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Demografia & Demagogia

Proviamo a ragionare sul futuro della popolazione mondiale senza preoccuparci delle nostre pensioni?

Valter Giuliano

Puntualmente, come un ritornello, torna il lamento italico sulla mancata crescita demografica, non supportata nemmeno più dalla prolificità degli immigrati.
Allarme! Gli italiani sono sempre meno.
Ieri bisognava procreare per rifare l’Impero, andare a combattere contro la Russia, la Francia, fedeli a Hitler e al Duce. Procreare carne da mandare al macello sull’altare ignobile di qualche pazzo visionario egocentrico.
Qualche pazzo visionario egocentrico, in giro c’è ancora, ma per fortuna il sistema democratico, per ora, riesce a isolarlo.
Dobbiamo anche isolare chi continua a pensare al riequilibrio demografico del nostro Paese come a una disavventura.
Bisogna fargli capire che è necessario passare da una logica locale, che riguarda singole nazioni, a una visione globale che oggi attraversa i flussi non solo delle merci ma dei migratori di massa, coinvolgendo ogni angolo del mondo.
Dobbiamo assumere la consapevolezza della necessità di una decrescita demografica globale, per garantirci un futuro più sostenibile.
È evidente che non siamo pronti. Anche perché nessuno ci informa.
Finché era vivo, Giovanni Sartori, a ogni Ferragosto ce lo ricordava dalle pagine del Corriere della sera. Quasi fosse un vezzo, contro l’uniforme disinformazione condivisa. La stessa che resiste oggi.
Opinione di un pensatore e non analisi di un demografo. Ma non era affatto campata in aria.
Cosa direbbe al suo quasi omonimo leader delle Sardine, Mattia Santori, che qualche tempo fa ha dichiarato: «La Rivoluzione è procreazione»?
Segnale preoccupante che ci indica come anche la parte, in teoria, più progressista del mondo giovanile, pur inserita nella dimensione globalizzata, non ha contezza della situazione demografica planetaria.
A fine Settecento, all’inizio della rivoluzione industriale, la popolazione mondiale contava 750 milioni di persone. Tra il 1800 e il 1930 i terrestri salgono a due miliardi. Solo 47 anni dopo, nel 1974, il numero degli individui raddoppia a quattro miliardi.
Oggi sulla Terra vivono circa 7,5 miliardi di persone e i demografi stimano che si arriverà a 10 miliardi nel 2100.
Una crescita tanto imponente ha sconvolto gli assetti socio-economici delle popolazioni, con la definitiva prevalenza di addensamenti urbani rispetto alle campagne e alle zone montane. Nel mondo ci sono sempre più metropoli e almeno 20 megalopoli abitate da più di dieci milioni di persone. Già oggi più di metà della popolazione mondiale vive in aree urbane in continua espansione e secondo l’ultimo World Urbanization Prospects, il documento del Dipartimento economico e degli affari sociali delle Nazioni Unite sull’urbanizzazione, salirà ad oltre sei miliardi entro il 2045.

Cosa accade in Italia?
Gli ultimi dati ISTAT indicano in 59,6 milioni gli abitanti della nostra penisola.
L’età media è di 45,2 anni, il 23% supera i 65 anni e solo il 13% è composta da giovani al di sotto dei 15 anni.
Questi dati fanno scattare, come ogni anno, l’allarme e riempiono le pagine dei giornali e delle televisioni con il lamento della crisi demografica e l’invocazione a fare più figli.
Anche in questo caso la logica non sfugge all’imperante economicismo e alla dittatura del mercato. Il rischio evidenziato come il maggiore è: «Chi pagherà le pensioni?».
Recentemente si è aggiunto lo strillo razzista che evoca la perdita di identità nazionale (quale?) a causa dell’invasione delle culture migranti destinate a prendere il sopravvento.
Qui sarebbe troppo facile rispondere che geneticamente ogni popolazione che si chiude in se stessa rischia un affermarsi dei caratteri degenerativi e, per contro, ogni incrocio tra individui di provenienza lontana la rivitalizza.
Ma al di là di ciò, conviene fare un ragionamento un po’ meno affrettato alla cui origine sta  la constatazione che la popolazione, né in Italia né sul pianeta, può crescere all’infinito.
Intanto, restando in Italia, annotiamo una densità abitativa - calcolata al lordo delle superfici non utilizzabili perché già cementificate o asfaltate oppure composte di rocce, ghiacciai, corsi d’acqua e bacini idrici naturali o artificiali - che segna 200 persone per chilometro quadrato.
Ognuno di noi ha, attualmente, a disposizione mezzo ettaro. Che non è molto.
Se calcoliamo la capacità di carico - cioè il numero di esemplari di una specie che un determinato territorio può sopportare in termini di cibo fornito e smaltimento rifiuti richiesto, - del nostro territorio rispetto alla popolazione insediata risulta che viviamo ben al di sopra delle possibilità.
Siamo oltre di quattro volte e lo possiamo fare perché viviamo sulle spalle di altri territori (quasi esclusivamente quelli che teniamo nel sottosviluppo) per il nostro fabbisogno di materie prime. E, soprattutto, stiamo pesantemente intaccando le ricchezze destinate alla generazioni che verranno. Che infatti stanno cominciando a protestare e a chiedercene conto insieme al degrado inflitto dal nostro abulico egoismo, alla natura e al paesaggio.
Debito pubblico e debito ambientale vanno a braccetto, ma per quest’ultimo non c’è Banca centrale nè europea, nè mondiale, che ci possa salvare.

