Mauro Furlani
Camerino: la prima sfida del 10%
Prima degli anni ’80 del secolo scorso la superficie totale delle aree protette in Italia era davvero ben poca cosa, anche se tra questa erano compresi parchi storici e di grande rilevanza naturalistica, come il Gran Paradiso, il Parco d’Abruzzo, lo Stelvio e poco altro, tutti istituiti molti decenni prima.
Gli anni ’80 mostrarono un grande risveglio naturalistico e protezionistico: sorgevano nuove Associazioni e nascevano, sfruttando l’humus molto fertile del fervore ambientalista del Paese, formazioni politiche con l’intento di raccogliere alcune delle istanze che stavano diffondendo nella società. Le stesse formazioni politiche tradizionali, allora ben inserite nel tessuto sociale e culturale del tempo, non potendo farsi sfuggire questo fermento sociale, accoglievano all’interno dei propri programmi molte delle istanze che emergevano prepotenti e diffuse all’interno della società.
La svolta decisiva in Italia, per quanto riguarda il rilancio delle aree protette, si ebbe durante e a seguito del Convegno di Camerino, voluto dal Prof. Franco Pedrotti. Il Convegno ebbe un risalto molto ampio, forse superiore a quanto gli organizzatori si sarebbero attesi.
Se riflettiamo sul numero delle persone e delle istituzioni che quel convegno ha coinvolto, ci rendiamo conto del clima culturale e dell’attenzione politica che stava nascendo attorno alle aree protette. Ai due giorni di lavoro parteciparono circa 400 persone, con 70 interventi; vi aderirono uomini politici e personalità di varie estrazioni culturali. Se pensiamo all’oggi, sembra proprio un’altra era…
Erano anche anni di crescita culturale, di discussioni sulle aree protette, sulla loro funzione ambientale e sociale, ma anche economica, di confronto reale, prima che il tutto si appassisse e venisse dirottato in ambiti virtuali, privandoli di quel coinvolgimento emotivo che caratterizzava quella fase storica.
Spesso erano anche momenti di scontro, soprattutto con il mondo venatorio, allora in espansione numerica e in fase di trasformazione anche culturale, che consoliderà la tendenza, già avviata negli anni precedenti, di una caccia consumistica ben lontana dalle tradizioni venatorie del passato. Scontro forte vi era anche con coloro i quali vedevano nella montagna un luogo da sfruttare per insediare strutture residenziali, affiancati dagli operatori turistici delle neve, con il rischio di ripercorrere le vie che hanno segnato lo sfruttamento delle coste. Anche se siamo decisamente fuori tempo, non traendo alcun insegnamento dell’esperienza, nel vedere taluni progetti attuali sembra proprio che quel modello non sia mai del tutto tramontato; al contrario, grazie ai fondi europei di Ripresa e Resilienza (PNRR), trova oggi maggiore vigore e aggressività.
Evocare l’istituzione di nuovi parchi nell’entroterra, le cui popolazioni erano già esasperate dalla marginalità a cui le aree montane li avevano da tempo costrette, era vissuto come un ulteriore motivo di costrizione e di espropriazione delle poche risorse residue, tutto a vantaggio di una crescente percentuale di popolazione urbanizzata e ritenuta privilegiata.
L’elaborazione culturale sulla protezione della natura di quegli anni, le proposte di istituire nuove aree protette, non era riuscita a coinvolgere e a saldare un’alleanza e una condivisione di obiettivi così profeticamente auspicata da Valerio Giacomini nel suo libro Uomini e Parchi, laddove affermava che il grande significato di un parco è “ricercare nuovi comportamenti di compatibilità fra sviluppo antropico ed il mantenimento degli equilibri naturali, fissando i parametri qualitativi e quantitativi di tale compatibilità.”
Furono anni in cui la Natura era ancora in grado, all’interno delle Università e delle Associazioni ambientaliste, di formare culturalmente i giovani, i quali potevano realisticamente sperare di mutuare le loro conoscenze, passioni e oggetto dei propri studi, in prospettive professionali.
Tutto questo negli anni è venuto meno, con la conseguente rarefazione di studi di carattere naturalistico all’interno dei nostri Atenei, relegando, chi si occupava di natura, alla marginalità, alla sola attività di volontariato e a pura passione personale.
L’impossibilità di concretizzare le conoscenze e le competenze in ambiti professionali ha spesso costretto i giovani a una perdurante precarietà, a un allontanamento e un distacco anche da quel mondo associativo che aveva rappresentato motivo di crescita negli anni precedenti.
