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Ridare vitalità alle aree protette

La sfida dei prossimi anni

Mauro Furlani

Camerino: la prima sfida del 10%
Prima degli anni ’80 del secolo scorso la superficie totale delle aree protette in Italia era davvero ben poca cosa, anche se tra questa erano compresi parchi storici e di grande rilevanza naturalistica, come il Gran Paradiso, il Parco d’Abruzzo, lo Stelvio e poco altro, tutti istituiti molti decenni prima.
Gli anni ’80 mostrarono un grande risveglio naturalistico e protezionistico: sorgevano nuove Associazioni e nascevano, sfruttando l’humus molto fertile del fervore ambientalista del Paese, formazioni politiche con l’intento di raccogliere alcune delle istanze che stavano diffondendo nella società. Le stesse formazioni politiche tradizionali, allora ben inserite nel tessuto sociale e culturale del tempo, non potendo farsi sfuggire questo fermento sociale, accoglievano all’interno dei propri programmi molte delle istanze che emergevano prepotenti e diffuse all’interno della società.

La svolta decisiva in Italia, per quanto riguarda il rilancio delle aree protette, si ebbe durante e a seguito del Convegno di Camerino, voluto dal Prof. Franco Pedrotti. Il Convegno ebbe un risalto molto ampio, forse superiore a quanto gli organizzatori si sarebbero attesi.
Se riflettiamo sul numero delle persone e delle istituzioni che quel convegno ha coinvolto, ci rendiamo conto del clima culturale e dell’attenzione politica che stava nascendo attorno alle aree protette. Ai due giorni di lavoro parteciparono circa 400 persone, con 70 interventi; vi aderirono uomini politici e personalità di varie estrazioni culturali. Se pensiamo all’oggi, sembra proprio un’altra era…

Erano anche anni di crescita culturale, di discussioni sulle aree protette, sulla loro funzione ambientale e sociale, ma anche economica, di confronto reale, prima che il tutto si appassisse e venisse dirottato in ambiti virtuali, privandoli di quel coinvolgimento emotivo che caratterizzava quella fase storica.
Spesso erano anche momenti di scontro, soprattutto con il mondo venatorio, allora in espansione numerica e in fase di trasformazione anche culturale, che consoliderà la tendenza, già avviata negli anni precedenti, di una caccia consumistica ben lontana dalle tradizioni venatorie del passato. Scontro forte vi era anche con coloro i quali vedevano nella montagna un luogo da sfruttare per insediare strutture residenziali, affiancati dagli operatori turistici delle neve, con il rischio di ripercorrere le vie che hanno segnato lo sfruttamento delle coste. Anche se siamo decisamente fuori tempo, non traendo alcun insegnamento dell’esperienza, nel vedere taluni progetti attuali sembra proprio che quel modello non sia mai del tutto tramontato; al contrario, grazie ai fondi europei di Ripresa e Resilienza (PNRR), trova oggi maggiore vigore e aggressività.

Evocare l’istituzione di nuovi parchi nell’entroterra, le cui popolazioni erano già esasperate dalla marginalità a cui le aree montane li avevano da tempo costrette, era vissuto come un ulteriore motivo di costrizione e di espropriazione delle poche risorse residue, tutto a vantaggio di una crescente percentuale di popolazione urbanizzata e ritenuta privilegiata.
L’elaborazione culturale sulla protezione della natura di quegli anni, le proposte di istituire nuove aree  protette, non era riuscita a coinvolgere e a saldare un’alleanza e una condivisione di obiettivi così profeticamente auspicata da Valerio Giacomini nel suo libro Uomini e Parchi, laddove affermava che il grande significato di un parco è “ricercare nuovi comportamenti di compatibilità fra sviluppo antropico ed il mantenimento degli equilibri naturali, fissando i parametri qualitativi e quantitativi di tale compatibilità.”

Furono anni in cui la Natura era ancora in grado, all’interno delle Università e delle Associazioni ambientaliste, di formare culturalmente i giovani, i quali potevano realisticamente sperare di mutuare le loro conoscenze, passioni e oggetto dei propri studi, in prospettive professionali.

Tutto questo negli anni è venuto meno, con la conseguente rarefazione di studi di carattere naturalistico all’interno dei nostri Atenei, relegando, chi si occupava di natura, alla marginalità, alla sola attività di volontariato e a pura passione personale.
L’impossibilità di concretizzare le conoscenze e le competenze in ambiti professionali ha spesso costretto i giovani a una perdurante precarietà, a un allontanamento e un distacco anche da quel mondo associativo che aveva rappresentato motivo di crescita negli anni precedenti.

Come fatto cenno poco sopra, a seguito della spinta che proveniva dal sociale sono nate anche rappresentanze politiche. Per non farsi sfuggire questa cospicua percentuale di elettorato, i partiti tradizionali di allora infarcivano i loro programmi con obiettivi ambientalisti, spesso presi dalla società civile e dall’ambientalismo diffuso.
Malgrado i risultati sperati furono ben lontani dalle aspettative, la situazione appare ben diversa rispetto a oggi, dove a riempire gli stringati programmi elettorali è un nuovo lessico, spesso privo di significato.
Si abusa di termini come green, seguito da qualsiasi cosa con cui possa farci una rima adeguata, eco, prefisso seguito da una parola che possa apparire con un senso, sostenibilità, resilienza e via dicendo, catturati dall’informe società dei social i termini che in quel momento appaiono di maggior effetto.

Come espresse efficacemente Piero Belletti nell’intervento al convegno tenuto qualche anno fa a Trento, il riflesso di questo decadimento culturale si evidenzia, negli anni successivi al 1983, data della istituzione del Ministero dell’Ambiente, con l’impoverimento culturale dei vari Ministri che si sono susseguiti ai primi di elevato spessore. Apice di questa trasformazione si è infine raggiunto con il Governo Draghi, in cui il temine ambiente, forse non sufficientemente green o troppo impegnativo, è stato sostituito dalla locuzione ben più accattivante di Ministero per la Transizione ecologica. E l’ambiente che fine ha fatto? Sarebbe forse utile una riflessione anche all’interno delle Associazioni ambientaliste, alcune delle quali salutarono con interesse questa trasformazione.
Ritornando al Convegno di Camerino, forse l’Italia degli anni ’70 e ’80, con appena 1,5% del territorio protetto, percepiva il divario quasi umiliante con altre nazioni europee che già potevano vantare una percentuale nettamente superiore alla nostra: 20% in Germania Federale, 8% in Francia e così via con percentuali ben al di sopra di quelle italiane.

Quell’evento non fornì solo la spinta ideale che ha fatto compiere ampi passi in avanti, fu esso stesso il risultato di un clima culturale in fermento durato alcuni anni e fu altresì la base programmatica dei decenni successivi, ben lontani dalla realtà più complessa di oggi.

Fu proprio in occasione di quel convegno che venne lanciata la sfida del 10%, all’epoca quasi un’utopia.
Gli anni che seguirono furono particolarmente favorevoli a preparare il terreno al varo di numerose leggi, a partire da quella sulla difesa dei suoli del 1989, a cui seguì, due anni dopo, la Legge quadro 394 sulle aree protette e ancora la Legge 157 sulla Tutela della fauna omeoterma e il prelievo venatorio. Quest’ultima Legge sancì finalmente un principio cardine per la protezione della fauna in cui lo Stato avocò a sé la proprietà, sancendo la sua inalienabilità, derogando e consentendone, limitatamente ad alcune specie, il prelievo venatorio.

Il varo della Legge quadro sulle aree protette, il cui primo firmatario e relatore fu l’on Gianluigi Ceruti, aprì la strada alla grande espansione del numero di riserve Statali, ma soprattutto all’istituzione di nuovi Parchi nazionali. Nacquero, a seguito della applicazione della Legge ,il parco delle Foreste Casentinesi, dell’Appennino Tosco Romagnolo, della Sila fino a quello del Gennargentu e altri. All’interno della cornice normativa nazionale, le Regioni a loro volta legiferarono e istituirono Parchi di più limitata estensione.

In questi anni vi furono numerosi tentativi di modificare profondamente i contenuti della 394/91; tra questi il tentativo di introdurre royalties per lo sfruttamento di alcune risorse all’interno dei parchi. Se questa modifica fosse andata a compimento, i parchi sarebbero stati assoggettati economicamente ai potentati economici, decretandone probabilmente il loro definitivo deragliamento rispetto allo loro missione. Si pensi solo al rischio che correrebbero oggi, con la crisi energetica, e il peso economico delle grandi società di produzione di energie da fonti alternative come il fotovoltaico oppure l’eolico.
Un documento, frutto di mesi di discussioni serrate, fu presentato al Convegno di Fontecchio, in Abruzzo, e sottoscritto da quasi tutte le Associazioni nazionali; esso riassume i mesi di discussione e pone dei limiti invalicabili e dei motivi di discussione su eventuali interventi alla normativa vigente. https://www.pro-natura.it/lettore-news/la-carta-di-fontecchio.html

Le aree protette non possono essere oasi nel deserto
L’istituzione delle aree protette ha rappresentato un grande momento di crescita culturale e anche economica per le aree interne, nonché luogo di conservazione degli habitat e della biodiversità. È stato così possibile sottrarre dal degrado numerosi habitat e all’estinzione molte specie.
Si pensi all’orso marsicano, al camoscio in Abruzzo, allo stambecco nel Gran Paradiso o ancora al gipeto e altre. Se estendiamo questo ragionamento alle aree marine protette, troppo spesso dimenticate anche a causa del loro status amministrativo incerto, la cernia bruna del Mediterraneo tutelata nelle aree marine dell’Asinara, delle Tremiti, nelle Egadi e a Portofino, o ancora la foca monaca, o habitat come le praterie di posidonia e altre.

Negli anni, con l’affievolirsi della spinta emotiva e culturale, i parchi si sono trasformati sempre più spesso in aree a limitata autonomia, talvolta assediati da spinte localistiche conflittuali, fino a prevalere su quelle di conservazione.
Ciascuna amministrazione locale ha rivendicato la sua quota di proprietà e di autonomia. Il caso estremo si è visto con il Parco Nazionale dello Stelvio, tripartito tra la Lombardia e le Province autonome di Trento e Bolzano.

