Vittorie e sconfitte,
avanzate e ritirate
devastano il territorio
aggredito e fatto a brandelli,
sempre più simile
a un cumulo di rovine.
(C. Magris, Non luogo a procedere, 2000)
Valter Giuliano
La guerra permanente pervade il mondo ed è, purtroppo, uno dei motori dell’economia di mercato cui ci siamo arresi, ben rispondendo alla legge del produrre per consumare e alla fine distruggere.
Peccato che in questo caso, oltre ai prodotti dell’industria bellica, i sistemi d’arma, si distruggano anche persone, territori, ambienti naturali, biodiversità.
La guerra continua si camuffa nelle mille forme carsiche dei cosiddetti conflitti locali cui non prestiamo alcuna attenzione e spesso neppure sappiamo esistano. Emergono solo quando non è possibile nascondere alla comunità internazionale le loro manifestazioni più clamorose, orribili e nefaste, allorché, quand’anche locali, non possono più essere mantenuti sotto traccia.
Intanto la malinconica conclusione di vent’anni di guerra in Afghanistan ci interroga sull’inutilità del confronto armato. Tutto è tornato come prima, non fosse per il dramma delle popolazioni locali, a cominciare dalle donne, e il sacrificio di tanti, troppi, giovani di diversa nazionalità usati dalle gerarchie militari per obiettivi che richiederebbero una profonda riconsiderazione sulle politiche di sicurezza e sulle strategie per affermare globalmente i principi della democrazia e i diritti fondamentali dell’Uomo (inteso come specie cui appartengono i diversi generi).
Anche di fronte a queste constatazioni che dovrebbero farsi opinione comune e condivisa dalla collettività umana, si riscontra lo stesso atteggiamento che per decenni abbiamo registrato nei confronti dell’irrazionale gestione del pianeta e delle sue risorse.
Si persevera nel continuare a percorrere vecchie strade per risolvere antichi conflitti che nel perseverante metodo violento messo in atto per affrontarli – ingrassando il settore delle industrie di morte – ha segnato ogni volta vittorie illusorie destinate a trasformarsi in sconfitte per la nostra sconsiderata specie animale, che dovrebbe meglio utilizzare la sua presunta intelligenza.
Impegnandola, ad esempio, proprio nel combattere la guerra e sostituirla con soluzioni concordate nonviolente dei conflitti e procedendo, nel contempo, ad attivare politiche di disarmo che consentano di deviare le ingenti risorse finanziarie oggi spese per il comparto militare-industriale verso politiche di riequilibrio delle ingiustizie sociali, capaci di risolvere i problemi della fame e della salute che assillano intere popolazioni.
Siamo convinti, da tempo, dello stretto legame tra impegno per tutela ambientale e difesa della giustizia sociale, dei diritti universali, e lotta contro le discriminazioni di ogni genere, per la pace contro la guerra.
L’ecologismo è questo. Oltre il conservazionismo, oltre il naturalismo, diventa un progetto politico che tiene insieme elementi che, separati, non hanno alcuna possibilità di affermarsi se non per piccole vittorie su singole battaglie che rischiano, tuttavia, di essere vanificate nel contesto generale.
Per questo l’ambientalismo politico è diventato ecologismo a indicare il riferimento alla testata britannica di The Ecologist, fondata nel 1970 e diretta da Edward Goldsmith. Riferimento per chi trasferiva sul terreno dell’impegno politico la questione ambientale letta con rigore scientifico.
Una visione del mondo in cui pace, ambiente, giustizia sociale sono coniugati insieme.
Dovrebbe accadere così anche per il Ministero della Transizione Ecologica, anche se fa storcere il naso e dubitarne che a guidarlo sia un ministro che proviene dalla dirigenza di una della aziende leader nel settore della difesa e dell’aerospaziale...
A questo punto vogliamo proporre una riflessione sui disastri della guerra e sulle nefaste conseguenze che provoca sull’ambiente.
Per ricordare come gli effetti ambientali dei conflitti siano devastanti è sufficiente rammentare i casi delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, degli esperimenti nucleari a Mururoa, dei defoglianti a base di diossina – l’agente arancio – nella guerra di Vietnam, Laos e Cambogia e il più recente caso dell’uranio impoverito, che ha inquinato i territori balcanici dell’ex Jugoslavia, oltre che fare vittime tra i militari, compresi quelli impegnati nelle cosiddette Forze di pace. Simili impieghi (forse anche di uranio normale nelle testate dei missili) sembrano esserci stati anche in Afghanistan, in particolare nelle aree di Jalabad e Kabul.