Come fatto cenno poco sopra, a seguito della spinta che proveniva dal sociale sono nate anche rappresentanze politiche. Per non farsi sfuggire questa cospicua percentuale di elettorato, i partiti tradizionali di allora infarcivano i loro programmi con obiettivi ambientalisti, spesso presi dalla società civile e dall’ambientalismo diffuso.
Malgrado i risultati sperati furono ben lontani dalle aspettative, la situazione appare ben diversa rispetto a oggi, dove a riempire gli stringati programmi elettorali è un nuovo lessico, spesso privo di significato.
Si abusa di termini come green, seguito da qualsiasi cosa con cui possa farci una rima adeguata, eco, prefisso seguito da una parola che possa apparire con un senso, sostenibilità, resilienza e via dicendo, catturati dall’informe società dei social i termini che in quel momento appaiono di maggior effetto.
Come espresse efficacemente Piero Belletti nell’intervento al convegno tenuto qualche anno fa a Trento, il riflesso di questo decadimento culturale si evidenzia, negli anni successivi al 1983, data della istituzione del Ministero dell’Ambiente, con l’impoverimento culturale dei vari Ministri che si sono susseguiti ai primi di elevato spessore. Apice di questa trasformazione si è infine raggiunto con il Governo Draghi, in cui il temine ambiente, forse non sufficientemente green o troppo impegnativo, è stato sostituito dalla locuzione ben più accattivante di Ministero per la Transizione ecologica. E l’ambiente che fine ha fatto? Sarebbe forse utile una riflessione anche all’interno delle Associazioni ambientaliste, alcune delle quali salutarono con interesse questa trasformazione.
Ritornando al Convegno di Camerino, forse l’Italia degli anni ’70 e ’80, con appena 1,5% del territorio protetto, percepiva il divario quasi umiliante con altre nazioni europee che già potevano vantare una percentuale nettamente superiore alla nostra: 20% in Germania Federale, 8% in Francia e così via con percentuali ben al di sopra di quelle italiane.
Quell’evento non fornì solo la spinta ideale che ha fatto compiere ampi passi in avanti, fu esso stesso il risultato di un clima culturale in fermento durato alcuni anni e fu altresì la base programmatica dei decenni successivi, ben lontani dalla realtà più complessa di oggi.
Fu proprio in occasione di quel convegno che venne lanciata la sfida del 10%, all’epoca quasi un’utopia.
Gli anni che seguirono furono particolarmente favorevoli a preparare il terreno al varo di numerose leggi, a partire da quella sulla difesa dei suoli del 1989, a cui seguì, due anni dopo, la Legge quadro 394 sulle aree protette e ancora la Legge 157 sulla Tutela della fauna omeoterma e il prelievo venatorio. Quest’ultima Legge sancì finalmente un principio cardine per la protezione della fauna in cui lo Stato avocò a sé la proprietà, sancendo la sua inalienabilità, derogando e consentendone, limitatamente ad alcune specie, il prelievo venatorio.
Il varo della Legge quadro sulle aree protette, il cui primo firmatario e relatore fu l’on Gianluigi Ceruti, aprì la strada alla grande espansione del numero di riserve Statali, ma soprattutto all’istituzione di nuovi Parchi nazionali. Nacquero, a seguito della applicazione della Legge ,il parco delle Foreste Casentinesi, dell’Appennino Tosco Romagnolo, della Sila fino a quello del Gennargentu e altri. All’interno della cornice normativa nazionale, le Regioni a loro volta legiferarono e istituirono Parchi di più limitata estensione.
In questi anni vi furono numerosi tentativi di modificare profondamente i contenuti della 394/91; tra questi il tentativo di introdurre royalties per lo sfruttamento di alcune risorse all’interno dei parchi. Se questa modifica fosse andata a compimento, i parchi sarebbero stati assoggettati economicamente ai potentati economici, decretandone probabilmente il loro definitivo deragliamento rispetto allo loro missione. Si pensi solo al rischio che correrebbero oggi, con la crisi energetica, e il peso economico delle grandi società di produzione di energie da fonti alternative come il fotovoltaico oppure l’eolico.
Un documento, frutto di mesi di discussioni serrate, fu presentato al Convegno di Fontecchio, in Abruzzo, e sottoscritto da quasi tutte le Associazioni nazionali; esso riassume i mesi di discussione e pone dei limiti invalicabili e dei motivi di discussione su eventuali interventi alla normativa vigente. https://www.pro-natura.it/lettore-news/la-carta-di-fontecchio.html
Le aree protette non possono essere oasi nel deserto
L’istituzione delle aree protette ha rappresentato un grande momento di crescita culturale e anche economica per le aree interne, nonché luogo di conservazione degli habitat e della biodiversità. È stato così possibile sottrarre dal degrado numerosi habitat e all’estinzione molte specie.