Ad attenuare l’efficacia funzionale delle aree protette è la difficoltà di dialogo con le aree circostanti, anzi, spesso i parchi sono diventati dei fortilizi aggrediti al loro interno da spinte localistiche più attente agli aspetti promozionali, turistici che a quelli di conservazione, e assediati dall’esterno.
Ciò vale per i parchi nazionali, ma ancor di più per gli altri istituti, come le riserve statali, i parchi regionali, mai integrati funzionalmente tra loro e soprattutto con la Rete Natura 2000, che avrebbe dovuto, appunto, rappresentare una rete strutturale e funzionale.
Se le aree protette perdono la capacità di esportare all’esterno la loro missione di protezione e conservazione sono destinate a perdere la loro l’efficacia, avviandosi a una deriva e a un mesto declino.

Pochi mesi fa ci ha lasciati Edward Wilson, zoologo e grande studioso di formiche, padre della discussa teoria sociobiologica ma anche, insieme a McArthur, autore della teoria sulle biogeografia insulare.
Secondo la teoria di McArthur e Wilson il numero di specie che un’isola può contenere è in proporzione alle dimensioni dell’isola. Ciò significa che se un’isola è di grandi dimensioni, la maggiore disponibilità di habitat può accogliere un numero maggiore di specie.

Come si può comprendere facilmente, altri fattori contribuiscono a elevare il numero di specie: tra questi la distanza dalla sorgente da cui le specie insediate traggono origine e le condizioni ambientali generali, come il clima, le influenze antropiche, ecc. Per quanto riguarda la distanza dal centro di origine delle componenti biotiche è verificato che maggiore è la distanza che separa un’isola dal centro di origine e più lenta potrà essere la sua colonizzazione nel tempo.
Le isole, per altro, sono spesso anche uno scrigno di endemismi faunistici e floristici, proprio grazie al più o meno lungo periodo di isolamento geografico e dalla distanza che separa l’isola dalla sorgente principale delle sue componenti biologiche.
Negli anni il concetto di isola è stato notevolmente ampliato rispetto alla semplice dizione geografica, estendendo il concetto in termini biologici a tutte quelle aree che si trovano isolate dal contesto principale, almeno spazialmente.
Seguendo questa estensione possiamo dire che un’isola biologica può essere un lago, per pesci e anfibi; analogamente, per gli animali che si spostano sul terreno, anche una grande infrastruttura o lembi forestali isolati ecc. Dunque, un’isola biologica ha un significato ben più ampio di un’isola geografica.
In questo concetto, anche le condizioni orografiche possono rappresentare efficaci barriere per numerose specie. I tempi, se non geologici ma superiori a quelli storici, hanno fatto sì che le montagne sviluppassero e conservassero, un po’ come delle isole, numerosi endemismi.
Nella mia regione, le Marche, il piccolo lago di Pilato, relitto glaciale all’interno di un circo glaciale del quaternario, conserva un piccolo crostaceo anostraco, privo di esoscheletro, risultato dell’isolamento di alcune decine di migliaia di anni.

La teoria di Wilson e McArthur pone i primi dubbi sulla piena efficacia degli strumenti di protezione, se non inserite all’interno di una gestione del territorio più esteso. Gli effetti positivi di protezione tendono a diminuire se questi luoghi di naturalità sono inseriti all’interno di una matrice di territorio fortemente antropizzato. Questo ci costringe a un ripensamento delle aree protette, sia in funzione alle loro dimensioni e ai loro confini che alle strutture di collegamento funzionale con altre aree di naturalità.
Le aree di protezione, proprio per non perdere la loro efficacia funzionale, devono essere sottratte al rischio di isolamento e riuscire a connettersi con le aree limitrofe, ma anche con altre strutture di protezione, in una rete funzionale, organizzate come tessuti e organi in un corpo. La Rete Natura 2000 svolge in parte proprio questo compito: creare una rete di collegamento tra habitat, compresi quelli all’interno di aree protette.
 Senza alcun dubbio la promozione per l’istituzione di aree protette da parte di gruppi di persone, comitati e Associazioni è un fatto molto positivo, i cui vincoli e confini non dovrebbero essere subordinati a quelli amministrativi. Lo strumento di protezione è tanto più efficace quanto più riesce a superare i localismi, ovviamente dialogando con le amministratori locali, ma ponendo la conservazione come fine ultimo e prioritario.

La sfida 30/30
Recentemente l’Unione Europea ha emanato dei caposaldi per cercare di arginare la perdita di biodiversità, lanciando la sfida del 30% di aree terresti protette in tutta l’Unione, cui aggiungere una analoga percentuale di aree marine, entro il 2030.
Considerando gli istituti dei parchi e le superfici comprese nella Rete Natura 2000, l’obiettivo, seppure ambizioso, non sembra più ardito rispetto a quello che 40 anni fa pose l’asticella al 10%.
Finalmente le aree protette potrebbero di nuovo integrarsi con il mondo della ricerca e con quello ambientalista, riposizionandosi al centro non solo di una strategia di conservazione, ma come modello di sviluppo esportabile anche in contesti diversi rispetto alle aree protette.
Per portare avanti questa strategia serve coraggio, ma servono competenze tecniche e scientifiche, il supporto di Università, Istituzioni scientifiche, musei naturalistici, nonché del mondo dell’ambientalismo, fino ad ora quasi del tutto esonerati dalla gestione del territorio.

Il raggiungimento del 30% di aree protette entro il 2030 rimane un obiettivo puramente tecnico se non accompagnato da un altro, non meno importante ma forse più impegnativo: quello della percezione della natura vissuta dalle persone.
Negli anni questa percezione è stata completamente alterata. Pochi oggi possono dirsi non attratti dalla natura e mai farebbero scelte personali in contrasto con essa: dallo stile alimentare all’attrazione nei confronti di animali di affezione, fino ad assumere qualche comportamento salutista, usando un termine più di moda, green.
Non è certo casuale il grande successo e la tendenza sempre più diffusa da parte di alcune personalità dello spettacolo di utilizzare gli ambienti naturali come le spiagge o prati montani, per spettacoli o assembramenti di massa. È sufficiente inserire all’interno dell’organizzazione qualche accorgimento a buon mercato, come la sostituzione di bottigliette di plastica con contenitori in alluminio, qualche pannello solare ad alimentare assordanti casse acustiche, o cibi di provenienza bio e così via. Il gioco è fatto, la mistificazione consumistica e mediatica protratta.

Poco importa se per la produzione di un contenitore in alluminio è necessario un investimento energetico molte volte superiore a quello della plastica oppure se in un ambiente naturale l’inquinamento comprende anche quello acustico.
Poco importa poi se si interviene in un fragile ambiente naturale, come un prato di montagna o sopra dune costiere, modificandone per decenni le loro caratteristiche morfologiche, faunistiche e vegetazionali.

I cittadini che alimentano cinghiali o altri animali divenuti semidomestici alle periferie delle città, lo fanno nella assoluta convinzione che sia un comportamento del tutto naturale, ignorando come i propri comportamenti umanizzano, addomesticano animali che dovrebbero frequentare altri ambienti e non mendicare tristemente del cibo. Una percezione della natura diventa del tutto asservita e del tutto addomesticata.

Andrebbe ricostituito, all’interno di un sentire comune, un nuovo modo di pensare la natura: la percezione di una natura selvaggia, quel concetto di wilderness, di natura indisponibile, che ogni area protetta dovrebbe conservare, cuore pulsante e scrigno inviolabile al proprio interno.
Da questo arretramento dell’uomo da alcuni ambienti naturali nasce la proposta, all’interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso di richiedere che almeno una “montagna sacra”, una sola, sia resa libera della nostra presenza.

Energia: come stanno davvero le cose?

Piero Belletti

Nel momento in cui scriviamo (fine agosto) non c’è telegiornale che non apra le trasmissioni con un servizio sul caro energia, con riferimento in particolare al gas. Innumerevoli le inutili e ripetitive interviste a persone (di solito esercenti o industriali) che affermano testualmente: “ecco la mia ultima bolletta: rispetto alla precedente è triplicata, anche se i consumi sono rimasti gli stessi”.

E qui sta il problema. Nonostante si parli, anzi si straparli, di green economy, di sostenibilità ambientale, ecc. i consumi non diminuiscono. Eppure appare evidente a tutti che l’unica strategia (o comunque la più importante) per cercare di attenuare i problemi in questo campo è proprio il risparmio energetico. Ma siccome non conviene, allora è meglio non parlarne. Oppure usarlo per prendere in giro la gente, affermando che il tal prodotto consuma meno energia del modello precedente, in modo da consentirci di ampliare la gamma di strumenti energivori per renderci più agevole la vita.

In realtà, tutti puntano sull’incremento dei consumi energetici: se poi questo vuol dire accentuare le cause scatenanti il cambiamento climatico, pazienza…. Se la temperatura aumenterà ancora, potenzieremo il nostro impianto di condizionamento; se mancherà l’acqua, la cercheremo sempre più in profondità oppure dissaleremo quella del mare, innescando perversi circoli viziosi di cui è fin troppo facile intuire le drammatiche conseguenze.
Ci sono le energie rinnovabili, dirà qualcuno. Qualcun altro ipotizza addirittura il ricorso al nucleare cosiddetto “pulito” (che è un evidente ossimoro…). Bene ha fatto Mario Tozzi a invitare i politici che, in questa aberrante e meschina campagna elettorale, propongono il ritorno al nucleare, a dirci anche esattamente dove le nuove centrali verranno costruite e dove le scorie radioattive da esse prodotte verranno immagazzinate.

Ma c’è un altro dato che dimostra come il discorso sull’energia venga manipolato. Tutti affermano che il ricorso alle energie rinnovabili dovrebbe migliorare in modo significativo l’impatto ambientale delle nostre attività. Lasciando per il momento perdere le considerazioni sul fatto che spesso le energie rinnovabili un impatto ce l’hanno eccome (pensiamo all’idroelettrico oppure al fotovoltaico su terreni agricoli), si avrebbero effetti positivi se le energie rinnovabili sostituissero quelle ottenute da combustibili fossili. Ma non è così: le energie rinnovabili oggi in pratica si aggiungono a quelle prodotte con metodi inquinanti e climalteranti.
Lo confermano i dati sui consumi di petrolio nel nostro Paese. Dopo un calo nel 2020 e nel 2021 (dovuto però alla pandemia e non certo a politiche ispirate e lungimiranti), nel 2022 siamo più o meno tornati ai livelli precedenti. Livelli che, almeno dal 2014 in poi, avevano mostrato un andamento crescente. Quindi, continuiamo a consumare (ben che vada…) la stessa quantità di petrolio del passato, anche se le disponibilità energetiche aumentano, grazie alla diffusione di quelle rinnovabili. Sarà il caldo, ma c’è qualcosa che non mi convince in questo ragionamento.

