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Covid, visoni e zoonosi varie

Riccardo Graziano

Qualche settimana fa, in Danimarca, sono stati soppressi circa 17 milioni di visoni di allevamento, perché nella loro popolazione era stata individuata una variante mutata del Covid-19 trasmissibile all’uomo, tanto che erano già state contagiate 12 persone. Poco tempo dopo, si è reso necessario prendere una decisione analoga anche per gli allevamenti italiani, dove il numero di animali era per fortuna notevolmente inferiore. Questo significa che gli allevamenti intensivi di visoni, dove questi ultimi erano a stretto contatto con gli umani, avevano consentito al virus di passare dalle persone agli animali, di adattarsi a questo nuovo ambiente mutando le proprie caratteristiche e di tornare quindi a infettare l’uomo con un ceppo diverso da quello originario.
Un’ulteriore riprova di come gli allevamenti intensivi funzionino come veri e propri serbatoi di virus sconosciuti e potenzialmente pericolosi, che potrebbero in ogni momento effettuare il temuto spillover, il salto di specie verso l’uomo, con il conseguente rischio pandemico. Eppure, anche in questo terribile 2020, funestato dall’epidemia globale Covid-19 provocata proprio da un patogeno di origine animale, l’Unione Europea ha promulgato una PAC, Politica Agricola Comune, che destina la maggior parte dei finanziamenti ancora ai grandi allevamenti intensivi.
Una decisione improvvida e un grave errore strategico, con cui l’Ue continua a trascurare le aziende a conduzione familiare o di piccole dimensioni, per loro natura maggiormente sostenibili, ma stritolate in un sistema che le costringe a operare con gravi difficoltà o addirittura a chiudere, mentre si persevera a destinare ingenti risorse a un sistema agricolo industrializzato non più sostenibile dal punto di vista ambientale e potenziale fonte di ulteriori rischi sanitari.

Quello dei visoni non è infatti un caso isolato. Durante questa epidemia si sono registrati focolai di contagio anche presso i mattatoi, altri ambienti dove si riscontra promiscuità fra grandi quantità di animali ed esseri umani. E certamente molti ricorderanno in anni recenti alcune epidemie influenzali dai nomi estremamente indicativi, quali “aviaria” o “suina”, che lasciano capire molto bene quale fosse l’origine del virus. Più in generale, gli esperti rilevano che oltre il 70% delle malattie infettive emergenti sono zoonosi, ovvero patologie di origine animale.
Ciò è dovuto, oltre alle criticità già elencate per quanto riguarda gli allevamenti intensivi, a un altro fattore rilevante, il cambio di destinazione d’uso dei suoli, in particolare per quanto concerne la deforestazione. Tagliare zone sempre più ampie di foresta per fare spazio a coltivazioni, allevamenti o insediamenti urbani ci mette infatti nelle condizioni di entrare in contatto con patogeni in precedenza sconosciuti, perché ospitati da una fauna selvatica che in precedenza raramente si avvicinava all’uomo o ai suoi animali domestici, che spesso fungono da specie “di transito”. È noto inoltre che gran parte delle coltivazioni insediate dove prima c’era la foresta non sono destinate direttamente all’alimentazione umana, bensì alla produzione di mangimi esportati poi verso i mercati europei, dove vengono impiegati proprio per foraggiare una quantità di animali che non sarebbe possibile nutrire con le sole risorse locali.
Per questo sempre più soggetti chiedono a gran voce di utilizzare i fondi della PAC e, in aggiunta, quelli del Next Generation UE, per riconvertire un sistema foriero di rischi epidemiologici e criticità ambientali, sostenendo le produzioni biologiche e su piccola scala e abbandonando progressivamente l’approccio industriale che ha pervaso l’agricoltura. La terra, le colture, gli animali da allevamento non sono macchine per la produzione di cibo, ma organismi complessi che richiedono tempi e modi in sintonia con clima, stagioni e cicli naturali in genere.

Le “fabbriche di carne” nelle quali abbiamo trasformato gli allevamenti ci espongono a maggiori rischi di nuove epidemie, o a livelli più elevati di incidenza. Vale la pena far notare che la regione più colpita da Covid-19, la Lombardia, è anche quella dove sono presenti la maggior parte degli allevamenti intensivi italiani: solo per quanto riguarda i suini, parliamo di quattro milioni di capi, la metà dell’intera produzione italiana. Questi “assembramenti” di bestiame non sono soltanto un comodo serbatoio per i virus in attesa di trasferirsi alla specie umana. Sono anche fra le maggiori fonti di inquinanti, a partire dall’ammoniaca fino al PM, il particolato sottile capace di infiltrarsi fino in profondità nel nostro apparato respiratorio, provocando affezioni di varia natura e favorendo l’attecchimento di patologie come Covid-19.

Proprio a fronte del rischio sanitario e delle sue ricadute socio-economiche, in aggiunta alle problematiche di ordine ambientale, non sembra davvero opportuno che l’UE continui a destinare la parte più consistente del proprio bilancio comunitario alla sovvenzione di allevamenti intensivi. Anche in questo settore, urge un cambio di paradigma, con una veloce ed estesa riconversione di agricoltura e allevamento verso modelli più sostenibili ed ecocompatibili. In questo caso, non c’è nemmeno l’ostacolo troppo spesso sbandierato della mancanza di risorse: qui i soldi ci sono in abbondanza, basterebbe solo decidersi a utilizzarli bene.

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