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Le nuove biotecnologie e la coalizione Italia libera da ogm

Franco Rainini

Di Organismi Geneticamente Modificati (OGM) usati in agricoltura se ne parla da decenni, la contrapposizione tra fautori ed oppositori è cosa altrettanto vecchia. Questa tecnologia è molto utilizzata in contesti di agricoltura fortemente produttiva ed è applicata pesantemente nelle Americhe e nei paesi dove più forte è il livello di meccanizzazione e maggiore è l’orientamento verso l’esportazione.

In linea generale, e in netta contrapposizione con la retorica che vuole l’uso delle biotecnologie alternativo ai pesticidi, si rileva che il maggior successo degli OGM attualmente in uso riguarda l’inserimento del fattore di resistenza al glifosato: ciò permette di usare un erbicida ad azione totale come il glifosato, che uccide tutte le piante con cui viene a contatto, come erbicida selettivo, che risparmia solo, almeno nelle intenzioni, le piante all’uopo modificate geneticamente.

Questo ha dato la possibilità di coltivare soia su terreni strappati alla foresta del Brasile, del Paraguay e del Nord dell’Argentina, dove strappati significa anche disboscati e “liberati” dalle popolazione indigena che li abitavano (cfr The Battle for Sustainable Agriculture in Paraguay di April Howard, in https://monthlyreview.org/product/agriculture_and_food_in_crisis). Questi seminativi ottenuti dal disboscamento di foreste tropicali hanno una elevatissima potenzialità di essere “infestati” da forme vegetali selvatiche”, da qui l’opportunità di usare coltivazioni di soia resistenti al potente erbicida. La stessa tecnologia è stata ampiamente utilizzata anche sul cotone. In entrambe le situazioni (coltivazione di soia in America latina e cotone negli stati del Sud degli USA) la pratica del diserbo con il glifosato si è scontrata presto con l’insorgenza di piante resistenti al diserbante, con il risultato di dover ricorrere a dosi sempre più elevate di erbicida, o ad affiancare altri diserbanti al glifosato.

Ulteriore sgradevole conseguenza è stata la diffusione fuori da quegli agroecosistemi di piante avventizie (erbacce) resistenti agli erbicidi; qualcuna comincia ad arrivare anche in Italia: è il caso di Amaranthus palmeri, parente di Amaranthus retroflexus, specie da sempre diffusa come infestante nelle nostre colture estive. La prima è portatrice di un’ampia serie di fattori di resistenza agli erbicidi, tra cui quella al glifosato. Interessante per capire il funzionamento di quello che è il sistema rappresentato dalla produzione di erbicidi e di piante OGM è quanto riportato nell’interessante articolo sulla pianta in questione (https://www.cambridge.org/core/journals/weed-technology/article/palmer-amaranth-amaranthus-palmeri-a-review/0C4CEC57D8318A5BBB85F88DDD0BB29C): “L’amaranto di Palmer mostra una notevole facilità a sviluppare resistenza agli erbicidi. Ad oggi sono stati confermati cinque diversi meccanismi di resistenza agli erbicidi in questa specie … L’amaranto di Palmer è oggi una delle più dannose malerbe resistenti al glifosato negli Usa”.

Per fortuna in Italia non abbiamo OGM resistenti al glifosato ed in realtà, grazie a una legge che recepisce la possibilità di scelta presente nella normativa europea, non abbiamo gli OGM non possono essere coltivati. Ma l’amaranto selezionato negli agroecosistemi americani pieni di OGM ed erbicidi è comunque una preoccupazione per i nostri agricoltori: “l’A. palmeri non è stato rilevato in Italia prima del 2015. Il rilievo di tre popolazioni resistenti agli erbicidi che agiscono sulla ALS (enzyme acetolactate synthase) in campi si soia è un evento allarmante che deve essere adeguatamente monitorato. Queste popolazioni di A. palmeri sono cross-resistenti sia al both thifensulfuron-methyl sia al imazamox … La presenza di più di un meccanismo di resistenza non può essere esclusa”. (https://www.mdpi.com/2071-1050/13/13/7003 ).