La fine del Mondo

L’Orologio dell’Apocalisse è a 100 secondi dalla fine del mondo. Ma cos’è l’Orologio dell’Apocalisse? E persino – cos’è la fine del mondo?

Riccardo Graziano

La prima risposta è semplice: l’Orologio dell’Apocalisse (in inglese Doomsday Clock, letteralmente l’Orologio del Giorno del Giudizio) è un’ideazione del 1947, agli albori dell’era atomica e della Guerra Fredda fra USA e URSS. Un gruppo di scienziati di Chicago propose di immaginare un orologio nel quale la mezzanotte rappresentasse la fine del mondo e le lancette venissero regolate in base al rischio e alla criticità del momento, per rendere plasticamente visibile all’opinione pubblica la gravità della situazione. All’epoca della sua istituzione, l’Orologio prevedeva solo la possibilità di olocausto nucleare a seguito di una guerra atomica ed era arrivato fino a meno due minuti dalla mezzanotte. Dal 2007, in un clima geopolitico mutato, vengono presi in considerazione anche altri scenari in grado di arrecare danni apocalittici all’umanità, quali i cambiamenti climatici ormai in corso. La posizione delle lancette viene fissata in genere una volta l’anno e ora siamo a meno 100 secondi, mai così vicini alla fine del mondo, almeno secondo l’opinione degli scienziati che si occupano di “spostare” le lancette a seconda del contesto, in base comunque a valutazioni piuttosto rigorose e supportate da fatti.

Ma veniamo alla seconda domanda: cosa intendiamo per “fine del mondo”?
Se pensiamo all’Universo, possiamo stare relativamente tranquilli: si espande da 14 miliardi di anni e continuerà a farlo per un tempo più o meno simile, dopodiché non si sa cosa succederà, perché i cosmologi non hanno ancora capito bene se continuerà a crescere o se collasserà su se stesso, magari innescando un nuovo Big Bang, ma abbiamo un tempo sufficientemente lungo per occuparcene.
Se invece pensiamo più modestamente al nostro Sistema Solare, anche qui non abbiamo grosse preoccupazioni: il nostro Sole è una “Nana Gialla”, una stella estremamente stabile che produce energia e calore bruciando idrogeno da 5 miliardi di anni e continuerà per altrettanto tempo a farlo, fino a quando esaurirà il combustibile. A quel punto, prima collasserà su sé stesso a causa della forza di gravità, poi la violenta compressione provocherà un’esplosione di potenza inimmaginabile, facendolo espandere alle dimensioni di una “Gigante Rossa” la cui circonferenza arriverà fino all’orbita terrestre, investendo il nostro povero pianeta e friggendo qualunque forma di vita vi fosse ancora presente. Ma anche qui, abbiamo ancora parecchio tempo per preoccuparci e non è il caso di considerarla un’urgenza.

Ma c’è un’altra “fine del mondo” da tenere in considerazione: quella dell’Umanità, intesa come estinzione di massa, o comunque della civiltà come oggi la conosciamo, con un collasso epocale in termini sia numerici, sia di condizioni di vita, o meglio di sopravvivenza. E qui i rischi ci sono, gravi e incombenti.
I mutamenti climatici sono ormai evidenti a tutti, tranne ai negazionisti di mestiere, come è anche chiara la nostra responsabilità diretta in ciò che sta accadendo, tanto che l’attuale epoca viene definita Antropocene, per rimarcare l’influsso dell’Uomo sul sistema terrestre. Siamo anche abbastanza consci del fatto che stiamo inquinando il pianeta, a partire dall’accumulo delle plastiche nell’ambiente. Più sfumata invece la percezione della perdita della biodiversità e dei rischi sistemici che questa comporta. Ma quella che manca quasi totalmente è la consapevolezza della gravità della situazione, tranne che fra gli addetti ai lavori e fra gli ambientalisti, che però ancora troppo spesso vengono etichettati come Cassandre, allarmisti, pessimisti e chi più ne ha più ne metta.
Purtroppo non è così. Come ha scritto giustamente qualcuno anche su queste pagine, la realtà non lascia più spazio al pessimismo. La situazione attuale ricalca quella preconizzata 30 o 50 anni fa dagli esperti che disegnavano scenari futuri a 30 o 50 anni. Le loro previsioni si sono puntualmente concretizzate, in alcuni casi in termini persino peggiori di quanto paventato. Chi scrive ricorda per esempio una conferenza sull’ambiente di oltre trenta anni fa, nella quale il relatore metteva in guardia sul fatto che con lo scioglimento dei ghiacciai e il modificarsi del regime delle precipitazioni, alla lunga le risaie del Piemonte avrebbero potuto trovarsi in difficoltà per carenza d’acqua nel periodo della coltivazione: ed eccoci qua, esattamente in quella situazione, con parecchi risicoltori in seria difficoltà, come peraltro molti altri coltivatori, messi in ginocchio da una siccità senza precedenti e successivamente colpiti da eventi meteorologici estremi, grandinate e alluvioni che hanno spazzato via in pochi minuti il lavoro di un’intera stagione.

Non siamo ancora ai livelli di una possibile carestia, ma il rischio diventa di anno in anno più concreto, specialmente in un Paese che continua insensatamente a cementificare e asfaltare i campi coltivabili e che nell’arco di pochi decenni ha ridotto drammaticamente la propria sovranità alimentare, ovvero la capacità di produrre sul proprio territorio il cibo destinato alla sua popolazione. Attualmente, siamo già costretti a importare l’equivalente del 38% del nostro fabbisogno di proteine e calorie. Ciononostante, continuiamo a erodere la nostra superficie coltivabile: lo stesso PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che dovrebbe guidare la “transizione ecologica” prevede di sacrificare ulteriori 200.000 ettari di terre fertili per la produzione di energia “verde”.

Nessuno contesta la necessità di riconvertire la produzione energetica puntando sulle rinnovabili e abbandonando il più velocemente possibile le fonti fossili, anzi, gli ambientalisti lo sostenevano da decenni, ben prima che la guerra in Ucraina mettesse in luce la nostra dipendenza dalle forniture russe. Tuttavia, generare energia a scapito della produzione agricola non sembra affatto una buona idea, perché lo stesso conflitto ha messo bene in evidenza anche la nostra dipendenza dalle importazioni di grano da Russia e Ucraina, cosa della quale non avevamo contezza. Per essere davvero “resiliente“, una nazione dovrebbe prima di tutto puntare all’autosufficienza alimentare oltre che energetica, sfruttando con oculatezza le proprie risorse ambientali, a partire dall’acqua e dalle terre fertili per arrivare al sole e al vento, che dovrebbero diventare i nostri fornitori esclusivi di energia, senza però impattare sull’ambiente. Constatare che il PNRR non è sufficientemente incisivo in questa direzione, anzi che addirittura si muove in modo contraddittorio, non è per nulla rassicurante.

La situazione è persino peggiore se allarghiamo lo sguardo a livello globale. Pensiamo al fondamentale rapporto “I limiti dello sviluppo” commissionato dal Club di Roma al MIT di Boston, che proprio quest’anno compie 50 anni e che ha chiarito oltre ogni dubbio che non si può crescere all’infinito in un sistema finito, quale è il nostro pianeta. Gli scenari delineati da quello studio sono attualissimi e le previsioni si sono dimostrate azzeccate, alla faccia delle innumerevoli critiche che hanno cercato di delegittimare il rapporto in ossequio alla concezione “sviluppista” tuttora in corso. Dopo la flessione produttiva dovuta alla pandemia Covid-19, abbiamo sentito da più voci ripartire il mantra della “crescita”, vista come unica opportunità per garantire benessere. Evidentemente, non abbiamo ancora capito la situazione.

Eppure, i segni della catastrofe imminente sono già presenti, non sono nemmeno più “segnali premonitori”, tuttavia ci rifiutiamo di vedere le cose per quello che sono e, soprattutto, non sembriamo intenzionati a porre rimedio alla situazione, perché ciò significherebbe mettere in discussione le nostre abitudini e i nostri stili di vita, mutare radicalmente il nostro paradigma produttivo ed economico. Tutte cose che non vogliamo fare, anche se ci stanno portando verso l’autodistruzione. Perché ci sono seri motivi se gli scienziati hanno messo le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse a soli 100 secondi dalla fine.

Il 2022, ci dice la cronaca, è l’anno più caldo e arido di sempre. Finora. Ma per visualizzare la situazione occorre un cambio di prospettiva: il 2022 rischia di essere l’anno più fresco e mite dei prossimi 30 anni, poi forse la situazione peggiorerà ulteriormente, ma di quello non è il caso di preoccuparsi, perché è possibile che ci estingueremo prima, a causa del collasso delle risorse planetarie, a partire da acqua e cibo, e delle guerre e dei conflitti che si innescheranno per accaparrarsi tutto il possibile. La conflittualità mondiale è in crescita esponenziale: russi contro ucraini, israeliani contro palestinesi, cinesi contro taiwanesi, bianchi contro neri, uomini contro donne, tutti contro tutti. Segno di un’umanità in declino che si auto divora nell’illusione di poter sopravvivere a scapito dell’altro, homo homini lupus e mors tua vita mea direbbero gi antichi. In alternativa, alcuni mega ricchi hanno pensato di blindarsi in Nuova Zelanda, paese ricco di risorse, probabilmente il più attento e avanzato in termini di tutela ambientale e, cosa non trascurabile, decisamente isolato dal resto del mondo. Un’isola felice dove i drammi globali impatterebbero assai meno che altrove. Ma le strategie di aggressione o fuga rischiano di essere entrambe fallimentari.

Il riscaldamento globale provocherà mutamenti climatici estremi, di cui i fenomeni attuali sono solo una pallida anteprima. L’alimentazione mondiale, basata su una varietà limitatissima di prodotti coltivati industrialmente, è totalmente priva della resilienza garantita dalla biodiversità: se le mutate condizioni climatiche dovessero impedire qualcuna delle monoculture su cui si basa il sistema agroindustriale, rischiamo di non avere un’alternativa in grado di sopperire ai mancati raccolti. L’accordo di Parigi prevedrebbe di contenere il surriscaldamento globale “ben al di sotto di 2°“, ma il modello di business che continuiamo a perseguire rischia di portare a un aumento medio anche di 3° - 3.5° nell’arco di questo secolo, con conseguenze inimmaginabili. Di sicuro, i ghiacciai sono destinati a scomparire nel giro di pochi anni, gradualmente o anche in modo traumatico, come ci ha mostrato la tragedia della Marmolada.