Sulle radiazioni nucleari come sulle armi chimiche e batteriologiche che, pure messe ufficialmente al bando, pare siano state impiegare in Iraq piuttosto che in Siria e Libano, non è difficile immaginarne le conseguenze anche sull’ambiente naturale.
Ma i conflitti inducono pesanti ripercussioni sull’ambiente anche al di là del momento operativo degli attacchi e degli scontri. Ogni conflitto, infatti, lascia dietro di sé in ognuno dei luoghi che ne diventa teatro, milioni di tonnellate di rifiuti tossici, a cominciare da armi e munizioni, difficilmente smaltibili.
Ogni esercito che si ritira lascia nelle regioni coinvolte un’eredità la cui "emivita", potenzialmente omicida, può estendersi per centinaia di anni, mettendo in pericolo l'ambiente, la salute e i mezzi di sussistenza di generazioni di persone. Dall’invasione dell’Afghanistan nel 2001, si stima che l’esercito americano abbia scaricato 1,2 miliardi di tonnellate di carbonio in atmosfera (l’intera emissione annuale di carbonio del Regno Unito è di circa 360 milioni di tonnellate).
Uno degli inquinamenti costanti riguarda i cosiddetti gas serra, pericolosi cocktail di anidride carbonica, metano, protossido di azoto e gas fluoroclorurati (di cui il Dipartimento della Difesa degli USA è il maggior produttore al mondo). Dalle flotte militari ancorate negli scenari di guerra, composte da portaerei (con relativi squadroni aerei), incrociatori, cacciatorpedinieri, forze anfibie, si originano quantità spaventose di fuliggine di carbone, il cosiddetto carbone nero.
Gli Stati Uniti erano presenti con ben due gruppi di attacco nel Mar Arabo nella primavera del 2020. Nelle stesse acque è localizzato l’arsenale navale dell’Oman, che fa da scalo per gli aviogetti delle portaerei con relativi impianti per le riparazioni e per la raffinazione del carburante.
Le navi militari a gasolio – che si prevede saranno utilizzate per almeno ancora trent’anni – contribuiscono per più del 50% alle emissioni di gas serra nei luoghi in cui sono attraccate.
A ciò vanno aggiunti quelli che arrivano dalla combustione del cherosene e relativi additivi degli aerei da combattimento. Basti qui ricordare che un F35 consuma 0,6 mpg (miglia per gallone) e produce oltre 27 tonnellate di CO2 a ogni missione.
In fase produttiva la Loockheed Martin, attiva nel settore della difesa, ha prodotto, nel 2020, emissioni di gas serra e CO2 pari a 33 milioni di tonnellate.
Secondo una recente stima, le emissioni di gas serra delle forze armate statunitensi nelle "grandi zone di guerra" in Medio Oriente ammonterebbero complessivamente a più di 440 milioni di tonnellate per il periodo 2001-2018, e 282 milioni di tonnellate, per il solo Iraq, nel 2013.
Alle cause già accennate va aggiunta quella dell’incenerimento dei rifiuti delle basi, svolto con metodi non certo sostenibili. Il Comando Centrale degli Stati Uniti ha infatti adottato il sistema delle discariche di rifiuti tossici in pozzi di incenerimento a cielo aperto, sia nei campi temporanei che nelle basi ufficiali. Lì finiscono i 4,5 chilogrammi di rifiuti solidi prodotti ogni giorno da un soldato per essere smaltiti bruciandoli con cherosene o benzina. Nella base di Joint Basse Balad, la seconda più grande dell’Iraq, dov’erano di stanza 25 mila militari e 8 mila fornitori, sono stati prodotti oltre 140 t di rifiuti al giorno, il triplo di quelli provenienti dalla popolazione di Balad; il pozzo di incenerimento occupava 4 ettari e ha bruciato 24 ore ogni giorno, per anni, a partire dal 2003, alimentato da residui di cartucce, veicoli distrutti, dispositivi elettronici, amianto, elettrodomestici, imballaggi, deiezioni umane, corpi e parti di corpi provenienti dagli ospedali...
