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La riscoperta delle montagne

Il progredire dei cambiamenti climatici impone di iniziare fin da subito a programmare una nuova gestione dei territori, in particolare delle zone più esposte alle variazioni ambientali. Fra queste ci sono le aree montane, che occupano una porzione rilevante del territorio nazionale e sono a rischio sotto molteplici aspetti, a partire dalla riduzione dei ghiacciai, il cui assottigliamento costante ne fa prevedere la scomparsa entro pochi decenni, con la conseguenza di azzerare le risorse idriche in essi contenute e dunque anche la possibilità di mitigare i fenomeni siccitosi, destinati a diventare più frequenti e durevoli con l’aumento delle temperature medie. Un esempio fra i tanti che fa capire bene come ciò che avviene in montagna ha poi ripercussioni nelle valli e nelle pianure, ragion per cui tutelare le “Terre Alte” è interesse di tutti, non soltanto delle comunità montane che le abitano.

Le montagne vengono troppo spesso viste come zone remote, a causa delle oggettive difficoltà di collegamento e della mancanza di servizi, motivi che ne hanno determinato il progressivo spopolamento, con la discesa dei suoi abitanti verso le pianure più fertili o direttamente verso le zone urbane con le loro fabbriche, gli uffici, i luoghi di aggregazione. Un fenomeno migratorio interno tutt’altro che minimale, che ha provocato la desertificazione di borghi e vallate, con il conseguente abbandono dei territori all’incuria e al degrado.

Oggi però assistiamo a una certa inversione di tendenza, causata da molteplici fattori, che ha portato alla riscoperta della montagna, almeno per quanto riguarda la fruizione turistica, piuttosto che per il reinsediamento vero e proprio. Un tempo, le montagne erano uno dei luoghi privilegiati per la “villeggiatura”, quando d’estate chi poteva saliva in quota per sfuggire alla canicola che stremava la pianura. In Piemonte, terra di confine fra Alpi e Pianura Padana, il fenomeno era particolarmente diffuso: le valli limitrofe alla città di Torino vedevano un massiccio afflusso di turisti in cerca di refrigerio, dall’alta borghesia che poteva permettersi appunto di “andare in villa”, quella che oggi sarebbe una lussuosa seconda casa, agli strati popolari che si arrangiavano nelle numerose locande e taverne, o che mandavano almeno i figli nelle colonie di media montagna. Chi non poteva allontanarsi troppo, si dirigeva perlomeno verso la collina torinese, vero polmone verde accessibile appena oltre la destra orografica del corso cittadino del Po. A partire dal secondo dopoguerra l’industrializzazione ha iniziato a richiamare verso le città le genti delle valli e delle campagne, un fenomeno migratorio poco considerato perché soverchiato dagli imponenti arrivi dal Sud dell’Italia, che in termini numerici erano enormemente superiori. Tuttavia, non c’è dubbio che tale flusso abbia comportato una vera e propria mutazione societaria e persino antropologica della popolazione nazionale. Quello che era stato fino a pochi anni prima un popolo di contadini diventava una cittadinanza di operai e “mezze maniche” impiegatizie, mano d’opera per un’industria in espansione e un settore dei servizi in embrione.

Nelle campagne, il fenomeno è stato quasi totalmente compensato dalla meccanizzazione: l’avvento di trattori, mietitrebbie e macchine agricole in genere ha sostituito senza troppi problemi le masse di braccianti un tempo necessarie per la coltivazione delle terre. Discorso analogo per l’allevamento, con le fattorie trasformate poco per volta in allevamenti intensivi, vere e proprie “fabbriche di carne” che rispondono a logiche industriali di produttività e taglio dei costi di produzione. Una strategia evidentemente non attuabile in montagna, o perlomeno non su scala così diffusa. Le colture sono differenti da quelle della pianura, le pendenze dei terreni consentono solo in minima parte l’utilizzo di mezzi meccanici e le mandrie in transumanza e in alpeggio richiedono la presenza del pastore a tempo pieno. Una vita dura, dove la tecnologia poteva aiutare ben poco. Ecco allora che le prospettive di comodità e benessere a portata di mano offerte dalla vita cittadina hanno indotto molti giovani a non portare avanti le attività di genitori e nonni, lasciando la montagna al suo destino per integrarsi nella vita urbana.

