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Si addensano nubi minacciose attorno alle aree naturali protette

di Mauro Furlani

 

 

Un grande passo avanti

La legge 394 del 1991, che istituisce e disciplina le aree protette in Italia, in questi oltre 30 anni ha consentito al nostro Paese di sviluppare enormemente sia l’estensione delle aree protette che l’acquisizione da parte dell’opinione pubblica del loro valore ambientale culturale. Ha garantito, per altro, ciò che costituisce la missione principale dell’area protetta: la conservazione di numerose specie, oltre che di ambienti naturali sempre fortemente a rischio di scomparire sotto la spinta di nuove e vecchie aggressioni.

I primi parchi nazionali istituiti, il Gran Paradiso e il Parco d’Abruzzo, hanno superato 100 anni. Dopo neppure due decenni, nel 1938, venne istituito il Parco Nazionale dello Stelvio. L’istituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo, ora anche Lazio e Molise ha evitato la scomparsa di una specie, il camoscio appenninico, ridotta all’atto dell’istituzione del primo nucleo territoriale a poche decine di esemplari. Per l’orso marsicano, anch’esso endemismo appenninico, la conservazione non appare del tutto scontata. Troppo basso è ancora il numero di individui riproduttivi e troppo elevata la mortalità per cause non solo naturali. Un dato positivo è l’ampliamento del proprio areale di distribuzione, anche grazie all’istituzione di nuove aree protette, come quelle del Gran Sasso e Laga, o, più a nord, quella dei Monti Sibillini. Questo lo mette maggiormente al riparo da possibili eventi negativi nel suo areale storico.

Analogamente a quanto avvenuto in Abruzzo anche due specie importanti e carismatiche alpine, come il camoscio e lo stambecco, hanno giovato dell’istituzione del Parco del Gran Paradiso e, negli anni successivi, dello Stelvio, oltre che di un regime di protezione molto superiore rispetto al passato.

Prima del varo della 394/91, per decenni, stancamente si è proceduto in modo estremamente a rilento alla istituzione di nuove aree protette. La ventata di entusiasmo che ha accompagnato la legge 394/901, che unifica di fatto al suo interno una serie di istituti di tutela oltre quello dei Parchi Nazionali, ha dato il via a richieste di istituzione di aree protette che giacevano inevase da anni.

Fino agli anni 90 del secolo scorso la superficie destinata a parchi non superava lo scoraggiante e mortificante 3% dell’intero territorio nazionale, ben inferiore alle aree protette di altri paesi europei.

Fu grazie a questa legge e alla pressione esercitata dalla società più attenta e dalle associazioni ambientaliste sui decisori politici a livello nazionale e locale che vennero inserite nuove aree protette e si iniziò a parlare concretamente di nuove designazioni. Questa spinta ideale e politica portò la superficie protetta all’attuale 10% del territorio nazionale.

La percentuale protetta non riguarda solamente i parchi nazionali, ma anche altri istituti previsti nella Legge Quadro, come le 147 riserve statali, i 134 parchi regionali e altri istituti di protezione. Anche la protezione delle aree marine ebbe un suo rilancio, portandole ad oltre il 13% della superficie marina nazionale con 27 riserve marine. Nonostante ciò, queste ultime ancora oggi non catalizzano la stessa attenzione e risorse riservate alle aree protette terrestri.

Nonostante l’incremento avvenuto negli anni si è ancora ben lontani dagli ambiziosi obiettivi posti con la strategia europea sulla biodiversità di sottoporre a protezione il 30% della superficie terrestre e il 30% dei mari entro il 2030.

Fino ad oggi chi ha trainato la richiesta per l’istituzione di un parco nazionale o, più in generale, di un’area protetta sono stati la presenza al suo interno di componenti biotiche, spesso faunistiche di particolare rilievo conservazionistico, accompagnati dalla pregevolezza paesaggistica, intesa come connubio tra la componente naturale e le attività secolari umane, oltre che una bassa presenza antropica.

Lo spopolamento montano di ampi settori appenninici, la loro riacquisita naturalità, sono stati luoghi verso cui indirizzare gli sforzi di conservazione. Per molte comunità appenniniche le aree protette hanno rappresentando spesso un nuovo volano economico per le popolazioni residenti.

Specie rare, scorci di bellezza, natura selvaggia, valore scientifico e paesaggistico messi al riparo dalle minacce incombenti provenienti da nuovi appetiti speculativi e da forme turistiche particolarmente invasive.

 

Habitat ed ecosistemi: due strategie di conservazione complementari

La conservazione di una specie, soprattutto se localizzata, impone necessariamente quella del suo habitat, cosa peraltro non sempre semplice, anche a causa di fattori difficili da controllare e contrastare su scala locale, come i cambiamenti climatici, la presenza di specie aliene e invasive, nuove spinte economiche, espansione turistica, ecc.

