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Terremoti indotti o innescati dall’azione umana

Leonardo Badioli

I terremoti indotti o innescati dall’azione umana sono un nuovo capitolo che si apre nella storia sismica. Riguardano principalmente la geotermia, l’estrazione di idrocarburi, gli stoccaggi geologici di metano e di anidride carbonica.
Per quanto fosse già noto fin dagli anni sessanta il fatto che iniettare fluidi nel sottosuolo può generare fenomeni sismici, è a partire dal 2008 che la preoccupazione si è estesa alla pubblica opinione, quando non si poté più ignorare che la frequenza dei terremoti nei luoghi di più intenso sfruttamento – Oklahoma e Texas negli Stati Uniti, ma anche a Groningen, Valencia e altri luoghi nel mondo – era aumentata a dismisura.
Nel giugno 2012 Scientific American pubblicò un rapporto del National Research Council (NRC) dal titolo “Potenziale sismicità indotta da tecnologie energetiche”. Si trattava di una elencazione molto scrupolosa di terremoti da considerarsi indotti dall’estrazione di petrolio, gas, acqua, non solo attraverso metodi “non convenzionali” qual è il fracking, ma anche attraverso i metodi tradizionali. Il rapporto non valutava la possibilità che questi terremoti accadessero in futuro; ma uno degli autori dello studio, Murray Hitzman, della Colorado School of Mines, nello stesso anno confermò mediante testimonianza al Senato degli Stati Uniti che le tecniche più invasive sono quelle che portano più forti squilibri, come il sequestro e stoccaggio di anidride carbonica (Carbon Capture & Storage, CCS) e l’iniezione di acque reflue nei pozzi dismessi, pericolosi perché tendono ad aumentare le pressioni sotterranee su aree molto vaste, con maggiori probabilità di causare terremoti.
A proposito di stoccaggi, già nel precedente aprile Mark Zoback e Steven Gorelick, della Stanford University, avevano sostenuto che esiste un’alta probabilità di innescare terremoti quando si iniettano grandi quantità di CO2 nelle rocce friabili del sottosuolo. Considerando poi che anche piccole scosse e terremoti di modeste dimensioni possono minacciare l’integrità e la tenuta dei reservoir, il serbatoio ricettore, non si poteva non concludere come la cattura e stoccaggio di CO2 fosse da considerarsi rischiosa, oltre che probabilmente incapace di ottenere il risultato che cerca, cioè la riduzione in quantità significativa della presenza di gas serra in atmosfera.
Non sono mancate smentite alle affermazioni dei due geofisici. Nel dicembre dello stesso anno, Ruben Juanes ed altri del MIT obiettavano chiedendo: “Dove sono le prove? Il fatto che serbatoi superficiali coesistano con basamenti sismici profondi non autorizza a sostenere che lo stoccaggio non avrà successo. Occorre considerare che la gran parte dei terremoti ha ipocentri molto più profondi del reservoir in cui viene stoccata l’anidride carbonica. Ne è conferma il fatto che giacimenti naturali di CO2 allo stato liquido esistono da milioni di anni in regioni caratterizzate da un’intensa attività sismica”. Ma subito i due di Stanford avevano ribattuto con una Risposta a Juanes e altri: le prove ci sono e come! Basta andarsi a leggere il rapporto del NRC!
A queste voci si aggiungono quelle del Geological Survey (USGS, Roeloff, E. et al., 2012): i terremoti indotti sono più forti appena sopra l’epicentro ma meno forti lontano dall’area immediata, probabilmente perché tendono ad essere meno profondi di quelli naturali. Tuttavia, essendo gli strati della crosta terrestre a est delle Montagne Rocciose più alti e più densi di quelli in California, trasmettono energia in modo che i terremoti indotti possono essere percepiti anche a grandi distanze.

