Membro di
Socia della

Restaurare il mare?

Ferdinando Boero

 

La legislazione europea si è evoluta e, nelle sue ultime direttive, si propone di restaurare la natura. Prima intendeva proteggerla ma ora, visto che gli obiettivi di protezione non sono raggiunti, si passa al restauro. Una decisione sorprendente. Se non riusciamo a proteggere la natura significa che non riusciamo a rimuovere gli impatti che ne minano la salute e l'integrità, e che derivano dai nostri sistemi di produzione e consumo. Se non riusciamo a rimuoverli, è pensabile che un restauro abbia successo? Se una tubatura idrica perde e rovina un muro, possiamo pensare di restaurare il muro senza aver riparato il tubo? Proporre il restauro senza aver eliminato gli impatti ci porterà a brucianti insuccessi: inutile porre rimedio ai sintomi se non si rimuovono le cause.

A terra il restauro è presto fatto: si piantano alberi. Volendo, si reintroducono specie animali che un tempo prosperavano e che abbiamo sterminato, come gli orsi. Non mi voglio addentrare nel restauro terrestre, però. Dato che il pianeta è coperto per il 71% dall'oceano e che questo ha una profondità media di quattromila metri, il volume oceanico rappresenta più del 90% dello spazio abitato dalla vita. Uno spazio che "funziona" in modo radicalmente differente rispetto alla terraferma. Le "piante" o, meglio, i produttori primari (alghe e fanerogame marine), non vivono solo a contatto con il fondo marino, come le piante terrestri, ma si sviluppano, come unicellulari fotosintetici, nel volume oceanico fin dove la luce penetra e permette la fotosintesi. Il fitoplancton, composto essenzialmente di diatomee e flagellati, è una foresta invisibile che svolge funzioni essenziali senza avere una struttura che noi possiamo percepire.

Un conto è piantare alberi, altro conto è pensare di restaurare il fitoplancton! Anche perché il fitoplancton innesca il funzionamento degli ecosistemi marini con "pulsazioni", dette anche bloom, di durata relativamente breve ma di grandissima intensità. La pulsazione del fitoplancton è seguita da quella di zooplancton erbivoro, prima di tutto piccoli crostacei come i copepodi, cibo per gli stadi larvali e giovanili di pesci che, una volta cresciuti, si mangeranno tra loro, e saranno cibo per mammiferi e uccelli marini. A terra le piante costituiscono il paesaggio vivente e sono l'ossatura di tutti gli habitat, in mare no: gli elementi funzionali di base, i produttori primari, sono microscopici e vivono sospesi nell'acqua. Sul fondo marino, a parte le prime decine di metri dove arriva luce sufficiente, la copertura biologica è prevalentemente animale.

Dato che restaurare il plancton è praticamente impossibile, gran parte del restauro marino si sviluppa a livello del benthos, cioè degli organismi che vivono a contatto con il fondo. Le procedure di restauro sono identiche a quelle praticate a terra: si ripiantano le specie danneggiate dalle nostre attività. Il riscaldamento globale fa morire la grande barriera corallina australiana? E noi ripiantiamo quei coralli, magari avendo selezionato qualche ceppo resistente alle alte temperature, visto che l'Australia continua a usare il carbone e a causare il riscaldamento globale che uccide i coralli. Duemila chilometri di Grande Barriera si restaurano piantando qualche corallino qua e là? Lo stesso ci proponiamo, in Mediterraneo, per le piante marine, prima di tutto la posidonia. In questo caso l'impresa è votata sicuramente al successo, ma non per merito nostro: la posidonia sta attraversando un periodo di rigoglio, indipendentemente dalle nostre attività. Anzi, proprio a causa delle nostre attività.

Per restaurare qualcosa è necessario conoscerla bene, anche per capire se ci si vanta meriti non propri. Le praterie di posidonia sono un habitat prioritario della Direttiva Habitat e sono state a lungo considerate a serio rischio di estinzione, a causa di nostre attività, prima di tutto lo sviluppo costiero, la pesca industriale, gli ancoraggi, l'inquinamento. Non a caso la rete Natura 2000, in Mediterraneo, comprende principalmente le praterie di posidonia. Oggi, però, le cose si stanno rimettendo a posto, paradossalmente proprio a causa del nostro impatto globale che genera l'innalzamento delle temperature.

