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Amnesie, ipocrisie e irresponsabilità. Verso un consapevole suicidio collettivo?

Valter Giuliano

Non so se ve ne siete accorti, ma la declinazione del PNRR perde, nella comunicazione globale, sempre più spesso la R finale. Tutto si ferma a Piano Nazionale di Ripresa e dimentica la Resilienza, vale a dire la necessità di adeguarsi alle conseguenze della crisi climatica.
Così come, da quasi subito, la transizione ecologica – complice un Ministro che di ambiente nulla sapeva – si ridusse a energetica.
Ogni parola ha un senso, così come lo ha ogni omissione. E le amnesie sempre più frequenti sottolineano la tendenza a sottovalutare quell’esigenza di cambiamento radicale che le azioni suggerite a livello europeo intendono innescare per affrontare davvero, e non solo a parole, la crisi ambientale che ha nell’insostenibile e apparentemente inarrestabile aumento delle temperature del pianeta la sua evidenza più significativa.
L’Unione, con il programma Next Generation EU, dotato di un pacchetto di investimenti di 750 miliardi di euro. ha inteso affrontare non solo la crisi pandemica, ma anche e soprattutto la transizione ecologica, per assicurare un futuro alle prossime generazioni. Il PNRR che prevede con il fondo complementare oltre 250 miliardi, in gran parte a fondo perduto, invita gli Stati membri ad azioni concrete per quella che viene definita “transizione (definita in alcuni documenti ‘rivoluzione’) verde”.
Tutti i progetti che verranno finanziati dovranno innanzitutto «non causare danni ambientali», tutelando il territorio e le sue risorse, in particolare quella idrica, perseguendo cinque missioni (transizione digitale, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute).
Indicazioni che sembrano del tutto ignote alla nostra classe politica, purtroppo non solo al Governo.
Quando ai buoni principi, racchiusi solo nelle buone intenzioni e nelle conseguenti dichiarazioni, non fanno seguito atti conseguenti, ecco che il bluff si rivela in tutta la sua evidenza.
Prendiamo le decisioni dell’Unione Europea e del piano per rendere sostenibile il patrimonio edilizio europeo.
C’è subito chi si indigna e rosica «perché Greta ha vinto». C’è chi strilla perchè proprio non gli va giù. I resilienti a parole approvano la riconversione ecologica, ma quando ai “bla bla bla” seguono provvedimenti concreti, iniziano le loro litanie sul fatto che «sostenibile va bene ma non deve andare a scapito dello sviluppo. Che sì bisogna agire, ma dando tempo alle imprese di adeguarsi. L’energia verde va bene, ma servono ancora il carbone, le fonti fossili, il nucleare, ecc, ecc».
Contro la proposta di Direttiva europea sulle green house (case energeticamente sostenibili) la Lega parlato di turboambientalismo.
Davanti a una crisi climatica galoppante, che mette a rischio l’agricoltura, l’industria, la stessa disponibilità di acqua per consumi umani, dobbiamo ancora attendere?
Salvo eccezioni e deroghe (case vacanza, palazzi storici tutelati, chiese e abitazioni indipendenti di meno di 50 metri quadrati...) le abitazioni residenziali dovranno rientrare in classe E entro il 2030 e in classe D entro il 2033. Si tratta del primo passo di un iter che prevede il voto dell’Assemblea planaria, poi il negoziato con le altre istituzioni europee e consentirà agli Stati membri ampia flessibilità. Non ci saranno né obblighi né divieti alla vendita di chi non si sarà adeguato, ma è evidente che il mercato imporrà le sue valutazioni. È inoltre previsto uno specifico fondo europeo a sostegno dell’attuazione di una legge che intende abbattere il contributo del settore edilizio alla produzione di CO2.
Se non ora quando?
In Italia, secondo le stime di Enea, sarebbero almeno 11 milioni (il 74%) le abitazioni in classe superiore alla D.
È del tutto evidente che occorre da subito pensare a un Piano specifico per la penisola. Questo un Governo efficiente e responsabile deve fare. Non attaccare chi propone soluzioni che non si possono rinviare.
In questo contesto la recente strumentale polemica sul Superbonus edilizio non può prescindere dal fatto che si tratti del primo grande contributo dato all’efficientamento energetico delle nostre case. Spontaneamente sarebbe mai accaduto?
Sui discussi conti economici le opinioni sono contrastanti, anche diametralmente opposte.