I mari saliranno inesorabilmente, nel 2050 il livello potrebbe essere più alto di 30 o 90 centimetri, a seconda degli studi. Se vi sembrano pochi, provate a chiederlo ai veneziani in un giorno di “acqua alta”. Oppure calcolate la porzione di territorio del Bangladesh destinata a diventare invivibile a causa di alluvioni o della salinizzazione delle falde acquifere, tenendo presente che sono 160 milioni in un territorio metà dell’Italia, quindi ogni Km quadrato perso vuol dire 1.000 profughi climatici. In circa trent’anni, la Grande Barriera Corallina australiana, culla di biodiversità oceanica, ha perso metà della sua superficie e rischia di scomparire del tutto, perché innalzamento e acidificazione delle acque uccidono i coralli. Entro il 2050 in mare ci sarà più plastica che pesce, lo dicono i numeri, ma noi pensiamo di aumentare ancora la produzione di plastica e sfruttiamo i banchi ittici più velocemente d quanto siano in grado di ripopolarsi. E sulla terraferma non va meglio.

La fotografia è quella di un pianeta al collasso, non più in grado di mantenere una umanità in crescita di numero e voracità. Tuttavia, lo scenario attuale è in genere quello del business as usual, avanti come se nulla fosse, continuando a segare il ramo su cui stiamo tutti seduti.
Eppure i rimedi li conosciamo da tempo: stop ai combustibili fossili, fermare il consumo di suolo, mangiare meno carne, elettrificare i trasporti utilizzando le rinnovabili, implementare l’economia circolare… Una pletora di buone intenzioni attuate solo in minima parte, insufficiente a cambiare il corso delle cose.

Noi, gli ambientalisti accusati di pessimismo, disfattismo e di “dire di no a tutto”, continueremo a impegnarci per invertire la rotta, per frenare il disastro, per salvaguardare l’ambiente, ma le forze a disposizione sono poche. Chi invece devasta ha dalla sua fiumi di denaro, potere e influenza su politici e sistema mediatico. Ma a pesare di più sul piatto della bilancia e a farci scivolare inesorabilmente verso il baratro è soprattutto l’inerzia, o forse il menefreghismo, della grande massa della popolazione, troppo incentrata su una quotidianità sempre più faticosa per vedere la catastrofe all’orizzonte.
A fronte di ciò, come detto, noi ambientalisti possiamo solo impegnarci in prima persona per quanto possiamo e informare l’opinione pubblica sulla gravità della situazione: siamo a meno 100 secondi dall’Apocalisse, dice l’orologio, mai così vicini. Tradotto, i dati e le previsioni di quelli che ci hanno già azzeccato in passato ci dicono che siamo a una trentina d’anni da un epocale collasso planetario, graduale o repentino che sia, che rischia di spazzare via le generazioni presenti, non quelle future. 0ra lo sapete. Se decidete di agire, fatelo alla svelta.

Due Parchi, cento anni, sei parole

Toni Farina

Due parchi: Abruzzo (Lazio e Molise) e Gran Paradiso. Cento sono gli anni trascorsi dalla loro nascita. Una ragione più che valida per fare festa. E sono stati soprattutto giorni di festa con tanto di taglio di torta quelli trascorsi a Roma da venerdì 22 a domenica 24 aprile all’Auditorium Parco della Musica. Tre regioni di incontri finalizzati soprattutto a enfatizzare i risultati raggiunti. In primis la salvezza delle specie simbolo dei due parchi, orso marsicano e stambecco che uniti vivacizzano il logo ideato per il centenario. E non sono risultati di poco conto, considerati i 69 anni trascorsi dal 1922 al 1991, anno di approvazione della legge quadro nazionale che ha dato finalmente origine a un sistema nazionale di aree protette.
Un evento nazionale che sarà seguito da eventi locali fino alla primavera del 2023. Sarà opportuno che in tali sedi non ci si limiti alle celebrazioni, ma si ragioni sui cento anni a venire che si annunciano tutt’altro che semplici.
L’evento nazionale che ha avuto eco mediatica soprattutto grazie alla presenza il primo giorno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il Presidente non ha gratificato la platea con un intervento, ma la sua presenza è stata comunque un importante segno di attenzione istituzionale.
Officianti ufficiali della celebrazione sono stati i due presidenti: Giovanni Cannata, fresco di insediamento alla guida del Parco nazionale d’Abruzzo, e Italo Cerise che a settembre terminerà il suo secondo mandato alla guida del Parco nazionale Gran Paradiso. Dieci anni di impegno finalizzato in gran parte a consolidare il rapporto con le amministrazioni e comunità locali, a superare i dissidi che hanno caratterizzato la vita del parco. Obiettivo in buona parte raggiunto, considerata la folta presenza dei sindaci in sala, con tanto di fascia tricolore.

Molte le parole proferite negli incontri. Gli autorevoli intervenuti hanno ribadito concetti importanti, a partire dal valore della tutela della biodiversità, esaltato soprattutto da Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi: “l’Italia è il primo paese in Europa per varietà di specie naturali” (ma non è certo il primo per impegno nella loro tutela, aggiungo io).
Parole come un fiume in piena, dal quale ne ho tirate a riva quattro: laboratorio, territorio, governo, limite.
Laboratorio. I parchi “laboratorio di sostenibilità ambientale”, non è una tesi coniata di recente, ma nella tre giorni romana la tesi è stata ufficialmente sdoganata. Molti interventi hanno ribadito il concetto. Ma quanti l’hanno affermato con cognizione di causa? Perché se la missione dei parchi è questa, le risorse messe oggi a loro disposizione sono men che ridicole. Risorse finanziarie e risorse umane, la cui carenza è stata ampiamente ribadita dal Presidente Cerise.

Territorio. Termine che va per la maggiore, per i primi posti se la gioca con “sinergia” e “fare sistema”. Ascoltare il territorio, valorizzare il territorio, cose così, insomma. Ma, qual è il territorio di competenza di un parco? Soprattutto di grandi parchi come i festeggiati che interessano più regioni. Possono limitare la loro azione di governo all’area interna ai confini? Se così fosse la missione di cui sopra è fallita in partenza. Si pensi solo al turismo, alla mobilità dei flussi. Quando che nel consiglio direttivo del Gran Paradiso di cui faccio parte affermo che il parco inizia non a Ceresole o a Ronco, ma a Torino (per quanto riguarda il Piemonte), sono guardato in modo “strano”. Tuttavia, il flusso di visitatori motorizzati che preme ai confini dell’area protetta, fuggendo dalla città nelle torride domeniche estive è un problema la cui (difficile) soluzione va cercata fin dalla città o dalla pianura. E il parco volente o nolente è coinvolto.

Governo. O per meglio dire “governance”, termine tecnico che non poteva non entrare a buon diritto. Gli abissali ritardi nel rinnovo degli organi direttivi degli enti (presidente in primis) sono un vero handicap per la funzionalità degli enti. Ritardi in buona misura dovuti alla ricerca quasi paranoica della condivisione locale, con i veti incrociati e il bilancino a dosare l’alternanza fra regioni e comuni. E la competenza dei candidati quasi sempre messa nell’angolino.

Limite. Il termine ha in realtà brillato per l’assenza. A quel che ricordo soltanto direttore del Parco d’Abruzzo (Lazio e Molise) Luciano Sammarone ne ha accennato in una slide, facendo riferimento a forme di turismo in espansione, quale il turismo detto esperienziale o la fotografia naturalistica. Un segno questo di quanto tale termine continui a creare inquietudini.
A queste quattro parole ne aggiungo due che, al netto dei cali di attenzione, non ho udito negli interventi: libertà e pace.

Libertà. “Acque libere: uomini liberi - Qui comincia il paese della libertà”. Si incontrano queste parole su alcune bacheche collocate all’inizio di alcune frequentate mulattiere del Parco Gran Paradiso. Fanno parte di un manifesto dedicato al parco dallo scrittore e cineasta francese Samivel.
Subito a seguire però Samivel specifica: “La libertà di comportarsi bene”.
Come declinare questo invito oggi, 2022, anno secondo della transizione ecologica? Cosa vuol dire comportarsi bene in un parco naturale? Un luogo in cui Homo sapiens dovrebbe entrare in punta di piedi, perché la priorità andrebbe data agli altri esseri viventi. Per il Parco nazionale Gran Paradiso la risposta arriverà con l’approvazione del regolamento. Norme che dovranno sanare vuoti in diversi ambiti, da una puntuale pianificazione territoriale alla fruizione turistica. Norme che daranno un segnale per i 100 anni a venire.

Pace. Non so il terzo giorno di incontri, ma nei primi due questa parola non è giunta. Eppure, di questi tempi, un appello neppur troppo simbolico, alla pace fra Uomo e Natura sarebbe stato una bella cosa. Perché la pace fra uomo e natura non è poi molto diversa di quella fra uomini.
Auguri a noi e ai due parchi centenari. I prossimi cento sono un bel dilemma.

Appendice
C’è stata un’altra assenza durante la tre giorni romana: le associazioni di tutela ambientale. Gli “ambientalisti”. Nessun spazio è stato riservato alle associazioni negli interventi. Solo Legambiente aveva uno spazio espositivo dell’area detta “villaggio dei parchi”. Come interpretare tutto ciò?
Il movimento della protezione della natura è ormai obsoleto? Un fastidioso ingombro?
Un residuo del passato, di cui non si avverte più necessità? I parchi hanno dunque lasciato l’alveo originario per avventurarsi verso sorti magnifiche e progressive? Per una risposta non ci sarà da attendere 100 anni.

Transizione energetica: la vogliamo fare per davvero?

