A cura della Redazione
In una tavola rotonda virtuale abbiamo cercato di costruire un confronto tra alcuni protagonisti dell’impegno consolidato per la politica nazionale delle aree protette, sottoponendo loro nove domande sui temi dei parchi e di ciò che ruota loro intorno.
Non hanno bisogno di presentazione, tuttavia spendiamo qualche parola perchè tutti abbiano coscienza e conoscenza della loro autorevolezza su questo argomento.
Cominciamo con Giampiero Sammuri (GS), Presidente di Federparchi/Europarc, Associazione che riunisce i responsabili della maggior parte delle aree protette nazionali. Si tratta di 160 organismi di gestione di parchi nazionali e regionali, aree marine protette, riserve naturali regionali e statali.
Gianluigi Ceruti (GC), già Vicepresidente di Italia Nostra, poi parlamentare dei Verdi. È il padre della legge quadro sui parchi e le aree protette, la 394 del dicembre 1999.
Carlo Alberto Graziani (CAG), docente alla Facoltà di Giurisprudenza di Siena e Preside di quella di Macerata, già europarlamentare e Presidente del Parco nazionale dei Monti Sibillini, oggi presiede il Gruppo di San Rossore, Associazione che opera per sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica e degli amministratori nei confronti delle tematiche ambientali, in particolare quelle riferite alle aree protette.
Renzo Moschini (RM) del Gruppo di San Rossore è stato fondatore e Presidente. Ma prima ancora ha fondato Federparchi, oltre a esse stato Presidente della Provincia di Pisa e parlamentare per tre Legislature (1976-1987).
Dunque un parterre di tutto rispetto. Ecco le risposte alle nostre domande.
1. Tempo di anniversari per le aree protette. 150 anni per il decano internazionale, Yellowstone; 100 a dicembre per il nostro primo parco nazionale, il Gran Paradiso, e altrettanti a gennaio del prossimo anno per l’Abruzzo, ora Abruzzo Lazio e Molise. Ma 30 anni li ha anche compiuti, in sordina e senza festeggiamenti, la legge quadro nazionale sui parchi e le aree protette, cercata e inseguita per decenni e giunta in porto al Parlamento nel dicembre 1991 con il numero 394. Probabilmente c’è davvero poco da festeggiare, stante la situazione dei parchi e delle aree protette e della biodiversità nazionale e internazionale. Tutti concentrati su una nebulosa transizione ecologica – tanto invocata quanto poco perseguita – se non nella declinazione energetica e con qualche timido accenno al patrimonio di biodiversità del nostro paese. Come facciamo, nel registrare questa situazione, a introdurre un po’ di ottimismo e di speranza?
GS. Credo che un po’ di ottimismo possa derivare dai numerosi buoni risultati che hanno ottenuti i parchi, soprattutto in quella che è la loro mission principale, ossia la tutela della biodiversità. Basta guardare, ad esempio, la salvaguardia di numerose specie condotta in particolare dai due parchi centenari, il Gran Paradiso e quello d’Abruzzo, Lazio e Molise, che hanno messo in sicurezza lo stambecco, l’orso marsicano e il camoscio appenninico. Ma risultati importanti sono stati ottenuti da molti altri parchi nazionali e regionali, come l’Adamello Brenta, con la reintroduzione dell’orso nell’arco alpino, o il parco della Maremma che, insieme ad altre aree protette, ha consentito la reintroduzione del falco pescatore. Pensiamo inoltre alla salvaguardia di piante e altre specie vegetali rare e delicate, come il pino loricato del parco del Pollino o tante altre piante endemiche. Possiamo quindi affermare che, nonostante le difficoltà, i parchi nella loro mission primaria, quella della tutela della biodiversità, hanno ottenuto risultati significativi, anche grazie l’entusiasmo e alla competenza di quanti operano nelle aree protette.
GC. Certamente la transizione ecologica è più invocata che perseguita perché il Presidente del Consiglio (per certi aspetti dotato di eccezionali qualità e di esperienza) e il Ministro preposto alla cosiddetta transizione dimostrano di non avere sensibilità ambientale e credono di poter affrontare ogni problematica con il ricorso alla tecnologia. Certamente la tecnologia, se avanzata, può annullare l'inquinamento ove applicata alla fonte di una industria insalubre: in altre parole può essere efficace in taluni casi, ma non costituire il taumaturgico rimedio in ogni situazione. Il Ministro attuale deve sapere che talvolta bisogna ricorrere ai divieti come accade in ogni Paese avanzato.
CAG. È vero, la situazione attuale dei parchi, delle altre aree protette, della biodiversità nazionale e internazionale – cioè la situazione in cui oggi versa la natura nel mondo – non sembra poter indurre all’ottimismo. I dati che appaiono continuamente sulla stampa specializzata, ma anche quelli che leggiamo sempre più spesso sui mezzi di comunicazione di massa, ci mostrano la drammaticità del momento. Nel rispondere alla domanda, però, mi limito alla mia esperienza specifica, che è quella di chi da oltre cinquanta anni affronta questioni che riguardano i parchi e le altre aree protette, soprattutto italiane, dal punto di vista della gestione nei suoi aspetti concreti e teorici. Anche da questo punto di vista non possiamo avere motivi per essere ottimisti. Indico in maniera necessariamente sintetica quelle che mi sembrano le cause principali di una situazione molto critica:
a) le istituzioni – dal Ministero della transizione ecologica (anche quando si chiamava Ministero dell’Ambiente) a gran parte degli Assessorati Regionali all’Ambiente – hanno di fatto, e da tempo, rinunciato a prendere in effettiva considerazione i problemi della conservazione della natura;
b) nel dibattito della cosiddetta politica, cioè dei partiti, la natura è completamente assente. Sarebbe interessante verificare se e quale posto essa occupa nell’attuale campagna elettorale: certamente non è sufficiente lo scontato riferimento alla centralità della questione ecologica che, proprio per la sua genericità, è presente in tutti i programmi;
c) le Associazioni di protezione ambientale, anche quelle tradizionalmente più impegnate nella difesa della natura, dimostrano un forte disorientamento, che oggi le rende deboli e per di più incapaci di essere unitarie sulle questioni fondamentali;
d) Federparchi è sempre meno in grado di svolgere quel ruolo di riferimento generale che le competerebbe;
e) il sistema delle comunicazioni, tranne qualche rarissima eccezione, tratta i parchi e, in generale le aree protette, in maniera molto superficiale e spesso distorta.
È significativo quanto è accaduto e sta avvenendo in occasione dei 30 anni della legge quadro (dicembre 2021) e dei 100 anni dei primi parchi italiani (Gran Paradiso dicembre 2022, Abruzzo gennaio 2023). Nessuna seria analisi nel primo caso, a conferma di una profonda involuzione: dal fervore iniziale alla chiusura burocratica di oggi. Scontati e fortemente e autoreferenziali i festeggiamenti nel secondo caso, dove solo la riflessione storica apre squarci di luce (vedi il recentissimo libro di Luigi Piccioni Cento anni di parchi. Scritti sulla storia delle aree protette, ed. Università di Camerino).