Il 2013 porta all’argomento approfondimenti ed estensioni interessanti quanto preoccupanti. In luglio Science pubblica uno studio di Nicholas van der Elst e altri nel quale gli autori mettono direttamente in relazione il recente drammatico aumento dei fenomeni sismici nel sud-ovest americano con l’intensificata attività di iniezione di acque reflue in profondità. Le aree soggette a terremoti di sospetta origine antropica sono suscettibili più di altre all’innesco di terremoti da stress transitori naturali generati dalle onde sismiche di forti terremoti a distanza. Questa aumentata suscettibilità indica la presenza di guasti dovuti a forte appesantimento e a potenziali forti pressioni del fluido. L’attivazione a distanza può essere osservata distintamente con molto ritardo tra l’inizio dell’iniezione e l’insorgenza di sismicità. La stessa in zone sismiche potrebbe quindi indicare che l’iniezione di fluido ha portato il sistema di faglie a uno stato critico.

In Italia è stato il terremoto in Emilia del 2012 (27 morti e danni per 13,2 miliardi) a suonare la sveglia. In seguito all’evento veniva istituita la Commissione ICHESE (International Commission on Hydrocarbon Exploration and Seismicity) con l’incarico di rispondere ai seguenti quesiti:
“È possibile che la crisi sismica emiliana sia stata innescata dalle ricerche di idrocarburi nel sito di Rivara, effettuate in tempi recenti, in particolare nel caso siano state effettuate indagini conoscitive invasive quali perforazioni profonde, immissione di fluidi ecc.?”
“È possibile che la crisi sismica emiliana sia stata innescata da attività di sfruttamento o di utilizzo di reservoir in tempi recenti e nelle immediate vicinanze della sequenza sismica del 2012?”
La Commissione, insediata il 2 maggio 2013, effettuò sopralluoghi nei luoghi del terremoto e in modo mirato agli impianti del Cavone vicino a Modena. Le risposte vennero rese pubbliche in ottobre 2014, ma anticipate in aprile da Science.
Alla prima domanda la risposta fu: “No”, perché “non era stata concessa alcuna autorizzazione per attività minerarie” e perché “non risulta sia stata effettuata alcuna attività di esplorazione mineraria negli ultimi 30 anni”.
Alla seconda domanda: “Considerando l’attività nei campi di Cavone e Casaglia, le caratteristiche geologico-strutturali e la storia sismica della zona, è molto improbabile che la sequenza sismica dell’Emilia sia stata indotta da attività antropiche”.
Dichiarazione conclusiva: “L’attuale stato delle conoscenze e l’interpretazione di tutte le informazioni raccolte ed elaborate non permettono di escludere, ma nemmeno di provare, la possibilità che le azioni inerenti lo sfruttamento di idrocarburi nella concessione di Mirandola possano avere contribuito a innescare l’attività sismica del 2012 in Emilia. Pertanto sarebbe necessario avere un quadro più completo possibile della dinamica dei fluidi nel serbatoio e nelle rocce circostanti al fine di costruire un modello fisico di supporto all’analisi statistica”.

L’invito della Commissione ICHESE fu raccolto dal Ministero dello Sviluppo Economico, che già nel febbraio 2014 aveva avviato un Gruppo di Lavoro con il compito di tracciare “Indirizzi e linee guida per il monitoraggio della sismicità, delle deformazioni del suolo e delle pressioni di poro nell’ambito delle attività antropiche”; una sintesi fu presentata in novembre:
“Il Gruppo di Lavoro ha affrontato per la prima volta a livello nazionale il tema del monitoraggio delle attività di estrazione, reiniezione e stoccaggio di idrocarburi relativamente alla sismicità”, e messo a punto una appropriata definizione di “sismicità indotta” e “sismicità innescata”.
Sismicità indotta è – nella definizione messa a punto dal Gruppo quella che viene “generata da variazioni del campo di stress attribuibili ad attività antropiche o a fenomeni naturali non legati alla deformazione tettonica della crosta terrestre (es. le precipitazioni atmosferiche)”.
Sismicità innescata è invece “un’attività naturale la cui enucleazione è stata anticipata da attività antropiche e in particolare dalla sismicità indotta”.

