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Meglio prevenire che curare

Riccardo Graziano

 

Meglio prevenire che curare. Questo ci insegna la medicina, ma anche la saggezza popolare. Non solo. Meglio evitare di sporcare piuttosto che dover pulire, meglio una manutenzione costante che una straordinaria, meglio evitare di compromettere il suolo piuttosto che doverlo rinaturalizzare, eccetera.

L’Europa ha varato una legge per il ripristino della natura, passata tra mille opposizioni, emendamenti, contestazioni e strumentalizzazioni politiche. Di per sé, è una cosa buona, visto che l’ambiente è talmente degradato da necessitare non più soltanto di varie forme di tutela, ma di restauri e ripristini. Tuttavia, tutto questo rischia di essere inutile se, mentre mettiamo a posto da una parte, continuiamo a sfasciare dall’altra.

Facciamo qualche piccolo esempio, in breve e certamente in modo non esaustivo, partendo dal livello globale per arrivare a quello locale, negli ecosistemi marini e terrestri.

Deep sea mining
Il “Deep Sea Mining” è l’ultima frontiera della devastazione degli habitat. L’industria estrattiva, alla continua ricerca di risorse da sfruttare, ha deciso di mettere nel mirino nientemeno che i fondali marini, scavandoli con appositi macchinari come se fossero cave o miniere in ambiente terrestre. Le deleterie conseguenze provocate da un’attività così invasiva in questo ambiente delicato e in parte poco conosciuto hanno messo in allarme le organizzazioni ambientaliste sia per i danni diretti alle forme di vita presenti sul fondale, sia per le enormi quantità di polveri  provocate da scavi e perforazioni, che finirebbero inevitabilmente in sospensione, andando a inquinare anche la colonna d’acqua soprastante e/o limitrofa alla zona di estrazione. Inoltre, i macchinari emetterebbero un frastuono che, veicolato dal fluido marino, si espanderebbe a grandi distanze, disturbando la fauna ittica e in particolare i cetacei, le cui popolazioni sono già sotto stress e minacciate da numerosi altri fattori.

È chiaro che ha poco senso pensare di riqualificare qualche tratto di mare destinato a riserva marina se nel frattempo si permette un simile sfacelo, magari a poche miglia nautiche di distanza. Prima di pensare a ripulire il mare bisogna pensare a non sporcarlo, quindi porre attenzione a scarichi industriali e agricoli, plastiche monouso, pratiche di abbandono delle reti e così via, monitorando e bloccando sul nascere nuove minacce come quella rappresentata dal Deep Sea Mining e, nel frattempo, curare la manutenzione ordinaria di aree protette evitando disastri ecologici come quello recentemente avvenuto nella laguna di Orbetello.

La strage di Orbetello
Le elevate temperature dell’estate appena trascorsa, sintomo dei cambiamenti climatici in atto, hanno provocato, tra le altre cose, una moria di pesci nella laguna di Orbetello, uccisi dal riscaldamento delle acque, dalla carenza di ossigeno e dall’accumulo di alghe. Secondo Slow food, che ha raccolto le testimonianze di operatori della zona, le problematiche della laguna si trascinano da almeno un trentennio, a causa di incuria e mancanza di manutenzione. Il sito, ricco di biodiversità e di elevato valore paesistico e turistico, è in effetti frutto di interventi artificiali di bonifica e canalizzazione delle acque, quindi non può autoregolarsi come un ambiente naturale e aperto, bensì richiede attenzione e interventi continui e mirati. La profondità è minima, dunque se i sistemi idraulici non garantiscono un adeguato ricambio delle acque, si rischia un surriscaldamento e una carenza di ossigeno fatali per la fauna ittica presente, specialmente se nel frattempo non si è tenuta sotto controllo la proliferazione delle alghe, favorita anche da scarichi industriali di sostanze che ne hanno favorito la moltiplicazione. Il danno faunistico ed ecologico è stato rilevante e naturalmente ha avuto inevitabili ripercussioni economiche sia per i pescatori, sia per i ristoratori e gli operatori del turismo in genere.

Un tema, quello del profondo legame fra ecologia ed economia, che spesso si tende a dimenticare o sottovalutare, ma che incide profondamente, sia – come abbiamo visto – in mare, sia sulla superficie terrestre, a partire dal disastro ambientale che sta devastando il più grande habitat e scrigno di biodiversità del pianeta, la foresta amazzonica.