Anche su questo specifico fronte dunque dilaga il pessimismo? A coltivare la speranza che si possa uscire da una crisi comunque profonda vi sono a mio avviso due elementi. Innanzi tutto l’esistenza di persone che, malgrado tutto, si adoperano con concretezza e coraggio, singolarmente o in gruppo, per salvare lembi di natura e nello stesso tempo per testimoniare alcuni principi fondamentali che sono proprio quelli contenuti nell’art. 9 della Costituzione. Si tratta di un fenomeno molto interessante per l’originalità e l’innovatività e anche per l’entusiasmo, la forza e la costanza dei protagonisti, quasi sempre donne: un fenomeno che si va diffondendo nel nostro Paese, ma che purtroppo presenta una sua debolezza strutturale data dal fatto che sia i singoli sia i gruppi si muovono isolatamente e i pochi tentativi di costruire reti e movimenti vengono strumentalizzati da forze esterne. Di qui la difficoltà di incidere sul piano politico e su quello della comunicazione. L’altro elemento di ottimismo lo traggo dal fatto che il grande movimento giovanile sviluppatosi in questi ultimi anni a livello internazionale, e anche italiano, continua a essere vivo e vitale, come ha dimostrato, tra le altre iniziative, il “Climate Social Camp” che si è svolto di recente a Torino: una nuova generazione reclama il diritto al futuro e chiede una vera transizione ecologica che esige un’inversione radicale di rotta prima che sia troppo tardi. Questo movimento non ha incontrato ancora la tematica delle aree protette e in particolare dei parchi, ma manifesta un forte desiderio di vivere la natura nella sua pienezza. Perciò l’obiettivo che il mondo dei parchi deve porsi è quello di individuare adeguati strumenti di comunicazione e innanzitutto quello di aprirsi a nuove idee e a nuove visioni che consentano di costruire rapporti con questo movimento. Grande è la difficoltà, anche perché a occupare la scena dei parchi, sia nei ruoli apicali sia nei dibattiti sempre più stanchi, sono solo maschi disorientati e nello stesso tempo incapaci di dare spazio alle donne che, benché silenti, sono le protagoniste delle esperienze più interessanti e innovative che si svolgono sul campo e proprio per questo in grado di cogliere la vera essenza dei parchi e la loro importanza fondamentale. Ma vorrei andare oltre perché penso occorra guardare a tutta la natura e che l’obiettivo fondamentale sia, oggi soprattutto, la cura della terra nella sua complessità. È questo del resto quanto ci indica con grande chiarezza la nostra Costituzione, quando, con l’art. 9, modificato all’inizio di quest’anno, fa riferimento alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi: la natura – ci dice – non ha confini e quindi può essere salvata, “anche nell’interesse delle future generazioni”, solo se si cura il territorio nella sua unitarietà.
E allora qual è il ruolo dei parchi e in generale delle aree protette?
La Carta di Fontecchio – presentata nel 2016 da molte delle più importanti Associazioni ambientaliste italiane – offre alcune indicazioni fondamentali. Soprattutto i parchi, che sono le aree protette più complesse e importanti, devono potenziare la loro funzione tradizionale di baluardo fondamentale di conservazione, in quanto sono eccezionali serbatoi di biodiversità, ricchi di paesaggi, di testimonianze storiche e artistiche, di bellezza; ma nello stesso tempo debbono porsi come veri e propri modelli di uno sviluppo effettivamente sostenibile: modelli ricchi di sfaccettature, articolati, non interpretabili in senso esclusivamente economico perché basati su un intreccio virtuoso tra partecipazione democratica, conoscenza scientifica dei problemi, rapporto profondo tra le persone e la natura, tensione verso la bellezza.
Mi permetto di riportare un passo particolarmente significativo della Carta sulla missione attuale delle aree protette: «Le aree protette indicano concretamente come la tutela del patrimonio naturale e di quello culturale sia un’opportunità straordinaria per il genere umano e non una spesa improduttiva: se questo segnale non è stato generalmente accolto fino a oggi è perché la società e coloro che ci amministrano nel suo insieme non hanno saputo investire energie, progettualità e risorse in tale direzione, accecati dai miti illusori di un progresso fondato solo sulla crescita dei consumi, svincolata da ogni altro valore. Le aree naturali protette sono grandi serbatoi di biodiversità che contribuiscono in maniera determinante ad arrestarne la diminuzione. Ma esse contengono e proteggono anche le tracce preziose e decifrabili delle vicende (pastorali, agricole, artigianali, insediative) della cultura e della creatività umana, altrove quasi completamente scomparse o alterate. Tracce che permettono di individuare i variegati e segreti alberi genealogici delle comunità e di impedire il pericolo delle fratture generazionali. Le grandi e piccole aree naturali protette sono altresì luoghi particolarmente idonei per scoprire, o riscoprire, il significato autentico del rapporto con la natura, per appagare l’aspirazione alla bellezza, per promuovere i valori che rendono armoniosa la vita delle persone: la sobrietà e il risparmio, il cammino e il silenzio, l’osservazione e i liberi orizzonti, il senso della comunità e le sinergie. Nelle aree protette grande è la possibilità di cogliere il senso profondo della natura che non conosce barriere fisiche e proprio per questo è in grado di abbattere le barriere esistenziali, sociali, geopolitiche che dividono l’umanità. Così i sistemi e le reti diventano strumenti in grado di salvaguardare, con la natura, i diritti delle persone, a partire dall’inclusione dei più deboli e degli emarginati, e i diritti dei popoli, a partire dalla pace tra le nazioni e dalla collaborazione tra gli stati».
Le aree protette non sono isole: sono veri e propri laboratori in grado di indicare soluzioni che valgono ben oltre i loro confini: perciò hanno un valore generale e assolvono a un ruolo fondamentale.
RM. È stato sempre difficile ricondurre le politiche ambientali ad un contesto nazionale, dove si potessero coinvolgere Parlamento, Regioni Speciali e Ordinarie, Enti locali (Comuni e Province).
Personalmente ricordo le vicende del Parco d’Abruzzo e del suo direttore, che tennero banco per lunghi periodi senza scomodare la politica.
I non molti appuntamenti politici nazionali infatti non ebbero vita facile, a partire dalle conferenze nazionali. Neppure l’approvazione della Legge quadro del 1991 aprì la strada alle aree protette marine, che stanno ancora faticando. Anche i parchi regionali, dopo un primo periodo di grande vivacità, immediatamente successivo all’istituzione delle Regioni a Statuto ordinario, con l’approvazione della legge quadro sulle aree protette segnarono una battuta di arresto. In particolare, risultarono mortificate le Regioni che più si erano distinte nella politica delle aree protette regionali. Ne so qualcosa essendomi occupato per anni del Parco di Migliarino San Rossore Massaciuccoli in Toscana. Qui ci sono vicende ancora aperte, quali la base militare a Coltano. Ma la stessa siccità, che sta attanagliando la penisola e non solo, con il riscaldamento del clima ripropone la necessità di un raccordo delle politiche territoriali, dove Parchi e aree protette terrestri, marine e fluviali hanno un ruolo decisivo.
La vicenda delle Province non può essere dimenticata, per i guai e i danni che ha provocato. Su questo tema la storia è lunga, quando prese avvio in Parlamento negli anno ‘70ed ’80, io mi opposi, anche come rappresentante del PCI nell’UPI e con Marisa Rodano, allora Presidente della Provincia di Roma, andammo a protestare anche dal Presidente del Repubblica che ci ricevette. Anche questo rimane un problema irrisolto nonostante il Parlamento abbia ritoccato alcune norme. Occorre ora ritornare ad una politica che sappia guardare al medio e lungo periodo per trovare la strada per affrontare le molteplici situazioni che ora chiedono urgenza di risoluzione.
2. Se trasferiamo la nostra attenzione dalla terra al mare le tinte si offuscano ancora di più, tranne lodevoli ma sparuti esempi. Le nostre acque sono sempre più impoverite da attività di sfruttamento tutt’altro che compatibili e sostenibili. L’industria della pesca declina le solite ragioni del profitto, con l’aggravante che si nutre di beni comuni cui attinge liberamente senza alcun investimento e solo con l’onere della raccolta. In più inquina, lascia reti a mare che compromettono l’ecosistema...