Riccardo Graziano

La transizione energetica è una necessità assoluta, sia in termini ambientali, sia in termini economici. L’Italia sembrerebbe esserne pienamente consapevole, tanto da aver istituito un apposito Ministero, che ha preso il posto di quello che era il Ministero dell’Ambiente. Sembrerebbe, appunto. Perché alle volte l’impressione è che il Ministro sia lì per ostacolarla, la transizione, o perlomeno per attuarla avendo come bussola di riferimento gli interessi di alcune compagnie energetiche, piuttosto che l’emergenza climatica. Infatti, suona abbastanza strano che per attuare il necessario e ormai indifferibile abbandono dalle fonti fossili che provocano l’effetto serra, si punti sul metano, gas fossile a elevato effetto serra. O che per diminuire la dipendenza dal gas russo si punti sul gas dell’Azerbaijan, paese contiguo alla Russia stessa. O ancora, che si indichi la soluzione miracolistica del nucleare di “quarta generazione”, che di fatto non esiste e che potrebbe essere operativo, forse, fra trent’anni, senza peraltro risolvere l’annoso problema delle scorie radioattive. Invece, dalle parti del Ministero si parla troppo poco di energie rinnovabili, che sono la vera soluzione ai problemi energetici del nostro Paese e la strada giusta per mitigare il riscaldamento globale, oltre a presentare vantaggi anche dal punto di vista economico e occupazionale.
Le ragioni per spingere in questa direzione sono essenzialmente tre: la necessitò di arginare la crisi climatica, la crescente competitività economica delle rinnovabili e il forte ritardo accumulato dall’Italia nel percorso di decarbonizzazione, che rischia di porci in difetto e farci sanzionare per il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dagli accordi internazionali.

Il fatto che le rinnovabili rappresentino il futuro della produzione energetica è ben chiaro da tempo agli ambientalisti e a una fetta crescente di opinione pubblica, ma soprattutto lo hanno capito anche molti operatori del settore, che hanno fiutato ottime possibilità di business, specialmente in vista della pioggia di soldi in arrivo col PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da attuare con i fondi previsti dalla UE.
Sono proprio questi produttori a premere sull’acceleratore e a mettere in risalto i vantaggi delle rinnovabili, fornendo forse la spinta decisiva verso la necessaria svolta energetica, da tempo auspicata dagli ecologisti. Ma non è tutto “verde” quello che luccica…

Partiamo dalle considerazioni economiche, che sono quelle più care ai produttori. Il prezzo dei contratti di acquisto a lungo termine di energia rinnovabile sono scesi a precipizio nell’arco di pochi mesi, passando da 270 €/MWh a 68 €/MWh, meno di un quarto rispetto all’autunno scorso. Inoltre, sul lungo periodo la IEA (International Energy Agency) prevede che almeno la metà degli asset (i beni di proprietà) delle aziende legate al fossile subiranno sensibili deprezzamenti già entro il 2036, abbassando la capitalizzazione di questi soggetti, motivo per cui anche le nazioni più retrive, Cina e India (che prevedono l’uscita dal fossile rispettivamente al 2060 e 2070) potrebbero decidere di anticipare la transizione, per evitare dissesti finanziari.

Accelerare sulla decarbonizzazione, oltre che una necessità ambientale, è dunque anche una scelta strategica vincente sul lato economico, con importanti ricadute positive tecnologiche e occupazionali. Le stime ci dicono che puntando in maniera decisa verso l’elettrificazione (nel settore della mobilità, nell’ambito domestico eccetera) nel 2030 il fabbisogno energetico italiano dovrebbe aggirarsi sui 340-350 TWh, anche se non è semplice calcolare i risparmi derivanti dall’aumento dell’efficienza e dalla progressiva dismissione delle raffinerie di combustibili fossili, impianti altamente energivori, oltre che fonte di inquinamento. Questo fabbisogno andrà soddisfatto aumentando la quota di rinnovabili nel mix energetico italiano, passando dall’attuale 40% al 72%. In termini assoluti, si tratta di passare dai circa 180 TWh prodotti col gas nel 2019 a 80 TWh nel 2030, mettendoci anche parzialmente al riparo dal’impennata dei prezzi di questo combustibile, che oggi pesa tantissimo sui rincari delle nostre bollette. Questi 100 TWh di differenza dovranno essere garantiti dall’installazione di nuovi impianti rinnovabili per 70 GW di potenza, essenzialmente fotovoltaico ed eolico, il cui prezzo è decisamente meno soggetto ai capricci del mercato, al limite un po’ a quelli del meteo. Per capirci, i rincari dei prezzi del gas hanno provocato un incremento della bolletta nazionale dai 44 miliardi del 2019 ai 75 del 2021, un aumento di 31 miliardi che ci saremmo risparmiato se avessimo già avuto un maggior apporto dalle fonti rinnovabili pari a quello previsto per il 2030, appunto 70 GW di potenza in più. Un obiettivo teoricamente a portata di mano, se si considera che Terna, il gestore della rete di distribuzione nazionale, ha già ricevuto richieste di allacciamento per 155 GW di nuovi impianti, più del doppio della cifra ipotizzata. La stessa Enel, maggior produttore nazionale, prevede 210 miliardi di investimenti “verdi” da qui al 2030 e l’uscita completa dal fossile nel 2040.

A fronte di ciò, i produttori lamentano la lunghezza degli iter autorizzativi (cinque anni il tempo medio per il via libera) e l’elevata percentuale di mancate autorizzazioni: su 42 pareri espressi dalle Regioni, 41 sono negativi, su 45 pareri espressi dal Ministero della Cultura, 35 sono negativi. Sempre i produttori pongono l’accento sulle calamità provocate dall’emergenza climatica, che ogni anno costano all’Italia miliardi di danni per compensare le devastazioni del territorio, sostenendo che la difesa del territorio medesimo passa proprio attraverso quegli impianti che spesso non vengono autorizzati per ragioni paesistiche e ambientali.

Ed è proprio qui che si annida il rischio che qualcuno ha giustamente intravisto nella modifica dell’articolo 9 della Costituzione, dove alla tutela del paesaggio si affianca quella dell’ambiente, anche a vantaggio delle “future generazioni”. Lo stesso rischio ancora più evidente nel “Decreto semplificazioni” studiato per eliminare i “lacci burocratici”, o nel continuo depotenziamento delle Soprintendenze. Il rischio, per dirla chiaramente, che il territorio e il paesaggio, elementi caratteristici e vincenti del Belpaese, vengano sacrificati per piazzare un po’ ovunque pale eoliche gigantesche o impianti fotovoltaici a terra, con la scusa di “tutelare l’ambiente a vantaggio delle future generazioni”. Secondo le previsioni dell’ISPRA – l’Istituto nazionale che si occupa di ricerca e protezione ambientale – e del GSE (Gestore Servizi Energetici) potremmo subire una perdita compresa tra i 200 e i 400 chilometri quadrati di aree agricole entro il 2030 per il fotovoltaico a terra, a cui secondo Enel se ne aggiungerebbero altri 365 per nuovi impianti eolici.

E pensare che abbiamo una porzione enorme di territorio già ampiamente cementificato, asfaltato, impermeabilizzato, spesso già in stato di abbandono e degrado, senza necessità di devastare altro suolo. Sempre secondo l’ISPRA, la superficie di tetti dove sarebbe possibile installare pannelli fotovoltaici è sui 700/900 chilometri quadrati, quanto basterebbe per produrre i 70 GW in più che ci servono. Se poi aggiungiamo parcheggi e aree dismesse, possiamo valutare un’ulteriore superficie in grado di fornire altri 60 GW di potenza installata, senza consumare un metro di suolo. Eppure queste ipotesi non vengono minimamente prese in considerazione, mentre ci si ostina a voler occupare terreno vergine, che invece andrebbe riservato alla produzione agricola o alla tutela della biodiversità e dei servizi ecosistemici.

La sfida per le Associazioni ambientaliste è dunque quella di far capire all’opinione pubblica e ai produttori di energia che questa è la strada da percorrere, evitando il consumo di suolo e generando l’energia direttamente dove serve, sui tetti delle case e dei capannoni industriali o nei parcheggi dei centri commerciali, anziché in mezzo alle campagne. Facendo capire che non siamo quelli del “NO” allo sviluppo, bensì che vogliamo indirizzare il progresso in modo tale da ottenere la riconversione energetica senza danneggiare l’ambiente, puntando sull’innovazione tecnologica sia degli impianti di produzione e accumulo, sia della rete di distribuzione.

Ci mancava la peste suina...

Roberto Piana e Piero Belletti

Le vicende legate alla presenza del cinghiale sul territorio sembra non possano mai avere pace. A fianco delle ormai croniche problematiche legate ai danni all’agricoltura, si è recentemente aggiunta anche l’epidemia di peste suina africana, di cui alcuni focolai sono stati individuati nei mesi scorsi nelle zone al confine tra le Province di Alessandria, Genova e Savona.
La reazione del mondo politico, ma soprattutto di quello venatorio, è stata improntata più all’isterismo che alla pacata e razionale analisi dei fatti. Da un lato, infatti, si sono adottati provvedimenti di eliminazione generalizzata di cinghiali, ma anche di maiali, nelle aree coinvolte. Non solo, è anche stata confermata la concessione ai cacciatori di effettuare i cosiddetti piani di prelievo (ci rifiutiamo di considerarli “selettivi”…), anche con l’aiuto dei cani. Cosa che è unanimemente riconosciuta come deleteria, sia per la diffusione dei cinghiali che viene provocata, sia per il pesantissimo impatto su molte altre specie animali che condividono l’areale con il cinghiale. Dall’altra parte si sono sentite assurde accuse contro la presenza del lupo, che invece rappresenta forse l’arma più efficace per contrastare la diffusione dell’epidemia.
Va in ogni caso riconosciuto che le difficoltà del mondo agricolo legate alla diffusa presenza della specie sul territorio, reali ed oggettive, non hanno trovato adeguate risposte da parte degli Enti Pubblici, a partire dallo Stato fino a giungere alle varie Amministrazioni Regionali.

