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La nostra estinzione prossima ventura. Tra dati certi e accuse di fanatismo ambientalista

Valter Giuliano

Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “open access” Plos One ha indicato in 2.800 le specie a rischio di estinzione in Europa. Sono state esaminate le 14.669 specie del continente incluse nella Lista Rossa dell’Uicn, che rappresentano il 10% di quelle presenti e classificate. Dunque, una su cinque sarebbe a rischio, con percentuali che vanno dal 27% tra i vegetali e il 24% degli invertebrati
Forese bisognerebbe cominciare a pensare di inserire nella Lista rossa anche la nostra specie, avviata incoscientemente verso l’autoestinzione.
«E se fosse proprio così?», si domandano gli attivisti di Extinction Rebellion - una delle sigle più attive sulla scena del nuovo ambientalismo ribelle e radicale - che su questa ipotesi inquietante hanno costruito il loro impegno e la loro mobilitazione.
Quelli che i giornali mainstream e la politica di destra liquidano a male parole, con epiteti insultanti, invocando pene da Stato di polizia e applicando sanzioni, come il foglio di via, sinora adottate solo per delinquenti abituali.
Più facile soffermarsi sulle loro azioni che interrogarsi sui motivi che le muovono.
E se, invece, avessero ragione proprio loro?

La febbre cresce
Attualmente il nostro pianeta è più caldo, rispetto all’epoca preindustriale di fine Ottocento, di 1,1 gradi e le proiezioni dell’Unep indicano temperature medie globali in aumento di 2,5 - 2,9 gradi. Secondo gli esperti dell’Ipcc per fermare la febbre crescente del pianeta, il riscaldamento andrebbe contenuto in non più di 1,5 gradi.
Perché ciò accada le emissioni globali di gas climalteranti devono essere ridotte del 43% rispetto al 2019 entro il 2030 (la realtà cruda dei dati, riferita a oggi, ci dice che sono destinate a salire del 9%), e del 60% entro il 2035 per poi raggiungere l’obiettivo zero nel 2050. Se tutto ciò, da tempo noto, non accadrà, ci troveremo di fronte al crollo dell’ Antropocene, con un conseguente caos ad oggi imprevedibile a partire dal come affrontarlo. È del tutto presumibile, invece, che ne pagherà il salato prezzo la nostra specie. Il futuro dunque potrebbe essere già oggi ipotecato. Ce lo dicono le leggi della fisica. Nel frattempo, la soglia delle 350 parti per milione di anidride carbonica in atmosfera è stata da tempo superata e dalle 340 del 1980 si è saliti alle attuali 420 e oltre. A questo proposito va subito detto che (dati 2019) l’1% più ricco, in termini di reddito, della popolazione mondiale (77 milioni) è responsabile di una quota di emissioni di gas climalteranti (16%) pari a quella attribuibile a 5 miliardi di esseri umani, vale a dire i 2/3 dell’umanità. Tradotto significa che chi appartiene a quell’1% inquina in media in un anno quanto inquinerebbe una persona del restante 99% dell’umanità in 1.500 anni. Se ancora ce ne fosse bisogno, dall’ONU arriva un campanello d’allarme che rischia di trasformarsi ben presto nel rintocco di una campana a morto: le probabilità di raggiungere l’obiettivo fissato alla Cop di Parigi, di fermare il riscaldamento a 1,5 gradi, sono scese al 14%.