Non sarebbe il caso di arrivare a una disciplina più stringente che richiami i pescatori alle loro responsabilità?
GS. Non penso che la pesca sia il principale problema che ha oggi il mare. Credo che le minacce più gravi siano l’inquinamento da plastica e microplastiche nonché quello dell’innalzamento delle temperature, che altera le condizioni delle acque e incide profondamente sulla biodiversità marina. È comunque vero che ci sono dei casi di pesca illegale, che devono essere perseguiti con azioni incisive, anche perché vanno a ledere gli interessi di quanti svolgono l’attività di pesca nel rispetto delle regole. Bisogna essere più incisivi sia nei controlli che, soprattutto, nelle sanzioni. Con il costo a cui è arrivato il pesce, le sanzioni hanno quasi perso il loro valore di deterrenza.
GC. Tutti gli utenti del mare, a cominciare dai pescatori, debbono essere abituati, sin dall'inizio della loro esperienza di vita e di lavoro, ad usare forme di autodisciplina, ma il legislatore deve prevedere anche inosservanze e, quindi, stabilire sanzioni dissuasive. La pesca, in questo momento, ha bisogno anche di sostegni finanziari.
CAG. Quando prima ho fatto riferimento ai parchi e alle aree protette non ho distinto tra terra e mare, anche se devo riconoscere che generalmente quando si dibatte su conservazione della natura, su parchi e su aree protette si guarda soprattutto alla terra: così le aree marine protette finiscono per restare al margine dell’attenzione. È questo un limite molto grave che contribuisce in misura non marginale a rendere più debole la tutela. Faccio un esempio che mi sembra significativo: quando ci preoccupiamo per le sofferenze degli animali non pensiamo anche agli animali del mare, con la conseguenza, tra l’altro, che l’industria della pesca continua, tranne che in casi eclatanti, a operare pressoché indisturbata.
A parte questo esempio, è vero che lo sfruttamento del mare – sia delle acque sia dei suoi viventi – è sempre più intenso e drammatico, a causa di quelle tecnologie sempre più sofisticate che non significano necessariamente progresso e a causa della complessità dei problemi politico-istituzionali che il mare solleva, con la conseguenza che deboli sono le tutele, malgrado gli sforzi da parte di molte istituzioni nazionali e internazionali. Se lo sfruttamento impoverisce mare e terra, è nel mare che l’attacco ai beni comuni da parte delle attività antropiche diventa dominante: si pensi all’intero settore della pesca e a quello delle concessioni che riguardano gran parte del demanio marittimo. Si tratta di un fenomeno così esteso che può apparire normale, tale da giustificare la feroce opposizione alla necessaria riforma delle concessioni balneari.
In via generale ritengo che proprio la riflessione sui beni comuni può aiutarci ad affrontare il delicatissimo problema, partendo dal principio contenuto nella nota definizione di Stefano Rodotà (sono comuni quei beni “che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” e che “devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico anche a beneficio delle generazioni future”) e sottolineando come per la concreta attuazione di questo principio, non ancora espressamente codificato, occorra un forte impegno da parte di chi opera per tutelare gli interessi generali. Il diritto alla natura è un diritto fondamentale, ora confermato dall’art. 9 della Costituzione, e quindi i beni funzionali all’esercizio di questo diritto, e perciò al godimento della natura, sono comuni. Le acque del mare sono bene comune proprio perché non sono solo produttive, ma costituiscono un elemento di conservazione della biodiversità, di contrasto all’effetto serra, di fornitore di ossigeno fonte di vita.
È questa la strada che il movimento ambientalista oggi deve percorrere e su questa strada le aree marine protette hanno un ruolo fondamentale.
RM. Nella società occidentale negli ultimi decenni è stato accettato, in maniera eccessivamente acritica, il concetto che il bene della società si raggiunge attraverso la libera concorrenza, cui non devono essere posti limiti di alcun tipo. Non vorrei ora soffermarmi sulle conseguenze, oggi sotto gli occhi di tutti, di quello che ciò ha portato in termini sociali e di svilimento e svuotamento della democrazia, sempre più ridotta ad un aspetto formale che nasconde il vero concentrarsi nel potere nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di persone, e che trova un indice inconfutabile nella percentuale sempre più bassa di coloro che partecipano alle votazioni, ma analizzare le conseguenze sull’ambiente, in particolare su quello marino. Infatti l’attività di pesca condotta in modo “industriale” dalle grandi compagnie ha come finalità il profitto, per massimizzare il quale si ignorano completamente le esigenze del mare e di chi in esso vive. Tale situazione ha raggiunto livelli tali che una parte degli stessi imprenditori si sta ponendo il problema della permanenza della risorsa ittica. Purtroppo le attività di pesca artigianali stanno seguendo gli stessi modelli di profitto e spesso operano, nel piccolo, con logiche ancora più distruttive. In questo quadro non è più prorogabile il rinvio di una seria politica internazionale di tutela dell’habitat marino e delle specie che in esso vivono, ponendo regole stringenti per l’attività di pesca e tutelando la piccola pesca che ancora molte popolazioni attuano come elemento di sostentamento, legata ad una tradizione che da sempre ha mantenuto l’attenzione e il rispetto per il mare e le specie che in esso vivono.
3. Il mare va tutelato per le risorse che spontaneamente può fornire ma che non possono esser razziate senza riguardo. Non vanno solo sfruttate ma coltivate. Ciò che può accadere solo con una sensibilizzazione generale sull’importanza delle acque libere come elemento non solo produttivi ma di conservazione della biodiversità ,di contrasto all’effetto serra, di fornitore di ossigeno fonte di vita. Le aree marine protette che ruolo possono svolgere e come possiamo chiedere siano rafforzate per quantità, qualità ed efficacia?
GS. Le Aree Marine Protette possono svolgere un ruolo molto importante, non tanto per la loro estensione, che è abbastanza limitata, ma per il ruolo di educazione e di diffusione di una cultura del mare attraverso comportamenti virtuosi. In ogni caso ricordiamo che le Direttive Europee dicono che bisogna arrivare al 30% di superficie marina protetta entro il 2030. Purtroppo le AMP sono le figlie povere del sistema dei parchi che fanno capo al Ministero. I parchi nazionali fruiscono di finanziamenti adeguati mentre le Aree Marine hanno dispongono di poche risorse, sia finanziarie che umane, e quindi abbiano grosse difficoltà nella gestione; nonostante queste difficoltà spesso svolgono azioni di eccellenza per quanto riguarda la tutela della biodiversità.
GC. L'attuale Ministro della Transizione Ecologica pensi ad attuare integralmente la legge 394/1991 istituendo le aree protette marine ancora sulla carta. Se correttamente gestite, esse possono esercitare un ruolo fondamentale nell'assicurare la protezione della fauna e preservare le acque per il richiamo del turismo nelle zone preposte nei pressi delle riserve marine. La salvaguardia ambientale ha anche ricadute economiche e sociali positive.
CAG. In Italia le AMP costituiscono, almeno potenzialmente, un fondamentale asse portante della protezione della natura, al pari dei parchi e delle riserve naturali. Sono però, tra le varie aree protette, quelle che hanno incontrato maggiori difficoltà, per la limitatezza delle risorse umane e finanziarie, per la complessità e la problematicità della gestione, per la forza degli interessi contrari alla conservazione, per gli ostacoli burocratici che si frappongono all’azione dei gestori, ma anche perché non sono stati risolti – e forse mai adeguatamente affrontati – i problemi di fondo che riguardano i rapporti tra aree protette di terra e aree protette di mare: l’estraneità delle AMP rispetto a molti degli Istituti contemplati dalla legge quadro sulle aree protette (legge 394 del 1991) costituisce il principale problema irrisolto.