Ancora nello stesso anno l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) convocò attorno a un Tavolo di Lavoro lo stesso MISE, il Dipartimento di Protezione Civile (DPC), l’Istituto Nazionale di Geologia e Vulcanologia (INGV), il consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), allo scopo di produrre – come fece poi pubblicando, anch’esso in novembre – un complessivo “Rapporto sullo stato delle conoscenze riguardo alle possibili relazioni tra attività antropiche e sismicità indotta/innescata in Italia”.
In questo rapporto erano indicate alcune aree oggetto di interesse istituzionale in quanto “maggiormente soggette a possibili impatti sulle matrici ambientali”: Pertusillo in Val d’Agri per la grande diga; Collalto in provincia di Treviso per lo stoccaggio di gas; Ferrara, Campi Flegrei, Ischia, area Tosco-Laziale per la geotermia; Adriatico settentrionale e meridionale, Cortemaggiore, alto Lazio, per potenziale confinamento geologico di CO2 . Non solo: il rapporto forniva anche un elenco di quindici casi di terremoto, dei quali otto documentati e sette ipotizzati, come dipendenti da cause antropiche.
In realtà – come segnalano gli estensori del progetto S2 dell’OGS (Peruzza et al. 2015) – “gli eventi sismici avvenuti in Italia e riconosciuti come indotti da attività antropiche sono pochi e non più di una decina i lavori scientifici”; per questo il progetto si propone di “completare la raccolta di informazioni sulla sismicità indotta dalle tecnologie legate allo sfruttamento del sottosuolo per la produzione di energia in Italia e compilazione di una lista di eventi sismici generati dalle medesime attività”, e anche di “rivalutare eventi del passato per stabilire se possono essere stati indotti da attività antropiche.”

In Italia i terremoti di origine antropica ottengono una prima, se non prontissima attestazione, nel 2014. Un passo significativo è compiuto a fine maggio da Marco Mucciarelli, direttore dell’OGS, quando, chiamato a parlare nell’ambito della rassegna ravennate “Fare i conti con l’ambiente”, sezione “emergenze dei sistemi costieri: le problematiche geologiche nelle aree di costa”, titola la sua esposizione “Sismicità indotta, questa grande sconosciuta in Italia”.
«Una caratteristica che rende la sismicità indotta particolarmente insidiosa», ammonì Mucciarelli in quella occasione, «è la possibilità che le scosse si verifichino molto più in prossimità della superficie rispetto a quanto accade con i terremoti tettonici. La minore profondità degli ipocentri ha come conseguenza una maggiore attenuazione allontanandosi dall’epicentro, ma anche maggiori accelerazioni e intensità macrosismiche nelle immediate vicinanze».
E ancora un anno dopo, nel novembre 2015, intervenendo al convegno La sismicità in Basilicata tra percezione e prevenzione del rischio: «La pericolosità sismica derivante da sismicità indotta da attività antropiche non è normata in Italia. La presenza di una notevole sismicità nel nostro paese, da un lato complica il riconoscimento di eventi indotti all’interno di un’attività comunque presente, dall’altro porta necessariamente ad un confronto tra il moto del suolo che ci si può attendere per eventi tettonici e lo scuotimento causato da eventi antropogenetici». A questo secondo proposito è già dirimente il fatto che l’ipocentro sia molto superficiale o invece profondo.

Quest’ultima osservazione appare particolarmente rilevante in relazione alla possibile sismicità antropogenetica nella costa Adriatica. Qui le attività estrattive, segnatamente quelle off-shore, sono presenti da ormai cinquant’anni. Dal 1968 al 2004 sono state impiantate 111 piattaforme, quasi tutte per l’estrazione di metano; a partire poi dal 2014 ad oggi pressoché tutta la costa adriatica è stata consegnata alla esplorazione e allo sfruttamento; parallelamente si registrano nuovi e numerosi eventi sismici concentrati in un lasso di tempo molto ravvicinato: l’INGV per le Marche parla di 86.000 scosse quasi tutte di magnitudo inferiore a 2 negli ultimi 18 mesi; ma le sequenze sismiche nella dorsale appenninica finiscono per assimilare ogni altro possibile movimento tellurico di origine non tettonica.
Non sorprendono, peraltro, il ritardo e il lento procedere delle conoscenze nel nostro paese a fronte delle crescenti convinzioni dei geologi americani e olandesi sul legame tra terremoti ed estrazione di idrocarburi; né sorprende l’assenza di risposte e di adeguamenti normativi da parte dei pubblici decisori in Italia, se anche negli Stati Uniti – secondo quanto conferma ancora nel 2016 Anna Kuchment, collaboratrice di redazione di Scientific American – “le autorità sono lente a reagire”.