Posidonia oceanica è un relitto della Tetide, il bacino oggi occupato dal Mediterraneo e che, in passato, era connesso con l'Indo-Pacifico. Era un mare tropicale, come mostrano le tracce fossili di formazioni coralline del passato. Cinque milioni di anni fa la connessione con l'Oceano Indo-Pacifico si occluse e la Tetide evaporò, visto che le piogge portavano meno acqua di quella che evaporava, proprio come succede anche oggi. Nelle parti più profonde della Tetide restarono stagni molto caldi e salati, dove sopravvissero diverse specie, tra cui la posidonia. Quando si aprì lo stretto di Gibilterra, l'acqua atlantica formò l'attuale Mediterraneo, popolandolo con una fauna e una flora di affinità atlantica, diverse da quelle originali, di affinità indo-pacifica. Alcuni relitti tetidei, però, riuscirono a sopravvivere a caldo e salinità estremi, e ad adattarsi alle nuove condizioni, più temperate delle precedenti: la posidonia è tra questi. Fino a una cinquantina di anni fa questa fanerogama si riproduceva solo asessualmente e gli eventi di fioritura e la germinazione di nuove piante erano quasi sconosciuti. Le condizioni del Mediterraneo erano ben diverse da quelle ideali per questa pianta che, comunque, prosperava asessualmente, senza produrre fiori e frutti. A partire dalla fine degli anni settanta, però, si iniziarono a registrare fioriture di posidonia che, però, non portavano alla formazione di frutti; in seguito i fiori diedero frutti e, dopo qualche decennio, i frutti iniziarono a produrre semi che germogliarono. Le condizioni del Mediterraneo stavano diventando favorevoli alla crescita e alla riproduzione sessuale della posidonia... grazie al riscaldamento globale!!! Una pianta tropicale vive bene in un ambiente che si sta tropicalizzando! Lo stesso vale per le tartarughe marine, oramai arrivate a nidificare anche nelle parti più settentrionali del Mediterraneo dove, prima, la loro presenza era solo occasionale e dove di nidi non si vedeva l'ombra. I rettili stanno bene al caldo, proprio come la posidonia!

Ritenute in passato specie a rischio, posidonia e tartarughe non sono mai state così bene. Giustamente abbiamo cercato di proteggerle da vari impatti come interramenti, pesca distruttiva, ancoraggi, inquinamento e abbiamo inserito la posidonia tra le specie di importanza comunitaria nella Direttiva Habitat e le tartarughe sono protette e accudite, ogni volta possibile, ma la rinascita delle due specie non è dovuta a "restauro": semplicemente, sia la posidonia sia le tartarughe sono favorite dal riscaldamento globale. Il restauro di pochi lembi di posidonia per recuperare le piante perdute a seguito di nostre attività è ben poca cosa, rispetto all'estensione delle praterie. Oggi non stanno bene grazie al restauro, ma grazie all'instaurarsi di nuove condizioni favorevoli.

Ovviamente, quel che fa bene ad alcune specie è letale per altre: le alte temperature causano morie di specie ad affinità temperata, come le gorgonie. Quando le condizioni cambiano, ci sono specie che "vincono" e specie che "perdono". Se una specie "perde" a fronte di nuove condizioni e, al suo posto, ne arrivano altre che "vincono", è saggio tentare di eradicare i nuovi vincitori, di solito considerati alieni "cattivi", per reinstallare i "vinti"? Che garanzie ci sono che riportare gli habitat alla struttura antecedente gli impatti (prima di tutto il cambiamento climatico) si rivelerà un'impresa di successo? Per loro fortuna, posidonia e tartarughe non sono ritenute perfidi alieni invasori, e quindi nessuno è allarmato per il loro nuovo rigoglio, ma molte specie tropicali si sono insediate grazie alle nuove condizioni e stanno gradualmente realizzando nuovi ecosistemi. Se le eradichiamo non riporteremo le specie di "prima", perché le nuove condizioni ambientali non lo permettono.

A volte, invece, si può tornare indietro, ma non con il restauro. Il degrado trofico, accanto al riscaldamento globale, è il cambiamento più drammatico verificatosi in Mediterraneo a partire dagli anni cinquanta, con l'avvento della pesca industriale. L'efficienza dei sistemi di prelievo ha decimato i grandi predatori, dai tonni agli squali; quando questi arrivarono sull'orlo dell'estinzione commerciale, passammo ai predatori di livelli trofici inferiori. Le reti trofiche marine sono molto lunghe, con carnivori che mangiano carnivori che mangiano altri carnivori. Scendendo nelle reti trofiche le abbiamo degradate, fino ad arrivare agli erbivori, come le salpe. I carnivori che non ci sono più sono allevati in gabbie, nutriti con farine di pesce derivanti da pesci di piccola taglia e di scarso valore commerciale: semplicemente una follia insostenibile.

Restaurare le popolazioni di pesci e squali prevede azioni sulla colonna d'acqua, un ambiente molto dinamico e mutevole. Possiamo pensare di ricostituire i grossi predatori reimmettendoli nell'ambiente, come abbiamo fatto con l'orso in Trentino? Non ce n'è bisogno. Se smettiamo di prelevare industrialmente i pesci, le loro popolazioni si ricostituiscono rapidamente, visto che ogni femmina produce migliaia di uova, a differenza di quel che avviene per i vertebrati terrestri. Se il prelievo industriale viene limitato, le popolazioni ittiche si ricostituiscono. Non c'è bisogno di restauro attivo, basta rimuovere l'impatto. Lo dimostrano le rigogliose popolazioni ittiche nelle aree marine protette con buona gestione, e la ripresa di popolazioni quasi sull'orlo dell'estinzione commerciale, come il tonno rosso, a seguito di limitazioni dei prelievi. Se il recupero è rapido per i pesci ossei, l'impresa è più difficile per squali e razze, non altrettanto prolifici.

