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Carnivori 2.0

Riccardo Graziano

Fra le tante problematiche legate al cibo, una questione destinata a divenire centrale è quella relativa alla cosiddetta carne sintetica, termine improprio utilizzato con valenza negativa per indicare la carne coltivata in laboratorio e finora non autorizzata in Europa per la commercializzazione e il consumo. Si tratta di una tecnologia agli esordi, ma che in prospettiva potrebbe assumere un ruolo chiave nell’alimentazione dei prossimi anni, andando a modificare gli equilibri della filiera della produzione di cibo, con rilevanti conseguenze economiche, sociali e strategiche, senza contare le implicazioni etiche e morali.

L’attuale modello di produzione di carne, che gli attori della filiera definiscono impropriamente “tradizionale” con una evidente forzatura propagandistica, è in realtà una vera e propria industria, basata in gran parte sugli allevamenti intensivi al chiuso, su mangimi importati, su una logistica sovraestesa e tentacolare e su stabilimenti di trasformazione improntati da logiche da catena di montaggio.

Ovvero, nulla a che vedere con il metodo “tradizionale” utilizzato dai contadini per secoli e giunto fino alla seconda metà del novecento, quando gli allevamenti erano composti da un numero limitato di animali che stazionavano spesso all’aperto, nutrendosi al pascolo o con fieni e foraggi di provenienza locale. In questo contesto, non c‘era necessità di diserbanti o concimi chimici: gli animali provvedevano a “diserbare” il terreno brucando secondo le proprie caratteristiche (mucche e pecore in piano, capre sui pendii …) e a concimare con le proprie deiezioni, producendo nel frattempo il latte, che i casari trasformavano in formaggi e altri latticini. Le pecore fornivano anche la lana, mentre la carne arrivava solo “a fine ciclo”, insieme a prodotti collaterali come cuoio e osso. Un ciclo parallelo era quello del maiale, di cui come noto “non si butta via niente”.  Un animale che cresceva alimentandosi con gli scarti di orto e cucina e che a “fine ciclo” contribuiva a integrare la (magra) dieta dei contadini con una grande quantità di proteine, anche a lunga conservazione.

Questo modello produttivo era sostanzialmente un esempio ante litteram di economia circolare, che per lungo tempo ha mantenuto un buon equilibrio fra uomo e ambiente, ma non possiamo mitizzarlo e dimenticare le durissime condizioni in cui vivevano e lavoravano i contadini. Attualmente, solo una minima parte degli allevamenti funziona più o meno in questo modo, specialmente nelle zone interne vallive, dove ancora assistiamo alle sempre più rare transumanze, con lo spostamento del bestiame in quota durante la stagione estiva e il rientro in autunno. Oggi come allora, portare avanti il mestiere di allevatore in questo modo comporta fatiche e sacrifici, dunque è evidente che non si può riproporre un generalizzato e anacronistico ritorno al passato, economicamente impraticabile e socialmente inaccettabile.

Tuttavia, è altrettanto evidente che l’attuale modello, prevalentemente basato sull’allevamento intensivo e su logiche di economia lineare, con crescente sfruttamento di risorse primarie e produzione di ingenti quantità di rifiuti difficilmente gestibili, è diventato insostenibile. L’impronta ecologica degli allevamenti moderni è ben più estesa dei capannoni in cemento che hanno preso il posto dei pascoli e all’interno dei quali gli animali vivono tutta la loro (breve) vita ammassati al chiuso in condizioni igienico sanitarie troppo spesso precarie. La mangimistica con cui questi animali vengono foraggiati proviene da stabilimenti industriali spesso distanti dagli allevamenti, che a loro volta ricevono la materia prima da coltivazioni sovente situate all’estero, comprese le terre strappate alla foresta amazzonica con pratiche di disboscamento intensivo, o provenienti da colture transgeniche ottenute in Paesi dove l’utilizzo di OGM (Organismi Geneticamente Modificati) è ammesso e largamente utilizzato. A questo si aggiunge il problema della gestione dei rifiuti, tonnellate di deiezioni e liquami con alto contenuto di ammoniaca, un inquinante che tra le altre cose è anche un precursore di PM10, ovvero fra le cause principali di emissioni di particolato, le micidiali “polveri sottili” che appestano l’aria che respiriamo e che sono potenzialmente in grado di procurarci danni ai polmoni e al sistema cardiocircolatorio. Senza dimenticare il rischio sanitario. In passato, l’abuso di antibiotici ha contribuito a selezionare ceppi di batteri resistenti che possono essere assai pericolosi per la nostra salute, mentre in tempi recenti gli allevamenti intensivi si sono rivelati serbatoi ideali per lo sviluppo di epidemie come l’influenza aviaria o quella suina.