Alla luce delle riflessioni di chi ha esperienza e competenza dirette in questo settore – mi riferisco in particolare a Fabio Vallarola – ritengo che occorra riconsiderare la classificazione generale delle aree protette sotto un duplice aspetto:
a) introdurre la figura del parco (nazionale e regionale) con estensione a mare e conseguentemente modificare il secondo comma dell’art. 19 della legge 394, secondo cui la gestione di un’AMP confinante con un parco viene attribuita al gestore del parco: quando un parco confina con un’area protetta di mare si deve invece procedere alla loro trasformazione in un’unica area protetta (rientrante appunto nella categoria dei parchi con estensione a mare);
b) distinguere, sul modello della distinzione tra parchi e riserve naturali, tra aree protette di mare più complesse, con diverse destinazioni d’uso, e aree più semplici, con esclusiva o prevalente destinazione a riserva integrale: le prime dovrebbero essere equiparate ai parchi nazionali per quanto riguarda, in particolare, l’autonomia e perciò dovrebbe essere previsto un soggetto gestore equiparabile all’Ente Parco; per le aree più semplici (destinate a riserva integrale) dovrebbe essere conservata l’attuale diversificazione di soggetti gestori, come del resto avviene attualmente per le riserve naturali. In questo quadro le AMP possono, al pari dei parchi, costituire un grande ed efficace laboratorio di esperienze diversificate e diventare un vero modello di gestione del mare.
RM. Le Aree Protette Marine sono state istituite per tutelare ambienti marini particolarmente ricchi di biodiversità, che spesso rischiavano di scomparire di fronte alla scarsa attenzione delle attività antropiche a tali ricchezze. Ma se osserviamo il numero e l’estensione di tali aree comprendiamo subito che, fatto salva un’azione puntuale comunque necessaria, la salvaguardia che le AMP possono attuare nei confronti della biodiversità non ha un peso effettivo di protezione. Se poi analizziamo l’organizzazione prevista dalla normativa italiana per la gestione di tale aree non possiamo non evidenziare la fragilità del sistema. Infatti, la struttura organizzativa non è definita a livello nazionale, ma è demandata a ciascun Ente di Gestione, ma i finanziamenti statali non possono essere utilizzati per gli stipendi dei dipendenti. Importante il ruolo educativo che in questi anni hanno svolto le aree marine protette, pur dovendo fare i conti continuamente con la fragilità che caratterizza le strutture. Occorre quindi superare le difficoltà derivanti da un sostanziale disinteresse dello stato per l’organizzazione delle AMP, dando modelli utili per la loro organizzazione, prevedere finanziamenti adeguati, allineando le modalità di rapportarsi e di finanziare tali aree alla stessa stregua dei parchi nazionali. Infatti oggi i finanziamenti dedicati alle AMP sono notevolmente inferiori a quelli per i parchi nazionali e tali finanziamenti non possono essere utilizzati per il costo del personale. Si capisce perciò che la struttura delle AMP è fortemente condizionata dal soggetto o dai soggetti gestori, che a differenza dei parchi, non è un soggetto autonomo, ma un soggetto esistente o un consorzio di soggetti esistenti sul territorio. Inoltre la politica nazionale delle AMP va inserita in una programmazione seria di difesa della biodiversità marina.
4. La legge quadro ha avuto modifiche infilate in vari provvedimenti omnibus per iniziativa governativa, sollecitata da interessi diversificati. Perchè non si torna a discutere con un dibattito serio, scientificamente e amministrativamente fondato? Intanto per capire come mai alcune sue parti fondanti e fondamentali sono state via via dimenticate o addirittura surrettiziamente stralciate anche con il silenzio del mondo degli amministratori della aree protette e la distrazione di parte del movimento ambientalista....
GS. Nella scorsa legislatura abbiamo provato ad aprire un dibattito, ma non si è sviluppato un confronto che tenesse presente le esigenze di chi, in prima persona, è chiamato a gestire le aree protette. Purtroppo ci si è divisi sugli slogan e su temi di bandiera, senza approfondire i nodi reali. Uno dei punti di maggiore contrapposizione è stato quello relativo all’abolizione dell’albo dei direttori, che pure non mi sembrava una questione centrale della legge istitutiva dei parchi. Si voleva riportare la scelta della figura del direttore alle modalità standard di tutta la Pubblica amministrazione, invece c’è stata una levata di scudi preconcetta che ha bloccato tutto. Adesso non ci sono le condizioni per una riforma organica, assistiamo, soprattutto con la legislazione di emergenza, prima per il Covid e ora per gli effetti della guerra, ad una serie di provvedimenti inseriti in decreti legge di varia natura dove troviamo alcune norme per i parchi, a volte sconclusionate e dannose, a volte utili e migliorative per la governance. Il tutto comunque senza alcun confronto con chi gestisce le aree naturali protette.
GC. Uno degli sport più praticati in Italia è quello di fare a gara per peggiorare la legge 394/1991. Il "dibattito serio, scientificamente e amministrativamente fondato" presuppone una diffusa educazione ambientale che, secondo me, oggi manca nella società italiana e quindi, anche negli amministratori pubblici, anche perché i programmi scolastici continuano ad ignorare i principi fondamentali del civile rispetto dell'ambiente, che è la casa di tutti. Che cosa aspettano i ministri della transizione ecologica e dell'istruzione ad istituire d'intesa, ad esempio, le "settimane verdi" nei Parchi per le scolaresche, come già invocava alcuni decenni fa Renzo Videsott? In mancanza, le benemerite associazioni come Pro Natura sono chiamate a svolgere necessariamente funzioni di supplenza.
CAG. Ho parlato prima di un dibattito su questi temi che si è trascinato sempre più stancamente: un dibattito, aggiungo, che ha tradito la tensione originaria contenuta nel libro di Giacomini e Romani, Uomini e parchi (v. l’edizione aggiornata a cura di Valter Giuliano, 2005, Franco Angeli ed.) al quale tutti dicono di ispirarsi, anche se non tutti l’hanno letto. È come se la lotta alla “legge sfasciaparchi” – cioè a quell’insieme di proposte di legge che nelle scorse due ultime legislature ha tentato, non riuscendovi, di smantellare alcuni dei punti più importanti della legge 394 – avesse stancato sia chi difendeva la legge, sia chi cospargeva di mine il suo cammino. A quella lotta che ha dato vita al Gruppo dei 30, al quale fanno oggi riferimento tanti operatori di aree protette e tante persone comunque a esse interessate, deve subentrare una nuova fase, consistente in una riflessione e in un confronto aperti, e soprattutto non ideologici, sulle questioni poste in questa domanda.
RM. La legge quadro sulle aree protette è nata in un momento di forte rilancio della politica ambientale e di forte partecipazione popolare. La legge ha scelto che alla guida dei parchi fossero insediati organi politici, per poter meglio calibrare le scelte sulle necessità e le caratteristiche dei singoli territori. Inoltre, alcuni aspetti innovativi contenuti nella legge programmavano una diversa organizzazione della tutela della diversità e dell’ambiente per tali aree, rispetto a quanto era maturato positivamente sino a quel momento. Un modello ,questo, fatto proprio dagli Stati mediterranei europei, ma diverso da quello dei paesi nordici, che hanno organizzato i parchi come “uffici operativi” del Ministero dell’Ambiente, quindi con una direzione politica centralizzata. Due modelli diversi, ma che si basano su situazioni e condizioni diverse. Una riflessione seria su tali modelli, e in generale sulla legge quadro, credo sia importante e penso che la sede naturale sia all’interno della conferenza nazionale delle aree protette, da me, e non solo da me, inutilmente, più volte auspicata e sollecitata, anche con lettere al Ministro
Sulla mancata attuazione di parti significative della legge 394/1991 vorrei ricordare, a titolo di esempio, la questione delle riserve naturali dello Stato, che avrebbero dovute essere gestite dagli Enti Parco. Su questo punto ci fu un grosso impegno di Federparchi, poi vanificato dalla opposizione dei gestori, fatto salvo poi, da parte degli stessi gestori, invocare sostegni economici ai relativi Enti Parco.
