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La resistibile marcia dei trattori

Franco Rainini

Quando abbiamo pensato ad un numero monografico di Natura e Società dedicato all’agricoltura, l’articolo dedicato alla politica agricola comunitaria era immaginato molto diverso da quello che state leggendo: dopo un anno dall’avvio della nuova PAC le organizzazioni ambientaliste europee e, in Italia, la Coalizione Cambiamo Agricoltura, avevano cominciato a ragionare su quale dovesse essere la prossima evoluzione della PAC, producendo anche un interessante documento, condiviso da EEB, Bird Life e WWF Europe, nel quale si prospettava una evoluzione verso il modello prospettato dalle grandi strategie europee, la Farm to Fork e la EUbiodiversity, con obiettivi definiti “ambiziosi”, secondo il brutto lessico dei documenti UE, tra cui la riduzione del 50%dei pesticidi pericolosi, la stessa percentuale di riduzione delle perdite di nutrienti minerali delle piante (azoto e fosforo, derivati dalle concimazioni minerali ed organiche sui suoli agrari), la destinazione del 10% della superfice delle singole aziende agricole a usi compatibili con il mantenimento della biodiversità (siepi, filari, superfici a maggese, coltivazioni senza input dalla chimica di sintesi in grado di rigenerare il suolo, ed altre forme di destinazione “ecologica” delle superfici agrarie, misure che secondo le citate strategie avrebbero dovuto avere piena attuazione dal 2030.

Le manifestazioni messe in atto dagli agricoltori in vari paesi europei, e alla fine anche in Italia, hanno stravolto il dibattito, inserendo quale principale motivo di attenzione la sostenibilità economica delle aziende agrarie rispetto alle norme ambientali della politica agricola comunitaria (PAC), adottata l’anno scorso e timidamente orientata agli obiettivi delle strategie.

La risposta delle Istituzioni Europee è stata quasi immediata e orientata a rimuovere alcune delle principali norme ambientali. In particolare l’attenzione è stata orientata al BCAA 8, l’acronimo significa buone condizioni agronomiche e ambientali (appare spesso con la formulazione inglese GAEC, contribuendo ancor più a rendere il linguaggio dei documenti sulla politica agraria europea ostico e insopportabilmente criptico), il numero otto indica la misura che prevedeva l’adozione della destinazione del 4% della superficie aziendale ad usi favorevoli al mantenimento della biodiversità. Un cedimento alle richieste degli agricoltori e una rimessa in discussione degli obiettivi del Green New Deal.

Siamo rimasti tutti abbastanza sorpresi dalla rapidità delle decisioni prese in sede comunitaria e nazionale a seguito di manifestazioni partecipate, ma non sempre imponenti, caratterizzate soprattutto dal disagio del traffico causato da trattori (quasi tutti di elevata mole e potenza), in alcuni casi, specialmente in Italia, risoltesi con insuccessi.

Anche dopo la chiusura pressoché definita delle manifestazioni, nella seconda metà di febbraio l’attività di revisione delle misure agroambientali non si è fermata, anzi. In un comunicato stampa emesso il 22 febbraio di quest’anno con la titolazione “La Commissione europea presenta opzioni di semplificazione per ridurre l'onere per gli agricoltori dell'UE”, la Commissione UE a guida Von Der Leyen comunica che saranno liquidate o rese meno stringenti altre norme BCAA, in particolare la n. 1, sulla conservazione dei prati, mentre i governi di alcuni stati membri puntano anche sulla riduzione degli impegni per altri BCAA, che riguardano l’obbligo di mantenere una copertura dei Suoli (BCAA 6) sul quale la Commissione è già orientata favorevolmente (https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_24_781), i BCAA 7 sulla rotazione delle colture e BCAA 8 sulla protezione di torbiere e zone umide. Un bel massacro. Prospettato e in parte già realizzato (https://www.arc2020.eu/simply-slashing-the-cap-commission-proposes-rollback-on-rules/).

Sorprendente il silenzio e la scarsa attenzione ad altre ragioni delle proteste, che sono via via emerse come più rilevanti e impattanti sul settore agricolo. In particolare la denuncia dell’erosione dei margini di reddito a causa della tendente stagnazione dei prezzi di acquisto dei prodotti agricoli in termini di moneta corrente sul lungo periodo. Per intenderci: chi scrive ricorda molti decenni fa il prezzi di latte alla stalla intorno alle 600 lire, tale prezzo, con qualche fluttuazione, si ritrovava ancora nelle settimane della grande siccità in Nord Italia, con prezzi delle materie prime esplosi a causa della cattiva congiuntura metereologica e per i timori (rivelatisi ingiustificati per l’acquisto di materie prime per mangime – mais – dall’Ucraina).

