Membro di
Socia della

La migrazione “climatica” delle piante

Piero Belletti

 

Il clima sta cambiando. E lo sta facendo molto in fretta, troppo perché le piante possano sviluppare meccanismi di adattamento alle nuove condizioni. Che fare dunque? Una possibile strategia, di certo non l’unica ed esclusiva, è la migrazione assistita

Ho dedicato l’ultima parte della mia carriera universitaria a studiare le modalità di propagazione delle specie forestali più adatte per le esigenze non solo e non tanto umane, quanto soprattutto ecosistemiche.

Una doverosa premessa: molti sono convinti che l’intervento umano in campo forestale sia sempre e comunque deleterio e da evitare: secondo questa concezione i boschi sono perfettamente in grado di “badare a sé stessi” ed è solo questione di tempo affinché si ricostituiscano condizioni naturali anche nei casi di degrado più evidenti.

Personalmente concordo solo fino a un certo punto. È vero che i boschi, soprattutto se partono da condizioni di discreta naturalità, sono dotati di una elevata resilienza; tuttavia vi sono delle situazioni in cui il recupero delle condizioni di piena funzionalità ecosistemica non può avvenire, oppure lo può fare ma in tempi talmente lunghi e a costi ambientali così elevati da essere di fatto improponibili. Due problemi su tutti. Il primo riguarda le specie alloctone (o esotiche), cioè quelle non originarie dell’area sotto esame ma che vi sono state importate, volontariamente o meno, dall’uomo. È vero che oggi il concetto di “alloctonia” sta assumendo connotazioni diverse rispetto a quelle di qualche decennio orsono. La globalizzazione, ma soprattutto i cambiamenti climatici, rendono infatti sempre più facile la migrazione di esseri viventi, siano essi piante o animali (sui microrganismi sappiamo poco, ma tutto lascia presagire che anche qui regni la confusione più totale). Un bosco lasciato a sé, con ogni probabilità verrà coinvolto, in modo più o meno massiccio, dall’ingresso di specie alloctone, soprattutto se si tratta di boschi di neoformazione su superfici prive di vegetazione, quali ad esempio ex coltivi abbandonati, aree percorse dal fuoco o interessate da dissesti idrogeologici, cave in fase di recupero e così via. Come dicevo prima, oggi il problema delle specie alloctone va trattato in modo diverso rispetto al passato, tuttavia è evidente come numerose specie, soprattutto se di provenienza geograficamente molto lontana, rallentino o addirittura impediscano il raggiungimento di condizioni quanto meno naturaliformi. Non mi riferisco tanto alla robinia (ormai quasi “naturalizzata”, quanto, ad esempio, ad ailanto, falso indaco, ciliegio tardivo, poligono del Giappone, quercia rossa, ecc. Tutte specie che, favorite da condizioni ecopedologiche a loro congeniali, entrano in competizione con specie autoctone, mettendole in difficoltà e causando, quanto meno su scala locale, pesanti conseguenze sugli equilibri ecologici. La situazione è peggiorata dal cambiamento climatico, ormai palese ed evidente a tutti, se non a chi, in ovvia malafede, teme di perdere posizioni di vantaggio nel caso di una reale (e sottolineo reale) transizione verso modelli di società e di produzione più compatibili con le esigenze di conservazione dell’ambiente.

Fino a qualche decennio fa, nelle operazioni di rimboschimento, o comunque recupero ambientale, la parola d’ordine era “provenienza locale”. Esistevano addirittura (ed esistono tuttora, anche se spesso disattese) precise normative, sia comunitarie che regionali, le quali disciplinavano tali operazioni. Si prevedeva, ad esempio, di utilizzare materiale propagativo ottenuto il più possibile vicino alla zona di intervento, nella convinzione che la selezione naturale avesse favorito individui particolarmente adatti a quelle specifiche condizioni di suolo e clima. E in effetti, numerose evidenze sperimentali confermarono la validità di questo concetto. Moltissimi interventi, effettuati con materiale di provenienza non locale, se non addirittura ignota, fallirono miseramente. Ricordo, in particolare, alcuni ciliegeti realizzati a partire da materiale di scarto (semi) dell’industria conserviera. Un totale fallimento, per quanto annunciato, che però ha causato ingenti perdite di risorse ma soprattutto di tempo.

