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Come ti distruggo un parco nazionale: il caso dello Stelvio

di Franco Rainini

 

 

Il Parco Nazionale dello Stelvio ha molte ragioni per essere al centro dell’attenzione degli ambientalisti italiani (ne parleremo più diffusamente nel prossimo di “Natura e Società”), ma lo stimolo per queste note deriva da una diversa ragione, sollevata nel corso della preparazione di questo numero della rivista da Ferdinando Boero. In sintesi, il professore si chiede se, a fronte della prossima entrata in vigore delle norme disposte dalla Direttiva 2014/89/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014 (che istituiscono un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo con lo scopo di “pervenire a una gestione efficace delle attività marittime e all'utilizzo sostenibile delle risorse marine e costiere basandosi su un approccio ecosistemico”, in quanto sarebbe “opportuno che la pianificazione dello spazio marittimo applichi l’approccio ecosistemico di cui all’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 2008/56/CE allo scopo di garantire che la pressione collettiva di tutte le attività sia mantenuta entro livelli compatibili con il conseguimento di un buono stato ecologico”), esiste qualcosa di paragonabile in ambito terrestre, cioè un approccio ecosistemico perseguito negli strumenti di programmazione territoriale del territorio.

Per comprendere i termini della questione bisogna recuperare il significato originario della definizione di approccio ecosistemico, come “la conoscenza scientifica delle relazioni ecologiche nell’ambito di un complesso quadro di aspetti sociali e politici e di valori, verso l’obiettivo generale della protezione dell’integrità degli ecosistemi in una prospettiva di lungo terminehttps://www.unife.it/scienze/lm.ecologia/Insegnamenti/management-degli-ecosistemi/materiale-didattico/Grumbine%201994.pdf.

La risposta alla domanda posta, e cioè il riferimento alle Direttive Europee Uccelli (79/409/CEE) ed Habitat (92/43/CEE), non può essere considerate soddisfacente. Si tratta infatti di tentativi di assicurare la difesa dell’ambiente attraverso la protezione di specie o habitat considerati indicativi dello stato ambientale, l’opposto logico di quello che viene descritto come approccio ecosistemico. Non possono considerarsi soddisfacenti neppure gli strumenti di programmazione che ogni amministrazione pubblica adotta, con prevalente interesse all’uso del territorio e con annessi accessori a dimostrare ex post la “sostenibilità”.

Dobbiamo quindi concludere che l’approccio ecosistemico non viene in realtà seguito spesso, proprio per carenza di conoscenze sugli ecosistemi stessi e sul loro funzionamento, per non parlare poi degli impatti che subisce anche per processi attivati dall’uomo di portata globale. Per chi vuole approfondire, ricordiamo che si trovano facilmente in rete o in forma stampata istruttivi cataloghi dei disastri che con noncuranza stiamo provocando, es. https://link.springer.com/book/10.1007/978-3-030-71330-0?source=shoppingads&locale=en-it&gad_source=1&gclid=Cj0KCQjwpZWzBhC0ARIsACvjWRM-dTIY2mEkNnzpbFOKfFABmBawXtzg-RXNrKWm6tzdjOdf8oGoKGYaAsoHEALw_wcB.

Se si parla di gestione confusa di un territorio terrestre in un contesto di pesanti modifiche climatiche in corso, accompagnate da una storia di contrasti, se non di esplicita avversione alla tutela del territorio, ed un presente di smodati appetiti per il consumo delle residue risorse ambientali, è facile riferirsi allo sfortunato esempio del Parco dello Stelvio. È anche convinzione di chi scrive che un indagine su quanto è successo e succede nel Parco può aiutare a comprendere le ragioni per cui risulta particolarmente difficile declinare l’approccio ecosistemico in territori terrestri, specie in quelli caratterizzati da una peculiare e profonda connessione con le vicende umane, storiche e politiche.

Il Parco dello Stelvio è il più grande parco nazionale delle Alpi italiane, il cuore del Parco è costituito dal massiccio dell’Ortles Cevedale, con cime intorno ai 4000 metri, posto a separare fisicamente la Lombardia dal Tirolo; in effetti ha costituito un confine efficace e sicuro, tra le due parti del passo non vi sono in effetti stati contatti sufficienti a stabilire un rapporto organico tra i due territori, a differenza dei numerosi rapporti che intercorrono tra la Lombardia e il Trentino, oppure i Grigioni, come pure tra il Tirolo con Grigioni e Trentino. L’annessione del Sud Tirolo/Alto Adige alla fine della Prima Guerra Mondiale unifica i due versanti del massiccio.

Qualcosa deve essere detto riguardo a questo territorio orograficamente complesso e intricato, costituito da una rete di valli, collegate da passi altissimi, ghiacciai una volta estremamente vasti, ma che ancora oggi è imponente: i ghiacciai del gruppo Ortles Cevedale rappresentano quasi un terzo dei ghiacciai lombardi (oltre 2800 ettari). Ancora più imponenti i ghiacciai sul versante settentrionale del massiccio (3438 ettari); complessivamente i ghiacciai all’interno delle tre sezioni (sud-tirolese, trentina e lombarda) del Parco arrivano (o arrivavano nel 2019) a 11.011 ettari ed un volume accantonato di acqua di 3 miliardi di metri cubi, una riserva ancora grandissima e, come ha dimostrato la siccità del 2022, di valore immenso.

Queste caratteristiche sono necessarie per spiegare la straordinarietà dello Stelvio e vale la pena rimarcare che, mentre in altre parti le Alpi sono permeabili ai collegamenti umani, in questo distretto il Parco dello Stelvio risulta davvero essere una barriera tra il mondo latino e quello germanico. Del resto, le durissime condizioni ambientali hanno protetto le caratteristiche naturali dell’ambiente alpino, salvaguardandolo da interventi umani particolarmente distruttivi.