Occorre quindi mettere in atto diverse strategie per riconvertire la nostra industria della carne, naturalmente in modo graduale e senza provocare scossoni economici e sociali a un sistema che si è radicato nel corso dell’ultimo mezzo secolo e che vede come un pericolo mortale la concorrenza di un altro sistema industriale, quello appunto della carne coltivata in laboratorio. Il dibattito a cui assistiamo è quindi dettato non tanto da preoccupazioni relative alla salute dei consumatori, quanto piuttosto a uno scontro lobbystico e in parte ideologizzato fra due sistemi industriali concorrenti, quello degli allevamenti intensivi e quello nascente della carne coltivata in laboratorio. E in mezzo a questi colossali interessi economici, i consumatori rischiano di essere preda di propaganda, disinformazione e allarmismi ingiustificati, perdendo la possibilità di poter valutare e scegliere in modo informato e consapevole.

La carne coltivata (o carne a base cellulare) non è, come spesso si vuol far intendere, “carne sintetica” o “artificiale” , ma un prodotto di origine animale, senza allevare l’animale. La tecnica consiste in sostanza nel prelevare da un esemplare vivente alcune cellule staminali, le più versatili dei nostri organismi, e coltivarle in una soluzione nutritiva all’interno di “bioreattori”, indirizzando le cellule indifferenziate a diventare fibre muscolari, ovvero quelle che costituiscono le bistecche e i prosciutti, per capirci.

Naturalmente, le cose sono un po’ più complesse di così. Si tratta di una storia che parte da lontano, quando negli anni ’50 del secolo scorso lo scienziato olandese Willem van Eelen teorizzò per la prima volta la possibilità di “coltivare” la carne. Tuttavia, occorre aspettare fino al 1971 per vedere le prime fibre muscolari ottenute in laboratorio, quando Russell Ross riesce a coltivare in vitro delle cellule di maiale. Passano poi più di quarant’anni prima che, nel 2013, un gruppo di ricerca olandese produca con questa tecnica un hamburger presentato (e mangiato ...) in una dimostrazione a Londra.

Prima e dopo questa data, innumerevoli laboratori di vari Paesi si sono cimentati con questa tecnologia, implementandola e perfezionandola, anche con l’ausilio di stampanti 3D in grado di utilizzare un filamento di fibra proteica per “costruire” un taglio di carne sempre più simile a quello ottenuto dalla macellazione di un animale. Fino ad arrivare al 2 dicembre 2020, quando la Singapore Food Agency, dopo due anni di sorveglianza alimentare, ha autorizzato la messa in vendita di “bocconcini di pollo” coltivati in laboratorio e approvati per il consumo da parte dei cittadini. È solo l’inizio, ma se altri Paesi seguissero questo esempio, potrebbe essere una rivoluzione nel campo alimentare. Adottando queste pratiche su larga scala, si otterrebbe un abbattimento dei costi (al momento elevatissimi) che porterebbe i consumatori a poter scegliere fra la carne cresciuta nei bioreattori e quella degli allevamenti, con tutto ciò che quest’ultima comporta anche sotto il profilo etico: sfruttamento animale, allevamenti intensivi e loro problematiche sopra descritte, sofferenza di esseri senzienti, trasporto, macellazione eccetera. È possibile che una parte consistente di consumatori decida di passare alla carne ottenuta senza utilizzo di animali, provocando un terremoto nell’industria zootecnica.