L’orizzonte globale
Proviamo allora ad approfondire l’argomento a livello globale.
Anche in questo caso partendo dai dati.
Siamo grosso modo 7,5 miliardi di umani e cresciamo al ritmo di 80 milioni l’anno (poco meno gli abitanti della Germania); quarant’anni fa eravamo 3 miliardi.
Secondo il modello demografico delle Nazioni Unite si stima che la popolazione mondiale salirà a 9,7 miliardi nel 2050, per poi cominciare a stabilizzarsi arrivando a fine secolo sugli 11-10 miliardi.
Per allora ci dovrebbe essere una diminuzione della popolazione cinese che si dovrebbe stabilizzare sui 950 milioni di persone. In compenso l’India arriverà a 1,5 miliardi, Resterebbe comunque invariato il conto per la cosiddetta area geopolitica chiamata Cinindia.
Il massimo che il nostro pianeta può sopportare è di 8 miliardi.
L’Africa è l’unico continente in cui la natalità è ancora al di sopra del livello di sostituzione (nascite che rimpiazzano le morti). Il picco è rappresentato dalla Nigeria che dovrebbe raggiungere i 750 milioni di esseri. Il tasso di crescita è comunque quasi dimezzato rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo allorché partì l’allarme di Paul Erlich con il suo saggio La bomba demografica. Inoltre il miglioramento produttivo dell’agricoltura ha consentito di far fronte alle necessità di cibo ad oggi sufficiente, anche se ingiustamente distribuito.
Il problema principale non è la mancanza di spazio sul Pianeta bensì la carenza di risorse e il suo impatto ambientale. Già ora la popolazione mondiale consuma le sue intere disponibilità annuali in poco meno di sei mesi. Come potrà la Terra sostenere una popolazione in costante aumento?
Ciò fa si, tra l’altro, che il cosiddetto Earth Overshoot Day (giorno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse biologiche che gli ecosistemi naturali possono rinnovare nel corso dell’anno), ogni anno anticipa (nel 2020 ad agosto, in controtendenza con un ritardo di un mese rispetto agli ultimi anni grazie al lockdown), al punto che la nostra impronta ecologica globale richiederebbe ormai 1,7 Terre  il che significa che siamo fuori dal pareggio di bilancio ambientale del 70%.
Secondo la FAO, entro il 2050 la quantità di acqua potabile disponibile pro capite scenderà del 73%. Considerando che ogni anno ben 5 milioni di persone muoiono per la scarsità di acqua e per la mancanza di servizi igienico-sanitari di base è facile prevedere che in un futuro ormai prossimo il numero dei morti per questa causa è destinato a salire.

