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Socia della

Foreste da ricollocare

Paolo Pupillo

 

Lo status e la funzione delle foreste sono diventati un punto nodale dei dibattiti su ambiente, clima che cambia, antropocene ed estinzioni in corso. In questa diversa prospettiva occorre riflettere con rinnovato spirito critico sulla considerazione giuridica e la stessa collocazione del settore forestale: come trattare dunque le foreste in senso burocratico (e in molti altri sensi)? Il discorso è complesso: partiamo da lontano.

Se per gli Italiani poco più di un secolo fa la natura quasi non esisteva, o non era comunque soggetto di interesse ai fini della conservazione, quando anche i naturalisti erano dei gran cacciatori, tuttavia molti monumenti di importanza storica o architettonica si consideravano degni di tutela; e, con essi, anche alcuni monumenti naturali di particolare pregio soprattutto paesaggistico, compresi i “monumenti” forestali. La situazione e l’atteggiamento della gente in questo campo sono stati ben documentati da Luigi Piccioni in molti scritti e ora nel suo recente libro (“Parchi naturali. Storia delle aree protette in Italia”) pubblicato nel centenario dei primi nostri parchi, Gran Paradiso e Abruzzo. Benché gli Stati Uniti avessero istituito la prima area protetta fin dal 1864 (Yosemite) e nel 1872 il grande Parco nazionale di Yellowstone, il primo provvedimento italiano in difesa di qualcosa di “naturale” fu la legge Rava del 1905 a favore di ciò che restava dell’antica foresta delle Pinete ravennati. Ciò grazie alla loro rilevanza storico letteraria (Dante e Boccaccio: la novella di Nastagio degli Onesti); a prescindere dalla reale “naturalità” di questa formazione arborea, che si fa risalire a impianti di pini sulle dune costiere in epoca almeno medievale, se non già romana.

Ciò per ricordare che poco più di un secolo fa una idea della natura vivente come patrimonio meritevole e bisognoso di tutela per il suo valore intrinseco, per il fatto stesso di esistere – diciamo una concezione etica della natura - era circoscritta in Italia a una minuscola élite. Quella stessa concezione etica che oggi è divenuta in qualche modo patrimonio di gran parte dell’umanità, almeno a parole; perché nei fatti, lo sappiamo bene, la distruzione della natura procede senza sosta in gran parte del mondo (e l’Italia è ai primi posti per consumo dissennato del suolo). Se il genio visionario di Edward O. Wilson chiedeva la salvaguardia del 50% del Pianeta per prevenire l’estinzione di massa in arrivo (E.O. Wilson ”Metà della Terra. Salvare il futuro della vita”), oggi ci si accontenterebbe di un 10-20%. E leggiamo sui media di proposte al ribasso, come quella di tutelare dallo snaturamento antropico nientemeno che l’1% delle terre emerse!

Ma tornando alle nostre foreste, c’è da aggiungere che anche la legge per le pinete ravennati fu una eccezione. Benché percepiti come qualcosa di estraneo alla civiltà, quasi di alieno (quindi “foresto”, in quanto rifugio di lupi, orsi e orchi), i boschi sono sempre stati un bene territoriale come gli altri. Largamente di proprietà privata, o ecclesiastica (ad esempio le foreste toscane dei Camaldolesi), o sociale (le “comunità”, “comunanze”, come quelle dei boschi fiemmazzi), o in minor misura appartenenti al demanio degli staterelli italiani, il loro sfruttamento era una fonte di reddito, oltre che risorsa importantissima per gli Stati marittimi e navali. Ancora negli anni a cavallo della metà dell’Ottocento le antiche foreste della Sardegna vennero smantellate per finanziare i debiti del Regno di Sardegna (appunto) e poi dello Stato unitario, così come nei secoli precedenti grandi boschi delle isole mediterranee e sulla terraferma greca e dalmata erano caduti sotto la mannaia dei Veneziani. E del resto ancor oggi che i boschi italiani sono in qualche misura protetti dalla legge nazionale e da norme regionali e locali, non esiste nella realtà nessun vero argine al loro abbattimento, spesso con la scusa della “filiera del legno” e della “espansione incontrollata dei boschi”; con la distruttiva fame di “cippato” da bruciare in centrali e centraline termoelettriche dette “a biomasse”. Perfino nelle aree protette italiane il taglio dei boschi è prassi normale. La verità è che non c’è difesa per i boschi.