Un nuovo allarme e le conseguenze dall’Antartide all’Africa
Il 21 novembre Copernicus (il programma europeo di monitoraggio globale dell’ambiente e della sicurezza) ci ha avvisati che si è verificato il primo giorno sopra la media delle temperature atmosferiche del periodo preindustriale. Un calcolo che il centro di ricerca ha estratto da un insieme di dati e parametri forniti da strumenti sofisticati (a terra e satellitari) che tengono sotto controllo l’intero pianeta, oceani compresi, giorno e notte. La situazione è all’origine di fenomeni mai osservati.  In Antartide è alla deriva un nuovo iceberg di circa 4 mila chilometri quadrati. Segue un distacco verificatosi a gennaio che, a sua volta, ha fatto seguito a quelli del 2019 e del 2021; quest’ultimo. ancor più grande dell’attuale, si è nel frattempo fuso del tutto. Il record spetta in ogni caso ancora alla massa di 11 mila km2 alla deriva nel Duemila Le conseguenze possono essere catastrofiche e vanno ben al di là di qualche centimetro di crescita del livello di oceani e mari. Va persa una grande riserva d’acqua dolce e si possono innescare squilibri dalle conseguenze pesanti sulle correnti marine, a cominciare da quella del Golfo. E di conflitti territoriali geostrategici per il governo delle risorse naturali.
In Africa è già cominciata la preannunciata guerra per l’accesso e la disponibilità dell’acqua. Cambiamento climatico e pressione antropica segnano la progressiva scarsità di una risorsa naturale considerata, a torto, inesauribile. Secondo i dati del recente “State of African Environmental Report”, redatto in collaborazione tra il Centro indiano per la scienza e l’ambiente e l’analoga istituzione keniana, il Lago Ciad - su cui si affacciano e delle cui acque fruiscono Ciad, Nigeria, Camerun e Niger - dagli anni Sessanta ad oggi ha visto ridursi del 90% la sua quantità d’acqua.
In tutte le regioni interessate dal passaggio del Nilo, del Niger e del Congo, principali arterie idriche del continente, nonché sulle sponde del Lago Vittoria, sono aumentati in maniera esponenziale i conflitti tra allevatori e coltivatori per l’accesso all’acqua.
Per salvarci dall’estinzione bisogna investire. L’Unep nel suo recente (novembre) rapporto sugli adattamenti climatici, indica la necessità di una cifra stimata tra i 215 e i 387 miliardi di dollari per far fronte agli impegni di adattamento dei Paesi poveri; constata che ne hanno ricevuti il 10%, pari a 21 milioni. La Cop 26 di Glasgow chiedeva di raggiungere i 40 miliardi l’anno entro il 2025. Nel mentre si apre la Cop 28 di Dubai: chissà se verrà tenuto in debito conto che 1 miliardo di investimenti in prevenzione ne scongiura 14 di danni? Vedremo... È più probabile serva a stipulare nuovi contratti per forniture di gas e petrolio da parte dei Paesi del Golfo, piuttosto che prendere le necessarie e inderogabili decisioni per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi 2015.

Il disinteresse del Mercato
Di fronte a questa situazione che porta l’umanità sulla soglia dell’estinzione, il comparto economico-energetico sembra del tutto indifferente e si continuano a cercare ed estrarre fonti fossili. Complice anche il nostro Governo, con il nuovo via libera alle trivelle in Adriatico. Una notizia ancora peggiore, se è possibile, arriva dal settore del carbone, i cui consumi, nel 2022, sono saliti al record mondiale di 8,3 miliardi di tonnellate (dati Aie - Agenzia internazionale per l’energia) e nel contempo attira nuovi investimenti. La Svizzera Glencore ha rilevato la canadese Teak Resource per nove miliardi di dollari e pare interessata a rilanciare la produzione di elettricità con una nuova centrale a carbone. Nella prima metà di quest’anno la domanda di carbone è scesa del 24% negli USA e del 16% nell’Ue, ma è cresciuta di oltre il 5% tra Cina e India, andando ben oltre la compensazione dei cali occidentali.

L’indifferenza dell’informazione
Eppure, di fronte a questi accadimenti oggettivi che si basano su dati scientifici verificati e conclamati e certamente non di parte, assistiamo ogni giorno al negazionismo ignorante e pervicace di numerosi organi di presunta informazione che, in palese malafede, continuano imperdonabilmente ad ammansirci, scrivendo irresponsabilmente di allarmi ingiustificati e di fanatismo ambientalista. Oltre ciò, omettono informazioni di fonte ufficiale e autorevole come quelle che abbiamo sopra cercato di riassumere.
È constatazione amara quella di dover prendere atto di come il sistema informativo italiano - non a caso nella parte bassa della classifica mondiale - risulti supino e dipendente dai centri di potere delle lobbyes economiche della crescita e del profitto a ogni costo che le finanziano (la maggior parte delle testate private ipocritamente classificate “indipendenti”) oppure della partitocrazia lottizzatrice che, a parte qualche lodevole eccezione, è altrettanto portatrice di colpevole ignavia e di interessi di parte che finiscono col prevalere su quelli collettivi (la cosiddetta “ informazione pubblica”, che sosteniamo con i nostri tributi).

Futuro “No profit”
Di fronte alla registrazione di questi fatti e di questi atteggiamenti la domanda sorge spontanea: c’è ancora tempo per una transizione ecologica graduale? Probabilmente no.
E se no, cosa ci salverà dall’estinzione?
Un sovvertimento globale. Una riconversione in cui il futuro è “No profit” o non è.

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