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Conservare le foreste e i suoi processi naturali

Alessandro Bottacci

 

Le foreste del mondo coprono attualmente quasi 4 miliardi di ettari, pari al 31% delle terre emerse. A partire dal neolitico (circa 15.000 anni fa) l’uomo ha distrutto (per agricoltura, pastorizia, tagli forestali, urbanizzazione, desertificazione indotte, ecc.) circa il 45% delle foreste originarie (oltre il 5% solo negli ultimi 20 anni). Alla base di questa distruzione del patrimonio boschivo mondiale vi è una visione parziale e pericolosa del rapporto uomo/bosco.

Le foreste sono spesso considerate come un semplice insieme di alberi, che ha, come scopo principale, la produzione di legna (da ardere e da cippato) e/o di legname da opera. Questa visione riduzionistica è molto diffusa, specialmente nel mondo dei tecnici forestali.

In realtà, con l’ampliarsi delle conoscenze scientifiche, gli ecosistemi forestali sono sempre più considerati come sistemi biologici, complessi, autopoietici, adattativi. Questi sistemi sono cioè composti da molti organismi collegati tra loro da una fitta rete di relazioni. Hanno la capacità di organizzarsi autonomamente seguendo dei processi naturali, con lo scopo di adattarsi di volta in volta al mutare delle condizioni ambientali, essendo essi stessi capaci di modificare le condizioni ambientali.

Alla base della funzionalità degli ecosistemi forestali si trova un elevata biocomplessità. Il termine biocomplessità tiene conto non solo della varietà di specie presenti in un ecosistema (comunemente indicato con il termine biodiversità), ma anche la rete di collegamenti tra di esse. Più un ecosistema è evoluto e indisturbato e più alta è la sua biodiversità.

Per questo le foreste vetuste, dove l’uomo ha inciso in misura minore, sono più ricche di complessità e, di conseguenza, presentano maggiori valori di resistenza (capacità di non perdere il proprio equilibrio), di resilienza (capacità di recuperare l’equilibrio al cessare del disturbo esterno) e di adattabilità (capacità di modificare la propria struttura e composizione per adeguarsi ad una nuova situazione ambientale stabile).

La Biocomplessità di un ecosistema forestale è, poi, dipendente dal tempo e dallo spazio.

Il tempo è un’altra caratteristica necessaria per ottenere foreste resiliente. Il ciclo di vita di un albero (dalla nascita dal seme alla morte e decomposizione) richiede vari secoli. Troppo spesso l’uomo si approccia alle foreste con un parametro temporale umano, dimenticando che, rispetto all’uomo, il tempo degli alberi è decisamente più lento. Ogni tentativo di velocizzare la crescita di una foresta, ad es. attraverso tagli di diradamento, si trasformano in un disturbo, che influisce negativamente sulla vitalità del sistema. Al contrario alcuni interventi (come i tagli rasi) vanificano l’azione positiva del tempo.

Non possono esistere foreste funzionanti su superfici ridotte e frazionate. Gli studi indicano in almeno 500 ha la superficie forestale minima vitale, priva di disturbi antropici.

Lo spazio permette di poter essere presenti, in un’adeguata superficie, tutti gli stadi funzionali-strutturali della foresta: dalla fase giovanile a quella adulta, a quella di invecchiamento e morte. Il tutto non avviene contemporaneamente su tutta la superficie ma secondo un mosaico molto variegato.

Occorre inoltre considerare che esiste non solo lo spazio bidimensionale (la superficie del bosco), ma anche la sua terza dimensione, quella verticale. Gli ecosistemi forestali sono particolarmente caratterizzati dallo spessore ecologico, cioè dalla porzione di spazio verticale che va dagli apici più profondi delle radici fino alle parti più alte della chioma. Anche in questo caso, l’aumento dello spesso ecologico aumenta positivamente la biocomplessità.