Chi dice che ne è derivato più debito e poca crescita, se non effimera, di PIL e occupazione. Chi, come l’Istat, produce numeri da cui risulterebbe che è vera la salita del deficit del 2,4% rispetto alle previsioni, causata dal ricalcolo dei crediti fiscali deciso da Eurostat, che però non si traduce in aumento del debito e cade nel periodo di sospensione dei vincoli del patto di stabilità. Ma nel contempo – segnala – il PIL segna un + 3,7% e lo Stato incasserà una ottantina di miliardi per i prossimi dieci anni, la metà già entro il 2025. Alla fine il rapporto debito/PIL sarebbe calato e nel frattempo una parte del nostro patrimonio edilizio starebbe meglio sotto il profilo climatico.
Ma chi si occupa di economia questo effetto lo ritiene del tutto marginale e non contabilizzabile.
Analisi analoga possiamo farla sulle levata di scudi contro la fuoriuscita dai motori termici programmata dall’UE al 2035.
Nel futuro reale che significa? Che da quella data circoleranno solo motori non climalteranti? Purtroppo no! Per decenni ancora, a esaurimento, sulle nostre strade incroceremo quelli termici con il loro nefasto contributo alla crisi climatica sempre meno governabile.
Anche qui, un concerto irresponsabile di reazioni scomposte. E del tutto irrazionali, capaci solo di inseguire gli strilli della parte peggiore della nostra imprenditoria, quella che reclama la possibilità di continuare a succhiare contributi pubblici facendo profitti senza predisposizione alcuna ad investire in nuove tecnologie e processi produttivi efficienti. Aziende residuali di cui faremmo bene a liberarci, lasciandole scivolare verso l’estinzione, con un conseguente risparmio nel fardello di sostegno pubblico a garanzia della loro inutile sopravvivenza che non fa che procrastinarne l’ineludibile fuoriuscita dal mercato.
Solo Confindustria Lombardia ha colto la necessità di dare stimoli perchè alla transizione, nel settore, si imponga una necessaria accelerazione per poter competere sul mercato globale. Attendiamo emuli virtuosi a dimostrare la presenza, che c’è, di una imprenditoria sana, proiettata verso il futuro e consapevole che per affrontarlo le questioni ambientali non sono più nemiche.
Purtroppo in questo caso l’Italia getta sabbia negli ingranaggi del cambiamento e si oppone a Bruxelles. E l’ineffabile nuclearista Chicco Testa, già fondatore di Legambiente, strilla la sua opposizione e chiede che l’Europa non diventi la ZTL del mondo!
Che dire? Che fare?
Le opposizioni del Governo sulle azioni concrete a favore della riconversione ecologica ed energetica segnano un ritardo culturale che fa di noi il fanalino di coda del continente.
E, soprattutto, evidenziano la totale mancanza di una reale e realistica programmazione di una politica per la resilienza nei confronti della crisi climatica in atto.
Ne soffriranno le città e le campagne e il Governo resterà a guardare, capace solo di intervenire a posteriori rincorrendo le emergenze con bonus, risarcimenti... fino a quando le capacità di indebitamento non lo costringeranno al default, mangiandosi i nostri risparmi, le nostre pensioni, le speranze di futuro delle nuove generazioni.
Gli schiamazzi isterici di oggi nei confronti delle politiche europee si trasformeranno in pianti e disperazioni senza rimedio.
Se questo scenario, ormai alle porte, si avvererà, sarà anche colpa nostra.
E una responsabilità, non secondaria, sarà da attribuire a una informazione ormai inadempiente rispetto alle sue funzioni. Asservita al potere, incapace – tranne casi sempre più rari – di dirci le cose come stanno con la dignità di non passarci soltanto le veline del potere o di mettere il microfono a disposizione del potente di turno. Un “gelato” a raccogliere le dichiarazioni, interviste senza domande, o al più funzionali al discorso che il leader di turno ha già concordato.
Questo pseudo giornalismo consegna l’Italia agli ultimi posti nella classifica dell’informazione.
E purtroppo non solo sulle questioni dell’emergenza ambientale.
La deontologia che obbliga a verificare le fonti, a non consentire la diffusione di notizie false e tendenziose, a proteggere i minori, a non segnalare occasioni di discriminazione sessuale, religiosa, etnica, è rimasta soltanto più nei corsi di aggiornamento della professione. Ma ogni trasgressione è consentita, con un Ordine che raramente si oppone, ricorre, e proprio per questo ha sempre meno motivi per esistere. Senza contare che la professione la esercita (abusivamente?), ai livelli di maggior ascolto, chi ha rinunciato a farne parte.
Un altro segno del degrado di un paese che aspetta risposte dalla sua classe dirigente. Altrimenti la rifiuta, rinunciando a esercitare quel diritto-dovere al voto che è fondamento non solo della nostra Costituzione ma dello stesso ordine democratico.

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