Inoltre, la legge quadro è stata emanata in un momento in cui c’era una forte spinta partecipativa da parte degli Enti locali, delle Associazioni e della popolazione. Gli organi erano stati pensati per permettere la più ampia partecipazione e condivisione nella gestione. Ma con il tempo alcune cose sono cambiate. Ad esempio, oggi alcuni parchi hanno difficoltà a convocare organi quali la Comunità del Parco per la rigidità delle norme e, in alcuni casi, il gran numero di partecipanti che rende difficile organizzare sedute con il raggiungimento del numero legale.
Credo sia urgente un serio momento di riflessione sulla legge quadro, e questo non può che avvenire coinvolgendo tutti i soggetti interessanti all’interno di una nuova conferenza nazionale sulle aree protette, per rilanciare una politica nazionale dei parchi e delle aree protette, accantonando la riduzione che ne è stata fatta, in cui il Ministero ha attuato solo una politica dei parchi nazionali.
5. Il rappresentante degli ambientalisti nel Consiglio direttivo del Parco Nazionale Gran Paradiso ha proposto di individuare una “montagna sacra” all’interno dell’area protetta, invitando ad astenersi dal raggiungerne la cima come atto simbolico di rispetto e di senso del limite. Un’azione paradigmatica da introdurre proprio per sottolineare, nel centenario dell’area protetta, la necessità della rinuncia e del senso del limite come elementi essenziali per mutare davvero l’atteggiamento degli umani nei confronti del pianeta, via maestra per salvare la nostra specie. Non sarebbe stato opportuno rivendicare anche qualche atto concreto di tutela? Ad esempio chiedendo a TERNA, che lo sta già facendo in alcuni territori, di valutare la possibilità di interrare l’elettrodotto internazionale ad alta tensione nel tratto in cui attraversa il pianoro del Nivolet, cuore del parco? Tra l’altro una straordinaria occasione di promozione pubblicitaria...
O qualcos’altro in grado di lasciare concretezza?
GS. Sulla “montagna sacra” non colgo in pieno il senso della proposta. Nei parchi c’è la zonazione, nelle zone A, quelle di riserva integrale, non si può accedere se non per fini scientifici. Più che un gesto simbolico sono orientato a intervenire in base alle esigenze di tutela della biodiversità. Nessun problema a chiudere l’accesso a determinate aree per proteggere una specie animale o vegetale. Personalmente l’ho fatto molte volte, ultimamente per la tutela della foca monaca o del falco pescatore. Proprio nel parco del Gran Paradiso, nel periodo di nidificazione del gipeto, non si possono svolgere scalate sulle cascate di ghiaccio nei pressi dei nidi. Quindi un parco deve scegliere con oculatezza e solo per motivi di tutela in quali punti interdire alla fruizione. Mi sembra importante intervenire sugli elettrodotti, anche se le linee elettriche che andrebbero isolate o interrate per prime sono quelle a media e bassa tensione. Queste, al contrario dell’alta tensione, hanno i fili abbastanza vicini e sono spesso una trappola per uccelli con ampia apertura alare che muoiono per elettrocuzione. Le linee di alta tensione, invece, hanno i cavi più distanziati e incidenti del genere non si possono verificare. In alcune aree sorvolate dal capovaccaio, ad esempio, si sono svolti interventi di messa in sicurezza degli elettrodotti grazie al progetto Life Eyptian Vulture, al quale ha partecipato anche Federparchi.
GC. Nel Centenario del Parco Nazionale del Gran Paradiso mi trovano perfettamente d'accordo le considerazioni e le proposte che la domanda pone.
CAG. Conosco bene la proposta di Toni Farina per il centenario dell’istituzione del Parco nazionale del Gran Paradiso, del quale è attualmente apprezzato consigliere. La proposta ha sollevato un interessante dibattito sul concetto di limite in montagna, soprattutto all’interno di Mountain Wilderness (v. il relativo sito). Anche io sono intervenuto per sottolineare un aspetto che non mi sembrava emergere dal dibattito: sul piano logico assegnare la qualifica sacrale a una montagna specifica significa escludere la sacralità per tutte le altre montagne; se soltanto una montagna è sacra, tutte le altre, inequivocabilmente, non lo sono e perciò possono essere violate da chi per qualsiasi finalità – sincera passione, affermazione dell’ego o avida speculazione – intende affrontarle in piena libertà, senza limiti. Vi sono poi altri aspetti da considerare e in particolare quello secondo cui questa visione elitaria, puntiforme, legata cioè alla scelta di un’unica montagna come sacra, contraddice la visione olistica che oggi emerge nella riflessione più approfondita intorno alla grande questione della conservazione e che, come abbiamo visto, è recepita dalla Carta di Fontecchio (per salvare il pianeta occorre “tutelare la natura nella sua totalità”). Avevo quindi proposto di scegliere una montagna non per attribuire solo a essa la qualifica, ma per farne il simbolo della sacralità di tutte le montagne e avevo suggerito – dal momento che il centenario riguardava anche il Parco nazionale d’Abruzzo – di scegliere come simbolo per questo parco il Balzo della Chiesa, montagna che si erge al centro della catena delle Camosciare, non solo per il suo nome, ma soprattutto per la sua bellezza e imponenza.
Comunque, al di là di questo dibattito e dell’uso del termine “sacro”, forse troppo enfatico per la nostra cultura, è giusto quanto la domanda propone: celebrare il Centenario con un atto concreto di tutela, ad esempio interrare l’elettrodotto internazionale ad alta tensione nel tratto in cui attraversa il pianoro del Nivolet, cuore del Parco del Gran Paradiso.
Non so se questa bellissima proposta avrà seguito. So invece, e ne sono costernato, che l’attuale gestione del Parco d’Abruzzo, Lazio e Molise celebra il centenario di questo Parco, famoso anche per avere tutelato rigorosamente i suoi boschi negli ultimi 50 anni, aggredendo la Pineta di Villetta Barrea (rinomata internazionalmente per il suo Pinus nigra) con la pretestuosa giustificazione della sicurezza contro gli incendi e ponendo al centro della sua politica di gestione forestale non già la conservazione, gli equilibri ecologici e idrogeologici, il paesaggio, ma l’utilizzazione produttiva, cioè il taglio a fini commerciali.
A questo attacco scandaloso alla conservazione della natura, portato avanti nel più assoluto (almeno finora) silenzio ministeriale, occorre reagire con immediatezza e con forza, anche perché esso non è isolato, ma rischia, per l’importanza del Parco, di costituire un ballon d’essai per diffondere negli altri parchi e nei boschi più belli del resto del territorio la logica produttivistica del Testo unico in materia di foreste e filiere forestali (Tuff) emanato nel 2018. A tal fine a Villetta Barrea è stato costituito il Comitato civico per la difesa della Pineta (tel. 338 733 5978), cui aderiscono cittadini, amici della pineta, importanti botanici e zoologi: è anche l’occasione per verificare la capacità e la volontà delle Associazioni di affrontare unite un problema che per la conservazione è strategico.