Nell’Unione Europea, il 27 aprile 2022 la Commissione UE ha autorizzato la richiesta di raccolta firme per una iniziativa di cittadini europei denominata "End The Slaughter Age" (fine all’era dei macelli) che mira a spostare i sussidi dall’attuale zootecnia intensiva alla produzione cellulare in laboratorio. La strada nel nostro continente è ancora lunga, ma questa semplice apertura è già stata sufficiente per agitare gli animi e suscitare allarmismo. In particolare, in Italia la Coldiretti si è schierata con estrema decisione contro quella che loro definiscono impropriamente “carne sintetica”, esercitando un’azione di lobby sul Governo talmente imperiosa da ottenere in tempi rapidissimi l’approvazione di una legge che vieta nel nostro Paese la produzione e commercializzazione della carne coltivata, caso per ora unico al mondo. Una decisione che ha creato qualche difficoltà anche ai laboratori che coltivano tessuti impiegati in medicina, come le cellule epiteliali utilizzate per ripristinare il derma delle persone ustionate, perché i finanziatori nutrono maggiori timori a investire nel settore.

Questa presa di posizione estremamente conservativa è giustificata dall’attuale livello di penetrazione della nuova tecnologia, finora autorizzata per la commercializzazione solo nella remota Singapore? A pesare sono davvero ragioni di tutela verso i consumatori italiani, o contano molto gli interessi dell’industria zootecnica italiana? E il fatto che il presidente di Coldiretti Ettore Prandini sia titolare di un’azienda di allevamento c’entra qualcosa con la posizione assunta dall’associazione di categoria o si tratta semplicemente di un caso?

Tutti interrogativi sui quali sospendiamo il giudizio, invitando i lettori ad approfondire per conto proprio, anche relativamente ai problemi della carne coltivata, che a sua volta presenta luci e ombre. Ci limitiamo solo a far notare una cosa: la stessa Coldiretti che sembra così preoccupata per la salute di noi consumatori  e che si batte a gran voce per “difenderci” dalla carne coltivata in laboratorio e dalle farine proteiche ottenute dagli insetti, è invece favorevole all’introduzione degli NGT, ovvero gli OGM -Organismi Geneticamente Modificati- di seconda generazione, che vengono in alcuni casi equiparati a piante naturali, quindi non necessitano di una specifica etichettatura che consenta la loro identificazione e dunque la libera scelta da parte del consumatore. Curioso, no? Coldiretti è contraria  alla carne proveniente dai laboratori che potrebbe fare concorrenza ai loro allevamenti, ma favorevole ai semi transgenici che potranno essere coltivati dai loro associati e infilati di soppiatto nei nostri alimenti senza dichiararlo in etichetta. Un’interpretazione flessibile del principio di precauzione che, a voler essere maliziosi, sembra modellata su misura per le grandi aziende che dominano il mercato italiano con la loro produzione proveniente da coltivazioni e allevamenti intensivi.

Ma noi non siamo maliziosi, per cui ci limitiamo a ricordare che la famosa Dieta mediterranea, quella che un tempo era alla base dell’alimentazione del Belpaese, prevede un consumo di carne ridotto, massimo due volte a settimana. E a quel punto, riducendo la quantità, si potrebbe privilegiare la qualità, provando – per quanto possibile – ad acquistare le produzioni di quegli allevatori che, con grande impegno e non pochi sacrifici, portano avanti una produzione davvero tradizionale e sostenibile. Oppure, si potrebbe fare la scelta ancora più radicale di rinunciare alla carne. Ma questa è un’altra storia.

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