È stato stimato, inoltre, che questa enorme fossa abbia inghiottito, giornalmente, almeno 80 mila lattine di alluminio. Anche la base aerea di Taif e la base aerea di King Abdulaziz a Dhahran avevano fosse di incenerimento. Risulta evidente il perché l’aria di Baghdad, a soli 60 km sottovento, fosse considerata di qualità “pericolosa” con concentrazioni molto elevate di particelle tossiche (PM 2,5 in particolare), nettamente superiori alle raccomandazioni internazionali. Il rischio relativo di esposizione a lungo termine di mortalità per cancro ai polmoni a Baghdad è il più alto di qualsiasi città irachena. La correlazione è evidente e si debbono aggiungere una serie di altre malattie, tra cui leucemie, malattie cardiache, problemi respiratori, ecc.
Di questo tipo di inceneritori, secondo fonti ufficiali delle Forze armate americane, ne esistevano almeno 22 in Iraq, oltre 200 in Afghanistan, e nelle basi di Oman, Emirati Arabi, Arabia Saudita, Doha, Barhain, Kuwait, Turchia (Batman e Incirlik), Gibuti, Siria e Uzbekistan. Nel 2019, le Forze Armate statunitensi hanno ammesso di avere ancora nove pozzi attivi nella regione, di cui cinque gestiti dagli Stati Uniti, due da appaltatori in Siria e uno dalle Forze Armate statunitensi in Egitto. Facile immaginare le tossine inquinanti emesse, con conseguenze non solo in atmosfera, ma anche nelle acque sotterranee, dove sono confluite gran parte delle sostanze chimiche fluorurate concentrate (Pfas) componenti delle schiume antincendio usate sin dagli anni Settanta. Siamo al cospetto di quelli che vengono chiamati "prodotti chimici eterni", che non si degradano mai e sono "bioaccumulabili": si infiltrano su ettari di suolo, creando serbatoi sotterranei e contaminano l'acqua potabile e i pozzi a valle delle basi sino a chilometri di distanza. Altamente mobili nell'ambiente, dal suolo, dalla polvere, dalle acque sotterranee e dall'aria, queste sostanze migrano anche verso i prodotti agricoli, i fiumi e il mare. Ingerite o inalate, si accumulano nel sangue e negli organi, causando cancro, danni al fegato o ai reni, malattie della tiroide, difetti alla nascita e problemi al sistema riproduttivo. Studi indipendenti hanno identificato 641 insediamenti militari negli Stati Uniti che sono probabili fonti di inquinamento per i siti remoti. Uno studio su più di 100 basi ha rivelato che 87 di esse avevano concentrazioni di sostanze per- e polifluoroalchilate cento volte superiori ai livelli di sicurezza tollerati. Per cinquant’anni, le basi navali hanno scaricato migliaia di galloni di tali contaminanti nei porti in cui si trovavano. Il governo degli Stati Uniti, prendendo atto di queste contaminazioni, ha previsto di investire quasi 3 miliardi di dollari nel suo territorio per i prossimi trent’anni per ripulire basi, aeroporti e strutture navali, sostenere i veterani che soffrono di effetti sulla salute, inasprire notevolmente le normative su questi sostanze e affrontare le conseguenze della contaminazione delle acque sotterranee nei comuni limitrofi. Ma fuori dagli States?
Le popolazioni intorno alle basi aeree di Futenma e Kadenma a Okinawa (Giappone) sono risultate esposte a livelli estremamente elevati di questo tipo di inquinamento. A sette miglia dalla base aerea di Ramstein in Germania, la concentrazione di queste sostanze nel fiume è 538 volte il livello che l'Unione Europea considera sicuro.
Dalle basi militari italiane nessuna notizia....
A questo scenario, già di per sé catastrofico sotto il profilo ambientale, si aggiungono gli inquinamenti diretti provocati dai conflitti in zona di intervento. Basti pensare alla conseguenze degli attacchi sui siti industriali ed energetici. Le immagini dei 732 pozzi di petrolio sabotati durante la ritirata di Saddam sono memoria recente quanto drammatica, insieme agli stimati 240-336 milioni di galloni di petrolio riversati direttamente in mare per ostacolare lo sbarco dell’esercito americano. Nel primo caso causarono l’aumento di tre volte dei casi di tumori in Kuwait e un aumento delle malattie neurologiche oltre che la contaminazione (in particolare di nichel e vanadio) del 98% delle produzioni locali di frumento e latte, elementi base del ciclo alimentare.
