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Contrasti, rinvii, boicottaggi. Dire no all’Europa per arrivare ultimi

Valter Giuliano

Riprendiamo l’analisi sulle derive di sistema che stanno contraddistinguendo le recenti politiche del nostro Paese e che ne denunciano l’assoluta insensibilità e irresponsabilità nei confronti della transizione ecologica via via più urgente.
L’incapponimento del Governo italiano sui biocarburanti, per procrastinare l’utilizzo dei motori termici, ha ottenuto un rinvio grazie al sostegno di Repubblica Ceca, Bulgaria e Polonia e all’incertezza della Germania. Ci siamo gonfiati il petto per il rinvio imposto all’Unione Europea rispetto alla data del 2035, ma è durato  il lampo di qualche settimana. Poi abbiamo ricevuto una bella sportellata in faccia.
Abbiamo in ogni caso dimostrato di mettercela proprio tutta per essere il fanalino di coda dell’Europa verso la transizione ecologica.
Una battaglia di retroguardia sostenuta con argomentazioni risibili. Le aziende non sono pronte (non lo erano neppure per la rinuncia al piombo nei carburanti); non ci sono le colonnine per le ricariche (in pochi mesi ne sono state installate migliaia in Olanda...).
Dunque vogliamo che i vecchi motori restino, utilizzando i biocarburanti. A dar man forte nel chiedere deroghe e rinvii è anche il mondo delle imprese, mal abituato da questi atteggiamenti dilatori messi in atto abitualmente dai nostri governi.
Accadde pure in occasione del passaggio dai carburanti con piombo alla cosiddetta benzina verde. Scarsa propensione alla flessibilità, insufficienti reinvestimenti in ricerca e innovazione (si preferisce la strada degli investimenti finanziari) e conseguenti ritardi tecnologici fanno sì che le nostre imprese non investano mai sul futuro, riorientandosi nella conservazione del presente e cercando di trarre il massimo dei profitti sfruttando sino all’ultimo impianti tecnologici obsoleti, non più al passo con i tempi e la concorrenza.
Più ragionevole, sia pure con molte riserve, la posizione tedesca, che ha invocato una deroga per i carburanti e-fuel, ottenendola.
Questi ultimi sono prodotti dall’elettrolisi dell’acqua, da cui si ricava ossigeno che, miscelato con l’anidride carbonica dell’aria, fornisce carburante neutro dal punto di vista climatico e adatto a essere utilizzato nei motori a scoppio e distribuibile attraverso l’attuale rete di pompe di benzina. Occorre registrare che i costi di produzione sono, ad oggi, piuttosto alti, stimati in dieci-venti euro al litro; restano inoltre nei tubi di scappamento emissioni di ossidi di azoto. Si prevede inoltre che potranno alimentare, al massimo, 5 milioni di auto su un parco circolante di 290.
I biocarburanti sostenuti dall’Italia per difendere le politiche dell’Eni, che ha investito in ricerca nel settore (nella penisola sono presenti a livello sperimentale, sulla rete Eni, una cinquantina di pompe che erogano diesel da biocarburante), sono derivati dai rifiuti, ma soprattutto da biomasse, in particolare mais, grano, barbabietola, canna da zucchero e oli non commestibili e di palma.
Dal punto di vista delle emissioni di CO2, non sono neutri.
Resta il fatto che, per entrambe le soluzioni, pur in presenza di abbattimenti considerevoli delle emissioni, la combustione nei motori endotermici produce emissioni di particolato e ossidi di azoto del tutto paragonabili a quelli associati dalle benzine fossili.
Il ricorso a questi tipi di carburanti appare al momento più probabile, semmai, a settori come la navigazione o l’aviazione, dove l’introduzione dell’elettrico appare ancora a di là dal venire.
Per il settore automobilistico resta un dubbio.
L’allora amministratore delegato di Fiat Auto, Sergio Marchionne, non esitò a dichiarare che il futuro dell’auto non sarebbe stato l’elettrico. C’era e c’è qualche alternativa che non viene detta?
Al momento l’Italia farebbe comunque bene ad abbandonare atteggiamenti autolesionisti e irresponsabili, lasciando da parte la retorica del “made in Italy” e della tradizione, che appaiono del tutto tramontati dopo che i suoi marchi sono stati assorbiti dalla multinazionale Stellantis a guida francese e nel momento in cui siamo scivolati all’ottavo posto nella classifica dei produttori europei, superati da Germania, Stagna, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Gran Bretagna e Romania.
Non solo, ma della 450 mila auto prodotte sono ormai elettriche 100 mila Panda e altrettante Cinquecento. Dunque, anche per il nostro paese il futuro del sistema industriale va velocemente orientato verso una nuova componentistica legata all’elettrico in sostituzione del termico e nel settore delle batterie, cosa che richiede investimenti in ricerca (batterie al sale?).
Restando in tema energetico, qualche appunto in tema di contrasti tra il dire e il fare, va rivolto anche all’UE che, con la Direttiva “Rinnovabili”, continua a incentivare la produzione di energia elettrica, bruciando il patrimonio forestale. Nonostante gran parte della comunità scientifica abbia segnalato che produrre elettricità in questa maniera, è fortemente climalterante e inquinante.