Dopo la guerra e l’annessione si creano anche le condizioni per la realizzazione del Parco Nazionale, che nasce con legge 24 aprile 1935 “allo scopo di tutelare e migliorare la flora, di incrementare la fauna, e di conservare le speciali formazioni geologiche, nonché le bellezze del paesaggio e di promuovere lo sviluppo del turismo, il territorio delimitato in rosso nell'annessa carta topografica…” il Re d’Italia sancisce la costituzione del Parco nazionale dello Stelvio.

La lettura del testo della norma interessante e sorprendente: non sono previsti modi di partecipazione attiva della popolazione all’attività del Parco, se non l’obbedienza alle norme, vigilata dalla Milizia Forestale, la stessa che qualche mese dopo si distinguerà nell’invasione dell’Etiopia.

In questo quadro non è sorprendente che l’opposizione al Parco si sia immediatamente manifestata, in particolare nella parte sudtirolese, dove era presente la frustrazione e l’insofferenza per il tentativo, neppure mascherato, di assimilazione culturale e linguistica.

Inevitabilmente il sentimento di alterità rispetto alle esigenze della conservazione della natura, rappresentato dall’Ente Parco è sopravvissuto ben oltre la fine del regime e del Regno. Il professor Franco Pedrotti, autorevole membro del comitato scientifico della Federazione Pro Natura, riferisce il racconto del giornalista e ambientalista Aldo Gorfer: “Nel 1971 Aldo Gorfer stava compiendo un’inchiesta sui masi dell’Alto Adige, poi raccolta nel libro “Gli eredi della solitudine”. Durante l’incontro con un contadino che abitava in un maso a 1780 m di quota in Val Martello, il discorso è finito sul parco. Secondo quel contadino il parco minacciava di togliere la libertà ai contadini, per cui il problema più grave degli abitanti dell’alta Val Martello era “la lotta contro il Parco dello Stelvio”».

L’avversione alle regole imposte da parte di popolazioni che si sentivano marginali, o addirittura estranee rispetto al consesso nazionale che decideva dell’uso del proprio territorio, si salda facilmente con interessi economici e politici più robusti, che nel corso degli anni hanno imposto una profonda trasformazione del modo di vivere in montagna, rendendola subalterna all’abuso da parte degli abitanti delle terre basse: la montagna solo come luogo di vacanza invernale, da fruire attraverso lo sci alpino, con il contorno di impianti di risalita, attrezzature turistiche, e più recentemente con l’innevamento artificiale.

Se l’economia turistica è egemone sul versante lombardo, su quello sudtirolese il turismo è accompagnato da un sistema agricolo intensivo ed estremamente aggressivo anche all’interno delle aree protette del Parco. Mentre il fondovalle della Val Venosta è occupato esclusivamente da meleti e centri abitati, costituendo un distretto agricolo che fornisce una quota rilevante della produzione di mele, non solo nazionale ma europea (fino ad oltre 300.000 tonnellate all’anno di mele, grossomodo il 3% dell’intera produzione dell’Unione Europea), in Lombardia si registra la coltivazione di albicocche, che pure supera abbondantemente la quota di 1000 m slm. Più in alto, in Val Martello, la coltivazione protetta di fragole raggiunge 1700 m slm, all’interno delle aree di protezione.

L’impatto di questo tipo di agricoltura sulla salute e sugli ecosistemi della valle e del Parco sono illustrati, per la sola parte relativa all’abuso di pesticidi, dallo studio apparso sull’autorevole rivista Nature, https://www.nature.com/articles/s43247-024-01220-1, da cui si evince una diffusa contaminazione del suolo e della vegetazione dovuta all’uso corrente dei pesticidi lungo un gradiente altitudinale in una valle alpina europea. La lettura è abbastanza agghiacciante: i pesticidi sono presenti all’interno delle aree urbane, comprese i parchi giochi, ed arrivano ad altezze considerevoli, ben oltre 2000 metri, condizionando la presenza e la biodiversità delle comunità presenti a quelle quote.

A questo bisogna aggiungere il perdurare di tentativi di inserire all’interno del Parco strutture sciistiche: nel settore sudtirolese il tentativo più consistente è stato quello del progetto Ortler Ronda, nella Val di Solda, che voleva realizzare un sistema di piste collegate e dotate di impianti di risalita che abbracciasse tutto l’arco della testata della valle, ai piedi dell’Ortles e del Gran Zebrù. Il progetto è stato bloccato anche grazie alla mobilitazione delle Associazioni organizzate nell’Osservatorio del Parco dello Stelvio, tuttavia non senza difficoltà e minacce di rilancio del progetto.

Dall’altra parte del Passo dello Stelvio i progetti di “valorizzazione turistica” sono anche più preoccupanti, legati anche alle prossime olimpiadi di Milano Cortina, che vedono l’alta Valtellina quale sede delle prove di sci alpino, ma anche fuori dall’ambito olimpico le minacce sono numerose, come l’apertura o il rinnovo delle piste e degli impianti di risalita (Valfurva), che comportano quasi sempre l’abbattimento di alberi e l’allargamento delle piste (il cosiddetto ambito sciistico). Vi sono anche progetti più ambiziosi, come il collegamento sciistico del Passo del Tonale con Bormio, del quale si parla da tempo.

Questi progetti si debbono confrontare con i cambiamenti climatici provocati dalle attività umane, a cui si intende rimediare con impianti di innevamento artificiale che consumano acqua, energia ed anche paesaggio e biodiversità. È la realizzazione di un impianto di innevamento artificiale che ha portato ad uno dei progetti più distruttivi che ha per oggetto la derivazione di acqua dal Lago Bianco, bacino glaciale che si trova a più di 2600 m slm presso il passo Gavia, tra l’estremità orientale della Valtellina e la Val Camonica, all’interno del Parco. Questa ipotesi è stata oggetto di una aspra opposizione da parte di Comitati Locali e dell’Osservatorio delle Associazioni ambientaliste, che alla fine ha portato allo stralcio della derivazione dal lago (rarissimo esempio di ambiente lacustre in ambito glaciale, di inestimabile valore naturalistico e geomorfologico) dal progetto di innevamento artificiale, che comunque prosegue.