Le varietà di soia e mais che contengono geni per la resistenza al glifosato non sono autorizzati alla coltivazione in Europa, quindi può sembrare bizzarro che un problema, la resistenza all’erbicida nelle piante avventizie, che porta al progressivo aumento delle dosi dell’erbicida stesso e in generale all’aumento della quantità e qualità di erbicidi usati sulla coltura, possa interessarci; pure questa è la dimostrazione della pervasività e ampiezza delle relazioni che si creano negli agroecosistemi della nostra realtà globalizzata.

In realtà nell’Unione Europea è ammesso l’uso di un solo OGM, identificato come MON810. Si tratta di una linea genetica, inserita in diverse varietà ibride di mais e coltivato in pochi Paesi, quelli che non hanno escluso completamente l’uso degli OGM, sottoponendo comunque la coltivazione all’autorizzazione Comunitaria. La maggior parte dei circa 120.000 ettari coltivati con gli ibridi contenenti questa linea sono in Spagna, su un totale della superficie UE (27 paesi) di 8,4 Mha, un fenomeno marginale. Nonostante questo, l’autorizzazione di questa linea di mais che contiene un gene batterico codificante per una tossina che agisce sulle farfalle, quindi sulla piralide del mais, ha sollevato forti perplessità ed anche polemiche.

In Europa il futuro degli OGM di questo tipo, detti transgenici per l’inserimento di pezzi di DNA provenienti da specie completamente diverse, non è certamente promettente: osteggiati dal comune sentire dei consumatori e avversi anche a molti agricoltori, che, come in Italia, puntano alla tipicità del prodotto piuttosto che alla produzione di commodities a scarso valore aggiunto, l’introduzione di altri OGM non sembra essere in previsione.

Quello che sta venendo avanti è un nuovo approccio alle biotecnologie in agricoltura, basato sulla tecnica del CRISPR-cas9, sebbene in origine il sistema fosse stato individuato come una sorta di protezione adattiva in alcuni batteri, per renderli meno virulenti e inglobare i virus batteriofagi. Questo modello è stato replicato e adattato a diverse specie, permettendo di effettuare cambiamenti del DNA puntuali e, almeno nelle intenzioni, precisamente localizzati.

Anche se abbastanza diverso dal precedente approccio transgenico, quello realizzato attraverso la CRISPcas9 non è privo di ombre e di ragioni di preoccupazione. Questa nuova e problematica realtà è illustrata con grande competenza e passione da Elisa D’Aloisio. (https://www.youtube.com/watch?v=sL4whHM2oZQ), ex ricercatrice in biotecnologie e dottorata presso l’Università della Tuscia. Elisa ha abbandonato nel 2011 la ricerca sulla genetica (anche facendo uso di biotecnologie CRASPRcas9), mettendosi a fare la contadina e gestendo l’azienda agricola di famiglia. Nel frattempo Elisa ha avviato una intensa attività di informazione e sensibilizzazione sui pericoli rappresentati dalle tecnologie basate sul CRISPRcas9, ribattezzate con nomi che dovrebbero far dimenticare le pratiche transgeniche, come NBT (nuove biotecnologie) o TEA (tecniche di evoluzione assistita). In inglese il termine più usato è gene editing. La varietà di denominazioni e il riferimento a tecniche diverse non aiuta la comprensione della pratica e dei problemi che ne derivano.

Le ragioni per cui Elisa ha abbandonato la ricerca scientifica in un campo comunque promettente è la sfiducia per quella che descrive come “rapida degenerazione della scienza, per cui tutto può essere sostituito con la propaganda, tutto può essere esposto in maniera parziale, in modo che appaia quello che in realtà non è”. Queste critiche molto pesanti si basano su una esperienza personale, resa consapevole da un approccio problematico alla complessità del genoma degli organismi, che si innesca sulla complessità degli ecosistemi.