L’altro fenomeno, anch’esso esiziale per molte aziende agricole, è la volatilità dei prezzi, soggetti a repentini cambiamenti anche a causa di fenomeni di mercato che hanno luogo in altre parti del mondo. Questo vale per i cereali, ma anche per la carne, come ad esempio le conseguenze sul mercato di episodi epidemici a carico di avicoli come l’epidemia di influenza aviaria (a rischio si spillover sull’uomo e considerata conseguenza delle grandi concentrazioni di allevamenti intensivi (https://monthlyreview.org/product/big_farms_make_big_flu/) e soprattutto per la lunga e complessa vicenda della peste suina africana. Partita in Cina (primo produttore mondiale di questa merce) provocò una esplosione dei prezzi che trovò gli allevatori italiani impreparati a sostenere il volume di produzione richiesto, il successivo ridimensionamento del valore dei suini e le difficoltà derivate dall’ingresso della peste prima in Europa poi in Italia hanno provocato difficoltà rilevanti agli allevatori di suini, favorendo il fenomeno della soccida, ovvero la dipendenza dell’allevatore dalle grandi aziende proprietarie di animali (con il controllo genetico dei riproduttori), del mangime e del know how gestionale, che corrispondono un dato prezzo di ritiro degli animali allevati da soggetti che sono meri esecutori, con il ridotto vantaggio di conoscere a priori il valore finale degli animali allevati. Si tratta di una perdita di autonomia imprenditoriale che interessa la generalità degli allevamenti avicoli e sempre più riguarda gli allevatori di suini.

Speriamo questa lunga digressione sia servita a fornire un’idea di quali sono le reali difficoltà del settore agricolo, difficoltà per le quali potrebbero essere richiamati altri esempi, come il peso della intermediazione per i produttori di frutta e verdura, specialmente quelli che producono nel Sud e che debbono anche confrontarsi con l’aggressività di altri produttori dell’area mediterranea, che, grazie alla grande superficie territoriale, un più favorevole sistema di proprietà fondiaria e una migliore organizzazione delle strutture di distribuzione internazionale hanno occupato una parte considerevole del mercato centro europeo, penetrando anche in Italia. Si ricordi che l’importazione di prodotti agricoli dalla Spagna era oggetto degli strali degli agricoltori francesi in protesta e lassù si sono verificati anche mezzi di protesta poco commendevoli, come lo sversamento di letame sulle strade e davanti a palazzi istituzionali, con una reazione insolitamente blanda della polizia francese, solitamente molto spiccia nei modi di repressione.

A recriminazioni diverse da quelle contro le misure agroambientali non sono state date risposte concrete, al netto della retorica solidarietà lavoratori della terra espressa da ogni giornale e da ogni gruppo politico e dalla esenzione dall’IRPEG per le aziende con gettito inferiore a € 10.000, per quest’anno, poi si vedrà.

In realtà le misure di revisione della PAC uscita alla fine del 2022 erano già da tempo in discussione dalla Commissione, che, specialmente dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina, aveva provveduto a temperare le misure agroambientali, con una raffica di provvedimenti a favore delle produzioni di cereali, che, come vedremo si basavano sull’ipotesi di un blocco delle importazioni di cereali dai paesi in conflitto, mai verificatesi. Anzi le misure di sostegno dell’esportazione di mais dell’Ucraina hanno sollevato proteste da parte di agricoltori di alcuni paesi dell’Est Europa, che hanno trovato immediata sponda politica e che costituiscono parte della cosiddetta stanchezza della guerra da parte dei paesi che non la combattono. Potenza dell’economia!

A riguardo è opportuno rilevare che le proteste contro i prezzi bassi e le importazioni dall’estero di produzioni effettuate in condizioni considerate di dumping sociale o ambientale militano a favore di norme che innalzino tali standard, piuttosto che la loro rimozione. Quando le misure a favore della “economia agraria di guerra” furono avanzate questi furono tra gli argomenti avanzati dagli ambientalisti, in Italia dalla Coalizione Cambiamo Agricoltura, che così si espresse “Fermare la transizione ecologica non aiuta a risolvere la crisi dei prezzi e delle materie prime in agricoltura in parte causata dalla guerra Ucraina Russia serve anzi una sua accelerazione … Modificare le poche norme della nuova PAC favorevoli all'ambiente sarebbe un grave errore rinviando la soluzione di problemi globali come la crisi climatica, la perdita di biodiversità … La forte dipendenza della nostra agricoltura dalle energie fossili e materie prime importate dipende da una insostenibile zootecnia che sottrae terra alla produzione di cibo per le persone”. Ovviamente le richieste degli ambientalisti non furono ascoltate, anzi da quei giorni si è inanellata una progressiva tendenza ad indebolire le misure agroambientali che sembravano fino ad allora il fiore all’occhiello della Commissione Von Der Leyen. Devono essere in particolare ricordati il congelamento della Direttiva SUR riguardante la riduzione dell’uso dei pesticidi e la proroga all’uso del glifosato, il diserbante più utilizzato al mondo, per il quale vi sono forti indizi di cancerogenicità e per il quale è stato concesso l’uso per altri dieci anni, con una delle scelte più contestate A questo riguardo si cita la richiesta inviata alla Federazione Nazionale Pro Natura alla Commissione UE: “… è difficile comprendere perché a fronte di tali evidente carenze conoscitive e alle ricerche in corso il principio di precauzione non venga applicato nel caso del glifosato e il suo uso sia interrotto, almeno fino a che studi indipendenti dimostrino in modo convincente la reale assenza di tossicità del prodotto sia sull’uomo che sui componenti biotici dell’ecosistema”.