Una volta ricostituite le popolazioni, il prelievo deve essere modulato in modo da non compromettere il rinnovo delle popolazioni bersaglio. Purtroppo, con l'eccezione della pesca del tonno, sottoposta a limitazioni, oggi l'industria della pesca sopravvive a seguito di sovvenzioni. Che significa? Se la pesca industriale fosse redditizia, la spesa per praticarla sarebbe inferiore alla resa derivante dalla vendita del pescato. Attualmente operare un peschereccio industriale costa molto di più dei guadagni derivanti dalla vendita del pesce che il peschereccio riesce a pescare. In una situazione del genere, gli operatori dei pescherecci fallirebbero, il numero di pescherecci diminuirebbe, magari si svilupperebbero modalità di prelievo meno distruttive, e le popolazioni di prede si riprenderebbero. Per "difendere" il reddito dei pescatori, invece, li sovvenzioniamo in modo che possano continuare a pescare e a distruggere le risorse che dovrebbero garantire il loro benessere. Un suicidio economico ed ecologico! Poi, magari, investiamo altri fondi per restaurare le popolazioni depauperate. Magari reimmettendo avannotti che dovrebbero fondare nuove popolazioni! Ma che futuro avrebbero queste popolazioni restaurate se il prelievo industriale continuasse ad essere sovvenzionato? I tonni rossi sono tornati in Mediterraneo perché sono state imposte quote di prelievo, senza particolari restauri.

Le azioni di restauro marino sono di solito focalizzate su determinati habitat, la cui struttura viene "indirizzata" verso stati ritenuti ideali: di solito gli stati del passato. L'approccio a livello di habitat, però, contrasta con i concetti sviluppati dopo la direttiva Habitat: l'approccio ecosistemico prevede che non sia solo la struttura ad essere considerata (l'habitat, di solito di fondo) ma che i vari interventi debbano riguardare le funzioni ecosistemiche. Un habitat prospera se prospera l'ecosistema di cui fa parte e, in mare, gli ecosistemi dipendono da quel che avviene nella colonna d'acqua. Ed eccoci tornare al fitoplancton e allo zooplancton erbivoro, a sostenere le parti basali degli ecosistemi marini.

Non basta restaurare qualche habitat, quindi, visto che gli ecosistemi marini funzionano grazie a un comparto microscopico (fito e zooplancton) di difficile manipolazione. D'altra parte gli habitat bentonici contribuiscono anch'essi al funzionamento degli ecosistemi. In queste condizioni, il restauro è analogo a un'operazione di chirurgia plastica che tenti di ridare giovinezza a un corpo molto segnato dall'età. Il passato non ritorna, e il vecchio si rinnova con nuove soluzioni e non con qualche "puntello" estetico. Le nuove soluzioni sono i nuovi ecosistemi, dove dominano specie adattate alle nuove condizioni. In quest'ottica la "conservazione" e il "restauro" assumono anche in ecologia il significato che da sempre hanno in politica: scarsa propensione al cambiamento e tendenza al mantenimento dello statu quo.

Dare l'illusione che si possa ricostituire quel che non c'è più induce a pensare che si possa distruggere, per poi restaurare. Un atteggiamento analogo alla convinzione che, una vota protetta un'area, ci sia facoltà di alterare i territori circostanti con attività antropiche non rispettose dell'ambiente. Le intenzioni di restauratori e conservatori della natura sono encomiabili e non è lecito pensare che agiscano con secondi fini. Si tratta, comunque, di atteggiamenti che interferiscono con i processi naturali. Come insegna la medicina: prevenire è meglio di curare. Occorre rimuovere le cause del degrado ambientale, per fare in modo che non ci sia bisogno di restaurare quel che abbiamo rovinato. Se questo fosse un atteggiamento diffuso, il restauro diventerebbe necessario, e lecito, solo in casi di incidenti acuti che compromettano le condizioni naturali in aree circoscritte, come il naufragio di una petroliera. In questi contesti il restauro non è una novità ed è viene chiamato "bonifica": l'azione tesa a far tornare in buone condizioni un sito contaminato. La bonifica dei siti contaminati è una forma di restauro ed è bene che venga perseguita, a patto che cessino le contaminazioni.

Il restauro marino si dovrebbe basare sulla conoscenza della struttura e delle funzioni degli "oggetti" da restaurare: biodiversità a livello di specie ed habitat, e funzionamento degli ecosistemi. Dato che le nostre conoscenze sono molto limitate, sia riguardo alla biodiversità marina sia riguardo agli ecosistemi, per non parlare dei collegamenti tra la struttura e le funzioni dei sistemi viventi, ogni intervento al riguardo si basa su profonda ignoranza. Dovendo applicare il principio di precauzione, è senz'altro meglio rimuovere gli impatti e astenersi dall'interferire con sistemi che conosciamo solo approssimativamente: la natura, di solito, si restaura benissimo da sola.

Torna indietro