È difficile negare le ragioni esposte: lo sviluppo delle biotecnologie ha messo a disposizione la possibilità di realizzare modificazioni negli organismi, ma tali modificazioni non sono completamente prevedibili. Il genoma ha una struttura complessa, estremamente articolata e l’espressione dei geni riveste un ruolo importante almeno quanto la presenza dei geni stessi, altrimenti non ci spiegheremmo come un sistema lineare costituito da due miliardi di basi (un contenuto in bit inferiore alla memoria del computer con cui sto scrivendo) è in grado di produrre una pianta affascinante e complessa, dotata di formidabili sistemi di regolazione e di adattamento all’ambiente, di cui sappiamo qualcosa, ma certamente non tutto. Soprattutto non conosciamo compiutamente l’architettura del genoma, il sistema di blocchi e sblocchi di parti dello stesso, che espongono alla replicazione settori di cromosomi, come funzionano i tempi e i modi in cui questa regolazione si realizza.

L’esempio più clamoroso dei problemi che questa pratica può creare è quello dei vitelli acorni (in inglese polled), generati modificando, attraverso la metodica CRISPRcas9, il gene specifico. In effetti esistono diverse razze di bovini acorni, il fenomeno è tutt’altro che sorprendente ed il valore dell’esperimento sta soprattutto nell’aver generato una modifica attraverso una tecnica di  gene editing in una specie animale, pratica vietata in Europa, ma non negli Stati uniti, dove è stata svolta la ricerca in questione.

L’esito dell’esperimento è stato favorevole, ma le conseguenze non completamente soddisfacenti sono molto più interessanti.  Un racconto dettagliato con i riferimenti bibliografici verificabili è rintracciabile on line (https://theecologist.org/2019/aug/21/antibiotic-resistance-gene-edited-cattle). Nel 2019, nel corso di una revisione dei risultati condotta dall’ente di controllo americano sulla sicurezza alimentare (FDA), è emerso come nel genoma dei vitelli erano rimasti tracce del genoma del batterio usato per introdurre i geni nelle cellule dei bovini, tra cui fattori di resistenza agli antibiotici usati per selezionare i batteri trasformati. Un fatto abbastanza clamoroso, anche perché dimostra che alla base del CRISPRcas9 e di altre tecniche (meno usate) del gene editing vi è l’uso di batteri (generalmente alcune specie del genere Agrobacterium) per consentire ilctrasferimento di geni, pure della stessa specie, nella cellula ospite. Anche se viene assicurata l’eliminazione dei tratti genetici “alieni” (batterici), evidentemente questa pulizia genetica non ha sempre successo.

Ma il CRISPR-cas9 continua ad essere considerato uno strumento particolarmente adatto ad effettuare interventi cisgenici, ovvero a trasferire geni provenienti da piante appartenenti alla stessa specie sugli individui che si intendono modificare, anche in funzione della sua relativa facilità di implementazione, che rende adeguati all’adozione di questa tecnologia per ottenere nuove varietà anche laboratori relativamente poco attrezzati.

Tuttavia, ricorda Elisa D’Aloisio, proprio per questo “Abbiamo bisogno di ancora più regole per quanto riguarda questi nuovi OGM, più regole di quelle già esistenti, una precauzione ancora maggiore, per la semplicità con cui vengono prodotti e per le potenziali modifiche di cui non abbiamo ide nè, capacità di previsione”.

La semplicità di intervento del CRISPRcas9 ha suggerito anche usi non direttamente legati allo sviluppo di nuove varietà, più adatte al modello di agricoltura dominante. Una delle tecniche più semplici di intervento sul genoma è quella che permette l’inattivazione di enzimi. Ciò ha permesso di avviare programmi di contenimento, e anche eradicazione, di vettori di malattie dell’uomo, in particolare virus trasportati da artropodi (Arbovirus) come le zanzare (https://www.mdpi.com/1660-4601/14/9/1006).