Il collasso dell’Amazzonia
Fra i vari ambienti che l’Unione Europea si prefigge di ripristinare con la nuova normativa ci sono le foreste, in particolare i pochi residui di quella che un tempo era la vasta foresta planiziale del continente, spazzata via dall’antropizzazione del territorio e ridotta a poche e piccole porzioni isolate. Un’ottima iniziativa, volta a tutelare anche quella biodiversità che ancora vi trova riparo. Ma mentre noi siamo impegnati a restaurare i residui frammenti dei nostri boschi primordiali, dall’altra parte dell’Atlantico la distruzione della foresta dell’Amazzonia prosegue a ritmi forsennati. Secondo una denuncia di Greenpeace, che nel solo mese di luglio ha registrato 666 km² di deforestazione, ci stiamo avvicinando pericolosamente al punto di non ritorno, oltre il quale questo habitat fondamentale per la biodiversità planetaria rischia di collassare. L’Amazzonia è infatti una foresta pluviale e in quanto tale sopravvive solo grazie ad abbondanti precipitazioni, buona parte delle quali sono innescate dall’umidità che deriva dalla traspirazione della sua stessa massa vegetale. Va da sé che più deforestiamo, meno ci sarà traspirazione e cappa di umidità, dunque le precipitazioni diminuiranno, e con esse anche la capacità di rigenerazione della copertura arborea, quindi verrà a mancare altra traspirazione e umidità e così via, in una spirale degenerativa che rischia di far seccare la parte di foresta risparmiata dal taglio intensivo.

Ora, qualcuno potrebbe pensare che tutto ciò a poco a che vedere con l’Europa e le sue direttive comunitarie, perché le responsabilità sono dei Paesi sudamericani i cui confini includono porzioni di questo polmone verde, in particolare il Brasile. Ma la realtà è che buona parte di quella deforestazione è indirettamente causata dal mercato europeo, la cui domanda di prodotti alimenta l’offerta dei Paesi che disboscano come se non ci fosse un domani. Siamo noi infatti ad acquistare una quota rilevante del legname e dei suoi derivati estratti dalla foresta amazzonica, ma non solo. Sui terreni disboscati si allevano enormi mandrie di bestiame, la cui carne arriva in grandi quantità sulle nostre tavole in svariate forme, dallo scatolame ai sughi. E ancora, vaste porzioni dei terreni strappati alla foresta ospitano coltivazioni intensive di prodotti importati dall’industria mangimistica che alimenta i nostri allevamenti intensivi, ai quali non basta più la sola produzione nazionale, tanto sono ormai numerosi ed estesi, con milioni di capi stipati nei capannoni. E qui ci colleghiamo a un altro tema.

Allevamenti intensivi e territorio
In Italia si mangia troppa carne. Lo sostiene la FAO, i cui studi documentano che il consumo medio in Italia è di circa 73 kg pro capite all’anno, quasi il doppio della media mondiale. Per fronteggiare questa domanda elevata e crescente importiamo carne, ma soprattutto continuiamo ad aumentare il numero e l’estensione degli allevamenti intensivi, il che comporta non pochi problemi. Dal punto di vista della salute, l’eccessivo consumo di carne (e insaccati) può portare a varie patologie, sulle quali non ci dilungheremo in questa sede. Inoltre, la zootecnia intensiva è responsabile di una quota rilevante di inquinamento in Europa, con una percentuale del 54% delle emissioni di metano e addirittura del 94% di quelle di ammoniaca, la quale a sua volta causa la formazione di polveri sottili, le famigerate PM, molto insidiose per le nostre vie respiratorie. Ma quello che ci preme sottolineare qui è il consumo di suolo diretto e indiretto che tali allevamenti comportano. Nell’agricoltura tradizionale del passato e nell’attuale bioagricoltura, dove l’uso della chimica era ed è marginale o nullo, erano gli animali stessi, liberi al pascolo, a provvedere da un lato a diserbare brucando e dall’altro a concimare con le loro deiezioni direttamente sul campo. Oggi usiamo diserbanti chimici per liberare terreni che coltiviamo con concimi chimici per una produzione agricola in gran parte destinata a nutrire animali chiusi dentro a capannoni di cemento costruiti su (ex) suolo fertile che non potrà più essere coltivato. Senza dimenticare che queste “fabbriche di carne” dove gli animali stanno ammassati in condizioni assolutamente innaturali e con livelli igienici non sempre adeguati, sono i luoghi ideali per l’incubazione e lo scoppio di epidemie sempre più frequenti e devastanti, che spesso portano alla necessità di abbattere tutti gli animali di un allevamento, con un danno economico proporzionale al numero di capi presenti. Quando ciò accade in campo suinicolo, si dà immancabilmente la colpa ai cinghiali, senza peraltro che nessuno ci spieghi come sia possibile per un cinghiale arrivare a contatto con dei maiali chiusi in un capannone. Se succede ai polli, si dice che è colpa degli uccelli migratori che portano l’aviaria. Al momento però nessuno ha ancora trovato un possibile “capro espiatorio” fra i selvatici per quando succede alle pecore, alle mucche e persino alle stesse capre. Indiscutibili invece le responsabilità umane per disastri come “mucca pazza” o i polli alla diossina di funesta memoria. E qualcuno definisce tutto questo sistema “agricoltura tradizionale”, contestando pervicacemente qualunque richiesta di conversione produttiva, anche se lautamente finanziata.

