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Crescita o progresso?

Nel momento in cui la crisi pandemica allenta la sua morsa e lascia intravedere una possibile uscita dall’emergenza sanitaria, torna in primo piano la crisi economica provocata dall’epidemia e dalle drastiche misure di contenimento adottate per rallentarla. E ancora una volta si ripropone l’imperativo della “crescita”, la ricetta che da decenni domina in campo economico e con la quale si pensa di far ripartire le attività produttive. Eppure ormai dovrebbe essere chiaro che non si può teorizzare e pensare di mettere in pratica una crescita infinita in un sistema circoscritto quale è il pianeta Terra.

Questa consapevolezza ha ormai travalicato la ristretta cerchia degli ambientalisti e della comunità scientifica, tanto che la stessa Unione Europea l’ha ratificata mettendola nero su bianco nel rapporto “Growth without economic growth” (“Crescita senza crescita economica”) redatto dell’EEA - European Environment Agency, l’Agenzia Europea dell’Ambiente – insieme alla rete europea di informazione e osservazione ambientale Eionet, che presenta dati, analisi e proposte rivolte ai decisori politici e alla società civile.

Il rapporto prende atto del fatto che cambiamento climatico e perdita della biodiversità sono conseguenze dirette di una crescita economica in accelerazione, che divora le risorse a un ritmo fatalmente insostenibile, dunque che occorre impostare un cambiamento culturale prima ancora che tecnologico. La filosofia della “crescita”, inculcata per decenni nel nostro immaginario socio-economico, è ormai profondamente radicata nella nostra quotidianità, nei nostri consumi e stili di vita. Per cui è davvero difficile impostare un cambio di rotta che, tuttavia, è sempre più necessario.

L’Europa, nonostante i molti problemi presenti e la contestazione serpeggiante, resta la porzione di mondo dove si vive meglio, con tutele sociali e livelli di benessere elevati e diffusi. La sfida è mantenere questi standard sganciandoli dall’assioma della “crescita” a ogni costo, basata sul consumismo e sul materialismo, la cui conclamata insostenibilità potrebbe far collassare il sistema in tempi nemmeno troppo lunghi. In altre parole, occorre capire che “progresso” e “crescita” non sono affatto sinonimi e che è possibile vivere bene anche consumando meno, senza confondere il ben-essere con il ben-avere.
Il problema è capire se e quanto siamo disposti a modificare i nostri consumi e stili di vita per arrivare davvero a quella sostenibilità che a parole vogliamo tutti, ma che nei fatti perseguiamo in pochi. Senza rinunciare, beninteso, ai livelli di qualità della vita ai quali siamo abituati, ma semplicemente imparando a fare le cose in modo differente.
Il Green Deal lanciato dall’Unione europea vuole essere di stimolo anche in questo senso, con una svolta che non sia solo produttiva ed economica, ma anche sociale e culturale, ovvero vissuta dai cittadini in maniera matura e consapevole e non come una imposizione “dei burocrati UE” o di qualche fantomatica lobby ecologista e radical chic.
Il cambiamento deve avvenire in modo graduale e gestito democraticamente, costruendo una maggioranza consapevole di questa necessità, ma al tempo stesso deve essere anche relativamente veloce, perché il tempo a disposizione dell’umanità per evitare il peggio sta per scadere.

In particolare l’Europa, pur vivendo una certa stagnazione demografica, evidenzia un costante aumento dei consumi dovuto alla presenza di una vasta classe media relativamente benestante e con un potere d’acquisto ancora piuttosto elevato, fattori che allargano la sua impronta ecologica ben al di fuori dei confini geografici continentali. Al tempo stesso, la quantità di materiale effettivamente avviato al riciclo si attesta su un modesto 12% (dato del 2019). Ne consegue che l’UE ha un forte impatto sulle risorse, produce un’enorme quantità di rifiuti e difficilmente potrà raggiungere gli obiettivi di sostenibilità che essa stessa si è posta sugli orizzonti del 2030 e 2050.

Occorre dunque sganciare l’idea di progresso da quella di crescita economica, un processo culturale prima ancora che politico, che deve lasciare da parte lo “sviluppo” effimero e insostenibile basato sul consumismo per recuperare gli stessi valori fondanti su cui è stata edificata l’idea di Europa unita: libertà, uguaglianza, democrazia, Stato di diritto, equità sociale.

Questa è la vera sfida, non l’aumento di un paio di punti di PIL buoni solo per aumentare i profitti di qualche multinazionale o del sistema creditizio. Se non riusciremo a scardinare il dogma della crescita sostituendolo con quello di un reale progresso della società e di realizzazione della persona, finiremo per perdere l’anima stessa dell’Europa. E comprometteremo del tutto le già ridotte possibilità di arrestare il riscaldamento globale e i mutamenti climatici destinati a sconvolgere l’ecosistema terrestre e a mettere a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana.

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