RM. In questi anni abbiamo registrato nei nostri parchi una molteplicità di proposte e di iniziative lodevoli ed apprezzabili. I parchi non sono stati immobili, anche in una situazione generale che li ha sempre più marginalizzati. Questa proposta, sicuramente provocatoria, è comunque interessante, perché pone all’attenzione di tutti alcuni elementi. Il primo è che la finalità del parco è la conservazione della natura e questa può richiedere anche limitazioni al libero agire dell’uomo, non per il gusto di imporre limiti, ma per la necessità di preservare un bene, il patrimonio naturale, essenziale per la stessa sopravvivenza dell’uomo. Il secondo è che la transizione ecologica non ha i territori dei parchi come aree di sperimentazione, ma come modelli di equilibrio tra lo sviluppo dell’uomo e la natura. Non sono un punto di partenza per trovare soluzioni innovative più ecocompatibili, ma il punto di arrivo dell’equilibrio necessario per mantenere un ambiente adeguato alla stessa sopravvivenza dell’uomo. Terzo: il limite è connaturato con la vita dell’uomo, pur nel tentativo e nella ricerca di nuovi equilibri. Non è una invenzione di qualche appassionato della natura, ma è la condizione storica della vita umana, e il tentativo e la ricerca di spostarlo non sono nella vana illusione del suo annullamento, ma nella ricerca di nuovi e più avanzati equilibri. Ma, come dicevo, i parchi in questi anni hanno operato anche con iniziative e proposte molto interessanti e di alto livello. È mancato però un raccordo e una valorizzazione di tali iniziative, nonostante gli sforzi dei soggetti gestori e spesso degli uffici regionali e ministeriali preposti alle aree protette, perché le priorità politiche del nostro paese sono state altre e queste iniziative sono state relegate come elementi marginali e del tutto ininfluenti rispetto alle necessità del paese.
6. Parchi regionali. Allo sbando, ovunque. Nacquero nel momento in cui le Regioni seppero superare lo stallo nazionale nella politica della tutela dei territori ad alta qualità ambientale, riserve di biodiversità. La fotografia dell’oggi ci consegna un’iniziativa regionale nel migliore dei casi indifferente, per lo più intollerante quando non ostile. Il rischio è che i parchi regionali siano lasciati morire di inedia, decostruendo un contributo indispensabile alla tutela della biodiversità non solo nazionale ma europea. Quali leve per rilanciarli?
GS. I parchi nazionali hanno mantenuto ed anche incrementato i fondi disponibili, per i parchi regionali è stato il contrario, in maniera generalizzata. La tendenza è quella di una diminuzione delle risorse, sia economiche che umane, ed è un grave errore perché i parchi regionali, per estensione, pareggiano i parchi nazionali anche se, mediamente, sono più piccoli. Alcuni di essi tutelano valori di biodiversità addirittura superiori a quelli di alcuni parchi nazionali. Non si capisce quindi perché i fondi del Ministero vadano solo ai parchi nazionali e, in parte, alle aree marine protette; eppure la biodiversità è dappertutto e non conosce i confini amministrativi. La legge 394 prevede il piano triennale delle are protette, il cui scopo è quello di sostenere il sistema nel suo complesso, ma sono venti anni che non viene più finanziato, mentre in precedenza forniva importanti risorse ai parchi regionali ed anzi stimolava, con il metodo del cofinanziamento, anche le Regioni a fare altrettanto.
GC. Anche per rilanciare i Parchi regionali occorre fare affidamento non soltanto su una rinnovata, forte azione propulsiva delle Associazioni nazionali tradizionali ma anche sull'apporto dei comitati locali formati dai nuovi eroi del nostro tempo, che affrontano anche sacrifici economici per sostenere e attuare direttamente iniziative di interesse generale.
CAG. Il problema del rilancio è grave ed è generale. Riguarda sia i parchi nazionali che quelli regionali, ma anche tutte le altre aree protette a partire dalle AMP. È vero, i parchi regionali, che pure hanno una loro storia gloriosa dovuta anche, nel passato, a un forte impegno delle istituzioni (basterebbe riferirsi a Piemonte Parchi e a Toscana Parchi), sono oggi allo sbando, forse con qualche eccezione. La gravità emerge dalla domanda successiva, che non è tanto una domanda quanto un’analisi sintetica, lucida e nello stesso tempo sconfortante della situazione in cui versano oggi tutte le aree protette. Sono anni che noi chiediamo alle istituzioni e ai partiti un rilancio: ma noi chi? In questa domanda si cela un nodo fondamentale. Noi siamo singole persone o singoli gruppi che ritengono strategica la questione aree protette, ma sempre di più avvertono la sordità delle istituzioni e dei partiti; che cercano di impegnarsi, ma non riescono a coordinarsi, a unire i loro sforzi. Molti di noi sono militanti di Associazioni ambientaliste, le quali però operano separatamente: alcune nell’assurda illusione di una tronfia supremazia, altre nella vana ricerca di percorsi da sostituire a quelli che una volta erano vincenti, altre ancora nella consapevolezza di una debolezza che a volte diventa marginalità; tutte nel quadro di una crisi generale del volontariato ambientale e precisamente di quel volontariato che opera sul campo.
Sono però convinto che oggi solo dalle Associazioni, unite in un effettivo movimento, possa derivare la svolta necessaria per il rilancio e che pertanto su di esse incomba un’enorme responsabilità. Se qualcuna, per complesso di superiorità o per incapacità, ritiene di operare per conto proprio o comunque decide di restare da parte, che siano le altre ad andare avanti nella consapevolezza che si apre per loro la possibilità, e il dovere, di svolgere una funzione di importanza storica. Tutto il resto, a mio avviso, è secondario.
RM. I parchi regionali sono nati immediatamente dopo l’istituzione delle Regioni, negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso; hanno rappresentato il superamento dell’inedia statale nella politica delle aree protette, immettendo un approccio che fu preso a modello dallo stesso UICN. In questa politica si distinsero Regioni come il Piemonte, la Lombardia, la Sicilia, il Lazio e la Toscana, solo per ricordarne alcune. L’approccio a volte era diverso e le soluzioni proposte quelle ritenute più adeguate per il singolo territorio. L’emanazione della legge quadro sulle aree protette, ma soprattutto la nuova politica attiva dello stato in materia di parchi e protezione della natura, segna una svolta, perché mette in difficoltà proprio le Regioni che avevano operato con più passione e intelligenza nella politica dei parchi. Infatti, all’attenzione e al lavoro di cesello operato dalle Regioni si sostituisce una politica di grandi finanziamenti operata dallo stato, che fa sì che i territori siano più sensibili all’istituzione di un parco nazionale piuttosto che regionale. Né le Regioni riescono a trovare quei finanziamenti che permettano loro di sostenere un confronto con quanto sta facendo lo Stato, che di fatto da una “politica nazionale dei parchi” che emerge nel primo piano triennale delle aree protette passa poi ad una “politica dei parchi nazionali” attenta di fatto solo ai parchi nazionali, finendo con l’abolizione dello stesso piano triennale. Le Regioni, dopo un primo momento di risveglio anche per quelle che non avevano operato con una specifica politica dei parchi prima del 1991, si sono avviate ad un ridimensionamento dei parchi, costretti dalle esigenze di restrizione finanziaria e dalle nuove urgenze e priorità. Le Regioni hanno cioè abbandonato una politica a lungo raggio, che aveva caratterizzato gli anni ’70 e ’80 del novecento per concentrarsi su obiettivi più immediati, o se vogliamo essere più prosaici obiettivi a misura di “risultati elettorali”. Non più politiche che vedevano i risultati in una prospettiva a lungo termine, ma politiche misurabili nell’immediato, per ottenere il massimo di consensi (è questa una delle contraddizioni della crisi democratica cui si accennava sopra). Per il rilancio della politica dei parchi occorre un cambio di passo da parte delle Regioni, non più al traino della politica nazionale o dei finanziamenti immediatamente ottenibili, ma con un’ottica di lunga visione sul proprio territorio e sugli effetti delle politiche attuate. I parchi possono essere rilanciati solo in quest’ottica quale elementi essenziali per un ambiente vivibile per l’uomo ed esemplificativi di quella transizione ecologica di cui oggi si parla tanto ma solo i termini “produttivistici”, in cui i parchi e le aree protette rischiano di essere i luoghi di sperimentazioni “per la transizione ecologica” che in altri tempi nessuno avrebbe sognato di fare all’interno delle aree protette. Le Regioni devono riprendere l’iniziativa e mettere in campo soluzioni innovative, come avveniva negli anni precedenti l’emanazione della legge quadro, ma questo è possibile solo se viene aperta una nuova stagione con una reale politica nazionale per i parchi e le aree protette.
