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Politica Agricola Comune: manca una visione globale

Franco Rainini

 

Nel quadro del (così chiamato) Green New Deal, La commissione Europea ha avviato il percorso che produrrà una comunicazione sulla necessità di stabilire una filiera che fornisca alimenti sani, sicuri, accessibili economicamente alla popolazione e “sostenibili”, “dal campo alla forchetta”. Una prima fase consistente nella consultazione aperta al pubblico è stata conclusa negli scorsi giorni, a questa consultazione la Federazione Pro Natura ha partecipato ponendo la maggior enfasi sugli aspetti di sostenibilità, sulla base delle considerazioni che seguono. In primo luogo riteniamo che la maggiore criticità nello sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile sia nella gerarchia degli obiettivi che la UE si è data per la PAC, con maggiore enfasi sul contenimento dei prezzi delle derrate agricole, perseguito come sostegno all’incremento dell’intensità produttiva (aumento della quantità di capitale per capo o unità di superficie) e con l’inevitabile conseguenza di incrementare forme di agricoltura ad elevato input di concimi chimici, biocidi e intensità di motorizzazione, inevitabilmente più connesse alla semplificazione degli agroecosistemi, alla riduzione di biodiversità e alla perdita di servizi ecosistemici.

Detto in altri termine, la PAC attribuisce risorse agli agricoltori costringendoli al massimo sforzo produttivo allo scopo di ottenere prodotti agricoli che spesso vengono pagati comunque troppo poco. La presenza di realtà agrarie tanto difformi all’interno del mercato unico provoca inevitabilmente effetti di dumping economico e/o sociale e/o ambientale che alcuni (forse tutti) i paesi praticano. Dentro c’è la contraddizione di voler assicurare prezzi bassi delle derrate, redditi adeguati agli agricoltori, tutela dell’ambiente e magari anche dei diritti di chi lavora. Evidentemente nelle condizioni date non tutto si tiene. A perdere sono innanzitutto l’ambiente e in seconda battuta i soggetti più deboli: lavoratori salariati e piccoli agricoltori.

Se dal punto di vista teorico la strada da seguire per superare questo problema è facilmente individuata dalle proposte della nostra Coalizione italiana “Cambiamo agricoltura”, nella pratica del confronto politico è lampante che questa non è solo una stortura nata all’inizio della Politica Agricola Comune che ci trasciniamo per inerzia e neghittosità delle burocrazie: l’errore è sistemico e si trova nell’obiettivo non dichiarato della PAC, cioè il sostegno alle industrie che forniscono prodotti agli agricoltori (a monte) e la trasformazione dei prodotti agricoli (a valle).

I produttori agricoli si confrontano sia all’atto dell’acquisto dei mezzi di produzione che alla vendita delle derrate con soggetti molto più grandi ed economicamente solidi delle loro aziende e sono costretti ad accettare le condizioni del rapporto da queste imposte. In sintesi la PAC sovvenziona le industrie fornitrici e clienti del sistema agricolo dando soldi a soggetti che sono inevitabilmente condannati a cedere loro i soldi ricevuti. Dovendo operare non in condizioni di libera concorrenza ma in mercati dominati da soggetti che operano in oligopolio. È opportuno ricordare a questo punto l’aforisma di Richard Levins (biologo, agroecologo, della Harvard School of Public Health) per cui “coltivare significa ottenere il raccolto di arachidi dalla terra, mentre l’agricoltura fa burro di arachidi dal petrolio”.

Da questa contraddizione riescono ad uscire con successo i produttori biologici e biodinamici, mentre vi rimangono invischiati la gran parte dei produttori di commodities. Forse l’agricoltura organica non è perseguibile da tutti gli agricoltori, ma è un passaggio indispensabile per molti ed insieme la dimostrazione che è possibile uscire dalla trappola.

Sulle conseguenze sociali del sistemi agroindustriale dominante: è opportuno citare il caso (che riteniamo non segnali un fenomeno isolato) dei risultati della missione ONU sull'impatto sociale dell'agricoltura italiana. Le condizioni di lavoro (sicurezza, salari sotto il limite della sopravvivenza, degrado sociale ed abitativo) è da tempo sotto attenzione

https://unric.org/it/esperta-onu-per-la-prima-volta-in-italia-per-esaminare-lo-stato-del-diritto-allalimentazione/

Da entrambe le fonti citate traspare come l'impatto ambientale della PAC si rifletta perfettamente sul piano sociale. Da queste valutazioni emerge fortemente l’esigenza di un approccio agroecologico, che affronti in modo integrato gli aspetti ambientali, sociali ed economici. Riconoscendo la centralità della realtà produttiva in campo, valutando positivamente le forme produttive a ridotto input esterno, preferendo la trasformazione nell’ambito agro-zootecnico locale, favorendo una uniforme distribuzione dei carichi di lavoro all’interno dell’azienda per tutto il corso dell’anno (il che permetterebbe l’ integrazione sociale e la stabilizzazione dei migranti).