Ma non da meno sono le conseguenze delle polveri sottili che si sollevano ad ogni bombardamento su obiettivi militari e a volte anche civili, che vengono respirate dalle popolazioni e depositano poi residui tossici su ogni superficie terrestre, oltre che nelle acque e subito dopo in falda.
La città di Ramadi, in Iraq, fu più volte attaccata e infine rasa al suolo per l’80%. Secondo le Nazioni Unite ha lasciato 7 milioni di detriti, compresi ordigni inesplosi, da smaltire. L’Eufrate, che bagna la città, presenta elevati livelli di inquinamento dovuti a metalli pesanti; i fumi dell’inceneritore della città sarebbero responsabili, secondo il Presidente Biden, del tumore al cervello che ha ucciso il figlio Beau.
Mosul, liberata nel 2017, registra la presenza, sul suo territorio, di 11 milioni di tonnellate da smaltire...
Crediamo che a questo punto i disastri della guerra appaiano del tutto evidenti.
Eppure nel momento in cui scriviamo non regna la pace. Anzi, i rumori di fondo che giungono sempre più nitidi ci fanno sentire le guerre in atto e altre ne annunciano.
Quelle per il dominio delle risorse rare già le stiamo vivendo, altre come quella per l’acqua si prospettano a breve, da territori del Tigri e dell’Eufrate, del Giordano, del Nilo...
Ecco perché preoccupano le ultime rilevazioni del Sipri (Stokolm International Peace Research) che risultano, come sempre, inquietanti.
Perché, una volta di più, segnalano aumenti nelle spese militari, che sottraggono rilevanti risorse che potrebbero essere utilmente indirizzate in settori ben più importanti per il nostro futuro, a cominciare dal contrasto al surriscaldamento globale del pianeta.
E invece continuiamo stoltamente a giocare – immemori del profetico «l’unico modo di vincere è non giocare» – alla guerra.
Ma ecco i dati Sipri 2020.
La spesa militare, nel mondo, è salita a 1.981 miliardi di dollari, con un aumento del 2,6% rispetto al 2019, nonostante la diminuzione del Pil globale del 4,4%.
In prospettiva è previsto il superamento dei 2 mila miliardi.
Gli Usa sono al primo posto, con investimenti in spese militari pari a 778 miliardi dollari, con una tendenza in crescita del 4,4% rispetto al 2019. Il dato costituisce il 39% della spesa militare globale.
Al secondo posto troviamo la Cina con 252 miliardi di dollari, in crescita dell’1,9%.
Se volgiamo lo sguardo all’Italia, la spesa militare è di 25 miliardi di euro con un incremento dell’8,1% rispetto allo scorso anno e del 15,7% rispetto al 2019. Negli ultimi vent’anni è salita del 70%, nonostante non ci siano più gli oneri della leva militare.
Negli ultimi quindici anni ha consumato l’1,25% del Pil
Dal 2008 si è incrementata dell’1,40%, salito all’1,46% del 2013.
Rispetto al 2019 siamo a 28,9 miliardi di dollari con un aumento del 7,5%
E per il 2021 si prevede di arrivare all’8%, con risorse recuperate anche dal PNNR.
Secondo i dati del 2020 siamo all’undicesimo posto per spese militari e al decimo per esportazioni di armamenti nel quadriennio 2016-2020. Un settore, questo, che il Ministro della Difesa ha esaltato legandolo ai benefici economici e occupazionali. Nel 2020 sono state autorizzate vendite all’estero (non solo ai paesi Nato, ma anche verso Nord Africa, Medio Oriente...) di materiali di armamento per 3 miliardi 967 milioni di euro. Gli affari con l’Egitto ammontano, per lo scorso anno, a 991,2 milioni, con un incremento di 120 milioni rispetto al ’19 e comprendono, com’è noto, due fregate Fremm; all’emirato del Qatar, impegnato nella guerra in Yemen dal 2016, sono stati venduti sistemi bellici per 221 milioni di euro.
Qualche considerazione la vogliamo dedicare alle recenti determinazioni che il Governo dei “migliori” ha voluto disporre nei confronti dell’apparato bellico-industriale del nostro Paese, vergognosamente tra i primi nel commercio di strumenti di morte su cui si reggono interi comparti industriali.
