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Ambientalismo e neoambientalismo, la faglia generazionale

Riccardo Graziano

Era l’ormai lontano 1948 quando, fra le macerie della guerra e la ricostruzione in corso, un gruppo di pionieri dell’ambientalismo decise di fondare il MIPN – Movimento Italiano per la Protezione della Natura, che qualche anno dopo avrebbe preso la denominazione di Pro Natura, attiva tutt’oggi e col vanto di essere la prima organizzazione ecologista italiana, con oltre settanta anni di attività.

In tutti questi decenni, sono state innumerevoli le istanze e le battaglie portate avanti da Pro Natura e da tutte le altre organizzazioni ambientaliste che via via si sono formate e strutturate, cercando in primo luogo di tutelare un patrimonio naturale sempre più aggredito e devastato in nome di un modello di sviluppo economico insostenibile. Ma ben presto ci si è resi conto che la sola tutela del patrimonio naturale non era sufficiente: "l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio" diceva Chico Mendes, ucciso per il suo impegno a tutela della foresta amazzonica. Per questo le associazioni ambientaliste hanno iniziato ad affiancare all’attività di tutela del patrimonio naturale quella di denuncia di un sistema socio-economico rapace e distruttivo, lanciando appelli sempre più accorati (e inascoltati) per attuare una svolta radicale verso una maggiore sostenibilità, perseguendo la ricerca del benessere senza infliggere danni permanenti alla biosfera che ci consente di sopravvivere.

Un messaggio, lo ripetiamo, pervicacemente ignorato dalle élite dominanti, ma anche dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica dei Paesi sviluppati, troppo intenta a farsi sedurre dall’illusorio benessere offerto dal capitalismo e da tutti gli altri “-ismi” suoi corollari: consumismo, sviluppismo, liberismo, edonismo, individualismo, globalismo e chi più ne ha più ne metta. Per decenni gli ambientalisti si sono sgolati a urlare avvertimenti e allarmi all’indirizzo di un sistema economico avido e predatorio, di “rappresentanti” politici inetti e collusi e di un’opinione pubblica distratta e menefreghista, collezionando sconfitte e frustrazioni, finché ….

Finché il danno ambientale e il rischio climatico sono diventati talmente macroscopici da essere evidenti e innegabili persino per i più distratti, eccezion fatta per i negazionisti di mestiere, che negano l’evidenza e portano avanti pervicacemente una miope difesa dei loro interessi personali a scapito del bene comune.

Questa presa di coscienza ha messo in moto la (ri)scoperta delle tematiche ambientali da parte delle generazioni più giovani, dopo decenni di oggettivo declino dovuto in buona parte all’assenza di coinvolgimento delle generazioni di mezzo, quelle appunto che, come si diceva poc’anzi, si erano cullate nell’illusorio benessere dell’era del capitalismo suadente e “felice”, prima che il suo vero volto fatto di sfruttamento e devastazione diventasse palese.

Ora, questa (ri)presa di coscienza ambientale e sociale da parte della generazione dei millennials – i giovani nati a cavallo del cambio di millennio – non poteva che far piacere agli anziani ecologisti boomers, quelli nati negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, stanchi e frustrati da decenni di battaglie ambientaliste di cui poche vinte e troppe perse e che avevano visto calare inesorabilmente l’attenzione dell’opinione pubblica su questi argomenti.

La (ri)nascita di un movimento ecologista sembrava di ottimo auspicio, ma la realtà attuale ha smorzato parecchio gli entusiasmi, almeno di qualcuno. Innanzitutto perché molti dei nuovi ambientalisti sembrano spesso atteggiarsi come se fossero i primi e gli unici a preoccuparsi delle sorti del pianeta, senza ombra di riconoscimento del grande lavoro fatto finora dalle associazioni che li hanno preceduti e che tuttora portano avanti la duplice attività di tutela del patrimonio naturale e denuncia dei danni ambientali in continuo aumento. Lo dimostra il fatto che una parte preponderante di loro, anziché incanalare il proprio entusiasmo e le proprie rivendicazioni all’interno delle associazioni ambientaliste già esistenti, attive da decenni e ben strutturate, ha preferito fondarne altre ex novo, con tutte le problematiche relative all’inesperienza e alla mancanza di basi solide su cui poggiare. Questi ragazzi avevano la possibilità di “camminare sulle spalle dei giganti”, apprezzando e portando avanti il lavoro che altri avevano fatto prima del loro ingresso nel mondo dell’ambientalismo, nonché del loro ingresso nel mondo tout court, cioè ben prima che loro nascessero. Invece hanno preferito partire da zero, senza ombra di riconoscimento di tutto il lavoro svolto prima, come se fosse inutile o sbagliato. E hanno anche scelto metodi di intervento e di lotta discutibili, troppo spesso scarsamente efficaci se non addirittura controproducenti.

Un giudizio troppo severo da parte di un anziano ecologista amareggiato e frustrato? Forse, ma proviamo a dare un’occhiata oggettiva all’azione dei principali movimenti neoecologisti.