Di primaria importanza è la questione dell’importazione di materie prime proteiche per mangimi, soprattutto per suini e vacche da latte, quindi destinati in parte cospicua a diventare reflui zootecnici sparsi sul suolo o smaltiti con modalità tale da porre a serio rischio la qualità delle acque ad uso alimentare e igienico, e la sussistenza stessa di molti ecosistemi (terrestri, acquatici e marini) oligotrofici. Secondo l’annuario 2019 di Assalzoo, l’Associazione Nazionale dei Produttori di Alimenti Zootecnici (https://www.assalzoo.it/wp-content/uploads/2019/08/Annuario_2019_WEB.pdf) la dipendenza del sistema mangimistico italiano per quanto riguarda la soia e i suoi derivati è di circa tre milioni di tonnellate, equivalente alla coltivazione di un milione di ettari (circa 10.000 Km2. Le importazioni arrivano in gran parte dall’emisfero americano, in quota rilevante dal Sud America.

La dipendenza da fonti proteiche (ma anche energetiche) estere è particolarmente rilevante in aree come la Lombardia, che ospita una quota ingente (30-40%) del patrimonio zootecnico italiano. In effetti queste storture ambientali sono create e anche rese economicamente convenienti dalla “delocalizzazione” della coltivazione della componente proteica degli alimenti per i nostri animali. Il sintomo più appariscente è la difformità di distribuzione degli allevamenti rispetto alla superficie coltivabile, quindi al disaccoppiamento della produzione zootecnica da quella agricola, oltre che su scala intercontinentale anche su scala europea e nazionale.

L’Autorità di bacino del fiume Po, sulla base di questi numeri calcola un carico zootecnico di una quarantina di milioni di abitanti equivalenti all’interno del bacino stesso, che comprende il Piemonte, la Lombardia, gran Parte dell’Emilia Romagna e una parte del Veneto (il 33% dei 114 milioni di ab.eq. stimati totali!), Questi animali mangiano e producono deiezioni in quantità assai superiore a quanto succede in distretti agricoli meno intensivi: il ciclo di vita di un pollo da ingrasso (broiler) è di una cinquantina di giorni scarsi, non è infrequente riscontrare produzioni di latte in allevamento che superano i quaranta litri al giorno, l’incremento di peso dei suini da ingrasso supera il mezzo chilogrammo al giorno. Da ciò risulta la necessità di grandi quantità di alimenti standardizzati, con elevati livelli di nutrienti e da questo deriva la nostra dipendenza dalle fonti di approvvigionamento estero, perché le superfici agricole destinate a seminativi in pianura sono in riduzione, a causa del consumo di suolo per costruzioni civili, industriali e soprattutto commerciali e di infrastrutture. Il commento di ISTAT al dato del VI censimento dell’agricoltura per la Lombardia (https://www.istat.it/it/files//2013/02/Focus_Agr_Lombardia_revMalizia_rivistoMarina_26feb.pdf) serve a inquadrare il problema:

In ambito regionale i gruppi colturali hanno evidenziato nel decennio andamenti differenziati. La variazione negativa più consistente si è verificata per la superficie destinata a prati permanenti e pascoli (- 41.297 ettari, pari al -15,0%), la cui estensione media aziendale è solo lievemente aumentata (da 9,6 a 10,8 ettari), segnalandone il progressivo abbandono nell’area montana ove sono prevalentemente localizzati.

Con un calo modesto, pari al 2,1% rispetto al 2000 (-15.000 ettari), seguono i seminativi che mostrano un incremento di rilievo delle estensioni medie aziendali (da 15,2 a 20,3 ettari per azienda) per una flessione del numero delle aziende pari al-27,7%.

In sintesi, nella composizione della SAU gestita dalle imprese si rafforza il peso dei seminativi (la cui quota passa dal 70,3% al 72,5%) e delle coltivazioni legnose agrarie (dal 3,1% al 3,7%) mentre diminuisce quello dei prati permanenti e pascoli (dal 26,5% al 23,8%). “

 

Il fenomeno descritto è quindi quello dell’abbandono delle aree di montagna, dove l’agricoltura non è redditizia, perché legata al pascolo del bestiame, mentre una riduzione pesante (15.000 ettari sono centocinquanta chilometri quadrati!) vi è anche a carico dei seminativi, che tuttavia vedono aumentata la loro presenza relativa, a dimostrazione della riduzione delle aree agricole. Le aziende diventano più grandi per estensione, fenomeno confermato anche dalla dimensione media degli allevamenti (vedi i dati del consorzio Clal in https://teseo.clal.it/?section=vacche_italia, dove risulta anche la sproporzionata distribuzione del patrimonio lattifero nazionale, evidentemente slegata dalla produzione agricola e alla disponibilità di foraggi).