I boschi sono per gli imprenditori del legno e dell’energia elettrica nient’altro che fonti di materiali ed “energia rinnovabile”; ma senza alcun riguardo alla sostanza della “rinnovabilità”, su cui torneremo fra poco. Compaiono tuttora proclami a pagamento del tipo “Tagliamo senza paura! perché una gestione sostenibile dei boschi fa bene all’ambiente e alla nostra economia”. Facoltà universitarie studiano lo sfruttamento “sostenibile” delle foreste e gli alberi esteri più produttivi, discipline come l’Estimo forestale si impegnano nella valutazione del legname. E in fondo che c’è di strano?  Non si chiama forse “Holz” in tedesco sia il bosco che il legno, come “wood” in inglese o “bois” in francese? Intere regioni del Nord Europa basano la propria economia su foreste-piantagioni da legno e da carta, che vengono periodicamente estirpate e rinnovate. Ovunque in Europa (e da qui nel mondo) il bosco è identificato col legname da taglio. Ancor più se i territori sgombrati dalla foresta, magari primaria, vengono convertiti in praterie per l’allevamento del bestiame o in distese di Elaeis guineensis, la palma da olio.

Naturalmente non è sempre così e non è stato sempre così. Senza rievocare i popoli raccoglitori e cacciatori, massimi custodi dei loro territori, molte popolazioni dedite all’agricoltura avevano un profondo rispetto per i boschi e per l’ambiente in generale, a cominciare dalle acque. Tracce di queste credenze le troviamo nelle letterature greca e latina più antiche, o nel nome della dea Reitia eponima del popolo alpino dei Reti: la dea delle sorgenti capace di guarire da tutte le malattie. Molti templi nell’antichità erano circondati da un bosco consacrato (lucus), la cui sacralità se violata comportava pesanti pene per gli empi, inferte dagli Dei stessi o dai loro rappresentanti in terra. E come ben ricorda Alessandro Chiarucci nel suo libro “Le arche della biodiversità”, ancora oggi molte aree sacre – a partire dal monte Fuji in Giappone – sono coperte o circondate da foreste intoccabili. Ma in generale è evidente che il mondo occidentale e la modernità hanno considerato le foreste alla stregua di fonti di legname e cacciagione, con poche eccezioni di carattere storico o paesaggistico. Sempre sotto la spada di Damocle di essere abbattute per ragioni speculative o sotto la spinta della crescita della popolazione, magari col pretesto di essere albergo di briganti e covo di belve. Ma, ci chiediamo, è almeno vero ciò che spesso si sostiene - anche da parte di gente non incolta e perfino in relazioni di accompagnamento a provvedimenti legislativi - che il taglio del bosco è a “emissione zero” di CO2, in quanto “il bosco ricresce”, dunque dal legname si ricava “energia rinnovabile”?

Ovviamente no, è una menzogna impudente. Gli alberi abbattuti certo tendono a ricacciare polloni, ma questi ci metteranno molti anni a ricrescere se tutto va bene, o anche secoli ove le condizioni di luce, acqua e terreno siano meno favorevoli, dando comunque origine a formazioni cespugliose di ceduo su suoli impoveriti e superficiali. Con l’ovvia conseguenza che lo scambio di biossido di carbonio sarà a lungo positivo (con prevalenza di rilascio!) e tornerà negativo, per forza della fotosintesi, solo a distanza di molti anni dall’intervento di taglio. Intanto la CO2 emessa in atmosfera andrà a nutrire l’incessante crescita dei gas serra che è all’origine della grande febbre del Pianeta.