Sovrappopolazione e cambiamenti climatici
Le conseguenze della sovrappopolazione e dei suoi attuali modelli di produzione e consumo sono drammatiche non solo per la mancanza di risorse per tutti, ma anche per l’ambiente.
Si stima che l’aumento dell’80% di gas serra tra il 1970 e il 2010 sia dovuto per il 50% proprio all’incremento di abitanti.
Una recente ricerca dell’OMS ha rilevato che, a causa dei cambiamenti climatici e dei fenomeni a esso collegati, ogni anno muoiono circa 300 mila persone, il 50% in più rispetto al 2000.
Sostanzialmente, i cambiamenti climatici sono quasi tutti imputabili all’uomo in quanto l’innalzamento delle temperature è stato causato dall’uso massiccio e quasi esclusivo dei combustibili fossili come petrolio, carbone e metano.
A destare l’allarme sono anche l’aumento dei tassi di deforestazione che, a questo ritmo, renderanno entro pochi anni la situazione non sostenibile.
Anche qui, ovviamente il riferimento non può che essere a scala planetaria e come per l’andamento demografico la tendenza nazionale non fa testo.
A causa di questo scenario, afferma l’associazione Greenpeace, il livello di anidride carbonica presente nell’atmosfera ha già superato le 400 parti per milione, un livello che sulla Terra non veniva toccato da almeno 3 milioni di anni. Se non riusciremo a ridurre questi valori, le conseguenze sul clima potrebbero essere devastanti e, nel giro di pochi anni, il numero dei morti a causa dei fenomeni climatici potrebbe diventare spaventoso.
Si paventa la devastante previsione del più 4 gradi. Significherebbe effetti sconvolgenti: l’acqua salata in aumento, quella dolce in regresso. Significa che la sopra richiamata Cinindia che attinge dal grande bacino himalayano si troverebbe rapidamente in profonda crisi da stress idrico.
Lo stesso per gli Stati Uniti che dipendono in gran parte dalla grande falda acquifera Ogallala, in costante abbassamento (tra i 30 e i 90 cm l’anno). Che accadrà all’Europa e alle sue Alpi?
Questa tendenza globale, e lo scenario che ne deriva, ci inducono a porci ulteriori domande.
A partire dalla constatazione delle notevoli diseguaglianze non più tollerabili se si punta, e lo si deve, a un equilibrio planetario.
Non si può più consentire che il mezzo miliardo più ricco della popolazione mondiale, all’incirca il 7%, sia oggi responsabile della metà delle emissioni mentre il 50% vi contribuisce solo per il 7%.
Quali sarebbero le azioni a maggior impatto positivo nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e gas termoalteranti?
Ben più del riciclo dei rifiuti e delle azioni di efficientamento energetico, tanto evocate, vi contribuirebbe la rinuncia al traffico privato automobilistico che significherebbe 2,4 tonnellate equivalenti di CO2 in meno ogni anno a persona. Ma anche i viaggi aerei, se pensiamo che ogni spostamento transcontinentale andata e ritorno influisce per 1, 6 t equivalenti.
Soprattutto, però, avere un figlio in meno, globalmente significherebbe riduzione di 58 t equivalenti a testa di CO2.

Cosa potrà accadere?
Dunque il problema demografico non è nè secondario nè superato e la ricerca di una stabilità equilibrata ancora lontana da raggiungere.
Come una copiosa nevicata o la rigidità delle temperature invernali non significano un’inversione nella tendenza al surriscaldamento del pianeta, così leggere flessioni nella natalità di qualche Paese non sono in grado di contrastare una corsa all’esplosione demografica.
Cosa potrà capitare? Ciò che profeticamente si legge nell’introduzione de La società suicida (G.R. Taylor, Milano 1972): «Mettete dei batteri in una provetta, con nutrimento e ossigeno, ed essi prolificheranno in modo esplosivo, raddoppiando di numero ogni venti minuti circa, fino a formare una massa visibile e solida. Ma a un certo punto la moltiplicazione cessa, man mano che i microbi vengono avvelenati dai loro stessi prodotti di rifiuto. Nel centro di questa massa verrà così a costituirsi un nucleo di batteri morti o morenti, tagliati fuori dal nutrimento e dall’ossigeno del proprio ambiente dalla solida barriera dei loro vicini, Il numero dei batteri viventi si ridurrà quasi a zero, a meno che le materie di rifiuto non vengano eliminate».
L’umanità si trova oggi in una situazione simile. La popolazione sta aumentando in maniera esplosiva, ma i prodotti di rifiuto della tecnologia cominciano a esigere il loro tributo. Le materie inquinanti che avvelenano l’aria e l’acqua non sono soltanto uno sgradevole sottoprodotto della tecnologia; esse costituiscono una minaccia per la vita, proprio perché l’incremento demografico è stato così anormalmente rapido. Queste materie nocive fanno parte del meccanismo di reazione con il quale la natura cerca di frenare una crescita eccessiva.
Lo sfacelo finale della popolazione, quando le difficoltà sul larga scala diverranno schiaccianti, deve ancora arrivare. Se l’esperienza di altre specie può servire da esempio, la popolazione sarà ridotta all’incirca a un terzo della sua cifra massima. In tutte le forme di vita animale si notano periodiche esplosioni demografiche. Queste terminano tutte con un collo. Potrà l’uomo costituire la sola eccezione? Oppure la sua abilità tecnologica gli permetterà di posporre l’apocalisse, e di volare ancora un po’ più in alto soltanto per cadere più lontano?
(...) la popolazione mondiale raggiunse il miliardo solo nel 1850, mentre ci vollero solo 80 anni perché, nel 1930, se ne aggiungesse un altro. Nel 1960 si toccò il terzo miliardo in soli 30 anni. Il quarto sarà raggiunto nel 1975, in soli 15 anni. Ma il ritmo accelera sempre di più: un quinto miliardo per il 1985 -86, un sesto per il 1993 - 96 circa, un settimo per l’anno 2000 o subito dopo. (...) É chiaro che l’espansione non può continuare all’infinito con questo ritmo ma finora non vi è alcun segno di rallentamento».