La porzione della foresta che si sviluppa sotto la superficie del suolo è estremamente importante; nel suolo infatti si svolgono le interazioni più importanti, tanto che le radici sono considerate il cervello della foresta. Nel suolo gli alberi si scambiano le sostanze e l’acqua, ma anche molte informazioni attraverso una fittissima rete di ife fungine che collegano gli apici radicali tra loro, anche tra specie arboree diverse. Questa rete è chiamata rete micorrizica o, con un termine inglese più diffuso, Wood Wide Web (l’ampia rete del bosco). Attraverso la rete si scambiano informazioni, acqua, sostanze nutritive, zuccheri, trasformando i singoli alberi in una parte di un sistema più complesso, il tutto sotto la direzione degli alberi più vecchi, chiamati alberi madre. Naturalmente perché la rete micorrizica si sviluppi occorre un tempo adeguato (almeno vari decenni) senza disturbo. Occorre un suolo evoluto e ricco, che non sia solo il supporto fisico degli alberi, ma il luogo delle interazioni di tutto l’ecosistema.

L’ecosistema forestale è un sistema molto forte ma anche molto delicato. Ogni intervento di taglio rappresenta un disturbo che semplifica la complessità e riduce i benefici ecosistemici forniti dalla foresta.

Purtroppo una serie di provvedimenti normativi (Testo unico delle foreste e delle filiere forestali, le leggi forestali regionali, gli incentivi alla selvicoltura, gli incentivi all’uso di legno vergine come fonte energetica, ecc.), in Italia e in Toscana, stanno seguendo sempre più un indirizzo industriale-utilizzativo piuttosto che quello conservativo-responsabile. Alla base vi è un mercato “drogato” da tanti fondi europei, nazionali e regionali, che spingono alla liquidazione del patrimonio forestale, accumulatosi grazie a decenni di perdita di interesse da parte dei boschi. A causa di questi incentivi e per colpa della scelta di spingere la filiera legnosa basata sul taglio ceduo e sull’uso del cippato per alimentare le centrali termoelettriche, si sono affermate ditte boschive di carattere industriale che operano su vaste superfici e con mezzi di grandi dimensioni.

Queste ditte boschive sono sradicate dal territorio ed operano spesso ai limiti della legalità, sia per quanto riguarda il rispetto delle norme di sicurezza del lavoro, sia per quanto riguarda le assunzioni e la contribuzione degli addetti, sia per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti legnosi e l’aspetto fiscale.

In conseguenza di tutto questo si creano ampi margini di guadagno a scapito sia dei proprietari boschivi (pubblici o privati), sia a scapito delle foreste come bene comune, capace di fornire ecobenefici come assorbimento dell’anidride carbonica, produzione di ossigeno, mitigazione del clima, conservazione del suolo, regolazione del regime delle piogge, difesa dalla perdita di biodiversità, ecc.

Negli ultimi anni si è diffusa una informazione distorta sulla consistenza del patrimonio forestale nazionale. Da varie parti si esalta l’aumento delle foreste italiane. SU questo punto occorre fare un doveroso chiarimento. Prima di tutto la crescita della superficie forestale evidenziata dall’ultimo inventario nazionale del 2015, fa riferimento ai primi anni cinquanta, quando il nostro Paese aveva segnato il livello più basso di copertura forestale della storia. In secondo luogo l’incremento della superficie, così tanto declamato, è legato sia ad una modifica di definizione statistica di bosco (per cui sono stati inclusi nella superficie forestale anche le aree di arbusteti e simili), sia nell’inclusione nella superficie forestale dei boschi di neoformazione (aree ex agricole nelle quali si hanno i primi stadi di ricolonizzazione da parte della vegetazione forestale). In conclusione i dati parlano di un patrimonio ancora povero e semplificato, ancora debole e difficilmente capace di rispondere in modo efficace alle sfide climatiche in atto.

La povertà dei nostri boschi è evidenziata se, invece di parlare di superficie, si parli di volume unitario delle foreste. Il valore medio italiano è ancora molto basso (165 m3/ha) rispetto ai valori di Paesi forestalmente più evoluti come l’Austria e la Germania (entrambi con volumi unitari superiori a 360 m3/ha).