Si pensi alla conservazione del pino loricato, relegato nei ristretti habitat di alta quota della Sila o del Pollino, oppure del piccolo crostaceo anostraco Chirocephalus marchesonii, che ha come unico habitat il Lago di Pilato sui Monti Sibillini, frequentemente soggetto a periodi di essiccamento per carenza di precipitazioni nevose invernali. Oppure ancora al passeriforme ortolano, divenuto sempre più raro e localizzato anche a causa delle monocolture estensive che hanno sostituito il mosaico colturale a cui la specie è legata.

Sulla conservazione degli habitat si incardinano due importanti direttive europee: la Direttiva Habitat 92/43/CEEe laDirettiva 79/409/CEE, conosciuta come Direttiva Uccelli. Le due Direttive formano una rete europea di tutela (Rete Natura 2000), in cui le attività umane non sono precluse, ma devono essere compatibili sia alla conservazione degli habitat che delle specie ornitiche per cui l’area è stata istituita.

Quanto ha guidato finora l’istituzione delle aree protette ha consentito di raggiungere risultati positivi sia dal punto di vista della conservazione degli habitat che di conservazione delle specie.

Quale sarebbe stato altrimenti il destino del camoscio oppure dello stambecco se un secolo fa non fosse stato istituito il Parco del Gran Paradiso o quello del camoscio appenninico senza l’istituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo?

Questo approccio, specie, habitat, paesaggio va mantenuto sia per i risultati positivi ottenuti che per un’applicazione più semplice. A ciò si aggiunga la presenza residua di lembi di quella “natura selvaggia” salvati dall’invasività dell’uomo e miracolosamente sottratti al loro addomesticamento.

Un criterio spesso trascurato è quello di una programmazione ecosistemica, con la valutazione della fragilità di un ecosistema e le conseguenze che la sua perdita avrebbe su ecosistemi vicini e interconnessi.

Se dunque ad una valutazione degli habitat e delle specie si aggiungesse anche quello ecosistemico, l’individuazione di un’area da conservare potrebbe non ricadere su quella con una bassa pressione antropica, ma estendersi anche ad altre in forte pericolo di trasformazione e di scomparsa.

Secondo le Nazioni Unite(1992) l’approccio ecosistemico rappresenta la strategia più efficace per la conservazione della piena efficienza strutturale e funzionale del capitale naturale, in accordo con quanto sancito a livello internazionale dalla Convenzione sulla Diversità Biologica.

La IUCN Italia, coerentemente con quanto adottato dall’organismo internazionale, assume come criterio di indagine e di conservazione proprio l’approccio ecosistemico e la suddivisione del nostro Paese in regioni ecologiche o ecoregioni.

Un’ecoregione è una superficie territoriale caratterizzata da condizioni climatiche, fisiche, biotiche e in generale ecologiche, simili. Ciascuna ecoregione a sua volta è suddivisa in ecosistemi.

La classificazione corrente suddivide l’Italia in 5 ecoregioni: alpina, padana, appenninica, tirrenica e adriatica.

Le aree che richiederebbero criteri prioritari di conservazione si concentrano nella ecoregione padana, i cui 16 ecosistemi di cui essa è suddivisa sono valutati con il peggiore stato di conservazione. Migliore, seppure preoccupante, l’ecoregione adriatica, dei cui 14 ecosistemi ben 13 si trovano in uno stato di conservazione definito critico.

Questo criterio ci porta a valutare in modo diverso le priorità di conservazione, non solo basate sulla conservazione delle emergenze naturalistiche già esistenti, ma spostando l’attenzione anche verso quelle aree, ecosistemi, il cui grado di conservazione è valutato critico.

Gli ecosistemi con un grado di conservazione critico si concentrano proprio dove le attività antropiche hanno alterato più profondamente il loro stato. Si pensi solo alle alterazioni subite da molti fiumi e al rischio della definitiva scomparsa dei pochi e residui ecosistemi planiziali, o quanto resta del mosaico agroforestale collinare e di pianura, delle aree costiere e di transizione o ancora degli ecosistemi marini.

 

Una opportunità da non perdere

Una grande opportunità è offerta dalla Nature Restoration Law, approvata dal Parlamento europeo il 12 luglio 2023. La nuova legge europea impone agli stati membri misure di ripristino degli ecosistemi terrestri e marini sul 20% di territorio dell’Unione europea entro il 2030, arrivando a coprire il 90% di tutti gli ecosistemi degradati entro il 2050. Potrebbe apparire un’utopia, tuttavia questo obiettivo andrebbe perseguito investendo risorse economiche e umane fondamentali.

Una opportunità a cui purtroppo il nostro Paese, con il suo voto contrario insieme a pochi altri e con la posizione decisiva dell’Ungheria, ha dimostrato di non credere, ignorando che il ripristino della loro funzionalità ecosistemica possa avere effetti positivi sul patrimonio di biodiversità, sulla mitigazione del cambiamento climatico e sulla salute stessa delle persone.