Questi pochi e frammentari appunti sulle minacce al Parco debbono essere qui integrate con il quadro amministrativo che rende possibile una situazione così degradata, alla fine torniamo al contadino della Val Martello che individua nel Parco la principale minaccia alla sua vita. Quella opposizione alle norme del Parco, se non alla sua stessa esistenza, ha trovato espressione attraverso i corpi sociali intermedi: associazioni di agricoltori, operatori turistici, ma anche cacciatori (la caccia al cervo in Val Venosta è rivendicata come espressione di identità culturale, come lo è la caccia ai migratori nel bresciano, e una volta era addirittura praticata anche all’interno delle zone militari), trovando infine rappresentanza nei partiti politici. È questa la genesi della frammentazione del Parco in tre entità, due provinciali (TN e BZ) e quella lombarda. La somma delle rivendicazioni ha portato alla proposta di smembramento del Parco, mai compiutamente realizzata e rintuzzata fino al 2014. Poi, il 28 gennaio 2015i le Province autonome di Trento e Bolzano, la Regione Lombardia, con la “mediazione” dei Ministeri per gli Affari Regionali e per l’ambiente hanno preso in carico, ognuno per la parte di Parco ricadente nel proprio territorio, la gestione di quello che è o era il più grande Parco Nazionale alpino.

Ci troviamo, di fatto, di fronte all’aberrazione di uno smembramento di un’area protetta che va in contrasto con qualsiasi politica europea in ambito di tutela ambientale”

Nei fatti questo avvertimento si è realizzato. Ad oggi non sono ancora state stabilitele norme di tutela. Le tre Valutazioni Ambientali Strategiche relative alle proposte di Piano del Parco Nazionale dello Stelvio unico ma con tre diversi piani e tre diverse VAS, non hanno ancora portato a risultati: i piani sono stati presentati, ma ad oggi il Piano Unitario del Parco non risulta ancora approvato e le norme di tutela, indefinite, sono lasciate alla puntuale applicazione di quelle inserite nelle Direttive Uccelli ed Habitat, comunque, evidentemente troppo poco.

Ritorniamo al punto di partenza per commentare le ragioni di questo evidente insuccesso nella programmazione di un’area protetta che, sebbene, particolarmente critica, non può essere considerata eccezionale nella distanza di applicazione dei principi dell’approccio ecosistemico, ma proprio nella sua particolarità può fornire qualche suggerimento sulle difficoltà di applicazione di tale approccio in territori storicamente così complessi, così vicini ad aree di forte sviluppo economico e inevitabilmente esposti a pressioni ed interessi formidabili.

La prima considerazione è che poco può essere fatto in assenza di un forte supporto sociale alla conservazione, il che comporta a sua volta la consapevolezza dei rischi che corriamo seguitando il saccheggio delle risorse ambientali, fino al collasso degli ecosistemi. In secondo luogo è evidente che un salto di qualità deve essere fatto nell’approccio ai problemi delle aree marginali, riconoscendo un valore ed un importanza in sé e non solo come annessi più o meno ben mantenuti delle aree metropolitane.

La normativa sul controllo della fauna selvatica

di Roberto Piana

 

 

Premessa
La storia del conflitto tra la specie umana e gli animali selvatici è lunga quanto la storia dell’umanità. L’essere umano nei millenni ha ampliato a dismisura il proprio potere sugli altri animali piegandone l’esistenza alle proprie esigenze. L’addomesticamento, la caccia, l’allevamento, la selezione delle specie per modificarne le caratteristiche, l’utilizzo nei laboratori di sperimentazione rappresentano aspetti diversi di una eterna guerra agli “altri animali” che continua ancora oggi. Le residue popolazioni animali selvatiche continuano nel nostro tempo a subire sia persecuzioni indirette come la distruzione degli ambienti naturali e sia dirette attraverso la cattura o l’uccisione. Oggi in Italia questa guerra alla fauna selvatica assume, nella forma diretta la dimensione della caccia, o “attività venatoria” e la dimensione del “controllo”.  Trattasi di interventi contro gli animali selvatici motivati da ragioni diverse. Alla base della caccia, non essendo più attività necessaria per la sopravvivenza, vi è il piacere dell’essere umano nell’affermare il proprio potere attraverso l’uccisione di un altro essere vivente, mentre il controllo trova le motivazioni nella difesa degli interessi economici legati alle attività umane. Non sempre la differenza tra queste due “guerre” contro gli animali selvatici è netta.
Spesso anche esperti di settore confondono la caccia di selezione con il controllo. Anche il controllo può essere selettivo. La “selezione” nella gestione faunistica significa intervenire nei confronti di animali individuati per specie, genere, età.
La caccia è esercitata da persona munita di licenza entro precisi limiti temporali, secondo regole precise dettate dal calendario venatorio. La fauna cacciata appartiene a colui che l’ha abbattuta.
Il controllo può avvenire anche al di fuori dei tempi, degli orari, delle metodiche della caccia. Viene deliberato dalla Regione o dalle Province e Città Metropolitane sulla base di esigenze di tutela delle attività antropiche e di difesa della biodiversità. La fauna abbattuta durante l’attività di controllo continua a rimanere patrimonio indisponibile dello Stato e dovrebbe essere alienata secondo le  norme che regolano l'alienazione del patrimonio dello stato e cioè il bando pubblico. Spesso gli enti pubblici aggirano questo obbligo con formule di dubbia legittimità quale ad esempio la concessione dell’animale all’abbattitore “quale rimborso forfetario per l’attività svolta”.

Per comprendere come sia normato oggi nel nostro paese il controllo della fauna selvatica giova effettuare una breve ricognizione di come si sia evoluta la legislazione negli ultimi decenni.