Sta di fatto che le procedure concessorie connesse con la compatibilità ambientale non hanno considerato e continuano a non considerare la prospettiva di possibili eventi sismici indotti o innescati dalle operazioni di ricerca e sfruttamento che vanno autorizzando. Questo malgrado nel 2013 già Mucciarelli e Priolo affermassero piuttosto risolutamente che “la valutazione della pericolosità sismica sia naturale che indotta per un’infrastruttura di stoccaggio del gas all’interno di un serbatoio naturale sotterraneo presenta una serie di aspetti non convenzionali che devono essere riconosciuti e ricondotti all’interno di un contesto chiaro, ordinato e condiviso, che lasci il minor spazio possibile alla libera interpretazione del singolo soggetto proponente o valutatore”.
Ormai quasi tutta la costa Adriatica oltre le 12 miglia è campo di ricerca e sfruttamento; a questo si aggiunge a San Benedetto lo stoccaggio ipogeo di gas e a Senigallia il progetto Sibilla volto alla concessione per lo stoccaggio geologico ipomarino di anidride carbonica. Basterà esaminare gli argomenti usati a favore della compatibilità ambientale per formarci un’idea di come si è ragionato e come tuttora si ragiona, e a quanta distanza veleggia questo modo di operare rispetto alla necessità di prevenire o almeno valutare il rischio sismico attraverso procedure standard.
Ecco, in forma di esempio, su quale base la Regione Marche, nel novembre 2012, poteva esprimere parere di compatibilità ambientale alla richiesta di esplorazione finalizzata all’ottenimento della concessione a favore del progetto CCS “Sibilla”:
«In Italia è attivo da decenni l’Istituto di Geofisica e Vulcanologia (INGV), tra i cui compiti istituzionali ricade quello di mappare la pericolosità sismica del territorio, e recentemente anche quello di individuare ed inventariare le faglie attive capaci di generare terremoti significativi (magnitudo superiore a 5). Nell’ultimo decennio, l’INGV ha creato ed aggiornato l’inventario nazionale delle sorgenti sismogenetiche. Il data-base che individua le zone sismogeniche (DISS) è giunto alla terza versione e indica le zone di faglia attiva, per cui è possibile identificare le caratteristiche salienti, come la localizzazione (anche in termini geologici), le faglie conosciute (“sorgenti individuali”, IS) o di cui è possibile attualmente solo indicare l’appartenenza ad un generico gruppo di sorgenti sismogenetiche (“sorgenti composite”, CS) di cui è tuttavia possibile mappare la posizione.
Nessuna sorgente sismogenetica si estende a più di 15-17 km al largo della costa adriatica. Inoltre non è conosciuta nessuna sorgente sismogenetica individuale, né alcuna sorgente composita in corrispondenza della struttura di Cornelia, dove non si è avuta evidenza di movimenti recenti (2 milioni di anni) che dislocano sedimenti o il fondo del mare. Tutti i dati raccolti permettono di affermare che la struttura di Cornelia non è interessata da faglie con apprezzabile carattere sismogenetico».

La Sorgente Senigallia proiettata sulla sezione Alessandra-Orvieto (Bally et al. 1986). Notare l’anticlinale costiero la cui crescita può essere guidata da uno scivolamento sostenuto lungo la faglia inversa cieca “Senigallia” (indicata in corrispondenza della verticale sulla base del grafico con il n. 5). La stessa proiezione è utilizzata pure nel sito https://ingvterremoti.wordpress.com (sequenza-sismica-adriatico-centro-settentrionale) con la didascalia: «Schema interpretativo di una delle linee sismiche attraverso la costa all’altezza del M. Conero. La faglia indicata in rosso è una delle possibili sorgenti sismiche attive nella regione».