A nulla è servita la richiesta di un voto favorevole da parte di undici stati membri del Parlamento europeo, gli appelli di scienziati e di trentuno associazioni ambientaliste italiane, tra cui la Federazione nazionale Pro Natura.

Dall’appello si legge: “Ed è molto grave che alcuni Governi, tra cui quello italiano, tengano ferma l’approvazione finale di una legge il cui testo, ampiamente modificato assecondando le richieste degli Stati membri, è stato già concordato nell’ambito di un lungo percorso dialettico tra la Commissione, il Parlamento e il Consiglio culminato nel trilogo. Il testo è già, inoltre stato approvato dal Parlamento europeo, organismo scelto direttamente dai cittadini europei attraverso il voto”.

La stessa integrazione recentemente apportata all’art. 9 della nostra Carta costituzionale nel momento in cui recita “La Repubblica (…)Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni“ pone gli ecosistemi al centro dell’ azione di conservazione.

 

La Legge sotto attacco

Ritorniamo alla nostra Legge quadro 394/91.

Più volte è stata tentata una sua modifica radicale, non portata a compimento anche per l’opposizione dell’opinione pubblica e delle associazioni ambientaliste.

Nel momento in cui scriviamo è depositata in commissione al Senato una proposta di legge a firma del Sen. Rosa di Fratelli d’Italia che modifica radicalmente la governance dei parchi. La proposta di legge prevede di annullare gli attuali consigli direttivi sostituendoli con un organismo direttivo formato dalle sole comunità locali. Già con l’attuale Legge le comunità locali hanno un ruolo forte nella gestione delle aree protette. Le Comunità dei parchi, formate dai sindaci dell’area protetta, svolgono proprio la funzione di collegamento e di raccordo tra l’organo direttivo con compiti tecnici, le problematiche e le esigenze delle comunità locali.

Il tentativo da parte dell’attuale maggioranza di rovesciare l’impostazione fa prevalere l’impostazione del tutto localistica. Negli ultimi anni le pressioni per far prevalere le istanze localistiche hanno acquisito sempre più peso e prevalenza rispetto alla finalità della 394/91 che, non dimentichiamolo, è la protezione della Natura.

Qualora la proposta di legge venisse approvata, la componente tecnico-scientifica sarebbe fortemente ridimensionata, quasi esonerata a vantaggio di una gestione localistica più simile ad una Pro Loco evoluta piuttosto che ad un organismo il cui fine principale è ben altro.

Altro pericolo che si muove sotto traccia che minaccia ugualmente le funzioni delle aree protette è l’inedia amministrativa e funzionale a cui in molti casi i parchi sono lasciati. Consigli direttivi che hanno terminato il proprio mandato da anni e attendono un rinnovo e il ripristino di una struttura gestionale nel pieno delle proprie funzioni.

Ciò che potrebbe stravolgere completamente la funzionalità delle aree protette e, più in generale, un governo unitario del territorio è la riforma costituzionale sull’autonomia differenziata “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”.

L’articolo 6 del disegno di legge 615 approvato dal Senato il 23 gennaio afferma:

Le funzioni amministrative trasferite alla Regione in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione possono essere attribuite, nel rispetto del principio di leale collaborazione, a Comuni, Province e Città metropolitane dalla medesima Regione, in conformità all’articolo 118 della Costituzione, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie”.

Non abbiamo la presunzione di entrare in questa materia giuridica così complessa, tuttavia il pericolo di una frammentazione del territorio nazionale e dei suoi istituti di protezione è dietro l’angolo, neppure tanto nascosto. La stessa idea di poter frammentare le competenze evidenzia una totale ignoranza ambientale e costituisce quanto di più distante da una gestione ecosistemica del territorio. Un esempio degli effetti negativi sotto gli occhi di tutti è la suddivisione del Parco dello Stelvio tra la Regione Lombardia, le Provincie autonome di Trento e Bolzano.

Un’area naturale protetta dovrebbe essere gestita in maniera unitaria, sistemica, con un’unica visione strategica. La sua frammentazione gestionale impedisce una visione unitaria, con il rischio per un territorio trovarsi in balia dell’orientamento politico degli enti locali che lo gestiscono.

Un ecosistema, l’areale di distribuzione di una specie o di una popolazione non conoscono né confini tra stati e ancor meno confini amministrativi tra enti locali. A nostro parere frammentare l’unità di gestione di un’area protetta sarebbe la fine non solo della legge 394/91 ma minerebbe alle fondamenta la stessa idea di area protetta così come l’abbiamo conosciuta. Sarebbe anche una vera e propria sciagura per la biodiversità, i paesaggi e gli ecosistemi con buona pace per quanto affermato dall’art. 9 della Carta costituzionale.

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