Il Testo Unico del 1939
Il “Testo unico delle norme per la protezione della selvaggina e per l’esercizio della caccia” approvato con R.D.  n. 1016 del 5/6/1939, in epoca fascista, percorrerà tutto il periodo bellico e  sarà abrogato  solo negli anni ‘70 con l’istituzione delle Regioni. La caccia era vista come attività prodromica all’attività militare. Per legge venivano definite nocive anche specie che oggi sono a rischio di estinzione.
Ricordiamo il lupo, la volpe, la faina, la puzzola, la lontra, il gatto selvatico e fra gli uccelli le aquile, i nibbi, l'astore, lo sparviero, il gufo reale, anche la martora, la donnola, oltre a corvidi e averle e persino gli aironi. Il Laboratorio di Zoologia applicato alla caccia dell’Università di Bologna, nato nel 1933, assunse il ruolo di consulente scientifico e tecnico del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste.

La Legge n. 968/1977
Nel dicembre del 1977 venne approvata la legge n. 968 che per certi versi fu straordinaria. Mammiferi e uccelli viventi in stato di naturale libertà sul territorio italiano acquisirono lo status di “patrimonio indisponibile dello stato”. Fino ad allora la fauna era res nullius, ossia cosa di nessuno. Nacque il “furto venatorio”, opera dei bracconieri. Vennero demandate alle leggi regionali funzioni amministrative e legislative in tema di caccia. La legge n. 968/1977 introdusse anche il “controllo” delle specie che creano gravi danni alle attività umane. Il controllo, allora solo cruento, poteva essere effettuato anche al di fuori dei tempi e dagli orari della caccia, ma  doveva essere effettuato tuttavia con metodi selettivi. Il fucile è sicuramente un metodo selettivo, sempre ammesso che chi spara sappia a cosa spara. Gabbie, reti, trappole, esche avvelenate sino ad allora di largo uso vennero così vietate in quanto mezzi non selettivi. Oggi la stessa UE ha messo al bando strumenti di cattura o uccisione non selettivi . Con la legge n. 968/1977 il Laboratorio di Zoologia applicato alla caccia assunse la nuova denominazione di “Istituto Nazionale di Biologia della Selvaggina INBS” e mantenne il ruolo di consulente del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste.

La Legge n. 157/1992
La successiva legge n. 157/1992 nacque sullo slancio del referendum contro la caccia del 1990, che non aveva conseguito il quorum di votanti e non aveva apportato alcuna modifica legislativa, ma che aveva fatto crescere nella popolazione la sensibilità verso gli animali selvatici.   La legge n. 157/1992 vige tuttora e in qualche modo anche questa conteneva aspetti straordinari, alcuni dei quali, attraverso modifiche successive, oggi si sono persi. Con la legge n. 157/1992 l’INBS assunse la denominazione di “Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica INFS” e nel 2006 la vigilanza su questo ente venne trasferita al Ministero dell’Ambiente. Nel 2008 l’INFS assunse poi la denominazione attuale di “Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale ISPRA”.
Viene ancor oggi mantenuto il principio che mammiferi e uccelli selvatici  costituiscono “patrimonio indisponibile dello stato”. L’art. 19 della legge n. 157/1992 aveva subordinato il controllo, cioè l'intervento nei confronti delle specie selvatiche problematiche  alla inefficacia di metodi cosiddetti ecologici. L’abbattimento veniva consentito solo come estrema soluzione. Quali siano i metodi ecologici la legge non ce lo dice, ma sono evidentemente gli interventi indiretti di prevenzione dei danni. L’articolo 19 della legge nel 1992 fissava altri paletti. Il cacciatore in quanto tale veniva escluso dall’attività di controllo che rimaneva a carico delle guardie dipendenti dalle Province. La legge n.  157/1992 stabiliva un confine ben preciso tra attività venatoria e controllo. Oggi questo confine è andato in gran parte perduto.
La legge n. 157/1992 vige tuttora ma non è la stessa del 1992. In questi trent’anni di vigenza è stata
rimaneggiata, modificata, emendata.
Le speranze del mondo ambientalista e animalista erano che si andasse verso la convivenza  con la fauna selvatica.  La legislazione è andata invece in direzione opposta.
Negli anni novanta le specie selvatiche problematiche non erano molte, soprattutto alcuni corvidi e la volpe. Il cinghiale oggetto di massicce immissioni a fini venatori  incominciava già a creare problemi all’agricoltura, ma non i problemi che viviamo oggi.
Nelle campagne si sentiva sparare da settembre a gennaio poi i fucili tacevano per il resto dell’anno.
Oggi l’attività venatoria si svolge tutto l’anno e si sovrappone e si confonde con le attività di controllo.  
La legge n. 248 del 2005 autorizzò la caccia di selezione agli ungulati anche al di fuori dei periodi previsti per la normale attività venatoria. Oggi la caccia al capriolo inizia nel mese di giugno. Si spara al capriolo maschio anche nel mese di agosto prima che perda il palco.
Vogliamo mica mettere in salotto la testa di un capriolo maschio senza le corna!

Le specie alloctone
Nel corso di questi tre decenni lo scambio delle merci, la globalizzazione,  lo spostamento di intere popolazioni hanno aumentato a dismisura l’arrivo in Italia e in Europa di specie esotiche da altri continenti. Molte di queste specie definite alloctone hanno determinato un aumento dei danni alle attività umane e problemi alle specie nostrane o autoctone, non in grado di difendersi da questi nuovi colonizzatori. Il problema dell’arrivo in Europa di specie alloctone riguarda naturalmente anche pesci, insetti e specie vegetali. Vengono definite alloctone quelle specie importate nel continente europeo da altri continenti dall’essere umano sia volontariamente e sia involontariamente.
L’attività di controllo a carico delle Province si è intensificato soprattutto in questo ultimo decennio. La priorità dei metodi ecologici di controllo e il divieto dell’utilizzo dei cacciatori vennero spesso aggirati costringendo le associazioni ambientaliste a animaliste a innumerevoli ricorsi, quasi sempre vinti, contro le pubbliche amministrazioni.  