E che ha destinato – alla faccia di sanità, pensioni, ambiente, difesa idrogeologica, cambiamenti climatici... – cospicue risorse alla guerra.
«Ci dobbiamo dotare – ha detto Draghi nella conferenza stampa del 29 settembre scorso – di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più nella difesa di quanto fatto finora, perché le coperture internazionali di cui eravamo certi si sono dimostrate meno interessate nei confronti dell’Europa».
Si parla sempre di Difesa, segno dell’urgente necessità di una bonifica delle parole (che vale anche per la tanto abusata sostenibilità), mentre nella realtà si investe in armamenti offensivi, come accade per i “prodotti” acquistati al “supermercato della morte” per la presunta difesa nazionale.
La giustificazione è «per assicurare sicurezza e stabilità».
Il Ministro Guerini ha presentato la lista della spesa per un totale di sei miliardi di euro da destinare alle armi nei prossimi anni.
Nella lista della spesa, oltre a quasi due miliardi per acquisto di droni, si registrano 246 milioni ai Carabinieri per elicotteri LUH e veicoli ad alta tecnologia per la mobilità tattica terrestre, che computano altri 112 milioni.
Il Documento Programmatico Pluriennale 2021-2023 prevede un investimento di 168 milioni di euro, con una prima tranche di 59 milioni distribuiti in 7 anni, per «adeguamento del payload MQ-9», dove MQ-9 è la sigla che indica i droni Reaper e payload è il tecnicismo che nasconde la vera natura del “carico utile” (payload): i missili aria-terra Agm Hellfire, le bombe a guida laser GBU-12 Paveway o, in alternativa, le bombe a guida Gps CPU 38 Jdam.
La spesa serve ad armare i droni Reaper (Falciatore) in dotazione al 32° Stormo di Amendola di Foggia.
«In questo modo – ha commentato con una nota Rete italiana pace e disarmo – i droni italiani verranno trasformati da strumenti di sorveglianza e rilevamento, a sistemi da utilizzarsi direttamente in conflitto». Detto più semplicemente, da meri ricognitori a veri bombardieri.
«Si tratta – continua la nota della rete pacifista – di un sistema d’arma che ha cambiato drasticamente il volto della guerra, rendendolo più complesso, opaco e rischioso soprattutto per i civili: contrariamente a quanto propagandano i fautori dei velivoli a pilotaggio remoto, cioè i droni, diverse stime indicano infatti che gli “effetti collaterali”, cioè le vittime civili delle azioni militari effettuate con droni armati siano molto alte, in alcuni casi fino al 90%».
Ma soprattutto l’impiego di droni armati non è regolato da alcuna normativa internazionale e nazionale e, proprio per questo, “Rete pace e disarmo” ha chiesto al Governo di fornire tutti i chiarimenti sulla decisione presa dal ministero della Difesa e al Parlamento di aprire con urgenza un confronto sull’ipotesi di armamento dei droni.
Per non essere da meno, la Marina Militare italiana ha in progetto di dotare di missili Cruise i futuri sottomarini U212-Nfs e anche le nuove fregate Fremm. Lo si è appreso dalla Rivista italiana difesa, in cui il Capo di Stato maggiore della Marina Miliare, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ha spiegato l’esigenza di migliorare gli strumenti di – si noti l’eufemismo – “naval diplomacy”.
I missili Cruise di fatto servono a «moltiplicare il raggio d’azione dei sistemi d’attacco con una portata di oltre mille chilometri» aumentando – ed ecco la spiegazione – la «capacità di deterrenza contro minacce d’ogni tipo»; «la possibilità di tutela dell’interesse nazionale si allargherebbe fino a includere l’intero territorio libico, con una possibilità di proiezione quasi illimitata».
Una vera e propria rivoluzione, se si considera che attualmente i missili Otomat arrivano al massimo a duecento chilometri di distanza e sono solo in dotazione alle unità di superficie.