7. Nell’informazione generalista, tra giornali main stream e televisione pubblica o privata, che pure qualche spazio sono stati costretti a destinarlo agli anniversari delle aree protette, si finisce sempre con il cadere in vecchi stereotipi, insistendo su temi tutto sommato abbastanza superati: la tutela delle specie a rischio (lo sono di più al di fuori che dentro le aree protette?), il bracconaggio e la caccia (temi ormai residuali), l’educazione ambientale, la valorizzazione dei prodotti tipici del territorio (inflazionato e dove tutto è ormai tipico)...
Ma i parchi, non dovrebbero essere la dimensione della sperimentazione verso modelli alternativi di convivenza con l’ambiente, di innovazioni tecnologiche e sociali, di sperimentazioni per una mobilità davvero sostenibile, un turismo davvero compatibile, la gestione davvero sostenibile delle risorse energetiche, idriche, alimentari... ?
L’impressione è che non si sappia più essere riferimento per pratiche di avanguardia accontentandosi di praticare la conservazione senza propulsione verso scenari di futuro.
In questo sembra assente anche una regia nazionale, ove il Ministero insegue le opportunità di finanziamenti europei senza una strategia che vada oltre e soprattutto tenga insieme i vari settori in una politica unitaria con visioni di prospettiva.
GS. Non concordo con l’affermazione che alcune specie a rischio sono più tutelate fuori dai parchi, al contrario, come negli esempi che ho citato, le specie in pericolo di estinzione sono molto più tutelate nelle aree protette. C’è il problema di tutela di specie che hanno una distribuzione molto più ampia che nei soli parchi e quindi vi è la necessità di sviluppare forme di tutela che siano efficaci anche al di fuori del perimetro del parco. È vero che i parchi devono essere un modello di sviluppo sostenibile, ma ricordiamoci sempre che la loro mission primaria è la tutela della biodiversità. Oggi in tantissimi parchi italiani (nazionali, regionali e AMP) si portano avanti interessanti strategie mirate per il turismo sostenibile. Abbiamo decine di esperienze virtuose e molte aree protette sono certificate con la CETS, la Carta Europea del Turismo Sostenibile nelle aree protette, che impone parametri e controlli specifici.
GC. Dopo la legge 394/1991 la casa editrice De Agostini mi affidò l'incarico di realizzare, insieme ad altri, una serie di documentari "home video" sui parchi nazionali e regionali. Durante alcune riprese nel Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna il presidente di un'associazione di albergatori mi chiese un incontro che concordai immediatamente. Mi aspettavo contumelie, doglianze e proteste, mentre il colloquio mi riservò, invece, un ringraziamento perché gli operatori del settore, dopo l'istituzione del parco regionale del crinale prima e di quello nazionale poi, avevano visto aumentare sensibilmente le visite specie dei rappresentanti delle generazioni più giovani.
CAG. Ho detto all’inizio che il Ministero della Transizione Ecologica (anche quando si chiamava Ministero dell’Ambiente) ha di fatto rinunciato a prendere in considerazione i problemi della conservazione della natura. Aggiungo che non si tratta solo di trascuratezza da parte del Ministero né di una semplice impressione. Mi rendo conto che la mia è una valutazione severa, ma essa si basa su fatti che riguardano sia i parchi, sia in generale la conservazione della natura e che ho sperimentato e continuo a sperimentare (e non solo certo il solo). Mi riferisco innanzi tutto al silenzio del Ministero sulle questioni fondamentali che oramai si prolunga da anni e di cui la mancata convocazione della terza Conferenza delle aree protette è solo un aspetto; ma penso anche al silenzio sulla gestione forestale nei parchi a cui ho accennato in precedenza. Mi riferisco anche alla debolezza della struttura interna che si occupa di natura e di aree protette. Mi riferisco poi, a titolo di esempio, all’incapacità di orientare il percorso della Regione Lombardia e delle Province autonome di Trento e Bolzano verso la configurazione unitaria del Parco nazionale dello Stelvio; all’indifferenza per quanto riguarda le tante opere che sono di una violenza inaudita nei confronti dell’ambiente montano, delle quali quelle per il Campionato del mondo di sci alpino svoltisi a Cortina l’anno scorso e quelle per i prossimi Giochi olimpici invernali Milano-Cortina 2026 sono clamorosa dimostrazione.
RM. I parchi nascono per la protezione attiva di ambienti ad alto valore naturale. Questo ha portato in un primo tempo ad accentuare le azioni di tutela: tutela delle specie a rischio, il bracconaggio, la caccia, l’educazione ambientale. Successivamente è stato valutato che era necessario promuovere attività compatibili, da qui la valorizzazione dei prodotti tipici, l’utilizzo turistico dei territori, ecc. Spesso si è dimenticato che la protezione è un’azione attiva che richiede un continuo adeguamento alle nuove esigenze, tenendo conto dei risultati (positivi e/o negativi) delle azioni messe in atto. Alla fine del secolo scorso, ai parchi è stato richiesto di attuare politiche che aumentassero il consenso nei loro confronti, e questo ha portato alla promozione delle attività compatibili (turismo, prodotti agricoli di qualità e tipici, piccolo artigianato, ecc.). Le azioni attuate per la ricerca del consenso sono state quelle più evidenziate nei parchi, dimenticando spesso di verificare la loro effettiva (e non solo nominale) compatibilità con la delicatezza dell’ambiente. Tale modello è quello più ricorrente e ricercato dai mezzi di comunicazione, trascurando le azioni, a volte davvero notevoli, che sono state attuate nei parchi per sperimentare modelli effettivamente compatibili. Di fronte a quanto ricercato dai mass media, i parchi stessi hanno iniziato per sottolineare soprattutto tali aspetti, dimenticando di evidenziare le azioni innovative che pure sono state attuate. Poi con il tempo la priorità di comunicazione è diventata priorità di azione. Questo evidenzia ancora la mancanza di una chiara politica nazionale dei parchi e delle aree protette.
8. La prima Conferenza nazionale sui parchi e aree protette data 1997; la seconda si celebrò a Torino nel 2002. Poi è seguita, nel 2013 quella sulla biodiversità. Non servirebbe un nuovo momento di riflessione e di confronto su questi temi? Anche per ridefinire strategie, ruoli, obiettivi... Per aggiornare le risposte che possiamo dare alle domande: Quale senso possiamo dare oggi ai parchi e alle aree protette? Quale funzione? Quale missione?