Il cinghiale, all’inizio del secolo scorso, era scarsamente presente in Italia e limitato ad alcune aree dell’Italia centro-meridionale e della Sardegna. Di fatto era assente in tutto il nord del Paese. In seguito, una forte espansione dell’areale venne ottenuta da un lato a seguito dell’abbandono di numerose aree fino ad allora coltivate, ma soprattutto a seguito di massicce immissioni di esemplari provenienti da allevamenti oppure dall’estero, unicamente per fini venatori e incoraggiate dagli Enti Pubblici di riferimento: Regione e Province. Tra l’altro, tali interventi hanno riguardato la sottospecie centro-europea (e non quella maremmana autoctona nel nostro Paese), più grande e prolifica, ma anche più esigente dal punto di vista alimentare. Nel giro di pochi anni la presenza di questo suide si è così radicata sul territorio nazionale, interessando sempre di più le aree agricole e causando danni ingentissimi alle coltivazioni. I danni, mai adeguatamente ristorati o mitigati dalle politiche gestionali di settore, hanno messo in difficoltà e spesso in ginocchio le imprese agricole. La compromissione degli ambienti naturali è progredita in parallelo, impoverendo la biodiversità degli ecosistemi. L’abnorme diffusione del cinghiale, voluta dal mondo venatorio, ha causato la sottrazione di ambienti e risorse trofiche alle altre specie selvatiche. Le politiche venatorie, per decenni seguite ed ancora oggi propagandate come metodo di gestione della specie, sono miseramente fallite. Oggi assistiamo in tutta Italia a una situazione di fatto in cui l’allevamento dei cinghiali allo stato brado avviene a spese del mondo agricolo e degli ambienti naturali.
Braccate e girate con l’utilizzo dei cani determinano la disgregazione dei gruppi sociali di questo suino, la dispersione dei capi, la perdita della sincronizzazione dell’estro delle femmine, la costituzione di nuovi branchi a spese dei campi coltivati, l’aumento degli incidenti stradali, il danno alle altre specie selvatiche, la “militarizzazione” del territorio ad opera delle squadre dei cinghialai, l’aumento del pericolo anche per gli esseri umani. Ormai nessuno crede più che i cacciatori, cioè coloro che hanno contribuito a realizzare questa situazione, possano proporsi come gestori e solutori del problema.

Parallelamente alla crescita numerica dei cinghiali si è realizzata una filiera clandestina della carne, con pericoli sanitari ed una economia sommersa che sfugge ai controlli fiscali. Si realizza così l’illecito guadagno di pochi a danno di tutti.
Per cercare di migliorare la situazione è stato avviato in Piemonte un confronto tra ambientalisti ed agricoltori. Confronto che prosegue tuttora e che coinvolge anche altre Organizzazioni professionali.
Un primo importante risultato è stato ottenuto: le Associazioni ambientaliste ed animaliste del "Tavolo Animali & Ambiente" di Torino (tra cui Pro Natura Torino e Pro Animali e Natura, entrambe aderenti alla Federazione Nazionale Pro Natura) hanno convenuto sulla assoluta necessità di riduzione numerica della specie cinghiale a livelli compatibili con il legittimo diritto di chi coltiva di poter raccogliere ciò che semina, a partire dalla corretta applicazione dell’art. 19 della Legge n. 157/1992, che antepone gli interventi ecologici a quelli cruenti, affidandone la gestione agli Enti Pubblici e non ai cacciatori, per i quali è fin troppo evidente il conflitto di interesse.
Alla luce dell’attuale drammatica situazione, il COAARP (Comitato Amici degli Ambienti Rurali del Piemonte) ed il citato Tavolo, pur nella differenza degli interessi rappresentati e delle diverse metodiche di approccio al problema, si sono trovati concordi sull’analisi della situazione in atto e sugli irrinunciabili principi e obiettivi, riassunti in un manifesto articolato in cinque punti.

1. La riduzione numerica della specie cinghiale sul territorio a livelli compatibili è obiettivo irrinunciabile, a partire dalla corretta applicazione dell’art. 19 della Legge n. 157/1992, che antepone gli interventi ecologici a quelli cruenti, affidando la gestione agli enti pubblici e non ai cacciatori. La gestione del cinghiale deve essere sottratta al mondo venatorio, che non ha alcun interesse a vedere ridotta numericamente la specie e per il quale è fin troppo evidente il conflitto d’interesse. Le attività di controllo competono alle Province e alle Città Metropolitane attraverso il proprio personale e non ai cacciatori.

2. L’agricoltore ha diritto di poter raccogliere ciò che semina. I ristori, peraltro doverosi che arrivano dalla politica, interessano poco: alle già tante difficoltà create dagli eventi atmosferici non vi è bisogno si aggiungano le calamità create dal mondo venatorio per soddisfare i propri interessi ludici ed economici.

3. L’attività venatoria non costituisce alcun valore aggiunto per l’agricoltura Il cacciatore usufruisce gratuitamente dei terreni privati, coltivati e non, a spese dei proprietari e spesso è anche di ostacolo ad utilizzi turistici e culturali in grado di sviluppare economie locali ecologicamente compatibili. L’agricoltore ha il diritto di poter escludere dai propri fondi coloro che ritiene possano essergli causa di danni. Il superamento della deroga pro caccia dell’art. 842 del Codice Civile, che consente al cacciatore di poter entrare nei fondi privati contro il volere del proprietario, dovrà trovare accoglimento da parte del legislatore.  

4. No alla realizzazione di una filiera della carne di cinghiale L’ipotesi della realizzazione di una filiera della carne di cinghiale determinerebbe unicamente la permanenza e l’incremento dell’attuale situazione.

5. Il futuro dell’attività agricola sarà nel tempo sempre più improntato a produzioni ecologicamente sostenibili, rispettose degli equilibri ambientali e del benessere degli animali nonché valorizzanti le produzioni e le eccellenze locali con il saggio decremento delle importazioni dai Paesi esteri.
Un primo passo, lungo una strada difficile ma che è necessario intraprendere, nella speranza che anche in altre realtà regionale si organizzi qualcosa di simile.

Guerra in Ucraina

Riccardo Graziano

Giovedì 24 febbraio, alle prime luci dell’alba, le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, attaccandola su più fronti, da nord, est e sud. Quella che i russi, con colossale ipocrisia, continuavano a indicare come “esercitazione” si è trasformata nella più grande occupazione di una nazione sovrana europea dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, l’equivalente dell’aggressione nazista e sovietica del 1939 contro la Polonia.
L’evento è di una gravità inaudita, sia per i cittadini ucraini, che subiscono in prima persona la violenza dei combattimenti, sia per l’Europa, dove si ripercuoteranno contraccolpi di notevole portata, sia per il mondo intero, dove iniziano a delinearsi con chiarezza nodi di tensione destinati a esplodere in conflitti fra i blocchi di potere che puntano a conquistare la supremazia planetaria.
Si tratta di un evento di portata storica e globale, destinato  a impattare anche sulle nostre vite, anche se al momento ce ne rendiamo conto solo in parte. Un avvenimento che presenta molteplici profili di complessità, sotto l’aspetto strategico, politico, economico, sociale e ambientale, che una rivista come la nostra, che si chiama non a caso Natura e Società, ha il dovere di analizzare. Perché sappiamo bene che la giustizia climatica non è raggiungibile senza giustizia sociale e viceversa. E sappiamo bene che, con le sfide ambientali che incombono, l’umanità dovrebbe utilizzare ogni risorsa disponibile per tutelare la propria sopravvivenza, anziché accelerare sulla strada della propria autodistruzione.
Data l’ampiezza della questione, ci concentreremo principalmente sugli aspetti più vicini alle tematiche ambientali e su come queste vengano “considerate” dai vertici del Cremlino, gli stessi che hanno pianificato e lanciato l’attacco contro l’Ucraina.
Una cosa però ci preme ricordare, al di là di ogni retorica: come sottolineava Gino Strada, uno che sapeva bene di cosa parlava, dopo decenni passati a praticare chirurgia d’emergenza in zone di conflitto, la guerra provoca morti, feriti, invalidi, traumatizzati. Il 90 per cento di queste vittime sono civili indifesi, di cui un terzo bambini. Persone che subiscono senza colpa le smanie di potere e le ambizioni di conquista del potente di turno, in questo caso Vladimir Putin, il nuovo zar di tutte le Russie, che accarezza il sogno di ricostruire l’Unione Sovietica.

L’impero del fossile
Da quando Putin si è insediato al Cremlino, ha perseguito con determinazione a tratti feroce la ricostruzione politica, economica e militare di un Paese in crisi profonda dopo il crollo dell’URSS e il saccheggio delle sue enormi ricchezze perpetrato attraverso la privatizzazione selvaggia di beni e aziende statali. Lo ha fatto puntando dal punto di vista politico sul sentimento nazionalista ferito e dal punto di vista economico sulla disponibilità di risorse fossili, in particolare gas e petrolio, da vendere a un mondo sempre più affamato di energia. Il colosso petrolifero russo Gazprom è fra i principali produttori ed esportatori di combustibili fossili, nonché fra i maggiori responsabili mondiali di emissioni di gas a effetto serra, fattore che è alla base dei cambiamenti climatici ormai evidenti. La transizione ecologica verso le rinnovabili, sempre più urgente, viene regolarmente ostacolata da una serie di Paesi le cui economie si reggono sulle fonti fossili, utilizzate in proprio o esportate che siano. La Russia è uno di questi Paesi, come ha dimostrato per esempio alla Cop 24 di Katowice, dove insieme al Kuwait, all’Arabia Saudita e agli USA di Trump, ha manovrato per annacquare gli accordi finali del vertice, anche perché sembra convinta di avere tutto da guadagnare dai mutamenti climatici, a scapito delle nazioni della fascia temperata che vanno verso la tropicalizzazione del clima o dei piccoli Stati insulari, che rischiano di essere sommersi dall’innalzamento degli oceani.

Gli amici del cambiamento climatico
Fino a oggi gran parte del territorio russo è stato caratterizzato da un clima estremamente rigido: la Siberia è sinonimo stesso di freddo glaciale e condizioni di vita estreme. Dal punto di vista di Mosca, il riscaldamento globale sembrerebbe vantaggioso, perché potrebbe trasformare le gelide steppe del nord da distese di muschi e licheni in terre fertili e coltivabili, su un’estensione tale da garantire una produzione in grado di soddisfare mezzo pianeta, mentre le attuali zone temperate vedrebbero il proprio clima tropicalizzarsi o peggio desertificarsi, come potrebbe succedere anche all’Italia. Già oggi grazie all’innalzamento delle temperature la produzione di grano in Russia è salita vertiginosamente, tanto da farla diventare il maggior esportatore a livello mondiale, proprio a scapito della quota della UE. Ne consegue che la classe dirigente moscovita non sembra minimamente preoccupata dal costante surriscaldamento atmosferico, nonostante sia potenzialmente nefasto anche per il loro territorio, che a causa di siccità prolungate e temperature anomale ha visto svilupparsi incendi devastanti nelle foreste boreali del Paese. Nel 2020 gli incendi hanno devastato un'area di 27,75 milioni di ettari, di cui il 64% erano boschi. Nel 2021 si stima sia andata ancora peggio, con circa 30 milioni di ettari in fumo, più o meno come se fosse bruciata l’intera Italia.