Questa pratica sta acquisendo interesse anche in ambito agricolo (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6282749/pdf/PS-74-2671.pdf), sebbene l’impatto sugli agroecosistemi potrebbe essere maggiore e causare conseguenze a cascata su altri elementi dell’agroecosistema, anche con conseguenze più vaste e non necessariamente positive, fino a prefigurare la possibilità di portare a estinzione le specie oggetto di intervento. Un risultato che in termini di conservazione della biodiversità e della funzionalità degli ecosistemi non è generalmente accettabile.

Non è possibile negare l’utilità della ricerca scientifica, soprattutto per gli elementi di conoscenza che ci mette a disposizione per comprendere il funzionamento degli organismi e degli ecosistemi, “tuttavia la possibilità di effetti ecologici indesiderati e la loro diffusione pressoché certa oltre i confini politici richiede una accurata stima di ogni potenziale applicazione” (https://elifesciences.org/articles/03401?gad_source=1&gclid=Cj0KCQjwwMqvBhCtARIsAIXsZpZopvCxqtevYRRHAPin_jB5fY6aP018mT0cyB0Igj37a6eJUEYiIGwaAjCcEALw_wcB).

La coscienza di questi rischi e la diretta constatazione di quanto invece gli interessi economici immediati delle grandi corporazioni dell’agrochimica/sementiera (le grandi industrie che producono pesticidi hanno acquisito o sono state acquisite da industrie che controllano la produzione di sementi agricole, entrambi mercati fortemente concentrati, dei veri e propri oligopoli), ha condotto Elisa D’Aloisio ad impegnarsi nella attività politica, fondando la Coalizione Italia Libera da OGM, coalizione che riunisce associazioni di agricoltori, le principali organizzazioni dell’agricoltura biologica, sindacati di lavoratori agricoli, ONG e associazioni ambientaliste, tra cui la Federazione Nazionale Pro Natura. L’iniziale appoggio di alcune delle maggiori Associazioni degli agricoltori si è presto dissolto e tutte hanno iniziato a sostenere apertamente l’ammissione, anche in Italia, delle tecnologie di gene editing, sostenendo che si tratta di cosa diversa dagli OGM. Il che non è proprio vero, dal momento che il modo di introdurre geni non prescinde ancora, nella maggior parte dei casi, dall’uso di vettori batterici.

L’appoggio dei sindacati degli agricoltori ha contribuito a sdoganare i prodotti del gene editing anche agli occhi dei decisori politici. La coalizione, negli ultimi due anni si è trovata a dover fronteggiare diversi tentativi di sovvertire la decisione di escludere gli OGM in Italia, basati sull’affermazione decisamente bizzarra, prima ancora che falsa, che le cosiddette tecniche di evoluzione assistita non portano a ottenere OGM.

Nel 2022, allo scoppio della guerra russo-ucraina, venne fatto il tentativo di deregolamentare la coltivazione dei prodotti del gene editing. L’ipotesi non si concretizzò allora, ma nel 2023, nelle pieghe del decreto antisiccità, all’atto della sua ratifica in parlamento è comparso un emendamento che ha inserito un nuovo articolo, il 9 bis, che deregolamenta la coltivazione a scopo sperimentale di prodotti del gene editing, con un esplicito riferimento di deroga alla normativa sugli OGM, quindi riconoscendo la natura OGM di questi organismi modificati. L’aspetto grave è che la deroga consente la sperimentazione senza che venga svolta la prevista valutazione del rischio, deresponsabilizzando coloro che effettuano il rilascio di organismi OGM nell’ambiente dalle conseguenze dannose. La cosa bizzarra è che, come sta dimostrando l’andamento meteo della passata stagione e di quella in avvio, nelle regioni più colpite dalla siccità del 2022, “Il problema non è la siccità ma lo squilibrio idrico”, quindi la soluzione non è nel coltivare piante più resistenti a un singolo fattore di rischio, ma adottare misure che permettano all’agroecosistema di adeguarsi a condizioni variabili, alle quali una singola coltivazione omogenea per caratteristiche genetiche (si pensi al mais in Lombardia) non può far fronte.