 

Le conseguenze globali provocate anche dall’insostenibile sistema agricolo europeo sono rese evidenti dall’allarme mondiale sollevato negli scorsi mesi dallo sviluppo di vasti incendi in varie parti del Sud America, che nell’immaginario collettivo si è coagulato nell’immagine dell’Amazzonia che va in cenere. Il fenomeno, genericamente attribuito ai cambiamenti climatici, sembra avere una genesi più complessa, non è l’apocalisse immediata e repentina dovuta a temperature più alte, ma è la maturazione di un processo lungo e complesso di trasformazione del sistema agroalimentare mondiale che ha interessato il Sud America quale base produttiva di materie prime destinate alla produzione zootecnica: bovini, suini ,avicoli. Per i primi questa trasformazione ha riguardato il trasferimento di buona parte degli allevamenti estensivi al pascono in allevamenti feedlot (pubblicazione Agri Benchmark https://literatur.thuenen.de/digbib_extern/dn054620.pdf), una pratica zootecnica che in opposizione al pascolo (grass feed) prevede l’allevamento degli animali in grandi recinti, in aziende spesso con decine di migliaia di capi. Questi animali vengono allevati con farine di cereali e soia. La trasformazione di parte degli allevamenti da pascolo feedlot in Sud America, unita alla richiesta mondiale di cereali e soia, ha portato alla trasformazione di pascoli, a volte derivati dalla distruzione della foresta primaria in seminativi. Accelerando il grado di distruzione della foresta e incrementando il “rischio” di incendi.

La trasformazione della foresta in seminativo ha comportato costi ecologici resi universalmente noti dai grandi incendi segnalati negli scorsi mesi, ma si deve anche ricordare che i costi sociali non sono stati irrilevanti: spesso le popolazioni residenti sono state sgomberate con mezzi spesso criminali, tra cui l’uso della violenza, fino all’omicidio e allo stupro agervolati dalla corruzione di funzionari pubblici. Un resoconto è presente nel volume “Agricolture and Food in Crisis” MR Press NY a cura di Fred Magdoff e Brian Toker, al saggio 9 – “The battle for sustainable Agricolture in Paraguay” di April Howard.

Nello specifico della situazione che si è recentemente creata con la segnalazione dell’aumento degli incendi nelle aree in gran parte perimetrali o esterne alle foreste primarie si veda un illuminante articolo di The Guardian https://www.theguardian.com/environment/2019/aug/23/amazon-fires-what-is-happening-anything-we-can-do). Naturalmente il dramma si sta svolgendo anche nel contesto economico generale entro cui si sta svolgendo il dramma, caratterizzato dallo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti riguardo al riequilibrio della bilancia commerciale bilaterale, attualmente sbilanciata a favore dei cinesi. Tra le misure di ritorsione prospettate da questi ultimi è il dazio sulle importazioni di soia dagli USA, il che, oltre a mettere in crisi il seguito politico di Trump negli stati agricoli, aumenterebbe la domanda di soia da altri paesi. Questo potrebbe in prospettiva aggravare la pressione sulle foreste Sud americane (di passaggio: lo stato del Brasile che produce più soia si chiama Mato Grosso, cioè grande bosco, una bella premessa per il futuro). Letta invece con un po’ di dietrologia la cosa spiegherebbe invece l’esplosione sui media della crisi degli incendi “in Amazzonia”, che non è cosa nuova, seppure mai così grave.

Questa nota non può essere in alcun modo considerata esaustiva dei problemi posti dal sistema agricolo europeo. Le criticità sono ampie e variegate ben oltre l’orizzonte di qualsiasi soggetto. Volendo riassumere in poche parole il senso di quanto esposto riteniamo importante che siano affermati i principi della sicurezza alimentare, in primo luogo per il contenuto di pesticidi negli alimenti, di sicurezza ed equità sociale per i diritti dei lavoratori e dei piccoli produttori, di solidarietà globale ad evitare che gli interessi particolari di un piccolo numero di soggetti economici basati in Europa abbiano conseguenze nefaste su paesi economicamente meno forti, equità ambientale basata su una corretta distribuzione e articolazione dei carichi agricoli e zootecnici, permettendo al contempo la robusta presenza di una rete ecologica (aree protette) all’interno dei nostri territori.

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