Ad aggravare la situazione rispetto all’ultimo inventario forestale del 2015, ci sono situazioni negative come i danni dell’uragano Vaia (2018), la conseguente infestazione di bostrico dell’abete rosso, la recrudescenza degli incendi boschivi, specialmente dopo la soppressione del Corpo forestale dello Stato avvenuta nel 2016.

La Toscana è la regione più ricca di boschi. Sia come superficie che come volume totale. Ci si aspetterebbe una politica forestale attenta, considerato anche il fatto che, proprio in Toscana, è nata la storica Scuola forestale italiana. Ci si aspetterebbe una legislazione forestale attenta alla conservazione di questo patrimonio, costruito da generazioni di buon governo, invece oggi questa regione è una di quelle meno attente e più tolleranti verso le utilizzazioni industriali, volte esclusivamente a massimizzare il profitto, non tenendo conto degli effetti negativi (ambientali ed economici) di questo tipo di indirizzo.

Da un’analisi del Global Forest Watch si evince che, nel periodo dal 2001 al 2023, la Toscana ha perso 96.500 ha di copertura forestale, pari all’8,9% della copertura forestale riferita all’inizio del periodo. È importante infatti chiarire che, dopo il taglio raso, la superficie forestale catastale rimane invariata, mentre diminuisce decisamente la copertura e il volume, influendo negativamente su tutti gli ecobenefici forniti dal bosco.

Boschi semplificati, poveri e antropizzati non riescono a svolgere a pieno le funzioni produttive e protettive che potrebbero fornire. Di fronte ai sempre più intensi e frequenti eventi meteorici “eccezionali”, il territorio privato della copertura forestale è più vulnerabile, come dimostra la cronaca dei disastri ambientali più recenti.

La risposta a questa situazione deve essere veloce e decisa. Dovranno essere adottare norme più restrittive e conservative, limitando lo strapotere delle ditte che agiscono con criterio minerario. Si dovrà produrre politiche forestali più attente con azioni concrete come l’abolizione del taglio ceduo e del taglio raso (a partire dai boschi di proprietà pubblica e comunale), la interruzione degli incentivi alle biomasse da legno vergine, l’incentivazione all’avviamento a fustaia di tutti i cedui, il rispetto totale della vegetazione ripariale lungo i corsi d’acqua, l’adozione di sistemi selvicolturali basati sulla copertura forestale continua, la messa in atto di interventi (anche con finanziamenti pubblici) di restauro forestale e di rimboschimenti, l’aumento del volume unitario di necromassa (piante morte in piedi o a terra), la previsione di un volume forestale minimale al di sotto del quale non potranno scendere nessun bosco (in genere volumi superiori a 300 m3/ha), ecc.

Occorre assolutamente cambiare il paradigma di riferimento, puntando verso la massimizzazione della complessità delle foreste in modo da massimizzare anche i loro effetti benefici.

Le foreste sono il sistema biologico più efficace ed economico per contrastare e rallentare il fenomeno del global change. Il Pianeta ha bisogno di regolare la temperatura atmosferica, recuperare l’equilibrio del ciclo dell’acqua (fermando la perdita vertiginosa di acqua dolce a cui si assiste ogni giorno di più), riequilibrare il rapporto tra ossigeno e anidride carbonica, tutelare la biodiversità e proteggere il suolo.

Occorre quindi tutelare i processi naturali ed evitare più possibile le tante azioni (in primis certi interventi selvicolturali) contro tali processi, richiedendo una gestione consapevole ed ecocentrica e abbandonando la visione antropocentrica che ha provocato e provoca gravi danni alle foreste in tutto il mondo.

Ricordiamo quello che ha scritto un grande forestale, J.H. Cotta, nel suo Trattato di selvicoltura del 1814: “Non è il bosco ad avere bisogno dell’Uomo, ma è l’Uomo che ha bisogno del bosco”.

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