Il 1500 d.C.
Con la legge n. 116 del 2014 il legislatore italiano modificò l'articolo 2 della legge 157/1992 di poco anticipando il Regolamento Europeo n. 1143 /2014, immediatamente applicabile,  che obbliga gli Stati aderenti a provvedere all'eradicazione o al controllo delle specie alloctone.
Il Ministro dell’Ambiente così a gennaio del 2015 approvò il decreto 19/01/2015 per individuare quali fossero le specie alloctone da eradicare. Individuarle non è stato semplice. Il fagiano importato dai Romani dall’oriente in tempi antichi è alloctono o no?  Dichiarare il fagiano alloctono e non poterlo più immettere sul territorio per fini venatori sarebbe stata una tragedia!
E allora la scienza si piegò alla politica e inventò  il 1500 d.C..  Con il decreto del 19 gennaio 2015 il Ministro dell’Ambiente stabilì che le specie selvatiche immesse prima del 1500 d.C. fossero “naturalizzate” e paragonabili a quelle autoctone, mentre quelle immesse dopo il 1500 d.C. fossero da considerare alloctone. Daini, conigli, fagiani poterono così essere mantenuti sul territorio a disposizione dei cacciatori e non necessariamente eradicati, cioè sterminati!

Il controllo oggi
Solo con la legge n. 221/2015 il legislatore incominciò ad accorgersi che forse il cinghiale non andrebbe immesso sul territorio per fini venatori a causa dei danni che arreca alle coltivazioni.  La legge n. 221/2015 tuttavia non ne vietava né la detenzione e nemmeno l’allevamento. Le immissioni clandestine a fini venatori continuarono su tutto il territorio italiano fino a determinare ipotesi di presenza sul territorio italiano di oltre due milioni di capi. A fare le spese di questa follia furono soprattutto le attività agricole.
La Corte Costituzionale che per anni aveva sempre dichiarato incostituzionali le leggi regionali che autorizzavano i cacciatori a partecipare alle attività di controllo improvvisamente con la sentenza n. 21 del 2021, considerando la riduzione del personale dipendente dalle Province, modificò il proprio orientamento e non censurò una legge della Regione Toscana che affidava le attività di controllo ai cacciatori.
Le leggi regionali hanno in tempi brevi recepito questo nuovo orientamento della Suprema Corte ed oggi il controllo della fauna quando crea danni è affidato quasi interamente ai cacciatori.
I responsabili dei danni causati dai ripopolamenti si proposero come solutori del problema.
Quella netta separazione che esisteva tra l'attività venatoria e l'attività di controllo è andata così perduta. Come è andata perduta la speranza di una pacifica convivenza con le specie selvatiche. Ai giorni nostri si spara tutto l'anno, si spara di notte, si spara nei centri abitati, si spara nei parchi e nelle aree protette, si spara in quelli che sulla carta sono ancora giorni di silenzio venatorio.
L’arrivo della Peste Suina Africana P.S.A., malattia virale dei suini e dei cinghiali selvatici, non pericolosa per l’essere umano, ma pericolosa per gli allevamenti industriali di maiali, ha originato la legge n. 29/2022 “Misure urgenti per il controllo della PSA dei cinghiali”. Con tutti i successivi  provvedimenti di Stato e Regioni il controllo è stato definitivamente assegnato ai cacciatori. Oggi i seguaci di Diana si possono fregiare del titolo di “selecontrollori”, “bioregolatori”. “depopolatori”.
La legge n. 197/2022 approvata nel mese di dicembre, stravolse l’art. 19 della legge n. 157/1992 e inserì un articolo 19 ter prevedendo la realizzazione da parte delle Regioni di un piano quinquennale di controllo della fauna selvatica. Con il Decreto interministeriale 13 giugno 2023 del Ministro dell’Ambiente (Gilberto Pichetto Fratin)  e del Ministro dell’Agricoltura (Francesco Lollobrigida) il piano quinquennale di guerra dichiarata alla fauna selvatica prende l’avvio. Il principio sancito nel 1992 che l’abbattimento dovesse essere consentito solo in caso di inefficacia dei metodi ecologici venne ribaltato. Il controllo deve essere cruento e il decreto fornisce un lunghissimo elenco di strumenti utili per la soppressione degli animali “scomodi”: reti, gabbie, trappole di cattura, ottiche di mira, termocamere, fucili, arco, cerbottane, fucili ad aria compressa, camere di induzione per eutanasia, richiami acustici sia elettronici e sia meccanici, stampi, richiami vivi, esche alimentari... mancano le testate nucleari tattiche.  Gli interventi indiretti e preventivi sono ammessi solo in casi estremi di inefficacia degli interventi diretti.
Strumenti non selettivi come reti, gabbie e trappole tornano in auge e vengono spacciati per selettivi.
Le associazioni ambientaliste e animaliste insorgono contro questa recrudescenza della guerra alla fauna definendola “caccia selvaggia”. Da un lato la definizione non è corretta perché si tratta di controllo e non di caccia, ma per altro verso interpreta bene la commistione tra caccia e controllo.

Durante la campagna elettorale per le elezioni europee di giugno 2024 sono comparsi manifesti di candidati armati alla ricerca del voto dei cacciatori e anche con immagini di fucili puntati.
Tanta protervia negli anni non si era ancora vista. Sopra un manifesto di Fratelli d’Italia qualcuno, il cui pensiero è condivisibile, ha scritto “MEGLIO FIGLI UNICI CHE FRATELLI D’ITALIA”.

PAN Pro Natura Animali ha riproposto il Controconvegno “NOCIVOSARAITU” svoltosi il 4 maggio 2024 a Torino e visibile da chiunque al link https://www.youtube.com/watch?v=YAXl4Y0utME&feature=youtu.be perché mai come ora è necessario far conoscere alla popolazione questa guerra dichiarata e che richiede la continuazione delle battaglie per la difesa della nostra martoriata fauna selvatica.

Comitato Tecnico Faunistico-Venatorio Nazionale (CTFVN) - Organo non inutile, molto peggio, dannoso

di Roberto Piana
Vicepresidente di PAN - Pro Natura Animali odv

 



L’art. 8 della Legge n. 157/1992 – legge quadro sulla caccia - aveva istituito presso il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste il Comitato Tecnico Faunistico-Venatorio Nazionale quale organo consultivo, rinnovabile ogni 5 anni, per tutto quello che concerne l’applicazione della stessa legge. Un ingombrante carrozzone infarcito di amici della caccia che il Governo Monti aveva abolito, quale “ente inutile”, con l’art. 12, c.20, del d.l. 95/2012, trasferendone le competenze agli uffici ministeriali.