Sfortunatamente la precauzione sembra venir applicata, sia a Bruxelles che a Roma, più sulle conseguenze elettorali delle scelte politiche che su quelle sanitarie ed ambientali, così addio al SUR e al bando del glifosato, mentre consistenti aperture vengono fatte alle nuove biotecnologie, per le quali si è anche prospettato di non rendere obbligatorio in etichetta la loro presenza. Si rimanda per i particolari all’articolo dedicato su questo numero.

Nel frattempo, non le misure ambientali, ma il tritacarne del mercato libero e della progressiva riduzione dei margini di guadagno, sta erodendo il tessuto produttivo della nostra agricoltura, portando alla progressiva espulsione di aziende agricole medio piccole ed aumentando il livello di meccanizzazione, cioè di capitale investito, quindi di intensità produttiva. Il primo dato che vale la pena valutare è il numero di aziende agricole. Secondo i dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura, riportando la stessa descrizione del fenomeno fatta da ISTAT a commento della rilevazione: “A ottobre 2020 risultano attive in Italia 1.133.023 aziende agricole (Prospetto 1). Nell’arco dei 38 anni intercorsi dal 1982 – anno di riferimento del 3° Censimento dell’agricoltura, i cui dati sono comparabili con quelli del 2020 – sono scomparse quasi due aziende agricole su tre. Nel dettaglio, il numero indice del numero di aziende agricole (con base 1982 = 100), pari a 36,2, indica una flessione del 63,8%. La riduzione è stata più accentuata negli ultimi vent’anni: il numero di aziende agricole si è infatti più che dimezzato rispetto al 2000, quando era pari a quasi 2,4 milioni”. Per dare la dimensione di quanto questo fenomeno non investa soltanto aziende piccolissime si ricorda la comunicazione effettuata nel corso della fiera agrozootecnica di Codogno (LO), riguardo l’evoluzione della dimensione media degli allevamenti da latte in provincia, passata nel giro di una decina di anni da 100 a duecento capi, con un numero complessivo di capi rimasto costante. Forse quando si parla di disagio degli agricoltori questo dovrebbe essere il primo dato che deve essere riferito. È un cambiamento enorme che ha riguardato nel giro di quarant’anni un milione e mezzo, o più, di famiglie italiane, che hanno trovato non più conveniente proseguire l’attività agricola. Se per una parte del paese e per un periodo di tempo limitato questo abbia potuto significare l’avviamento a condizioni di vita migliori, non può essere questa considerata per tutti una scelta libera, ma in qualche modo costretta dal mutare delle condizioni economiche.

Secondo l’economia classica la riduzione della redditività dell’agricoltura si basa sulla scarsa elasticità dei prezzi dei prodotti agricoli; banalizzando, se uno si trova a veder migliorate le proprie condizioni economiche e di benessere (il che, secondo tale modello di pensiero, si verifica all’aumentare del reddito procapite, come ripartizione dell’accresciuta ricchezza della nazione) tende a spendere per i beni essenziali, come il cibo, una quota molto ridotto dei nuovi introiti, essendo i bisogni essenziali soddisfatti necessariamente anche a fronte di redditi più bassi. Per questo i beni voluttuari hanno la tendenza a reagire prontamente agli incrementi di reddito, mentre i beni primari ne sono penalizzati. Ne consegue che la relativa quota di ricchezza che va agli agricoltori è sempre più ridotta con la crescita economica, provocando il fenomeno della fuga dalle campagne che ha caratterizzato la storia del nostro paese dal dopoguerra.

Fin qui nulla di nuovo, solo si deve forse rilevare la differenza tra l’abbandono delle campagne nel dopoguerra, fenomeno che ha comunque generato nel nostro paese enormi scompensi sociali, economici, politici ed anche ambientali, al fallimento di imprese che hanno fatto negli anni ingenti investimenti, in parte sostenuti dalla mano pubblica, con un mercato del lavoro non facilmente pervio a persone avanti negli anni. Questo può servire a reindirizzare la ricerca del malessere degli agricoltori.