Una rapida scorsa ai documenti permissori rende subito conto di un totale difetto del presupposto antropico come causa possibile di incompatibilità. Il reservoir di Sibilla, vasto 214 kmq, si dispone intorno al pozzo Cornelia, scavato nel 1969 e profondo 4 chilometri. Al livello di circa duemila metri il pozzo attraversa una doppia faglia inversa. È attraverso quella che verrebbe iniettata l’anidride carbonica sequestrata nel reservoir. Questa faglia è ritenuta non sismogenetica, ma la sua inerzia non è tutelata rispetto alla doppia ipotesi che lo stesso reservoir venga investito da onde sismiche, o che l’accresciuta pressione possa a sua volta innescare fatti sismici anche a distanza di luogo e di tempo. Sotto questa luce, l’asserzione che “nessuna sorgente sismogenetica si estende a più di 15-17 km al largo della costa adriatica” non ha più molto senso; se poi aggiungiamo che la gran parte delle informazioni sulle quali l’Istituto fonda la sua cartografia proviene da dati esplorativi forniti dalle società interessate allo sfruttamento energetico, si può ben ritenere di essere giunti a un vero e proprio cortocircuito logico e operazionale.
Attualmente il progetto Sibilla è in fase di stallo e, a quanto pare, l’intero programma per le emissioni negative scaturito dalla Conferenza di Parigi COP 21 del 2015 e confermato dalle successive incontra molte delle difficoltà previste.

Ma se questo dunque era il modo di operare in tempi in cui le prime ricerche sulla sismicità potenziale delle attività di estrazione di idrocarburi come pure di quelle di stoccaggio di gas e CO2 – è necessario dire che anche in tempi successivi al 2014, quando ormai gli istituti di ricerca italiani ne avevano confermato l’esistenza e la pericolosità, le sole precondizioni riguardavano l’inattività sismogenetica delle faglie sottostanti, alle quali seguivano prescrizioni all’apparenza severe, ma in realtà blandissime, per monitoraggi privi di reale effettività.
La preoccupazione per la sismicità indotta o innescata, dunque, non ha generato norme ostative intrinseche, ma sistemi di monitoraggio microsismico che operano a posteriori rispetto al procedimento di autorizzazione. Valga come riferimento esemplare il “Decreto di pronuncia di compatibilità del progetto di ampliamento della capacità di stoccaggio” della concessione “Fiume Treste” nel Vastese:

«La rete microsismica dovrà coprire un’area tale da comprendere almeno tutta la proiezione in superficie del giacimento e le stazioni di misura dovranno essere in grado di registrare sismi in un raggio di almeno 5 km dal fondo pozzo. Qualora la sismicità riconducibile alle attività di esercizio dello stoccaggio eguagli o superi la Magnitudo Locale di 2,2, dovranno essere adottati dal soggetto gestore responsabile tutti gli accorgimenti opportuni atti a riportare la Magnitudo Locale massima dei sismi a valori inferiori a tale valore; del problema insorto e di tutte le azioni attivate di conseguenza deve essere fornita ad ISPRA ed agli uffici competenti della Regione (o delle Regioni) interessata/e e dello Stato, i quali dovranno essere indicati nel provvedimento di autorizzazione. Nel caso in cui il monitoraggio microsismico evidenzi microsismicità con Magnitudo Locali superiori a 3 connessa con le attività di stoccaggio, sarà opportuno che il Ministero dello Sviluppo Economico verifichi che venga effettuata l’acquisizione in continuo dei dati di pressione di testa e/o di fondo pozzo in corrispondenza di uno o più pozzi significativi ai fini della valutazione del comportamento dei fluidi e degli eventuali spostamenti dell’acquifero di fondo. Tale operazione potrà essere effettuata attraverso la discesa di memory-gauges nei pozzi ritenuti idonei.»
Analoghe precauzioni seguono l’autorizzazione allo sfruttamento del giacimento di Santa Maria Nuova presso Jesi.

Tutto questo era già stato annunciato proprio dalla “Commissione ICHESE”, la quale, nel Rapporto già citato, riteneva che “utilizzando l’esperienza del mondo e le caratteristiche geologiche e sismotettoniche dell’area in esame”, fosse possibile e opportuno generare «un sistema operativo “a semaforo” e stabilire le soglie tra i diversi livelli di allarme».
A questo punto, però, converrà rammentare che non è compito dello storico esprimere giudizi predittivi sull’efficacia delle attività in essere. Il fiume del racconto finisce e confonde le sue acque con quelle agitate del mare della politica.

 

Fonti

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