Alberi e foreste non sono unicamente giacimenti di legname da bruciare per trarne profitti. Sono innanzitutto regolatori essenziali del ciclo dell’acqua, termoregolatori, generatori di ossigeno, assorbitori di anidride carbonica, fertilizzatori del suolo, scrigni di biodiversità.
Oggi i deputati di un partito verde solo nelle camice dei suoi militanti, giungono a proporre centrali da 300 MW da alimentare con il legno. Ben sostenuti da un Testo Unico Forestale generato ai tempi della Presidenza del Consiglio Gentiloni – l’on. Ermete Realacci a capo della Commissione Ambiente – che ha disposto di superare la proprietà privata là dove non si intenda procedere al taglio del proprio bosco giunto a fine turnazione secondo le regole dello sfruttamento forestale.
Biocidi nel nome del bio, del sostenibile, della resilienza, del green, della transizione...
Sono atteggiamenti che stridono rispetto ai comportamenti virtuosi da mettere in atto per  una verosimile transizione energetica.
Perchè continuiamo a sostenere, a suon di soldi pubblici, cioè nostri, il fossile da cui dovremmo uscire al più presto. I dati parlano chiaro.
Cambiando settore eccoci al presunto “fatto in Italia” e ala produzione di carne.
Anche qui è scattata la parola più usata dal nuovo Governo: proibito!
Senza discussione, dibattito, suggerimenti, ricerche scientifiche.
È bastato il sussurro della più potente organizzazione professionale agricola all’orecchio del cognato del presidente del Consiglio per far partire l’anatema.
Ovviamente a difesa dei nostri prodotti tipici: la bresaola della Valtellina fatta con la carne di zebù del Brasile, le varietà di patate, fagioli, pomodori (che arrivano dal Sud America); magari anche dei kiwi, dei cachi, degli avocado...
Qui, se non fossero cose serie, di Governo, scadremmo nel ridicolo e basterebbe una risata per seppellirli.
Non sarà una risata, invece, che rischierà di seppellire il nostro comparto agroalimentare, che fa bene a difendere i prodotti di qualità del territorio, ma deve saper guardare al futuro.
Non si tratta di mettere in discussione la carne di qualità dei nostri allevamenti famigliari, di quelli al pascolo, transumanti e di montagna.
Semmai a essere giustamente in discussione saranno quelle fabbriche di carne che, come catene di montaggio incuranti al benessere animale,  producono intensivamente prodotti di scarsa qualità per mantenere bassi prezzi e consentire ai consumatori di ingurgitare quantità di proteine animali nocive al nostro equilibrio alimentare e dunque alla nostra salute.
Eppure il prode ministro difensore del “fatto in Italia” non consentirà di fare alcuna ricerca e sperimentazione in Italia. Senza spiegazioni che non rientrino nella categoria dei pregiudizi.
In compenso, stende tappeti rossi alle nostre produzioni vinicole e si scandalizza che in etichetta si voglia giustamente segnalare che l’alcol nuoce alla salute, non essendo previsto dal nostro metabolismo alcun meccanismo che, per demolirne la molecola, non produca effetti nocivi.
Dal suo collega, che dovrebbe difendere la salute pubblica, non arriva segnale alcuno.
Non c’è campo, i tweet sull’argomento non partono.
Ma torniamo alla carne coltivata. Il dibattito che si è aperto è stato subito chiuso a livello politico, ma ciò non impedisce, per ora, che se ne parli.
Cellule staminali, prelevate da animale vivo con procedura medico-veterinaria, vengono lasciate crescere in vitro allo stesso modo in cui farebbero nel corpo dell’animale. La carne coltivata evita l’uccisione del vivente e dunque può rappresentare, sul piano etico e ambientale, un momento fondamentale, ponendosi in alternativa agli allevamenti intensivi che sacrificano miliardi di esseri viventi per rispondere al consumismo industriale che si è affermato anche nel comparto agroalimentare e che si giustifica con la necessità di sfamare la popolazione mondiale (cosa che non fa, a causa dell’iniqua distribuzione che spreca quantità intollerabili di cibo e che, in parte, si potrebbe fare con l’apporto di proteine vegetali).
Non solo, ma potrebbe incidere in maniera rilevante sulla salute del pianeta, riducendo i fattori di inquinamento a livello di acqua e di suolo, delle emissioni di metano e anidride carbonica.
È probabile che anche in questo caso non sia oro tutto ciò che luccica e che non si sia di fronte alla panacea. Ma scegliere di uscire dal gioco, non farne parte a priori, non partecipare per ricercare e indagare è davvero una decisione stolta. Anche sotto il profilo economico, giacché si stima che il nuovo settore potrà raggiungere i 450 miliardi di dollari entro il 2040, pari a un quinto del nostro Pil.
La stoltezza propagandistica di oggi potrebbe, dunque, costare cara...
Intanto alla faccia dell’urgente transizione ecologica che passa da quella energetica, come non annotare che, nascosti nelle pieghe della terrificante politica dei bonus, siano stati distribuiti poco meno di 22 miliardi in sussidi nocivi per l’ambiente e in contrasto con le declamate politiche di riconversione?
E ci sarebbe anche da dire sul mercato dei falsi crediti di carbone: mercato ricco mi ci ficco!
Ne riparleremo.

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