Ma l’agricoltura è tutt’altro che un fenomeno monolitico e diversi modelli, diverse agricolture, sono presenti. Anche su questa pluralità di modelli ha cercato di agire la Commissione Europea, inserendo nella strategia Farm to Fork l’obiettivo di raggiungere il 25% della superficie destinata appunto alla agricoltura biologica. Ovviamente l’agricoltura biologica ha anche un effetto positivo sull’economia delle aziende che lo adottano, l’effetto di compressione dei prezzi delle derrate agricole (l’anelasticità, assenza di elasticità dei prezzi rispetto alle variazioni del reddito percepito, di cui si è fatto cenno sopra) è molto meno marcato per i prodotti considerati di più elevato valore, fenomeno che è evidente per i prodotti tipici ed in modo più marcato per i prodotti biologici. Certamente ciò ha effetto anche sul prezzo finale al consumatore, per questo è necessario che in qualsiasi idea o progetto di un nuovo modello agroalimentare venga considerato il ruolo cruciale dei consumatori e l’importanza dell’organizzazione degli stessi come soggetti acquirenti e promotori di una migliore educazione per un consumo consapevole rispetto all’impatto dell’alimentazione e in generale dell’agricoltura sulla salute, la società e l’ambiente.

La Coalizione Cambiamo Agricoltura riconosce il ruolo dell’agricoltura biologica come esempio di applicazione efficace e di grande successo dei principi dell’agroecologia contiene al suo interno le principali associazioni di agricoltura biologica e la stessa Associazione Italiana di Agroecologia (AIDA https://www.agroecologia.eu/).

Dentro questo contesto deve essere rilevato come comunque la PAC non aiuti a le piccole aziende sul mercato. Come più volte denunciato dalla Coalizione Cambiamo Agricoltura la distribuzione delle risorse PAC (quindi dei soldi che tutti noi, attraverso le nostre tasse, versiamo per garantire un sistema agricolo efficiente, sano e rispettoso dell’ambiente) vanno per l’80% a solo il 20% delle aziende, lasciando le briciole alle altre.

In parte questa distribuzione è dovuta al principio di distribuzione per ettaro, principio più volte contestato, ad esempio dall’European Coordination Via Campesina, che fa riferimento al movimento mondiale Via Campesina, che si batte per la difesa di un’agricoltura rispettosa dei diritti dei piccoli agricoltori, delle comunità indigene e dell’ambiente, per una agricoltura basata sui principi dell’agroecologia.

L’approccio di questo movimento, rappresentato in Italia dall’Associazione Rurale Italiana, è molto diverso da quello delle altre organizzazioni dell’agricoltura tradizionale e per alcuni versi anche da quelli dell’agricoltura biologica. L’enfasi non è posta sulla necessità della produzione per il mercato, ma piuttosto la produzione è vista come elemento necessario al soddisfacimento dei bisogni della famiglia contadina, ed il ricorso al mercato è concepito in funzione di tale obiettivo. Può sembrare un approccio poco funzionale alle necessità della società attuale, con la tendenza consolidata a livello mondiale di un aumento della popolazione mondiale inurbata; ma certo nei paesi del Sud globale, stante l’attuale diseguaglianza delle supply chains, per cui il valore del lavoro di un africano vale mediamente decine, se non centinaia di volte meno di quello di un europeo, tale approccio ha certamente senso (cfr https://monthlyreview.org/2019/07/01/labor-value-commodity-chains/), ovvero: meglio un contadino autosufficiente che un contadino sradicato che alimenta il mercato della disperazione nelle favela del Sud. In Europa l’approccio de La Via Campesina è certamente meno compreso, ma comunque non privo di senso, anche da noi il bisogno di un legame più diretto con la natura si combina con la necessità di rivitalizzare i territori interni abbandonati e lasciati al degrado e a cervellotici progetti di valorizzazione turistica o magari energetica. Un esempio viene dal territorio delle Quattro Province (Alessandria, Genova, Pavia, Piacenza), dove pure è presente un movimento di protesta contro gli usi impropri, rappresentati dal turismo motociclistico sui sentieri, dalla realizzazione di improbabili impianti sciistici a basse quote, dall’installazione di impianti eolici in aree naturalisticamente sensibili, in un contesto di scomparsa del settore primario sia agricolo che selvicolturale. Contro questo modello, che potremmo definire di sottosviluppo, opera da alcuni anni conduce il coordinamento Sentieri Vivi delle quattro province – a cui partecipa la Federazione Nazionale Pro Natura – promuovendo la rivitalizzazione dei territori dell’estrema propaggine settentrionale degli Appennini.

L’esigenza è quella di liberare i territori marginali, “le terre alte”, dalla sudditanza di un modello, non solo agricolo, centrato sugli interessi delle aree forti, una volta espressione dell’economia industriale ed oggi espressione del settore terziario, quella che nelle nostre economie cosiddette avanzate rappresenta la gran parte della ricchezza prodotto: dal rapporto annuale dell’Associazione Manager Italia: “Il Terziario contribuisce in maniera preponderante all’economia di tutte le macro-regioni, come avviene in misure diverse nei paesi avanzati. I servizi producono oltre il 72% del VA totale nel Nord-Ovest e quasi l’80% nel Centro e nel Meridione” (https://www.manageritalia.it/wp-content/uploads/2024/01/osservatorio-terziario-manageritalia-report-trimestrale-febbraio-2022.pdf). 