Per un po’ la montagna ha continuato a reggere come luogo di svago e di vacanza, anche se di gran lunga inferiore, come numero di presenze, rispetto alle località di mare. Un turismo in gran parte di prossimità, praticato da fasce di popolazione crescenti, che conquistavano progressivamente spicchi di benessere, durante e poco dopo gli anni del boom economico. Ma con il crescere delle disponibilità economiche, con il consumismo e l’avvento di prospettive globali, le cose cambiano. I viaggi un tempo appannaggio delle classi abbienti diventano accessibili a tutti e il turismo di massa si sposta verso lidi esotici, villaggi vacanze tutto incluso, tour in Paesi lontani, mentre i paesi vicini, quelli delle vallate alpine, vengono in genere dimenticati, salvo le stazioni sciistiche, attive però solo nella stagione invernale. Per qualche decennio, la montagna scompare dall’immaginario del grande pubblico, salvo un discreto numero di sciatori e pochi alpinisti ed escursionisti, mentre le località balneari e le destinazioni esotiche monopolizzano le preferenze turistiche. Anche le case ereditate da nonni e genitori, memoria delle origini, vengono trascurate a vantaggio di sistemazioni più confortevoli e località più attraenti.

Ma in quest’ultimo periodo si assiste a una inversione di tendenza. Le mutate condizioni economiche, sociali e persino geopolitiche hanno portato a riscoprire la montagna, sia quella “alla moda” , sia quella di prossimità. È mutato innanzitutto il contesto internazionale: molte località un tempo turistiche sono diventate inaccessibile o fortemente sconsigliate, a causa di conflitti o del crescere dei fondamentalismi, basti pensare all’Egitto o alla Turchia, mete molto gettonate fino a pochi anni fa. Anche le disponibilità economiche di fasce sempre più elevate di popolazione sono state progressivamente erose da un impoverimento diffuso che avanza costantemente, a volte in modo impercettibile, altre con crisi di portata planetaria. In ultimo, la pandemia globale esplosa nel 2020 ha reso estremamente problematici e rischiosi gli spostamenti. Tutto ciò, unito al progressivo surriscaldamento delle temperature medie, ha portato a rivolgere nuovamente l’attenzione verso i monti, dove le generazioni precedenti (ma anche i meno giovani fra noi, nella loro infanzia) potevano trovare refrigerio senza dover ricorrere all’(ab)uso dei condizionatori, apparecchi altamente energivori, ma che alcuni ritengono indispensabili per la sopravvivenza. In più, le montagne offrono una qualità dell’aria e dell’ambiente che nessun climatizzatore domestico può neanche lontanamente replicare.

Ecco allora che la montagna è destinata con ogni probabilità a vedere crescere in maniera significativa il turismo di massa, come già si è visto nelle ultime due o tre estati. Del resto, le stazioni sciistiche da tempo si sono attrezzate per essere attrattive anche nella stagione estiva, ma troppo spesso hanno ceduto a una visione eccessivamente “ludica” della montagna, con relativa presenza di infrastrutture e di un turismo non consapevole di cosa sia lo spirito di questi luoghi. Allo stesso tempo molti hanno riscoperto le seconde case, per alcuni quelle di famiglia dimenticate per un certo tempo, magari perché situate in vallate con minore vocazione turistica, per molti altri quelle costruite o acquistate nelle località più frequentate, luoghi che non di rado presentano situazioni di espansione edilizia e cementificazione analoghe a quelle di certe periferie urbane.

Se il turismo di massa “riscopre” le valli e i monti dove le generazioni precedenti si recavano in villeggiatura può senz’altro essere positivo per le ricadute economiche e per incentivare attività in zona che frenino lo spopolamento di queste aree, o addirittura ne incentivino il ripopolamento. Al tempo stesso però, il rischio tutt’altro che remoto è quello di snaturare le caratteristiche di questi luoghi e andare a impattare ancora di più sugli equilibri ecologici di un ambiente già in sofferenza a causa dei mutamenti climatici. Il progressivo riavvicinamento alle montagne è dunque un fenomeno potenzialmente positivo, ma che va governato con attenzione ed equilibrio, per evitare di compromettere un ecosistema che può invece, se adeguatamente preservato, offrirci una grande quantità di risorse economiche e ambientali utili ad affrontare gli stravolgimenti climatici e socio-economici che ci attendono nel prossimo futuro

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