L’originario CTFVN era costituito da  30 componenti:
    • 3 rappresentanti del Ministero dell’Agricoltura;
    • 3 rappresentanti del Ministero dell’Ambiente;
    • 3 rappresentanti della Conferenza delle Regioni;
    •  il Direttore dell’INFS (ora ISPRA);
    • 7  rappresentanti delle associazioni venatorie nazionali riconosciute (un rappresentante per ogni associazione: Federazione italiana della caccia, Associazione migratoristi italiani, Associazione nazionale libera caccia, ARCI-Caccia, Unione nazionale Enalcaccia pesca e tiro, Ente produttori selvaggina, Associazione italiana della caccia - Italcaccia);
    • 3 rappresentanti delle associazioni degli agricoltori;
    • 4 rappresentanti delle associazioni di protezione ambientale presenti nel Consiglio nazionale per l’Ambiente;
    • 1 rappresentante del Consiglio internazionale della caccia e della conservazione della selvaggina;
    • 1 rappresentante dell’Ente Nazionale Protezione Animali;
    • 1 rappresentante del Club Alpino Italiano;
    •  rappresentante dell’Unione zoologica nazionale;
    • 1 rappresentante dell’Ente nazionale per la cinofilia.

Il Comitato era presieduto dal Ministro dell’Agricoltura e delle Foreste o da un suo rappresentante.
In venti anni di vigenza poco o nulla è stato prodotto da questo carrozzone pro attività venatoria.

Con l’insediamento di questo nuovo governo di centrodestra il Ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, On. Francesco Lollobrigida, unico essere senziente del pianeta, se ci atteniamo alle sue dichiarazioni, ha avuto la bella pensata di ricostituire il CTFVN modificandone i componenti. La legge 29 dicembre 2022 n. 197 “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale 2023-2025”, legge “monster” composta da  21 articoli e diversi allegati, al comma 453 (di 903 commi!), ha consentito al Ministro la possibilità, in un’ ottica di risparmio e razionalizzazione, di resuscitare il CTFVN “con facoltà di modificarne altresì la composizione”.
Attraverso l’approvazione di tre diversi decreti (D.M. n. 0263986 del 22/05/2023, D.M. n. 0404254 del 01/08/2023 e D.M. n. 0217305 del 15/5/2024) il Ministro ha resuscitato il  Comitato in formato ridotto con solo 17 componenti. Scendono da 7 a 3 i rappresentanti delle associazioni venatorie. Arci-caccia, esclusa dal nuovo CTFVN ha fatto ricorso al TAR, ma ha perso la causa. Il Ministro ha nominato un solo rappresentante delle associazioni di protezione ambientale in luogo dei 4 precedenti: Vincenzo Stabile, esponente del GRE (Gruppo Ricerca Ecologica), già componente del Consiglio nazionale dell’Ambiente, ente che aveva cessato di esistere il 25/7/2012. Il mondo ambientalista sicuramente non si può sentire rappresentato. Naturalmente nessuna delle Associazioni di protezione ambientale presenti a livello nazionale  trova spazio nel nuovo semi-carrozzone. Forse perché troppo ostili a questo governo che ha dichiarato guerra alla fauna. Rimane solitaria come unica voce scientifica quella del Direttore dell’ISPRA, ente statale di consulenza per Stato e Regioni. Le ragioni della politica sicuramente prevarranno sulle indicazioni della scienza. Sulle indicazioni dell’etica, poi, meglio non parlarne. Anche questo semi-comitato resta infarcito da amici della caccia e della politica imperante.  La prima riunione del nuovo CTFVN si è svolta il 22/09/2023.  
Invitiamo a leggere l’intero articolo che compare sul sito del WWF e che condividiamo in toto :
https://www.wwf.it/pandanews/ambiente/il-governo-dei-cacciatori-rinuncia-alla-scienza/

Troviamo tra l’altro scritto:
“La ricostituzione del Comitato rientra, infatti, in una complessa azione messa in atto dal Governo, che punta a realizzare tutti i desideri del mondo venatorio e che sta portando alla sostanziale demolizione delle fondamentali norme che fino ad oggi hanno garantito la tutela della fauna selvatica. Ciò avviene attraverso il ricorso a forzature normative e ad una narrazione ideologica basata sul concetto che la natura è pericolosa e deve essere gestita dall’uomo a suon di fucilate.”
Invitiamo tutti i cittadini amanti della natura e degli animali a non arrendersi e a continuare a sostenere le associazioni che impegnano risorse ed energie per salvare il salvabile su questo pianeta devastato.

La lotta per la salvaguardia delle Alpi Apuane, ovvero il più grande disastro ambientale d’Europa, di cui non si parla

di Eros Tetti
Comitato “Salviamo le Apuane”

 

 

Per descrivere accuratamente il disastro delle Alpi Apuane non basterebbe un intero libro, ma proverò comunque in questo spazio a dare un'idea di quello che rappresenta la distruzione scientifica di un'intera catena montuosa e  delle comunità che la vivono. Troppo spesso sentiamo la narrazione della distruzione delle Alpi Apuane dalla voce della città, da coloro che le vivono come luoghi di conquista sportiva. Queste voci sono importanti, ed anzi auspico che sempre più alpinisti assumano il ruolo di protettori della montagna, diventando sentinelle attente a ciò che accade. Tuttavia, troppo spesso manca la voce di chi, invece, tra quelle plaghe, su quelle terre alte, ci vive e ha vissuto, vedendo ogni giorno un territorio lasciato a se stesso.