Nelle nostra società dove si stima poco quanto non è valutabile in termini monetari le affermazioni contenute nel manifesto della branca italiana di La Via Campesina sono il segno di una diversa idea di sviluppo e di valore:

L’Associazione Rurale Italiana è a favore di politiche agricole che sostengano ed incoraggino uno sviluppo equo e solidale, secondo forme adatte ad ogni diverso ambiente rurale italiano e attraverso:

  • prezzi dei prodotti agricoli che permettano una vita dignitosa ai contadini;
  • aziende agricole centrate sul lavoro, diversificate, creatrici di impiego locale, facilmente trasmissibili;
  • difesa della terra da consumo di suolo e cementificazione;
  • accesso alla terra per chi la vuole coltivare ed in particolare per i giovani;
  • protezione e conservazione della biodiversità agricola;
  • protezione dei corsi d’acqua, delle falde di acqua sotterranea, dei boschi e dei paesaggi;
  • trasformazione e distribuzione dei prodotti aziendali in forma diretta o a mezzo di piccole imprese a carattere locale, regionale o specializzato;
  • tassazione dei fattori di produzione che causano costi sociali ed ambientali, fra cui l’uso dell’energia e di input chimici.

Idee che crediamo condivisibili dal movimento ambientalista e che suggeriscono un approccio diverso, e più accettabile, all’uso del territorio, all’alimentazione e a quella che potremmo definire come ecologia umana, non escluse le esigenze psicologiche che ognuno ha di rapportarsi in modo diretto ed armonico con i propri simili, i propri bisogni e la natura.

Tornando brevemente al tema del cambio di fronte della politica agricola comunitaria, che abbiamo visto evolvere nel corso degli ultimi anni, ben prima dell’arrivo dei trattori in strada, dobbiamo riconoscere che la prima avvisaglia del cambio di umore è stato l’avvio della guerra in Ucraina e del conseguente timore della perdita di approvvigionamento di frumento (Russia) e mais (Ucraina). In questo contesto la lettura che è stata fatta è stata del tipo: finora abbiamo potuto contare sull’arrivo di commodities dall’Est e quindi abbiamo potuto immaginare un modello di agricoltura sostenibile nei nostri paesi, fidando sulle commodities importate dall’estero, ora è evidente a tutti che dobbiamo produrci noi i nostri cereali, necessari ad evitare la fame nei nostri paesi, e questo è incompatibile con i nostri obiettivi di sostenibilità agroalimentare come immaginati nelle strategie Farm To Fork ed EUbiodiversity.

Questo modo di pensare che abbiamo visto espresso più volte negli ultimi due anni poggia su alcune premesse non scontate, che vengono accettate senza ulteriore discussione, che pure sarebbe necessario sviluppare.

La prima è che i nostri paesi corrano veramente un rischio di carestia. In realtà non è così. La produzione di cereali e alimenti destinabili direttamente all’uomo è assolutamente abbondante in Europa e permette una alimentazione abbondante.

Ecco la tabella con i dati della produzione mondiale ed UE di frumento e mais e con la variazione rispetto alle previsioni di novembre 2023 (Mt) (dal Dipartimento Usa dell’Agricoltura):

 

2022/23

2023/24

Produzione mondiale (Mt)

 

 

 

 

Frumento

789,7

0,2

783

1,0

Mais

1.157,2

0,1

1.222,1

1,3

Produzione europea (Mt)

 

 

 

 

Frumento

149,7

0,0

148,6

0,0

Mais

52,4

0,1

60,1

0,3

 

Difficile parlare di possibile carestia a fronte di produzioni così forti, specialmente se si considera che una parte consistente di questa produzione (insieme al flusso di cereali che continuano ad arrivare dai paesi in guerra ed anche da altrove) è destinata agli animali domestici, che un tempo usufruivano delle risorse residue dell’azienda agricola, provenienti dagli scarti o da colture specificamente destinate (anche e soprattutto per ragioni agronomiche) non utilizzabili per l’alimentazione dell’uomo, ed oggi competitori diretti dell’uomo nel consumo di cereali e legumi (soia). Secondo Greenpeace il 62% dei cereali coltivati in Europa sono destinati agli allevamenti e solo il 22% all’alimentazione umana, la parte restante va ad altri usi, tra cui quelli energetici.

Se consideriamo il ruolo pesantissimo degli sprechi alimentari, a cui è dedicato un articolo su questa rivista dobbiamo riconoscere che la carestia è moltissimo nel pessimo uso che facciamo del suolo e per nulla alle misure agro ambientali, solo immaginate.