Questi primi mesi del 2024 hanno visto un altro grave fatto: nel corso della definizione del nuovo regolamento UE sulle sementi lo scorso 7 il Parlamento Europeo ha adottato, al termine idi un aspro confronto, la propria posizione che verrà presentata nel confronto con gli altri attori istituzionali dell’Unione (Commissione e Consiglio dei Ministri), proponendo una soglia di modificazioni genetiche puntuali sotto la quale gli organismi modificati verranno esclusi dalla valutazione del rischio. Fortunatamente la proposta di escludere i prodotti alimentari ottenuti da tali OGM dall’indicazione di in etichetta di tale condizione è stata bocciata. Comunque un grave passo indietro e il riconoscimento per i prodotti ottenuti con tecnologia CRISPRcas9 e con altri sistemi di gene editing di uno status diverso da quello degli altri OGM.

La questione del gene editing è estremamente complessa. Mentre, ricorda Elisa D’Aloisio, deve essere riconosciuta l’importanza della ricerca, soprattutto quella di base, sulla espressione dei geni e sul loro funzionamento, non possiamo che osservare con preoccupazione, come agricoltori, come ambientalisti e come cittadini consumatori, che in assenza di molte indispensabili conoscenze sul funzionamento del genoma possano essere liberati negli ecosistemi, del cui funzionamento ignoriamo moltissimo, organismi che possano avere un impatto pesantissimo sulla biodiversità. Allo stesso modo dobbiamo preoccuparci di sistemi che vanno a sconvolgere e sostituire le risorse genetiche su cui si basano alcune delle nostre produzioni agricole tipiche, come quelle vitivinicole.

Come ricordava l’agronomo Giuseppe De Santis alla festa del biologico che si è svolta a Milano lo scorso 9 marzo, ogni sistema agricolo ha i suoi semi e la conservazione dei semi tradizionali permette di conservare la possibilità di un’evoluzione del sistema agricolo dal modello dell’agrochimica, dell’agromeccanica e degli organismi modificati geneticamente. La difesa dalla diffusione dei prodotti del gene editing, che si sta oggi concretizzando su scala nazionale ed europea, è la difesa di un possibile diverso modo di produrre e consumare il cibo.

La crisi di un sistema agricolo a causa dell’omogeneità genetica di una o più colture non è un problema astratto o un atteggiamento “ideologico”, come amano affermare i decisori politici tanto favorevoli agli OGM vecchi e nuovi. Nel 1970 un’epidemia di elmintosporiosi colpì il mais del corn belt americano, provocando una grave penuria delle scorte di cereali a livello mondiale, un drammatico incremento dei prezzi e conseguenze tragiche su diversi paesi del Sud del mondo, in particolare l’India, all’epoca importatore di cereali.

Nel commentare il fenomeno dovuto alla eccessiva presenza di una linea di mais maschiosterile all’interno di gran parte delle varietà ibride del mais coltivato negli USA, linea che avrebbe dovuto resistere all’elmintosporiosi, ma che a causa di una mutazione del patogeno si dimostrò estremamente suscettibile, H. Arnold Bruns, ricercatore dell’U.S. Department of Agricolture, chiude con questa considerazione, che pare molto stridente con quanto sta decidendo il nostro governo e la UE in tema di Gene editing: “Ciò pone la questione se sia possibile perdere una specie coltivata a causa di una malattia o dell’infestazione di un insetto. Probabilmente no. Ma casi come l’elmintosporiosi , la peronospora della patata in Irlanda [e altri] ci ricordano che dobbiamo tenere presenti tali possibilità e pensare a possibili soluzioni, in altre parole dobbiamo tenere le nostre opzioni aperte e fare piani per superare o evitare tali disastri” (https://www.ars.usda.gov/ARSUserFiles/60663500/Publications/Bruns/2017/Bruns_2017_Corn%20Leaf%20Blight.pdf).

Purtroppo la direzione non pare questa.

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