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Requiem per il ghiacciaio del Lys

Toni Farina

Mi dicono che si vede da Milano, il Monte Rosa. E allora mi chiedo se i milanesi nella loro ansia quotidiana trovano il tempo per uno sguardo, un fuggevole sguardo, a quell’orizzonte di luce.
Tempo che invece trovano quanti passeggiano tranquilli in quel frammento di brughiera fra Romagnano Sesia e Fontaneto d’Agogna. Brughiera denominata Baraggia del Piano Rosa in omaggio a quella stessa montagna che qui fa capolino fra farnie e betulle.
Una montagna che talvolta rosa lo è davvero. Capita in certe albe d’inverno, quando il primo sole esce dalla foschia della pianura. Sale piano sull’orizzonte, laggiù a oriente, furtivo quasi, per non infrangere la notte con troppa violenza. E sulla montagna cala la luce, come un vestito.

Monte Rosa, monte dei ghiacciai
Il Monte Rosa che chiude l’orizzonte a settentrione è un’immagine iconica della pianura piemontese. Il riflesso della montagna nelle vasche di risaia è utilizzato a piene mani come promo turistico delle Terre d’Acqua. “Dal riso al Rosa” è lo slogan. Il valore aggiunto sta nel contrasto cromatico fra il candore “perenne” della montagna e il verde dei campi. Ma, come ben sanno gli esperti e gli abitanti delle sue valli, nel toponimo il cromatismo non c’entra, ma l’origine va cercata nel ghiaccio, nei ghiacciai. (“rosa” dal patois valdostano rouése, che significa ghiacciaio). Monte dei ghiacciai quindi, in omaggio alle estese colate glaciali che ne rivestono i versanti. Grandi plateau in alto, immani cascate di seracchi che precipitano nelle valli del versante italiano.
Uno spettacolo di potenza. Che rischia non avere molti anni di replica. I glaciologi parlano di tempi brevi, qualche decennio. Il tempo di una generazione. Poi di quelle cascate di seracchi rimarrà il ricordo, rinvigorito dalle immagini. Byte nella memoria dei dispositivi digitali.
La previsione si basa sulla rapidità con cui le colate glaciali hanno lasciato i fondovalle per ritirarsi in alto, sui salti che separano dai plateau sommitali. Trent’anni: è questo il tempo che il Ghiacciaio del Lys, nella valle omonima, o Val di Gressoney, ha impiegato ad arretrare di molti chilometri e centinaia di metri di dislivello, lasciando in sua vece due immani morene ed estesi laghi di colore azzurro-ghiaccio.
Trent’anni fa si arrivava comodamente in un’ora e mezza di cammino alla bocca del ghiacciaio dalla quale usciva il torrente. La sorgente del Lys era una passeggiata classica dalla località Staffal di Gressoney.

Requiem per un ghiacciaio
Titolo un po’ macabro ma efficace per una sorta di cerimonia semi-funebre che ha interessato nel week end 27-29 settembre sei località dell’arco alpino, dal Monviso al Montasio, in Friuli. Venerdì 27 è stato il turno del Ghiacciaio del Lys, in Valle di Gressoney, nel massiccio del Monte Rosa.
Scopo dell’iniziativa, sensibilizzare l’opinione pubblica, in Italia piuttosto distratta, su un fenomeno rapido e allo stesso tempo epocale che sta cambiando il volto della montagna. Ma che riguarda direttamente i cittadini della pianura, fruitori del paesaggio alpino ma soprattutto di quel servizio ecosistemico che va sotto il nome di “acqua”. L’iniziativa ha avuto il suo esordio in Islanda, e di lì è passata alle Alpi.
Perché il global warming non risparmia nessun angolo del pianeta. Non solo: le montagne e le calotte polari sono i siti più coinvolti, dove l’impatto è più evidente.
In Italia la manifestazione è stata organizzata da Legambiente in collaborazione con Cinemambiente e Dislivelli. Molte le adesioni e fra queste Mountain Wilderness.
Venerdì 27 in Valle di Gressoney una giornata luminosa ha accompagnato gli oltre 100 partecipanti ai 2400 metri del punto convenuto: la Sorgente del Lys. Per molti di loro si trattava della prima volta al cospetto di quello scenario. Ma molti altri, memori del recente passato, osservavano attoniti il Torrente Lys uscire non più da una grotta glaciale ma da un lago circondato da detriti morenici.

Gli interventi
Apertura d’obbligo per Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi Legambiente, che ha spiegato le ragioni dell’iniziativa. Michel Isabellon, Arpa Aosta, e Michele Freppaz dell’Università di Torino si sono incaricati del supporto scientifico.
Non sono mancati momenti di coinvolgimento emotivo. Le note del corno delle Alpi, suonato da Martin Mayes, una toccante e austera “sinfonia” per il ghiacciaio dolente. Le parole di Davide Camisasca, guida alpina ed eccelso fotografo del Monte Rosa. La sua è stata un’autorevole testimonianza del tempo passato, quando il vigore del ghiacciaio rendeva la montagna più accessibile, meno insidiosa. Il tono delle sue parole tradiva intensa emozione.
Intorno al gruppo si assiepavano i tecnici di emittenti televisive, segno tangibile di un interesse mediatico per l’evento.

I ghiacciai fanno notizia
Un contributo è giunto dalla concomitanza con il possibile crollo del Ghiacciaio di Plampincieux, sul versante italiano delle Grandes Jorasses (la sinergia montagna-sciagura funziona sempre). Ma l’eco mediatica della manifestazione-cerimonia in Val di Gressoney ci sarebbe stato comunque. Segno che il problema è avvertito come tale.
Il rischio “polvere sotto il tappeto” però esiste. Dopo l’ennesima estate da record, con l’avanzare dell’autunno lo zero termico scenderà finalmente di quota. L’inverno poi (si spera) porterà neve, pietoso sudario per i ghiacciai sofferenti. E insieme alla neve calerà anche l’oblio. Sui ghiacciai sofferenti e sul climate change. A Greta, ai “suoi ragazzi” e a tutti noi il compito di tener deste le coscienze. In attesa della prossima estate rovente.
Nelle lunghe serate invernali possiamo esercitaci a pensare un nuovo nome per il Monte Rosa. Senza ghiacciai…

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