La seconda premessa implicita nella descrizione che giustifica l’affossamento della PAC 2023-2027 è il ruolo centrale a livello globale dell’agricoltura basata sull’agromeccanica e l’agrochimica, svolta su grandi superfici e con forti input di capitale. Non è così.

Una recente e fortemente contestata valutazione della FAO sul ruolo dell’agricoltura contadina (family farms and small farm) rispetto all’agribusiness, riduce il ruolo svolto dalle piccole aziende rispetto all’agribusiness, tuttavia le considerazioni svolte sono interessanti, dall’abstract: “numerosi tentativi sono stati fatti per stimare la quota degli alimenti prodotti da aziende agricoli familiari di differenti dimensioni. Lo studio aggiorna le stime del numero mondiale di aziende, la loro distribuzione …. Risulta che nel mondo ci sono 608 milioni di aziende agricole, più del 90% sono a conduzione familiare e occupano il 70/80% del suolo agricolo, producendo all’incirca l’80% del cibo espresso in termini di valore … Le piccole aziende [quelle con meno di 2 ettari] operano solo sul 12% della terra agricola, ma danno conto del 35% del cibo prodotto al mondo (ben al di sotto dell’80% prodotto dalle aziende familiari). (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0305750X2100067X).

Al netto delle polemiche sollevate per il disconoscimento del ruolo delle piccole aziende, ammesso e non concesso che la distribuzione per classi di superfici sia la più adeguata per dar conto del fenomeno studiato (vedi https://rewriters.it/fao-agricoltura-contadina-o-agrobusiness-2-studi-in-contraddizione/) emerge comunque che il ruolo delle piccole aziende in termini di produzione di cibo è assai più rilevante dell’area e delle risorse utilizzate, questo può suggerire che in un’epoca di incertezza degli approvvigionamenti alimentari ci possiamo fidare proporzionalmente più dei piccoli coltivatori ad alta intensità di lavoro che dell’agribusiness ad alta intensità di capitale. Il fenomeno ricorda il famoso adagio di Richard Levins, secondo cui l’agricoltura produce burro di arachidi dal petrolio, mentre coltivare è ottenere le arachidi da quelle che abbiamo seminato.

L’esempio è particolarmente calzante alla situazione che si era creata nell’estate del 2022, durante la campagna maidicola in pianura padana, la prevalente preoccupazione degli allevatori era rivolta al costo del mais, la principale fonte energetica per gli animali stabulati, mentre i coltivatori di mais erano affranti per il costo dei concimi a base di azoto, in particolare l’urea. Prodotta a partire da fonti fossili attraverso il sistema Haber Bosch, aveva un prezzo collegato a quello del metano (che raggiunse € 110/q, 440/ha mais, inoltre le principali aziende di produzione si trovavano in Russia, per evitare il trasferimento del gas e limitarlo al solo prodotto finito) il risultato è stato per alcune aziende pesantissimo, anche per il destino disastroso del raccolto di quell’anno, colpito dalla siccità, guarda a caso attribuibile anch’essa all’abuso di combustibili fossili e all’eccessivo sviluppo di allevamenti intensivi.

La morale dovrebbe essere ovvia, ma naturalmente è stata completamente ribaltata da una retorica, rispetto alla quale non vi è stata alcuna possibilità di interlocuzione.

Per concludere il percorso avviato con la domanda: perché l’Unione Europea è stata così pronta ad accedere ad alcune richieste di alcuni agricoltori, certo ben motorizzati, ma neppure troppo numerosi, mentre si è mantenuta sorda rispetto ad altre richieste, in primo luogo quelle che riguardavano il sostegno dei prezzi agricoli, crediamo sia opportuno dare un’occhiata allo schema che illustra i nove obiettivi della politica agricola europea.

Evidentemente noi abbiamo nostalgia del mito della tavola rotonda e i nove obiettivi sono stati messi in circolo, a suggerire nessuna scelta di priorità, ma evidentemente le priorità ci sono e i risultati sono evidenti. Consideriamo la scarsa considerazione che ha avuto la tutela dell’ambiente e le azioni per il cambiamento climatico, letteralmente valutate meno di un carro di letame sparso per strada a Parigi o Bruxelles. Ma considerazione non molto maggiore ha riguardato il destino del reddito degli agricoltori, che nel corso degli anni hanno lasciato le campagne, per un futuro non sempre certo e migliore: alcuni agricoltori con cui ho avuto modo di confrontarmi sostengono di continuare a lavorare con nessuna remunerazione degli investimenti e redditi non molto elevati perché le prospettive esterne non sono buone, altri si sono rassegnati alla conduzione part time delle loro aziende anche a fronte di superfici ben superiori ai due ettari indicati come “small farm” dallo studio commissionato dalla FAO e sopra citato. Su altri obiettivi come la difesa del paesaggio è meglio sorvolare per carità di Patria e di UE.