Inoltre, è noto che il surriscaldamento delle zone artiche provoca lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno un tempo perennemente ghiacciato, con tutte le conseguenze che questo comporta, a partire dall’instabilità che si crea sotto la superficie. Si sono già registrati vari episodi di sprofondamento del terreno, a volte con l’apertura di vere e proprie voragini. Finché questo accade in qualche zona spopolata, va ancora bene. Ma quando succede sotto le (per fortuna poche) zone abitate della regione, la questione cambia. La città di Vorkuta ha già visto quasi metà dei suoi edifici inclinarsi pericolosamente, a causa dell’instabilità del terreno. Ma ancor peggio è andata a Norilsk, dove sono collassate le fondamenta di un deposito di carburante che ha riversato 20.000 tonnellate di gasolio nei terreni e nelle acque circostanti, provocando danni per milioni di dollari. Più in generale, lo sprofondamento non uniforme del terreno provoca infossamenti, crepe e collassi in tutte le infrastrutture delle zone a cavallo del circolo polare, con la necessità di spendere milioni di dollari per rattoppare i danni. Il cambiamento climatico è dunque una minaccia anche per la Russia, così come per il resto del mondo, ma allo zar queste quisquilie non interessano: lui il mondo vuole dominarlo, mica preservarlo per le future generazioni.      

Ghiaccio bollente
Un altro degli effetti del riscaldamento globale è lo scioglimento della calotta polare artica, in rapida accelerazione. Da tempo il mondo scientifico e ambientalista ha lanciato l’allarme per il rischio di perdere questa zona glaciale, un vero e proprio “termoregolatore” planetario che contribuisce alla “climatizzazione” globale e che aumenta l’albedo della Terra, ovvero la sua capacità di riflettere i raggi solari: nel momento in cui la superficie ghiacciata si riduce, le acque scure del mare artico assorbono maggiori quantità di radiazioni e si riscaldano, facendo sciogliere ulteriormente la calotta. Un fenomeno dunque che si autoalimenta e rischia di far scomparire del tutto i ghiacci del Mare Artico, provocando conseguenze gravi e imprevedibili sulla circolazione delle acque e sulla flora e fauna marine. Uno scenario che preoccupa scienziati e ambientalisti, ma che la Russia vede invece come un’opportunità, perché consentirebbe di aprire nuove rotte commerciali nordiche e transpolari attualmente precluse dalla presenza dei ghiacci. Inoltre, con una buona dose di cinismo, la Russia ha pensato di approfittare dei tratti di mare già liberati dal ghiaccio per sfruttare giacimenti fossili sottomarini finora difficilmente raggiungibili. Qualche anno fa, la motonave Arctic Sunrise di Greenpeace aveva solcato quelle acque per manifestare pacificamente il dissenso verso le trivellazioni petrolifere nelle acque polari. La marina russa aveva immediatamente abbordato l’imbarcazione, ponendola sotto sequestro e imprigionando per varie settimane gli attivisti a bordo, ennesima riprova della “democraticità” dei metodi di Mosca e della sensibilità sociale e ambientale che si respira da quelle parti.

E-missioni di guerra
Un carro armato consuma in media 2 o 3 litri di carburante a chilometro, vale a dire 200/300 litri ogni 100 km. Per un’ora di volo, un elicottero da combattimento brucia circa 500 litri di carburante, un cacciabombardiere oltre 16.000. I mezzi di appoggio mediamente necessitano di un litro a chilometro. I carburanti emettono in media 2,5 kg di anidride carbonica per ogni litro bruciato. Utilizzando questi dati, il portale di meteorologia Nimbus nel 2003 aveva calcolato l’ordine di grandezza delle emissioni della scellerata guerra degli USA di Bush jr. in Iraq, quantificandolo in oltre 112.000 tonnellate di anidride carbonica al giorno, derivanti dai circa 45 milioni di litri di carburante utilizzati quotidianamente nei combattimenti [http://www.nimbus.it/articoli/2003/030325climaguerra.htm]. Il dispiegamento di forze in Ucraina da parte di Mosca è presumibilmente inferiore, ma ciò non toglie che le emissioni saranno elevatissime. Un brutto modo per implementare l’effetto serra e i mutamenti climatici derivanti dal surriscaldamento globale, ma come abbiamo visto la Russia è convinta di trarne giovamento...

Chernobyl e le sue sorelle
In Ucraina ci sono quattro centrali nucleari con quindici reattori, oltre a quella tristemente famosa di Chernobyl, protagonista del più grave caso di incidente avvenuto in questo tipo di impianti, con una fuga di radioattività che interessò tutta l’Europa e costrinse gli abitanti del luogo ad abbandonarlo per sempre. Le truppe russe puntano al controllo di questi siti strategici e sono abbastanza vicine a conseguire l’obiettivo, con risultati imprevedibili. Le centrali forniscono oltre la metà del fabbisogno energetico dell’Ucraina: se cadono in mano all’invasore, c’è come minimo il rischio di vedersi tagliare la fornitura elettrica. Ma occorre non sottovalutare il pericolo intrinseco di questi impianti, che se manomessi deliberatamente possono diventare un’arma atomica impropria in mano al nemico, con un potenziale letale di materiale esplosivo e radioattivo. Una debolezza strategica, insomma. L’eventualità che le centrali nucleari possano diventare bersagli sensibili e pericolosissimi in caso di conflitto è un’ulteriore fattore di rischio da mettere in conto, proprio ora che in Italia erano di nuovo spuntati parecchi fautori dell’energia atomica, che blateravano di centrali “sicure” senza avere la minima idea di cosa stessero parlando e non tenendo conto del fatto che per due volte i cittadini hanno bocciato il nucleare attraverso lo strumento democratico del referendum. Per ora, l’attacco militare alle centrali ucraine li ha bruscamente costretti al silenzio.

Dalla Russia con stupore
L’invasione russa ha improvvisamente zittito anche le voci di quei purtroppo non pochi politici italioti – a volte gli stessi sostenitori del nucleare – che esaltavano la figura dell’uomo forte Putin, salvo stupirsi oggi del suo comportamento da dittatore e assassino seriale, come se le guerre in Cecenia, Georgia e Crimea le avesse ordinate qualcun altro. In alcuni casi, sono gli stessi che invocano un intervento più deciso dell’Europa, dopo averla criticata per anni. Anche l’incoerenza, a questi livelli, rischia di diventare un’arma di distruzione di massa, però rivolta verso i propri cittadini, compresi quelli che votano per loro.

Il profugo che viene dal Nord
In questi giorni abbiamo assistito a un esodo di massa dei civili ucraini verso Occidente, improvviso e tumultuoso, con milioni di profughi. Abbiamo visto quale straordinaria e commovente catena di solidarietà si sia mobilitata per accoglierli, specialmente in Polonia, dove si registra l’afflusso maggiore. Questo tuttavia non ci fa dimenticare che, solo poche settimane fa, quei confini erano stati brutalmente blindati nei confronti dei profughi afgani, a loro volta in fuga dal regime dei Talebani, che in una scala della ferocia sono perfino superiori a Putin. Significa che la “fortezza Europa” accetta solo profughi “interni”? Che i rifugiati di guerra sono tali solo se la guerra si combatte in Europa? Strano concetto di accoglienza, peraltro ben esemplificato dalle parole di un politico norditaliota (guarda caso sostenitore del nucleare e pure di Putin, almeno fino a poco fa…) che sosteneva che vanno accolti solo i profughi delle “guerre vere”. Cioè? Le guerre in Afghanistan, Siria, Yemen e i molteplici conflitti africani non valgono? Eppure le persone muoiono anche lì, compresi donne e bambini. Urge un riesame delle pratiche di accoglienza e solidarietà, specialmente in vista del fatto che, entro pochi anni, questi esodi biblici aumenteranno in maniera esponenziale, a causa dei mutamenti del clima. Per ora, i “profughi climatici” sono una minoranza, ma sono destinati a crescere costantemente di numero. Cosa faremo quando milioni di persone saranno costrette a spostarsi dai loro territori? Li discrimineremo in base a provenienza e colore della pelle? Se scappano dalle inondazioni sì, se fuggono dalla siccità no? E se toccasse anche a noi? L’Italia è uno dei Paesi più esposti ai cambiamenti climatici. Pensiamoci, prima di sbattere la porta in faccia a qualcuno.

La quinta colonna
Infine, un accenno al nemico più insidioso da sconfiggere, una vera e propria “quinta colonna”, numerosa e ramificata in tutta Europa, che sostiene Putin e la sua guerra finanziandoli a piene mani. Siamo noi, tutti noi, che utilizziamo energia elettrica prodotta per quasi la metà col gas, di cui la Russia è il nostro maggior fornitore. Grosso modo, un quinto dell’elettricità che utilizziamo è prodotta col gas che ci vende Mosca, per non parlare del petrolio. Il miglior modo per frenare il conflitto sarebbe di non comprare più quel gas, tagliando una fonte di finanziamento vitale alla Russia. Ma non andando a comprare gas e petrolio da qualche altra parte, spostando semplicemente la nostra subalternità strategica verso qualcun altro. No, la strada giusta è quella di puntare verso le rinnovabili, che ci consentirebbero di produrre energia a casa nostra, con sole e vento, che di sicuro non ci applicheranno rincari. E nell’attesa di implementare la produzione delle rinnovabili, ridurre drasticamente i consumi. Ma saremmo capaci – e motivati – a fare delle rinunce per fermare la guerra? Saremmo disposti a condividere con i fratelli ucraini il disagio del coprifuoco, per consumare meno energia di notte? O perlomeno a ritoccare i nostri consumi senza troppo sconvolgimento, per esempio non giocando più nessuna partita di calcio in notturna, evitando così di accendere i riflettori, o altre cosuccie di questo tipo. Variazioni minime delle nostre abitudini, piccole limature ai nostri capricci e privilegi, che consentirebbero di dare un taglio ai consumi e limitare le importazioni di combustibili fossili, a cominciare da quelle provenienti dalla Russia. Un buon modo per rafforzare la bilancia dei pagamenti import-export ed evitare di finanziare dittatori e “stati canaglia”.

Ma al di là dell’indignazione, delle belle parole e delle frasi di circostanza, ce l’abbiamo davvero la volontà di farlo?



L’ambiente e gli animali entrano nella costituzione. Ma c’è proprio da festeggiare?

