel nostro Paese.

Eppure, l’impressione è che questo non rappresenti una priorità nell’azione del Governo, focalizzato piuttosto sulla ripresa economica, anche con la riproposizione di ricette e modelli dettati dall’ideologia neoliberista che hanno già dato ampia prova della loro inefficacia e dannosità, sia sotto il profilo socio-economico, sia sotto quello ambientale. Per difendere la biodiversità si fa poco o nulla, come se non ci rendessimo conto che la nostra stessa sopravvivenza sul pianeta è legata a quella delle altre forme viventi, per cui è nel nostro stesso interesse salvaguardarle, come ha ammonito lo stesso Papa Francesco, ricordandoci quanto sia folle e illusorio pensare di poter vivere sani in un pianeta malato.
È la biodiversità che consente di garantire cibo agli abitanti del globo, perché l’attuale sistema agroindustriale basato sulle monocolture è intrinsecamente fragile, troppo omogeneo e rigido per avere quelle doti di resilienza indispensabili per adattarsi al crescente riscaldamento globale e ai conseguenti cambiamenti climatici. Gestire le coltivazioni con logiche produttive industriali giova solo ai giganti economici del settore, che controllano il mercato dei fertilizzanti chimici, dei pesticidi e delle sementi (comprese quelle geneticamente modificate).

Inoltre, la spinta ad aumentare costantemente la produttività sottrae progressivamente spazio agli ambienti naturali, come nel caso delle piantagioni di palma da olio che prendono il posto delle foreste pluviali asiatiche o delle coltivazioni e degli allevamenti che stanno divorando zone sempre più ampie della foresta amazzonica.

Per quanto riguarda l’Italia, nel PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che dovrebbe delineare le strategie per investire i fondi del Next Generation UE, si fa spesso riferimento al concetto di biodiversità, ma senza che traspaia alcuna azione concreta per la sua salvaguardia. Non si fa cenno, ad esempio, all’agroecologia, che prevede la riconversione in senso ecologico dell’attuale modello produttivo, salvaguardando i terreni agricoli e l’ambiente circostante attraverso l’uso attento delle risorse idriche, il recupero di pratiche tradizionali come la rotazione delle colture e il progressivo abbandono dei fertilizzanti e pesticidi chimici.
La perdita di biodiversità causata dall’agricoltura industriale è fotografata da numeri impressionanti: il 75% delle colture presenti a inizio ’900 è andato perduto, mentre tre sole specie – mais, riso, grano – forniscono attualmente il 60% delle calorie consumate dalla popolazione mondiale. Discorso analogo per l’allevamento, dove una razza su cinque rischia l’estinzione perché le industrie del settore puntano solo su quelle ad alta resa.

Ma ciò che avviene nel campo dell’agricoltura e dell’allevamento è solo un pallido riflesso di quanto sta accadendo all’ecosistema globale. Ormai la fauna selvatica è ridotta al lumicino e diminuisce costantemente come numero di specie e di singoli individui, parallelamente alla riduzione degli habitat e agli sconvolgimenti determinati dai mutamenti del clima.
Ad accendere i riflettori su questo tema è stato anche lo IUCN, il Congresso mondiale per la conservazione della biodiversità di Marsiglia [dal 3 all’11 settembre]. La manifestazione, organizzata con la presenza di oltre mille realtà fra attori istituzionali e Organizzazioni Non Governative, ha posto in evidenza l’urgente necessità di proteggere oltre un milione di specie a rischio estinzione. Occorre aumentare in modo esponenziale le risorse dedicate alla conservazione, implementando il numero e l’estensione delle aree protette a livello globale e sottoponendole a una sorveglianza e tutela reali.

In occasione del convegno è stata aggiornata anche la Lista Rossa dello IUCN, che elenca le specie minacciate e il livello del loro declino. Ha fatto notizia lo spostamento del varano di Komodo, la più grande lucertola del mondo, dallo status di “vulnerabile” a quello di “in pericolo”, ma purtroppo non si tratta di un caso isolato. A rischio anche due specie di squali su cinque, a causa delle tecniche di pesca non selettive: tra queste lo squalo mako e il pesce sega, che spesso finisce impigliato nelle reti a causa della sua protuberanza seghettata.
Segnali che rendono evidente l’avanzata di quella che gli esperti definiscono ormai apertamente la “sesta estinzione di massa”, a distanza di 65 milioni di anni dalla quinta, quella che spazzò via i dinosauri. Una catastrofe planetaria che rischia di cancellare anche la specie umana, che a dispetto della tecnologia non può sopravvivere senza l’interazione con gli altri viventi, anche se spesso ce lo dimentichiamo.

Eppure sono numerosi gli esempi di come la biodiversità contribuisca alla nostra esistenza: prodotti come pane, caffè, formaggio, vino e birra sono ottenuti dalla fermentazione ottenuta grazie a funghi, lieviti e batteri presenti in natura, oltre che negli stabilimenti di produzione. Ancora più rilevante il contributo degli impollinatori, prime fra tutti le api, che con la loro opera incessante (e gratuita!) sono alla base del 40% della produzione agricola. È evidente che se queste e altre specie di viventi dovessero estinguersi, come purtroppo sta avvenendo, anche per la specie umana la fine sarebbe inevitabile.

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