Si pensi all’orso marsicano, al camoscio in Abruzzo, allo stambecco nel Gran Paradiso o ancora al gipeto e altre. Se estendiamo questo ragionamento alle aree marine protette, troppo spesso dimenticate anche a causa del loro status amministrativo incerto, la cernia bruna del Mediterraneo tutelata nelle aree marine dell’Asinara, delle Tremiti, nelle Egadi e a Portofino, o ancora la foca monaca, o habitat come le praterie di posidonia e altre.
Negli anni, con l’affievolirsi della spinta emotiva e culturale, i parchi si sono trasformati sempre più spesso in aree a limitata autonomia, talvolta assediati da spinte localistiche conflittuali, fino a prevalere su quelle di conservazione.
Ciascuna amministrazione locale ha rivendicato la sua quota di proprietà e di autonomia. Il caso estremo si è visto con il Parco Nazionale dello Stelvio, tripartito tra la Lombardia e le Province autonome di Trento e Bolzano.
Ad attenuare l’efficacia funzionale delle aree protette è la difficoltà di dialogo con le aree circostanti, anzi, spesso i parchi sono diventati dei fortilizi aggrediti al loro interno da spinte localistiche più attente agli aspetti promozionali, turistici che a quelli di conservazione, e assediati dall’esterno.
Ciò vale per i parchi nazionali, ma ancor di più per gli altri istituti, come le riserve statali, i parchi regionali, mai integrati funzionalmente tra loro e soprattutto con la Rete Natura 2000, che avrebbe dovuto, appunto, rappresentare una rete strutturale e funzionale.
Se le aree protette perdono la capacità di esportare all’esterno la loro missione di protezione e conservazione sono destinate a perdere la loro l’efficacia, avviandosi a una deriva e a un mesto declino.
Pochi mesi fa ci ha lasciati Edward Wilson, zoologo e grande studioso di formiche, padre della discussa teoria sociobiologica ma anche, insieme a McArthur, autore della teoria sulle biogeografia insulare.
Secondo la teoria di McArthur e Wilson il numero di specie che un’isola può contenere è in proporzione alle dimensioni dell’isola. Ciò significa che se un’isola è di grandi dimensioni, la maggiore disponibilità di habitat può accogliere un numero maggiore di specie.
Come si può comprendere facilmente, altri fattori contribuiscono a elevare il numero di specie: tra questi la distanza dalla sorgente da cui le specie insediate traggono origine e le condizioni ambientali generali, come il clima, le influenze antropiche, ecc. Per quanto riguarda la distanza dal centro di origine delle componenti biotiche è verificato che maggiore è la distanza che separa un’isola dal centro di origine e più lenta potrà essere la sua colonizzazione nel tempo.
Le isole, per altro, sono spesso anche uno scrigno di endemismi faunistici e floristici, proprio grazie al più o meno lungo periodo di isolamento geografico e dalla distanza che separa l’isola dalla sorgente principale delle sue componenti biologiche.
Negli anni il concetto di isola è stato notevolmente ampliato rispetto alla semplice dizione geografica, estendendo il concetto in termini biologici a tutte quelle aree che si trovano isolate dal contesto principale, almeno spazialmente.
Seguendo questa estensione possiamo dire che un’isola biologica può essere un lago, per pesci e anfibi; analogamente, per gli animali che si spostano sul terreno, anche una grande infrastruttura o lembi forestali isolati ecc. Dunque, un’isola biologica ha un significato ben più ampio di un’isola geografica.
In questo concetto, anche le condizioni orografiche possono rappresentare efficaci barriere per numerose specie. I tempi, se non geologici ma superiori a quelli storici, hanno fatto sì che le montagne sviluppassero e conservassero, un po’ come delle isole, numerosi endemismi.
Nella mia regione, le Marche, il piccolo lago di Pilato, relitto glaciale all’interno di un circo glaciale del quaternario, conserva un piccolo crostaceo anostraco, privo di esoscheletro, risultato dell’isolamento di alcune decine di migliaia di anni.