Certo, alle foreste era da sempre riconosciuto qualche merito, oltre a quello di produrre legname: proteggere il suolo dall’erosione e formare il suolo “agrario” innanzitutto; trattenere, filtrare e drenare le acque meteoriche; mitigare il clima locale e assorbire gas serra, abbattere gli inquinanti. Da quando Lavoisier scoprì l’ossigeno e De Saussure la fotosintesi, alle foreste si riconosce una parte importante nell’origine e nella perpetuazione dell’aria che respiriamo. Tutto questo chi poteva negarlo? La foresta è vita per tutti, si sa ma non si dice. Infine, le foreste assicurano rigenerazione fisica e forse spirituale a quanti le frequentano, e sempre più si aprono a un turismo sportivo ormai enorme. Ma se alle industrie forestali, del legno e del cippato non è mai importato nulla di un discorso che andasse al di là del business del legno, è pur vero che da alcuni anni si fa strada una nuova consapevolezza delle importanti funzioni delle foreste sotto il velo dei “servizi ecosistemici”: aria, acqua, ombra, tanti altri benefici per l’umanità. Si tratta di un modo, se vogliamo antropocentrico, per far passare e rendere economicamente competitivo non più il taglio del bosco, ma la sua sopravvivenza e il suo accrescimento. Infatti, i servizi ecosistemici si possono misurare in una sorta di rinnovato “estimo dei servizi” che non calcola più (o non solo) i metri cubi e il costo delle cataste, ma quello che le foreste donano a noi umani rendendoci gradevole, e in realtà possibile, l’esistenza.

Sì, perché dipende interamente dalla vita delle foreste (e dalla vita nei mari, beninteso) se noi umani godiamo di un ambiente di vita piacevole o almeno tollerabile. Tanto per dirne una, ci furono epoche nella storia della Terra in cui la concentrazione atmosferica di CO2 fu più di 20 volte quella precedente alla rivoluzione industriale (e oltre 10 volte quella odierna, in vertiginoso aumento), con tutte le conseguenze sul clima di allora. Ma le enormi foreste del Carbonifero riequilibrarono la situazione, come poi - per quanto ne sappiamo - avvenne in molte altre occasioni. Intendiamoci: oggi le aree boschive non stanno diminuendo né in Italia (anzi aumentano: quasi il 40% del territorio nazionale oggi è boscato a qualche titolo), né nel mondo, perché nonostante la feroce deforestazione in corso nuove e vaste aree nell’estremo Nord vengono colonizzate dalla taiga grazie al clima più caldo. Il problema sta piuttosto nella tipologia delle aree boschive. I boschi in Italia sono per la maggior parte di bassa qualità, gracili e di origine recente; ci vorranno decenni o secoli per vederli trasformati in fustaie disetanee, ricche di specie, di suolo e di biodiversità. E quando leggiamo apprezzabili proposte di piantare tanti miliardi di alberi per far fronte (un po’) all’aumento dei gas serra, sappiamo bene che, qualora fossero realizzate, queste sarebbero pur sempre piantagioni e non foreste.

Tuttavia, vediamo che negli ultimi anni la sensibilità del pubblico per le foreste “autentiche” è grandemente aumentata. La corrente di studiosi e operatori del settore che vede nelle foreste un valore in sé e non solo un bene economico non è più di poche personalità elette e isolate. I tempi in cui Fabio Clauser ideò e quasi impose l’istituzione della prima riserva forestale integrale di Sasso Fratino sono ormai lontani. Esistono scuole universitarie orientate a una gestione forestale di tipo naturalistico, allo studio di boschi e alberi vetusti, ed esistono sodalizi (come i GUFI, Gruppo di Intervento Forestale Italiano) che si propongono esplicitamente la difesa delle foreste. E si sono formati negli ultimi anni anche in Italia un gran numero di comitati e movimenti spontanei consapevoli della posta in gioco e dell’urgenza di intervenire contro le tendenze in corso, attivissimi nel contrasto all’abbattimento di alberi e boschi. Adesso questi gruppi contano poco, ma stanno ottenendo molti successi locali e fra qualche anno saranno in grado di influenzare fortemente le scelte politiche ed economiche.