Proprio per questo, abbiamo fondato "Salviamo le Apuane", un movimento a cui ho dato vita nel 2009 insieme ad altre voci della montagna. Questo movimento lotta per due questioni fondamentali: la salvaguardia dell'ambiente delle Alpi Apuane e la lotta contro la desertificazione della montagna. Queste lotte sono intimamente interconnesse. Le Alpi Apuane, una piccola catena montuosa nel nord della Toscana che si estende dal fiume Magra fino al fiume Serchio, per una lunghezza complessiva di circa 60 km e una larghezza di 25 km, sono tempestate, approssimativamente,  da 165 cave attive, 510 inattive e circa 200 saggi di cava, secondo un censimento dell’Università di Siena. Per di più, ogni cava attiva ogni giorno diventa sempre più grande e più vasta, una distruzione visibile dallo spazio, tanto che il documentario “Antropocene” l’ha annoverata tra i 43 disastri che hanno cambiato volto al pianeta.

Questo territorio ha visto nella storia diverse dinamiche tra gli escursionisti, soprattutto del CAI, e speleologi, e abitanti del territorio; esse hanno portato alla formazione del Parco delle Alpi Apuane nel 1985. Un parco incompiuto, a macchia di leopardo perché vede all'interno dei suoi confini tantissime cave attive (circa 80) in luoghi di altissimo pregio ambientale e geologico, in siti protetti dalla rete europea Natura 2000, SIC e SIR. Queste montagne sono una vera e propria finestra tettonica, ovvero qui è emersa, semplificando molto, la parte più profonda della struttura dell'Appennino Settentrionale, una particolarità che ha meritato loro l'inclusione nella rete mondiale dei Geoparchi UNESCO. Rappresenta così una peculiarità di livello internazionale nel campo delle Scienze della Terra. Fin dalle origini della geologia moderna, la finestra tettonica apuana è  stata un’area chiave per studiare e comprendere i complessi processi geodinamici che portano alla formazione della catena appenninica. È proprio questa loro particolarità che le ha rese appetibili per le peggiori speculazioni. Infatti, qui sono emersi i marmi più belli che l'umanità abbia mai conosciuto, come il marmo bianco di Carrara, così puro da far penetrare la luce al suo interno e rifletterla in un modo unico, così malleabile da sembrare creta tanto da affascinare artisti e architetti di tutto il mondo: tra i tanti,  Michelangelo, che sovente veniva in loco a scegliere i marmi per le sue opere.

Ma questa retorica romanzata della montagna, dei cavatori eroi e del marmo per le grandi opere d’arte è morta da tempo, e oggi ci troviamo di fronte alla cruda realtà: negli ultimi 50 anni, grazie al progredire tecnologico, la velocità di escavazione è aumentata a tal punto da produrre in un solo giorno quello che prima si produceva in tre mesi. E la velocità di escavazione è stata inversamente proporzionale all'occupazione, che è passata dalle oltre 10.000 unità di qualche decennio fa a qualche centinaio di impiegati attuali.

Oggi, il grande business delle Alpi Apuane non è solo il marmo in blocchi, ma anche, e in alcuni casi soprattutto, il marmo sbriciolato, ovvero il carbonato di calcio, materiale pregiato nell'industria chimica che trova applicazione come migliorante dei processi chimici, dagli pneumatici alle vernici, dai dentifrici sbiancanti fino all'industria alimentare, che lo usa per migliorare tono ed elasticità delle farine di più basso livello. Un business, quello del carbonato di calcio, che ebbe inizio con Raul Gardini, che vinse gli appalti per fare i filtri delle centrali a carbone usando proprio questo materiale. Da qui la storia del marmo si intreccia anche con la criminalità organizzata, che di fatto non ha mai più abbandonato il territorio, essendo il business delle cave e del movimento delle terre molto appetibile, al pari di quello dei rifiuti.

La recente trasmissione di Report ha evidenziato inoltre come l'industria dell'escavazione abbia utili pazzeschi, fino al 47% del fatturato, un dato più unico che raro, considerando il fatto che un'azienda media ha un reddito di utile pari al 5% circa. Con questo rapporto e questi utili, si capisce che potenza territoriale possano avere i signori del marmo.

Noi di "Salviamo le Apuane" denunciamo da tempo il massacro delle Alpi Apuane e la monocoltura del marmo che sta letteralmente uccidendo ogni forma di economia alternativa e sostenibile. Proprio per questo, abbiamo fatto nascere il PIPSEA, ovvero il Piano Programma di Sviluppo Economico Alternativo per le Alpi Apuane. le cui strategie di implementazione si focalizzano su un approccio multidisciplinare e integrato per trasformare l'economia locale. La transizione mira a spostare l'attuale dipendenza dall'estrazione del marmo verso un modello economico più sostenibile e diversificato, che include turismo responsabile, agricoltura, artigianato e conservazione ambientale.
Riqualificazione Ambientale: Una delle strategie chiave prevede la riqualificazione delle aree danneggiate dall'estrazione del marmo. Ciò comporta la ristrutturazione di paesaggi naturali e la reintroduzione della biodiversità originaria per ripristinare gli ecosistemi compromessi. L'obiettivo è di trasformare visivamente e ecologicamente le zone degradate, rendendole nuovamente vivibili e attrattive sia per la fauna selvatica che per l'uomo.

Valorizzazione del Turismo: Il turismo è visto come un pilastro fondamentale nella nuova economia delle Apuane. L'intento è di promuovere un turismo che valorizzi la natura unica della regione, la sua storia e la cultura del marmo, minimizzando l'impatto ambientale. Le proposte includono lo sviluppo di infrastrutture turistiche sostenibili e la promozione di attività come il trekking, il cicloturismo e le visite guidate nelle aree naturali e storiche.
Sviluppo della Produzione Locale: Le strategie includono il sostegno all'agricoltura locale, la pastorizia e l'artigianato, con un focus particolare sulla filiera corta. Ciò significa promuovere la produzione e il consumo di prodotti locali, riducendo la dipendenza da importazioni e mercati esterni. Questo approccio non solo stimola l'economia locale ma contribuisce anche a ridurre l'impronta ecologica del trasporto di merci.
Educazione e Formazione: Un'altra componente critica delle strategie di implementazione è l'investimento in educazione e formazione. Il piano prevede di fornire ai residenti le competenze necessarie per prosperare in nuovi settori economici, includendo programmi di formazione professionale in agricoltura sostenibile, gestione del turismo e artigianato. Ciò è fondamentale per garantire che la comunità locale possa beneficiare direttamente della nuova economia.