Anche se non si conosce ancora la specifica tipologia di missili adottati e dunque neppure il loro costo (ma si stima non meno di un milione di dollari a missile), un fatto è certo: i Cruise statunitensi, con testate nucleari, sono noti per essere stati installati dal 1983 al 1991 nella base Nato di Comiso in Sicilia e contro quella decisione si mobilitò il movimento ecopacifista negli anni Ottanta. Analoga mobilitazione si ebbe contro il Muos, il grande orecchio tecnologico e di trasmissione della base americana di Niscemi,
Oggi il rafforzamento del sistema radar vede investiti 90 milioni per implementare e potenziare di una capacità nuovi sensori (radar e ottici) la Space Situational Awereness (SSA) e uno specifico centro operativo per la conoscenza di oggetti spaziali artificiali.
Martedì 28 settembre, intanto, si è aperta all’Arsenale militare della Spezia la fiera militare-navale italiana SeaFuture 2021. Il salone è stato inaugurato in pompa magna dal ministro della Difesa, davanti a 47 delegazioni di Marine Militari di Paesi esteri e di 15 capi di Stato Maggior,e con il taglio del nastro tricolore ed il lancio dei paracadutisti del Comando Subacquei e Incursori.
Ideata nel 2009 come «la prima fiera internazionale dell’area mediterranea dedicata a innovazione, ricerca, sviluppo e tecnologie inerenti al mare», a partire dalla quarta edizione del 2014 si è trasferita all’Arsenale Militare assumendo sempre più i connotati di un salone navale-militare per promuovere il defence refitting e gli affari delle aziende del settore “difesa e sicurezza”, alla faccia di sostenibilità ambientale e “blu economy”.
Nell’edizione 2021 la principale attrazione di SeaFuture non sono state certo le tecnologie sostenibili, bensì il supermissile Teseo Mk2/E, sviluppato per la Marina Militare.
La fiera, ha così, di fatto, sostituito la “Mostra navale italiana”, ovvero la “Mostra navale bellica” che si è tenuta a Genova negli anni Ottanta e che fu fatta chiudere grazie alla massiccia opposizione del movimento pacifista. Una transizione ecologica all’incontrario, che da luogo di dibattito sulla sostenibilità delle risorse del mare è diventato una vetrina del navale militare.
È innegabile che sia in atto un radicale cambiamento della politica estera e di difesa dell’Italia.
La “Direttiva per la politica industriale della Difesa” del Ministro Lorenzo Guerini dello scorso 29 luglio prevede di «disporre di uno strumento militare in grado di esprimere le capacità militari evolute di cui il Paese necessita per tutelare i propri interessi nazionali».
Cosa dice il Parlamento?
Temiamo poco o nulla, visto che dall’insediamento del Governo Draghi, come abbiamo visto, le spese militari sono lievitate.
La conclusione la dedichiamo all’inutilità della guerra, invitando a riflettere su vent’anni di impegno in Afghanistan a fianco degli Stati Uniti. Forza di pace anche quando – oltre a svolgere compiti civili quali la definizione di codici e procedure giuridiche, predisporre strutture sanitarie e per dare risposta alle esigenze educative, famigliari e professionali delle donne afghane – abbiamo svolto, non senza ambiguità, compiti di addestramento militare, risultato, alla verifica dei fatti, inutile.
Resta da domandarsi cosa resterà dell’impegno, del lavoro, dei sacrifici fatti da tanti italiani, militari e civili in questi venti anni. Più in generale, a cosa è servita la presenza, in Afghanistan, dell’Europa, della Nato, degli Usa?
Chissà se almeno sono stati diffusi semi di libertà, di democrazia, di tolleranza, di umanità. E se sapranno conquistarsi terreni fertili per far germogliare nuovamente la speranza nel popolo afgano.
Se, per contro, saranno destinati a inaridire bisognerà domandarsi su come costruire basi solide per risolvere i conflitti in maniera diametralmente diversa.
È la speranza che il movimento ecopacifista deve affrettarsi a riempire di contenuti pragmatici e praticabili.
Nota
I dati sulle responsabilità statunitensi sono tratti da uno studio che Bruce Stanley, professore emerito di relazioni internazionali all’Università di Richmond, ha pubblicato su OrientXXI.
Quelli relativi alle spese militari italiane sono tratte dal Documento Programmatico Pluriennale 2021-2023 del Ministero della Difesa.
Sulle questioni oggetto di questa nota e sulle prospettive del movimento ecopacifista è utile la consultazione del saggio curato dal Movimento Internazionale della Riconciliazione, La colomba e il ramoscello. Un progetto ecopacifista, Edizioni Gruppo Abele, 2021