La teoria di Wilson e McArthur pone i primi dubbi sulla piena efficacia degli strumenti di protezione, se non inserite all’interno di una gestione del territorio più esteso. Gli effetti positivi di protezione tendono a diminuire se questi luoghi di naturalità sono inseriti all’interno di una matrice di territorio fortemente antropizzato. Questo ci costringe a un ripensamento delle aree protette, sia in funzione alle loro dimensioni e ai loro confini che alle strutture di collegamento funzionale con altre aree di naturalità.
Le aree di protezione, proprio per non perdere la loro efficacia funzionale, devono essere sottratte al rischio di isolamento e riuscire a connettersi con le aree limitrofe, ma anche con altre strutture di protezione, in una rete funzionale, organizzate come tessuti e organi in un corpo. La Rete Natura 2000 svolge in parte proprio questo compito: creare una rete di collegamento tra habitat, compresi quelli all’interno di aree protette.
Senza alcun dubbio la promozione per l’istituzione di aree protette da parte di gruppi di persone, comitati e Associazioni è un fatto molto positivo, i cui vincoli e confini non dovrebbero essere subordinati a quelli amministrativi. Lo strumento di protezione è tanto più efficace quanto più riesce a superare i localismi, ovviamente dialogando con le amministratori locali, ma ponendo la conservazione come fine ultimo e prioritario.
La sfida 30/30
Recentemente l’Unione Europea ha emanato dei caposaldi per cercare di arginare la perdita di biodiversità, lanciando la sfida del 30% di aree terresti protette in tutta l’Unione, cui aggiungere una analoga percentuale di aree marine, entro il 2030.
Considerando gli istituti dei parchi e le superfici comprese nella Rete Natura 2000, l’obiettivo, seppure ambizioso, non sembra più ardito rispetto a quello che 40 anni fa pose l’asticella al 10%.
Finalmente le aree protette potrebbero di nuovo integrarsi con il mondo della ricerca e con quello ambientalista, riposizionandosi al centro non solo di una strategia di conservazione, ma come modello di sviluppo esportabile anche in contesti diversi rispetto alle aree protette.
Per portare avanti questa strategia serve coraggio, ma servono competenze tecniche e scientifiche, il supporto di Università, Istituzioni scientifiche, musei naturalistici, nonché del mondo dell’ambientalismo, fino ad ora quasi del tutto esonerati dalla gestione del territorio.
Il raggiungimento del 30% di aree protette entro il 2030 rimane un obiettivo puramente tecnico se non accompagnato da un altro, non meno importante ma forse più impegnativo: quello della percezione della natura vissuta dalle persone.
Negli anni questa percezione è stata completamente alterata. Pochi oggi possono dirsi non attratti dalla natura e mai farebbero scelte personali in contrasto con essa: dallo stile alimentare all’attrazione nei confronti di animali di affezione, fino ad assumere qualche comportamento salutista, usando un termine più di moda, green.
Non è certo casuale il grande successo e la tendenza sempre più diffusa da parte di alcune personalità dello spettacolo di utilizzare gli ambienti naturali come le spiagge o prati montani, per spettacoli o assembramenti di massa. È sufficiente inserire all’interno dell’organizzazione qualche accorgimento a buon mercato, come la sostituzione di bottigliette di plastica con contenitori in alluminio, qualche pannello solare ad alimentare assordanti casse acustiche, o cibi di provenienza bio e così via. Il gioco è fatto, la mistificazione consumistica e mediatica protratta.
Poco importa se per la produzione di un contenitore in alluminio è necessario un investimento energetico molte volte superiore a quello della plastica oppure se in un ambiente naturale l’inquinamento comprende anche quello acustico.
Poco importa poi se si interviene in un fragile ambiente naturale, come un prato di montagna o sopra dune costiere, modificandone per decenni le loro caratteristiche morfologiche, faunistiche e vegetazionali.
I cittadini che alimentano cinghiali o altri animali divenuti semidomestici alle periferie delle città, lo fanno nella assoluta convinzione che sia un comportamento del tutto naturale, ignorando come i propri comportamenti umanizzano, addomesticano animali che dovrebbero frequentare altri ambienti e non mendicare tristemente del cibo. Una percezione della natura diventa del tutto asservita e del tutto addomesticata.
Andrebbe ricostituito, all’interno di un sentire comune, un nuovo modo di pensare la natura: la percezione di una natura selvaggia, quel concetto di wilderness, di natura indisponibile, che ogni area protetta dovrebbe conservare, cuore pulsante e scrigno inviolabile al proprio interno.
Da questo arretramento dell’uomo da alcuni ambienti naturali nasce la proposta, all’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso di richiedere che almeno una “montagna sacra”, una sola, sia resa libera della nostra presenza.