Piero Belletti

Lo scorso 8 febbraio la Camera dei Deputati ha approvato, praticamente all’unanimità e in forma definitiva, la Legge costituzionale che include la tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali fra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana. Sembrerebbe una buona notizia, visto lo storico disinteresse mostrato dal legislatore italiano nei confronti di queste tematiche. Ma è proprio così?

Una maggioranza schiacciante, tale da rendere inutile il ricorso al referendum popolare confermativo: così il Parlamento ha modificato la Costituzione della nostra Repubblica, inserendo tra i Principi Fondamentali alcuni dei temi che hanno sempre contraddistinto le nostre battaglie. Tra parentesi, stupisce non poco il silenzio che ha accompagnato l’intero iter procedurale: al di fuori dei luoghi di potere se ne è parlato pochissimo e la maggioranza della popolazione è venuta a conoscenza della questione a cose fatte. Forse (eufemismo…) si poteva ampliare preliminarmente il dibattito, coinvolgendo in misura molto maggiore i settori della società civile interessati. Il fatto che tutto sia avvenuto sotto traccia e quasi alla chetichella non giova certo alla trasparenza e alla irreprensibilità degli scopi dei proponenti. Ipotesi, questa, rafforzata dalla votazione, come detto quasi unanime. Quindi, anche gli esponenti delle forze partitiche storicamente contrarie ad ogni ipotesi di tutela dell’ambiente (ed altrettanto storicamente vicine a cementificatori, inquinatori, cacciatori, ecc.) si trovano d’accordo su queste modifiche costituzionali. Mah….
In ogni caso, a seguito delle modifiche approvate, la nuova Costituzione risulta essere la seguente (in grassetto le parti che sono state aggiunte):
Articolo 9 - La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.
Articolo 41 - L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.

I commenti sono stati molteplici e diversificati. Ovviamente, in ambito parlamentare, l’entusiasmo è stato generalizzato e gli aggettivi altisonanti si sono sprecati: “un passaggio storico” (il Presidente della Camera Roberto Fico), una giornata epocale (il Ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani). Anche molte Associazioni ambientaliste hanno espresso la loro piena soddisfazione.

Altre voci, invece, sono più critiche ed evidenziano almeno due considerazioni. La prima riguarda l’effettivo significato della modifica costituzionale. Fabio Balocco, avvocato e ambientalista della prima ora, scrive su “Italia Libera”1 che “nel concreto, non vi era nessun bisogno di mettere nero su bianco che la Repubblica tutela l’ambiente. L’art. 117 della Costituzione afferma già che lo Stato ha giurisdizione esclusiva su “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.” In pratica la tutela dell’ambiente, con la modifica, viene richiamata anche nei “Principi fondamentali” che sono gli articoli dall’1 al 12. Con l’aggiunta della tutela degli animali. La difesa dell’ambiente rientrava già appieno fra i compiti della nostra Repubblica. Ma non solo la tutela dell’ambiente c’è già nella nostra Costituzione, ma la Corte Costituzionale si è più volte espressa sull’importanza dell’ambiente come bene fondamentale della Repubblica, da privilegiare rispetto a quello economico. A parole. In realtà, quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, in Italia ci si comporta in modo diverso”.
Ma l’aspetto più preoccupante riguarda per l’appunto la capacità, o meglio la volontà politica, di tradurre in fatti ciò che è stato scritto nella Costituzione. E qui i precedenti sono quanto meno inquietanti. Infatti, nel nostro Paese sono numerosissime le norme del tutto inapplicate. Oppure quelle in cui nel preambolo si afferma un principio, e poi nell’articolato si prevede l’esatto contrario o quasi.
Un classico esempio è la legislazione sull’attività venatoria (Legge n. 157 del 1992): nell’art. 1 si afferma che lo Stato tutela la fauna selvatica, nei successivi 36 si normano i modi per poterla sterminare….
Ancora Fabio Balocco ci presenta un altro esempio, quanto mai pertinente: “Nel 1939, in piena epoca fascista, furono promulgate le cosiddette “leggi Bottai”, dal nome del proponente. Un articolo dello storico Antonio Paolucci, sulla Treccani, afferma che la prima, sulla “Tutela delle cose di interesse artistico e storico”, del 1 giugno 1939 n. 1089, «era e resta un capolavoro di civiltà e di sapienza giuridica». Ad essa, pochi giorni dopo, seguì l’altra fondamentale legge Bottai, la n. 1497 del 29 giugno 1939,“Protezione delle bellezze naturali”, sulla scorta della quale una buona parte del paesaggio italiano fu vincolato. Inoltre, essa prevedeva, al comma 5, come efficace strumento di tutela per il futuro, il “piano territoriale paesistico”, che doveva essere redatto dall’allora ministro per l’Educazione nazionale. Ci fu la guerra, la norma rimase inapplicata, ma tale rimase anche con il passaggio dalla dittatura alla democrazia, anche con la Costituzione, anche con il suo art. 9. Occorre arrivare al decreto legge Galasso nel 1985 (ben quarantasei anni senza fare nulla, tanto era importante l’art. 9…) perché i piani, definiti adesso “paesaggistici” tornino di moda e siano di competenza delle singole Regioni. Norma poi mutuata dal Codice dell’Ambiente. Bene, ad oggi sono solo cinque le Regioni che il piano l’hanno adottato, ma di fatto esso non serve a nulla perché non ha posto dei reali vincoli al territorio oltre a quelli già esistenti.”
D’altra parte, è anche evidente che non basta elencare un principio nella Costituzione e sperare che la sua applicazione sia automatica e completa. Basti pensare alla solidarietà economica e sociale, all’uguaglianza di fronte alla legge, al diritto al lavoro, allo sviluppo della cultura, alla tutela del patrimonio storico e artistico, ecc.: tutti postulati compresi nei Principi Fondamentali della Costituzione, ma che sappiamo benissimo essere applicati quanto meno in modo parziale.

C’è poi un altro rischio, molto ben espresso da Alessandro Mortarino, uno dei fondatori del Movimento Stop al Consumo di Territorio, sul periodico online “Altriasti”2: “c’è anche il pericolo che, con la modifica costituzionale, la tutela del paesaggio possa trovarsi in subordine rispetto a quella ambientale e desta qualche preoccupazione il fatto che l’aggiunta «anche nell’interesse delle future generazioni» sia riferita solo alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi e non a quella del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Il collegamento con uno sviluppo “forsennato” degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (eolico e fotovoltaico a terra in primis) a danno del paesaggio stesso, è abbastanza automatico… Va aggiunto che la modifica costituzionale stride con i continui processi di “semplificazione” delle norme autorizzative (cioè tempi più rapidi), tanto a livello centrale quanto a livello regionale, e con il continuo e progressivo indebolimento delle Soprintendenze, cioè di coloro che dovrebbero controllare e autorizzare (che sono sempre più ridotti di numero e sempre più oberati, dunque meno in grado di tutelare). Di fondo – diciamocelo – resta la consapevolezza che nonostante il nostro “bellissimo” attuale articolo 9, in questi 75 anni il paesaggio italico abbia subito, ogni giorno, sfregi inenarrabili. Come poter pensare che la stessa sorte non subiscano anche l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi?”.

Su posizioni ancor più critiche è Carlo Iannello, giurista e docente universitario. Il quale scrive su “Italia Libera”3: “Il paesaggio ha una sua specificità perché eccezionale è il valore tutelato: la cultura espressiva dell’identità nazionale. Ambiente e urbanistica, invece, tutelano valori differenti che si aggiungono a quello paesaggistico, senza mai confondersi con esso, come la Corte costituzionale ha più volte affermato. L’ambiente tutela gli equilibri ecologici in favore delle future generazioni. L’urbanistica persegue l’ordinato assetto della vita sociale, per rendere ai cittadini i servizi essenziali. La possibile confusione tra questi concetti risiede nella circostanza che tutti insistono sul medesimo bene, il territorio. Ma questa circostanza non annulla le differenze. Il paesaggio, come osservato, è l’aspetto visibile del territorio. Ed è per questo motivo che la sua tutela prevale sulle altre. Si può e si deve tutelare l’ambiente e pianificare le città nel rispetto della parte visibile del territorio. Viceversa, lo stravolgimento della parte visibile del territorio, eventualmente richiesta da esigenze urbanistiche o ambientali, può attentare irreversibilmente al paesaggio. L’unico modo di conciliare le tre distinte tutele è dare prevalenza a quella paesaggistica, come prevede l’art. 145 del Codice del paesaggio. La pianificazione paesaggistica si impone su quella urbanistica e su quelle ambientali per la forza delle cose. La tutela dell’ambiente e le esigenze urbanistiche, anch’esse essenziali, devono essere soddisfatte nel rispetto del volto del paese, se si vogliono tutelare il paesaggio e i valori culturali che esso esprime”.

Ma forse l’aspetto più contorto della questione riguarda gli animali. Questi, infatti, secondo il Codice Civile continuano ad essere considerati “beni mobili”, negando quindi loro di fatto ogni riconoscimento come esseri senzienti dotati di un valore intrinseco, e non limitato all’uso o all’utilità che li caratterizza. Una contraddizione abbastanza palese, anche se su quale delle versioni prevarrà sussistono ben pochi dubbi. C’è quindi il timore che il nuovo dettato costituzionale di fatto si limiti a considerare i cosiddetti animali da affezione, tralasciando invece quelli selvatici e, in modo ancor più evidente, quelli che, con una terribile locuzione, vengono definiti “animali da reddito”.

In conclusione, il rischio che la montagna abbia partorito il classico topolino è molto reale: ovviamente starà ai politici fare in modo che le dichiarazioni di principio si trasformino, almeno in parte, in atti concreti. Molto dipenderà anche da noi, dall’opinione pubblica, e in particolare dalla sua capacità di trasmettere con forza e chiarezza ai propri rappresentanti politici la propria volontà. Ma su questo, consentitemi di avere molti, molti dubbi...

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1. https://italialibera.online/politica-societa/modifica-art-9-della-costituzione-cosa-ce-di-storico-fico-o-addirittura-di-epocale-cingolani/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=gli-ultimi-articoli-di-italia-libera

2. http://www.altritasti.it/index.php/archivio/ambiente-e-territori/5108-articolo-9-della-costituzione-paesaggio-e-patrimonio-artistico-non-sono-piu-soli

3. https://italialibera.online/politica-societa/paesaggio-e-modifica-dellart-9-della-costituzione-uno-sfregio-frutto-di-un-ingenuo-errore/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=gli-ultimi-articoli-di-italia-libera