Il dubbio è che l’unico obiettivo veramente perseguito della tavola rotonda sia l’aumento della competitività, ovvero l’aumento delle dimensioni aziendali e l’uso di tecnologie ed input sempre più costosi e alla portata di un numero sempre più ridotto delle aziende. Il sospetto che questo si trasformi in sostegno alle aziende (agromeccaniche e agrochimiche) che vendono input agli agricoltori non sembra di particolare interesse. Il sostegno attraverso la PAC ed il PNRR va per l’acquisto di macchine sempre più potenti che certo assicurano un miglior utilizzo di concimi e fitofarmaci, senza però mettere in discussione l’impianto di un sistema che è evidentemente in crisi.

Basterà? Aldilà di considerazioni sull’ambiente e la salute, qualche dubbio comunque è presente.

Le nuove tecnologie, quelle dell’agricoltura 4.0 basate sull’agricoltura di precisione, l’uso di droni e di informazioni satellitari richiedono superfici aziendali molto più vaste di quelle pure considerevoli presenti nella pianura padana, per non parlare del resto del paese. Vogliamo davvero che l’agricoltura italiana diventi trasformatore di commodities prodotte altrove? Da qualche parte siamo già su questa strada.

I 9 Obiettivi della PAC 

 

La regione più sfortunata: la Lombardia

Un maiale su due viene allevato in Lombardia, un litro di latte di vacca su due viene prodotto in Lombardia, la Lombardia alleva il 18% degli avicoli (contro il 31% del Veneto, mentre tutte le altre regioni vengono dopo).Questa ingente produzione zootecnica, questa enorme massa produttiva, viene svolta su una base territoriale relativamente esigua, meno di 24.000 km2, in parte sottratti all’uso agricolo, o forestale, o alla loro naturale evoluzione dall’ingente consumo di suolo, citando la fonte principale di questi dati: “Secondo i dati elaborati da AVEPA 2021 sui dati ISPRA, in Lombardia il tasso di impermeabilizzazione del suolo è tra i più alti d’Italia. Nel 2021 circa 2.894 km2 di suolo regionale sono stati ricoperti da cemento, che rappresenta il 13,5% del consumo totale di suolo nazionale (21.485,1 km2)”. Da “L”agricoltura nella Lombardia in cifre, 2023 CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria) (https://www.crea.gov.it/documents/68457/0/Lombardia_Cifre_2023_WEB.pdf/81a59f01-044c-f88f-ecbc-75c14f42144d?t=1684924780263).

Bisogna poi considerare che una parte consistente del territorio regionale è costituito da montagne e che oltre alla zootecnia vi sono le aree destinate a colture non collegabili alla zootecnia. Complessivamente, comunque, i risultati economici del sistema agricolo lombardo sono impressionanti, continuando a citare CREA: “Nel 2021 il valore della produzione dell’aggregato Agricoltura, silvicoltura e pesca in Lombardia è pari a 3.852 milioni di euro a prezzi correnti e 3.513 milioni di euro a valori concatenati (anno base 2015). Esso risulta in leggero aumento rispetto all’anno precedente (+1,6%) e rappresenta l’1,1% del totale delle attività economiche regionali. A livello nazionale l’agricoltura regionale ha un peso rilevante, posizionandosi al primo posto nella graduatoria delle regioni italiane, seguita da Sicilia, Emilia-Romagna e Puglia. Il Valore Aggiunto (VA) regionale dell’aggregato in esame rappresenta il 22,6% del totale nazionale”.

Tutto questo accade in una Regione dove vive più del 15% della popolazione nazionale, e che riveste un ruolo preminente anche in campo industriale e dei servizi.

Questa ingente massa di produzione zootecnica viene realizzata solo grazie a imponenti importazioni di cereali, soprattutto mais e soia, destinati rispettivamente a coprire i fabbisogni energetici e proteici degli animali allevati negli allevamenti intensivi.

Già da decenni l’Italia, e in particolare la Lombardia, sono completamente dipendenti dalle importazioni di soia dall’estero, in particolare dal Sud America. I dati dell’Annuario 2023 Assalzoo indicano imponenti quantità di farine di estrazione utilizzabili a scopi energetici importate come tali oppure prodotte da semi importati, all’incirca quattro milioni di tonnellate (https://www.assalzoo.it/pubblicazioni/annuario). quello che è successo negli ultimi anni è stata la progressiva riduzione del tasso di approvvigionamento del mais, un tempo vanto dell’agricoltura lombarda. Ogni anno a gennaio, presso la sede CREA di Stezzano (BG), si svolge la giornata del mais, nel corso della quale vengono presentati i risultati delle prove di produttività eseguite dall’ente pubblico sulle nuove varietà presentate dalle ditte sementiere e il quadro generale del settore. Quest’anno l’evento era particolarmente atteso: si arrivava da una stagione con un andamento climatico non troppo negativo e ci si aspettava un risultato favorevole che ribaltasse gli umori negativi della passata edizione, quella susseguente alla siccità del 2022, “l’annus horribilis”, quando a gennaio non fu possibile presentare i dati delle prove varietali di Stezzano perché l’eccesso di calore aveva ucciso il mais nelle parcelle sperimentali, pure irrigate, come era successo in vaste plaghe della Regione di tutta la pianura padano-veneta. Nonostante la pioggia le cose non sono andate meglio: se le produzioni sono andate bene, non così è stato per le superfici seminate. Il mais quest’anno ha prodotto su meno di 500.000 ha su scala nazionale, di cui solo 116.000 ha in Lombardia, contro i 214.000 ha della media 2012-2014, anche se la resa per ettaro è stata altissima 12,7 t/ha, il risultato è stato insufficiente a superare (qui il dato è ancora nazionale) il 40% del tasso di autoapprovvigionamento (in realtà il dato presentato era lievemente superiore, ma come ha specificato il relatore bisogna tener conto degli usi non mangimistici del mais).