E anche questa è una buona ragione, e non l’ultima, per sostenere che oggi non ha più senso che le foreste “stiano” incardinate nel Ministero dell’Agricoltura (che, appunto, era anche “delle foreste”), poi nel Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo (2018), fino a ieri quando le foreste sono state sostituite a Roma dalla misteriosa “sovranità alimentare”. È ben vero che oggidì le foreste “stanno” più nelle Regioni (e nei Parchi) che al Ministero, e che in queste multiple sedi decentrate alloggiano spesso o di preferenza presso gli assessorati con delega alle questioni ambientali; ma ci sono competenze in materia forestale che tuttora restano in capo al governo della Repubblica. E mentre i Carabinieri forestali esercitano importantissime funzioni in tutta Italia, non dimentichiamo un buon Ministro dell’Ambiente (così si chiamava quel Ministero, prima che le Transizioni confondessero le idee) che proveniva proprio da questo nuovo ramo dell’Arma. Tuttavia, presso il Ministero dell’Agricoltura (ecc.) è sempre esistita una Direzione generale per l’Economia montana e le foreste, poi per la Valorizzazione dei Territori e delle Foreste (ahi la valorizzazione…) che per la sua incerta missione ha contribuito non poco al contestato “Testo Unico in materia di Foreste e Filiere Forestali”, voluto qualche anno fa dalla lobby del legno.

Pure, chi scrive queste note non crede che il destino delle nostre foreste sia davvero in mano alla “filiera” industrial-forestale o al Ministero dell’Agricoltura (ecc.), né alle variegate decisioni delle Regioni. Al netto di improbabili ma sempre possibili catastrofi direttamente imputabili alla avidità umana, un complesso di sagge leggi statali veglia sulle sorti a medio termine delle nostre foreste, a cominciare dalla legge Serpieri del 1923. Sicché sembrano pochi e isolati coloro che tramano seriamente contro di esse (standosene, giustamente, nell’ombra). Sì, restano ben vive e si allargano le foreste: anche se gli uomini non gli permettono quasi mai di svilupparsi come natura vorrebbe.

E tuttavia incombono altri tipi di rischi, a partire dalle sempre più frequenti crisi di bufere e alluvioni alternate a lunghe siccità (fu un brusco risveglio per tutti la tempesta Vaia nelle Alpi orientali, anno 2018), che potrebbero travolgere molti dei nostri boschi e miriadi di specie vegetali e animali ad essi legate, a cominciare dalle più fragili aree meridionali del nostro Paese. Le foreste, custodi della salute dell’aria e delle acque, delle piante, degli animali e pure degli Dei, e quindi custodi di tutti noi, meritano di essere comprese e protette ancor di più e sempre meglio nel cambiamento globale che si svolge veloce sotto i nostri occhi; meritano di essere lasciate crescere in pace verso uno stato di quasi naturalità. Salvo magari contenerle là dove siano da preservare quelle deliziose aree prative ed ecotoniche di origine antropica che conservano tanta biodiversità. Certamente non meritano, le foreste, di essere valutate solo per servire a produrre legname o “energie rinnovabili”, come pensava l’Homo Faber mentre si autoeleggeva al vertice di tutte le cose che sono (e di quelle che non sono). D’altra parte, sono pienamente legittime e da espandere le piantagioni di alberi da taglio periodico per le esigenze delle industrie. Pensiamo solo alle foreste di abeti rossi delle Alpi, in gran parte retaggio della forestazione austriaca dell’altro secolo, già ricordate con altri esempi anche più antichi, ma anche a coltivazioni più modeste come i pioppeti di pianura. Le foreste sono un’altra cosa.

Per tutti questi motivi noi crediamo e proponiamo che le competenze statali e quelle regionali per le Foreste debbano passare in toto al Ministero dell’Ambiente. Che si potrà chiamare, così noi suggeriamo, Ministero dell’Ambiente e della Natura. I due termini non sono sovrapposti né superflui: ciascuno di essi ha un suo significato e una evidenza anche per l’uomo della strada, cosa ormai rara. Questo nuovo nome dovrà essere simbolo di un rinnovato rapporto con la natura e anche un segno di ravvedimento: tardivo, ma meglio che niente. Per conservare e accrescere le foreste, sostegno del mondo.

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