Che fare?
Certo, non è saggio continuare a vivere come se si trattasse di scenari futuribili e lontani. La sovrappopolazione è un fatto. È in atto, così come i suoi effetti sull’ambiente.
Dunque la politica più efficace, intanto, è quella di non destare allarmi ma lasciare che la naturale evoluzione verso un riequilibrio proceda. Senza fare campagne per fare più figli altrimenti la Nazione è finita, la Patria distrutta. Slogan buoni per stagioni che auspichiamo definitivamente superate e messe in archivio. Semmai si interverrà sulle politiche sociali.
Per qual che concerne l’annunciato disastro ambientale, cui non sarà possibile trovare rimedio né ci saranno possibili vaccini, bisogna agire sui proprio comportamenti personali, impegnarsi sulle questioni locali, sostenere chi lavora a livello nazionale, europeo e mondiale per fermare la china suicida.
Occorre dar seguito immediatamente agli Accordi di Parigi sul Clima e quindi investire sulle energie rinnovabili, sulla mobilità sostenibile, sulla riduzione dei gas climalteranti ed avviare una revisione sugli accordi commerciali. Mettendo davanti a tutto l’emergenza ambientale.
A livello nazionale ed europeo, è necessario lavorare per una politica energetica sostenibile, che punti al 100% di energie alternative. Per raggiungere questo obiettivo servono investimenti in energie rinnovabili ed efficienza energetica, scaglioni vincolanti di riduzione di CO2 e l’abbandono progressivo delle fonti fossili. È necessario che, a partire dal 2030, venga vietata la circolazione dei mezzi alimentati con combustibili fossili e che vengano mitigate le emissioni in agricoltura, nell’industria, negli ambienti domestici.
Come invocato dai tempi della battaglia contro il nucleare, la fonte primaria di energia è il risparmio, l’efficienza. Anche l’economia circolare non è un toccasana perché alla fine del ciclo restano comunque residui, rifiuti, che spesso non rientrano nel ciclo biologico alterato dai nuovi prodotti di sintesi messi in produzione nel devastante Antropocene.
Il nostro Paese, attraversato da una crisi profonda aggravata dalla pandemia, deve inoltre promuovere la conversione ecologica dei modelli sociali e di quelli produttivi.
Conversione che può tradursi anche in un volano per uscire dallo stallo e per creare occupazione di qualità. Concretamente, questo comporta che si investa sulla mobilità sostenibile attraverso la cura del ferro, si punti sul trasporto pubblico e sui sistemi di multi-sharing, si crei la filiera dell’auto elettrica e dell’auto pulita (anche in questo caso, attenzione, l’impatto zero non esiste e il problema di come si costruiscono le batterie  coinvolge aspetti ecologici e socio-umanitari mostruosamente conflittuali e insostenibili), si incentivino la mobilità ciclistica, le zone 30 e le aree pedonali.
Perseguire una svolta verde significa, inoltre, prevenire il dissesto idrogeologico e i rischi nelle aree sismiche attraverso un’adeguata politica di tutela del territorio, contrastare il consumo di suolo, l’abusivismo edilizio e i provvedimenti di legge tesi a fermare le demolizioni.
E, ancora, impegnarsi per raggiungere la sostenibilità della produzione alimentare, ribadire il no agli OGM, sostenere la catena della produzione tipica, i prodotti a chilometri zero, l’agricoltura biologica e biodinamica, tutelare la biodiversità, i parchi e i diritti degli animali.
Difesa dell’ambiente, gestione delle risorse, salvaguardia della biodiversità, quindi, come correttivi della sovrappopolazione e strumenti di innovazione e occupazione.
C’è nell’arco dei partiti e dei movimenti un soggetto capace di assumere queste tematiche così come sono, raccordate tra loro in una visione unitaria?
Di farsene portavoce e costruirci, meno rozzamente di quanto fatto in queste righe, una strategia politica, un programma?
Alcuni dei temi compaiono, per lo più slegati da una visione globale, tra i 5 Stelle e in quel che resta dei Verdi. Sono, entrambi, movimenti cui si sono ben presto spezzate le ali a causa dell’incapacità di resistere al richiamo del potere che impone compromessi, e delle pulsioni personali che alimentano le vanità.
Ma non tutto è perduto. Le idee e i valori restano riferimenti validi su cui costruire un rinnovato progetto e, soprattutto, nuovi interpreti capaci di ridare loro nuovi strumenti per riprendere il volo.

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