Oggi, l’ambiente è sottoposto a processi di radicale mutamento, soprattutto a causa del già citato cambiamento climatico. Le temperature aumentano, sia come valore medio che come estremi, mentre anche le precipitazioni presentano una forte irregolarità e distribuzione, con la manifestazione di eventi “estremi” che ormai sono diventati quasi routinari.

In queste condizioni il processo naturale di adattamento, che si realizzerebbe attraverso meccanismi di selezione naturale, viene di fatto impedito dalla velocità del processo di cambiamento climatico. Pertanto, la più funzionale risposta degli esseri viventi risulta essere la migrazione, alla ricerca di condizioni il più possibile simili a quelle preesistenti, cui le specie si erano adattate durante la loro evoluzione. Ciò significa, ad esempio, spostarsi a nord, oppure verso quote più elevate. Ma questo non sempre è possibile, ad esempio a causa dalla presenza di barriere, sia naturali che artificiali (bacini idrici, insediamenti umani, aree agricole, ecc.). Anche l’innalzamento della quota cui vivere non sempre è perseguibile, sia perché anche le montagne, come ogni cosa, hanno un termine, sia perché, alle quote più alte, subentrano altri fattori, quali la ventosità, l’incoerenza del suolo, ecc., che rendono estremamente difficoltosa la sopravvivenza.

C’è poi il problema della velocità dei processi. Se si concretizzerà lo scenario che prevede un aumento medio di temperatura di circa 3°C entro il 2100, cosa tutt’altro che improbabile, dato l’andazzo attuale…., le piante dovrebbero spostarsi, per trovare condizioni accettabili per la loro sopravvivenza, di 600 km verso nord oppure di 600 m di quota. Tale ipotesi risulta di difficilissima concretizzazione, a causa in particolare della lentezza con cui le popolazioni vegetali si spostano (o meglio si spostano le generazioni successive, attraverso il meccanismo della dispersione dei semi), con punte che possono arrivare a un chilometro lineare o pochi metri di quota all’anno nel caso delle popolazioni forestali ma molto, molto di meno per quanto riguarda le specie erbacee. In ogni caso, quindi, ampiamente fuori tempo massimo.

Che fare dunque?

Dato per scontato che, laddove possibile, è opportuno che il bosco si ricostituisca secondo processi naturali (eventualmente con qualche piccolo aiuto da parte nostra), appare necessario rivedere il concetto di “provenienza locale”. Infatti, è molto probabile che quando il materiale oggetto di impianto avrà raggiunto l’età adulta, le condizioni climatiche saranno diverse (forse anche molto diverse…) da quelle che vigevano al momento dell’intervento iniziale, con conseguente perdita di adattabilità dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Sarebbe quindi preferibile utilizzare materiale propagativo adatto non alle attuali, ma alle future condizioni climatiche, da prelevare laddove oggi si verificano quelle condizioni che in futuro coinvolgeranno l’area in cui si interviene. È la cosiddetta “migrazione assistita”, definizione coniata nel 1992 dai genetisti forestali Ledig e Kitzmiller.

Ovviamente, le cose non sono così semplici come potrebbero sembrare a prima vista. Intanto per la difficoltà di effettuare previsioni sui futuri andamenti climatici sufficientemente attendibili, e poi perché i rischi di creare “confusioni ecologiche” con immissioni non sufficientemente verificate sono sempre presenti. È vero che in questi casi di solito si parla di trasferire provenienze (o potremmo dire popolazioni, se non proprio ecotipi) della stessa specie, per cui i rischi sembrano ridotti: tuttavia è opportuno sempre fare molta attenzione. Ad esempio effettuando rigorosi e approfonditi studi, che mettano in evidenza le caratteristiche ecoclimatiche dei siti di provenienza e destinazione del materiale di propagazione. Studi che dovrebbero anche verificare, dapprima su scala ridotta, se quanto proposto può essere percorribile e, se sì, con quali modalità operative. Importante anche la successiva fase di monitoraggio, che deve essere regolare e attenta. Si tratta, come è evidente, di sperimentazioni lunghe, costose e per certi versi anche poco stimolanti, in grado di fornire con difficoltà quei risultati rapidi ed eclatanti che alcuni ricercatori pongono come obiettivo primario della loro attività. È d’altra parte evidente che se non si comincia, i processi lunghi saranno sempre irraggiungibili…

Torna indietro