Lo stesso relatore (prof. Dario Frisio Unimi relazione alla giornata del mais 2024 (https://www.crea.gov.it/web/cerealicoltura-e-colture-industriali/pubblicazioni-istituzionali-e-schede-tecniche) ha fornito una sintesi efficace della situazione dell’allevamento intensivo che fidava sulla produzione del mais: nel 2022 (anno solare) l’import mais e soia ha superato quattro miliardi di euro, cioè pari al 138 % del valore dell’export di formaggi e prosciutti salumi DOP/IGP/STG, al 92% dell’intero export di alimenti tipici e al 56% del valore alla produzione prodotti tipici di origine zootecnica.

Le soluzioni proposte a questa situazione, che riguarda certamente tutto il paese, ma è particolarmente grave per la Regione a maggior concentrazione zootecnica, è parsa a chi scrive straordinariamente poco incisiva, ci si è limitati ad auspicare l’intervento delle nuove biotecnologie e un generico invito all’innovazione tecnologica, pur riconoscendo che le innovazioni più pesanti ed efficaci erano improponibili data la ridotta dimensione aziendale delle aziende in Lombardia e tanto più in Italia.

Questo dovrebbe bastare per dubitare della sostenibilità economica del settore, senza una profonda trasformazione che ne modifichi i presupposti, se poi andiamo a considerare l’impatto ambientale si va a sparare sulla croce rossa.

Un giustificato allarme è stato sollevato dalla mobilitazione dei cittadini e dalla stampa locale riguardo la diffusione degli impianti di produzione del biogas e del biodiesel nelle aree della bassa pianura, dove maggiore è la concentrazione di allevamenti suini e bovini da latte e la produzione di mais. Sembra in effetti contraddittorio destinare il mais a usi diversi da quelli necessari al settore strettamente agricolo, vista la situazione sopra descritta e considerato anche l’elevato costo energetico della produzione di mais, pure tale pratica è tanto diffusa da rappresentare alcuni punti percentuali della destinazione delle superfici maidicole. Le proteste riguardano l’aumento del traffico anche all’interno dei paesi e la produzione di particolato sottile.

Del resto il particolato sottile è prodotto anche da attività agricola e zootecnica, tanto che tra le province lombarde con il maggior grado di inquinamento di questa natura vi sono quelle meridionali, in particolare Lodi e Cremona. Ma questo non ha trattenuto il governo Regionale lombardo dal richiedere alla UE una proroga decennale all’adeguamento dei livelli di concentrazione delle polveri sottili ai limiti stabiliti da OCSE, proroga ottenuta. Il Corriere Della Sera scrive di “vittoria” tra virgolette, infatti è una bizzarra vittoria quella che ci permetterà di respirare aria più inquinata per garantire che traffico, industrie, riscaldamento e sistema agrozootecnico continuino a imperversare liberamente.

Certo devono essere riconosciuti progressi nell’evoluzione dell’agricoltura, in particolare di quella lombarda. Sono nato in un paese dove all’inizio del secolo scorso, mentre lungo l’Adda sorgevano gli impianti idroelettrici che illuminavano Milano e davano energia alle prime industrie, i contadini si ammalavano di pellagra perché mangiavano solo polenta e l’indigenza provocava lutti specialmente per le persone più fragili. Entrambi i miei nonni paterni sono rimasti orfani di madre in età infantile. Ma le tristi condizioni del passato non ci possono esimere dal criticare le deplorevoli situazioni del presente. Il sistema agricolo soddisfa certamente gli interessi di gruppi industriali che forniscono input e trasformano i prodotti dell’agricoltura, ma come cittadini dobbiamo esprimere con forza insoddisfazione e richiesta di cambiare un sistema che minaccia la salute e compromette l’ambiente. Ci sono alternative praticabili e solo una preclusione ideologica e retriva impedisce di riconoscerne il valore e l’importanza.  Alimentarsi è certamente la pratica più rischiosa per ogni essere vivente, ma se c’è un futuro nell’umanità è nell’agroecologia.

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