GS. Le prime due si sono svolte nella fase espansiva delle aree protette, c’era una grande tensione positiva verso la nascita dei parchi. Già nel 2013 c’era un’atmosfera un po’ diversa. Oggi sicuramente c’è un interesse minore rispetto ai parchi, riguarda il Governo, le Regioni, la politica in generale, anche i media non sempre sono attenti al tema. Come Federparchi teniamo periodicamente numerosi incontri ed assemblee sui temi di cui parliamo, ma certo vi è un calo di sensibilità soprattutto nel mondo della politica mentre, invece, i cittadini sono sempre più attenti alla natura. Basti pensare che il 5x1000 ai parchi nazionali è triplicato negli ultimi quattro anni. Se vogliamo è una situazione opposta agli anni ‘80 e ‘90, quando si aveva l’impressione che su queste tematiche la politica fosse più avanti dei cittadini, oggi sembra esattamente il contrario.
Siamo il paese europeo che ha la biodiversità più elevata, il maggior numero di specie sia animali che vegetali, una ricchezza enorme e una conseguente responsabilità in termini di protezione. Ovviamente, come già accennato, va portata avanti la sperimentazione di modelli di sviluppo da proporre al resto del territorio.
GC. Per attuare quanto la domanda opportunamente propone occorre prescindere dal Ministero della Transizione Ecologica e dal suo attuale titolare che è il frutto di una scelta sbagliata.
CAG. Ho prima fatto riferimento a un passo della Carta di Fontecchio per sottolineare come oggi i parchi e le altre aree protette, a partire dalle AMP, abbiano la missione di porsi come modelli di conservazione della natura e nello stesso tempo di sviluppo effettivamente sostenibile: modelli validi anche oltre i loro confini. Queste affermazioni però non bastano: dobbiamo con onestà riconoscerlo. Certamente le aree protette, e specialmente i parchi, hanno ottenuto e continuano a ottenere importanti risultati al proprio interno, ma non sono riusciti, se non in minima parte, ad “attaccare” il territorio esterno, a contaminarlo né a consolidare in via definitiva i propri rapporti con la istituzioni locali.
Eravamo sicuri che il modello parco si sarebbe potuto realizzare. Ma era e continua a essere un’illusione – la grande illusione – che nasceva da un equivoco: i parchi non sono né possono diventare, nella situazione attuale, veri modelli perché il loro sistema di governo (la c.d. governance), che è parte essenziale del regime speciale a cui essi sono assoggettati, non è applicabile al resto del territorio e quindi, inevitabilmente, inficia il modello. Non è applicabile, come la realtà sta dimostrando, per un principio che forse viene sottovalutato: secondo il nostro ordinamento, nel governo di un territorio la rappresentanza è quella ottenuta per via elettorale. A questo principio nessuno vuole rinunciare ed è giusto che sia così: nei parchi sempre più forte è la richiesta di una gestione con più ampia partecipazione dei rappresentanti locali eletti.
L’esperienza del terremoto del 2016 nell’Appennino centrale è stata per me illuminante: mi permetto di accennarne. Il terremoto ha avuto il suo epicentro all’interno di due parchi nazionali: il Parco dei Monti Sibillini e il Parco del Gran Sasso - Monti della Laga. Il 24 agosto ha distrutto Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto tra la Laga e i Sibillini, con oltre 300 morti; il 26 e il 30 ottobre ha colpito gravemente tutti i Comuni del Parco dei Sibillini, tra Marche e Umbria, distruggendo quasi completamente Visso, Ussita, Castelsantangelo sul Nera, Pievetorina, Arquata del Tronto, Castelluccio di Norcia. L’esistenza dei due parchi – proprio per il loro duplice obiettivo (conservazione e sviluppo) – sarebbe dovuta essere di importanza strategica per affrontare i problemi del dopo sisma, ma è stata e continua a essere completamente ignorata nel dibattito e nei progetti sulla ricostruzione e sul futuro delle popolazioni: di conseguenza non è stata presa in considerazione, se non in via del tutto marginale, dalle misure finora adottate.
Perché questa assenza quando è proprio l’idea di parco, della quale tutti dovrebbero essere sostenitori, a rappresentare una straordinaria prospettiva per quel territorio devastato dal sisma? Non è sufficiente accusare di latitanza o di incapacità gli Enti gestori, i Ministeri, gli Assessorati regionali competenti, le Associazioni ambientaliste, anche se l’accusa è fondata: avrebbero dovuto e dovrebbero essere i cittadini e i loro rappresentanti, a partire dai Sindaci, a far sì che l’idea del parco informi le fasi della ricostruzione e della rinascita. Se ciò non avviene la ragione è molto semplice: le comunità locali non hanno introiettato quell’idea proprio perché le esclude dal pieno governo del territorio e perciò non la considerano come rientrante nel proprio bagaglio istituzionale. Le comunità, finché riterranno che i parchi appartengono a enti burocratici lontani dal tessuto sociale e costateranno che la loro partecipazione è solo marginale, non si approprieranno di quell’idea e non saranno perciò disponibili a impegnarsi per realizzarla.
Dalla riflessione sul dramma di un territorio e dalla considerazione che la grande illusione non riguarda solo i parchi coinvolti dal sisma, ma tutto il sistema dei parchi, traggo la conclusione che, se il parco deve essere un laboratorio dove si sperimenta un modello di gestione territoriale valido anche per l’esterno, diventa necessario superare un regime che viene vissuto secondo una logica di esclusione e non di inclusione.
Il passaggio a un pieno protagonismo degli Enti Locali non può però essere immediato, perché la gestione di tali Enti risponde attualmente a competenze, metodologie, sensibilità diverse da quelle che sono necessarie per la gestione di un parco e che, almeno in linea generale, non sono usuali per l’attuale classe di governo locale. Occorre quindi un periodo di transizione nel corso del quale sarà necessario porre le basi per una vera e propria conversione culturale e politica, che deve consentire di introiettare nuovi principi e di individuarne i concreti strumenti attuativi. Tra questi principi faccio riferimento ai seguenti:
a) i parchi sono beni comuni e la loro gestione deve essere svolta nell’interesse generale;
b) per la specificità e la complessità dei problemi da affrontare la gestione dei parchi deve essere caratterizzata da un approccio scientifico: i decisori devono tenere nel massimo conto l’apporto della scienza e servirsi di una direzione tecnico-amministrativa scelta per titoli e in grado di affrontare questioni in chiave interdisciplinare;
c) per ogni parco devono essere fissati obiettivi e specificità che orientino e condizionino la gestione e sul raggiungimento dei quali l’autorità competente, statale o regionale, debba effettuare un’attenta valutazione e trarre le necessarie conseguenze.
Si apre così un percorso di crescita culturale e politica che deve essere partecipato per permettere alla comunità locale di percepire in tutta la sua importanza la vera essenza del parco. Al termine di questo percorso il parco diventerà l’idea forte che la comunità avrà fatto propria, gli obiettivi e i problemi saranno inevitabilmente al centro dei dibattiti elettorali e delle sedute degli organi comunali, su tali obiettivi e su tali problemi si riverserà l’attenzione degli enti, delle associazioni, dei singoli soggetti che vivono in quel territorio o che comunque operano per quel territorio. Crescerà così il livello culturale e di consapevolezza civica dell’intera comunità; si innalzerà la qualità della gestione della cosa pubblica.
RM. Come dicevo prima, sono anni che auspico e sollecito, purtroppo invano, anche con lettere indirizzate ai Ministri che si sono succeduti alla guida del Ministero dell’Ambiente, la convocazione di una nuova Conferenza nazionale delle aree protette, per il rilancio del ruolo e della missione dei parchi. In questo momento, in cui è essenziale aver chiaro quale è la strada che deve essere percorso per attuare una “transizione ecologica” non governata dagli interessi economici, ma attenta a far transitare lo sviluppo umano con forme sostenibili per l’ambiente, le aree protette sono il “punto di arrivo” e il riferimento per la transizione ecologica, in cui l’equilibrio tra attività umana e ambiente è tale da<