I primi in ordine di apparizione e probabilmente tuttora i più numerosi sono i Fridays For Future (FFF), nati su ispirazione degli “scioperi del venerdì” iniziati dall’adolescente svedese Greta Thunberg, giovane attivista preparata e determinata, leader in grado di amplificare il messaggio ecologista e smuovere le coscienze. Ma dopo un boom iniziale davvero notevole e promettente, il movimento sembra asciugarsi lentamente, senza aver conseguito successi significativi e proporzionali alla ribalta mediatica ottenuta inizialmente, forse anche perché troppo legato a una “liturgia” che a volte sembra preponderante rispetto al messaggio e alle rivendicazioni, a partire proprio dalla consuetudine di reiterare gli “scioperi” per il clima al venerdì, giornata lavorativa che impedisce la partecipazione dei lavoratori. Ne consegue che a queste manifestazioni riescono a partecipare solo gli studenti e alcuni vecchi ambientalisti boomers, grazie al fatto di essere ormai in pensione…. Ma l’assenza delle generazioni intermedie, quelle mature e produttive, pesa molto e contribuisce a esacerbare quella frattura sociale e generazionale che ha provocato il declino del movimento ambientalista durato una trentina d’anni. Oggi ci sarebbe l’occasione di coinvolgere nella lotta quelle generazioni di mezzo che ben poco si sono interessate alle tematiche ecologiche, ma la scelta di manifestare in un giorno lavorativo ne impedisce o quantomeno non ne incentiva la partecipazione, contribuendo ad approfondire il solco generazionale. In più, FFF rifiuta la presenza di bandiere di appartenenza alle proprie manifestazioni. Ora, se questa cosa è comprensibile per quello che riguarda i vessilli di partito e persino dei sindacati, per evitare strumentalizzazioni, è francamente incomprensibile per quanto riguarda le bandiere delle altre associazioni ambientaliste, che con la loro presenza darebbero anche l’impressione di una comune volontà di intenti e di collaborazione. Il problema è dunque capire se tale volontà di collaborazione col resto del mondo ecologista è presente all’interno di Fridays For Future, cosa che a prima vista non sembra.

Altra associazione nata sull’onda neoecologista è Extintion Rebellion (XR) un movimento che “chiama alla disobbedienza civile nonviolenta per chiedere ai governi di invertire la rotta che ci sta portando verso il disastro climatico e ecologico”.  Sulla reale efficacia della “disobbedienza civile” ci sarebbe da discutere a lungo. Tuttavia, abbiamo anche sentito esponenti di XR teorizzare sul fatto che storicamente le rivoluzioni si sono innescate quando il 3 per cento della popolazione era determinata a farle partire. Anche sorvolando sull’ossimoro potenziale fra rivoluzione e nonviolenza, in termini strettamente quantitativi per l’Italia significa un milione ottocentomila persone disposte a “rivoluzionare” il Paese e le proprie vite in nome della svolta ecologica, un numero che ci pare francamente lontano rispetto all’attuale capacità di mobilitazione del movimento ambientalista nella sua interezza, figuriamoci se frammentato al suo interno. Inoltre, la componente quantitativa è necessaria, ma non sufficiente, come si dice in matematica. Occorre che i “rivoluzionari” siano di qualità, ovvero inseriti nei gangli strategici del sistema socioeconomico, per poter essere efficaci, qualcosa che difficilmente è appannaggio degli ambientalisti che, come abbiamo visto, sono in maggioranza studenti o pensionati. Dunque resta solo la “disobbedienza civile”. Auguri.

Per ultimi, è il caso di dirlo, sono spuntati i neoecologisti di Ultima Generazione, quelli diventati famosi perché vanno in giro a imbrattare monumenti per denunciare la mancanza di volontà politica nel contrastare i cambiamenti climatici. Definizione forse un po’ schematica e semplicistica, ma questo è il messaggio che loro stessi hanno contribuito a far passare nella maggioranza dell’opinione pubblica, senza peraltro ottenere nessun risultato concreto e alienandosi anche la (poca) simpatia che la stessa opinione pubblica sembrava iniziare a manifestare nei confronti degli ecologisti. Un’azione dunque non solo inutile, ma pure controproducente, che rischia di squalificare l’intero movimento ambientalista facendolo passare per una massa di teppisti fanatici. Del resto, protestare contro le brutture fatte dall’umanità imbrattando le cose belle fatte dall’umanità stessa è già una contraddizione in termini. Ma su una cosa questi ragazzi hanno purtroppo ragione: se si continua così, la loro sarà davvero l’Ultima Generazione.

Per questo sarebbe il caso di invertire la rotta quanto prima possibile e in maniera decisa, ma il sistema politico e socioeconomico globale non sembra intenzionato ad agire in questo senso, o almeno non abbastanza in fretta. E un’azione forte e determinata di un movimento ambientalista numeroso e coeso sarebbe auspicabile per spingere l’opinione pubblica e di conseguenza i decisori politici in questa direzione.

Ma sembra che i movimenti ecologisti non siano purtroppo così numerosi e, soprattutto, non si intravede la necessaria coesione, anzi la spaccatura fra ecologisti della prima ora e neoecologisti attuali sembra assai difficile da colmare. E pensare che già i nostri avi dicevano “se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse….”.

Ecco, i vecchi – pardon, anziani, pardon, diversamente giovani – ambientalisti “storici” sono qui, con tutto il loro bagaglio di lotte, esperienze e piccole vittorie, pronti a supportare questa nuova ondata ecologista, con rinnovato entusiasmo. Resta da capire se fra i giovani che hanno preferito fondare nuovi movimenti ci sia una reale volontà di ascolto e collaborazione, cosa che al momento non sembra. Ma saremmo felicissimi di essere smentiti.

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