È chiaro come anche in questo caso, oltre al lodevole intento di ripristinare oasi naturalistiche e boschetti sparsi, occorre prima di tutto porre un freno all’espansione degli allevamenti intensivi che continuano a divorare territorio direttamente e indirettamente, puntando su un’agricoltura che si riavvicini al vero modello tradizionale, evitando l’abuso di chimica e favorendo i piccoli produttori invece della grande agroindustria. Mettendo in campo anche un’azione di tipo culturale per riportare i consumatori verso un modello di dieta mediterranea a ridotto consumo di carne, riconvertendo le coltivazioni verso produzioni destinate al consumo diretto, anziché alla mangimistica animale, il che consentirebbe anche una sensibile riduzione delle superfici necessarie all’agricoltura. E qui ci ricolleghiamo a un altro aspetto di uso (o abuso) del territorio.

Coltivare fotovoltaico
Secondo l’EEB (European Environmental Bureau) basterebbe il 2,2% del territorio europeo per installare impianti di energie rinnovabili sufficienti a dare all’UE l’energia necessaria a raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione entro il 2040. Questo per ovviare al fatto che, sempre secondo la stessa fonte, i tetti non basterebbero per il fotovoltaico. Discorso analogo per i siti attualmente idonei all’eolico onshore (cioè a terra, tradotto nel nostro idioma, rispetto all’eolico offshore delle pale piazzate in mare). Quindi, secondo qualcuno, sarebbe il caso di rinunciare a porzioni di terreno agricolo a favore dello sviluppo delle rinnovabili per accelerare la transizione energetica. Per supportare questa tesi, si fa notare che ad esempio in Francia e in Italia la superficie coltivata per la produzione destinata all’alimentazione animale è doppia o tripla rispetto a quella che servirebbe per posizionare pannelli solari e pale eoliche, dunque basterebbe cambiare dieta e mangiare meno carne per avere molto più terreno (ex) agricolo da destinare alla “coltivazione” di energia rinnovabile.

Una tesi che fa sorgere non pochi dubbi, visto che in Italia, ma non solo, buona parte di quello che arriva dall’Unione Europea (a parte i soldi, come i generosi sussidi all’agricoltura industriale) viene ferocemente contestato, a volte persino in forma autolesionistica (piuttosto che passare all’auto elettrica pago di più di benzina, piuttosto che coibentare la casa pago di più di riscaldamento e così via). In un contesto simile, convincere gli europei a mangiare meno carne per avere più terreni agricoli da seppellire sotto i pannelli fotovoltaici otterrebbe probabilmente l’effetto di scatenare grigliate oceaniche di protesta o di portare le dimensioni dei taglieri di salumi a quelle di una portaerei, e pazienza se il colesterolo si innalza esponenzialmente.

Oltretutto, a noi che siamo ambientalisti, pur volendo puntare molto sulle energie rinnovabili, ci fa un po’ effetto pensare che dei suoli coltivabili vengano (ab)usati per la loro installazione, quando abbiamo una marea di territorio cementificato, asfaltato o comunque compromesso da sfruttare prima di utilizzare suolo libero.

I tetti non bastano? Sicuri? Avete contato anche quelli dei capannoni dismessi? Le tettoie dei distributori? E poi i parcheggi di supermercati e outlet? I margini delle autostrade e delle ferrovie? La possibilità di mettere pannelli galleggianti sugli invasi destinati all’idroelettrico? Sinceramente, ne dubitiamo. Ma anche fosse, prima sfruttiamo tutti quei siti, poi dopo, se non basta, vediamo quanto terreno agricolo ci serve ancora.

In realtà, lo studio non prevede l’utilizzo dei terreni agricoli in generale, ma si limita a considerare solo quelli più degradati e a rischio abbandono per infertilità. Inoltre, esclude le aree che dovrebbero essere oggetto di intervento secondo la nuova direttiva sui ripristini. Tuttavia, il buon senso suggerisce di iniziare a utilizzare prima il terreno già impermeabilizzato da cemento e asfalto, senza intaccare un metro di suolo libero. Se anche non lo coltiviamo o decidiamo di non ripristinarlo con i fondi previsti dalla nuova direttiva UE, lasciamolo comunque a disposizione della Natura. Magari scopriamo che è più brava ed efficiente di noi a ripristinare i suoli degradati. E, cosa tutt’altro che trascurabile, lo fa gratis.

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