In sintesi, il PIPSEA propone un modello di sviluppo economico che non solo mira alla sostenibilità ambientale, ma cerca anche di migliorare la qualità della vita delle comunità locali attraverso l'educazione, la diversificazione economica e la valorizzazione del patrimonio culturale e naturale. Queste strategie si propongono di creare un futuro resiliente per le Alpi Apuane, preservando il loro paesaggio e la loro cultura per le generazioni future.
Ma veniamo ora al punto finale, che a mio avviso è però centrale e non riguarda solo le Alpi Apuane ma tutte le zone di montagna e le zone rurali in generale. I nostri territori hanno vissuto una vera e propria colonizzazione in età moderna, una colonizzazione che ha forzatamente trasformato i pastori di montagna in operai che mangiavano il salame dalle vaschette di plastica, il che, lo capite bene, è una vera e propria violenza antropologica. I contadini nella Garfagnana più interna, da dove vengo io, ancora negli anni '80, visti coi miei occhi di bambino, buttavano i mobili di castagno per sostituirli con i mobili di formica, coprivano i muri in pietra con intonaci colorati per darsi un tono diverso ed in fondo per coprire la loro cultura contadina di cui li stavano facendo vergognare. Io stesso negli anni ho sempre avvertito vergogna e discriminazione per queste mie origini, che oggi ritengo nobili e di cui sono orgoglioso. Nessuna donna in quegli anni avrebbe sposato un contadino di montagna o un pastore e così cominciò, sin da inizio ‘900, con una valigia di cartone sotto braccio, la diaspora che ben conosciamo verso le periferie delle città di mezzo mondo, per i tanti che vedevano nella urbe il futuro dell'uomo. Come si è evoluto quel percorso è sotto gli occhi di tutti e i pochi che resistono nelle zone rurali sono sempre più bistrattati da una politica che mira a dare servizi solo alle città tagliando progressivamente la ruralità. Anche per questo lavora “Salviamo le Apuane”, che associa, non a caso, i popoli rurali e contadini alle disgrazie dei popoli nativi, siano essi americani o siberiani. Proprio quei popoli refrattari al consumismo attuale che portano in sé il seme della soluzione a questo dramma che stiamo vivendo, ovvero la "coscienza del limite", quella coscienza data da una relazione stretta con la Terra, che non può essere superata se non vogliamo pagarne le conseguenze. Una coscienza del limite che manca totalmente al mondo attuale che punta appunto ad una crescita illimitata della produzione, quando invece l'unica crescita illimitata a cui dovremmo aspirare è quella culturale e spirituale, ma magari questo tema lo approfondiremo in un altro articolo.

Attualmente, attendiamo con trepidazione l'approvazione, da parte della Regione Toscana, del nuovo Piano del Parco delle Alpi Apuane. Questo piano potrebbe finalmente segnare la chiusura di alcune cave nelle aree più delicate della catena, come la zona di Focolaccia e la parete nord del Pizzo D’Uccello, e inaugurare un'era di sostegno concreto alle economie alternative. Tuttavia, la regione sembra mostrare incertezze nel prendere decisioni incisive; già nel 2015, il piano paesaggistico di Anna Marson, che prevedeva una graduale cessazione delle attività estrattive nel parco a favore di un piano di riconversione economica per preservare l'occupazione, fu ostacolato dalle pressioni della potente lobby delle cave, lasciando un senso di amarezza e mettendo in luce la fragilità della politica di fronte a interessi consolidati. Oggi, con l'assessore Baccelli che propone addirittura un aumento del 5% della quota di estrazione, nonostante le già generose previsioni dei piani regionali, sorge spontanea la domanda: riusciremo mai a vedere approvato il Piano del Parco senza ulteriori compromessi?
Nonostante le incertezze, noi non ci arrendiamo. Nel maggio scorso, presso il Palazzo Ducale di Massa, abbiamo presentato una nuova evoluzione della nostra proposta, che potrebbe accelerare la chiusura delle cave all'interno del parco e, insieme, garantire la salvaguardia dei posti di lavoro. Questo appuntamento ha rappresentato un'ulteriore occasione per fare un passo avanti verso la protezione delle nostre amate Alpi Apuane e verso lo sviluppo di un'economia più sostenibile e inclusiva.

I record del 2023 - European State of the Climate 2023

di Sofia Filippetti

 

 

Il maggior numero di giorni con “stress termico estremo”. La più grande area colpita da almeno “stress termico forte”. Il più grande incendio. Le più alte portate dei fiumi di dicembre. La più elevata proporzione di generazione di energia da fonti rinnovabili. La più calda ondata di calore marino nel nord-est Atlantico.
Eccoli qua, i record europei del 2023.

L’abbiamo pensato tutti: è stato un anno rovente. E questo pensiero, questa percezione, sono stati confermati senza ombra di dubbio dai dati scientifici: il 2023 è stato il secondo anno più caldo mai registrato in Europa.
Se questo quasi-primato non genera già abbastanza preoccupazione di per sé, il report “European State of the Climate 2023” (Copernicus Climate Change Service, World Meteorological Organization) ci ricorda che i tre anni più caldi mai registrati per l’Europa si sono verificati tutti e tre a partire dal 2020, e che i dieci anni più caldi mai registrati per l’Europa si sono verificati tutti e dieci a partire dal 2007.Riassunto: stiamo bollendo. Più o meno letteralmente. Nel 2023, infatti, abbiamo vissuto temperature più alte di 1.02–1.12°C rispetto alla media cui siamo abituati, e se vogliamo prendere come riferimento le temperature pre-industriali, abbiamo viaggiato sui 2.48–2.58°C in più. Non so voi, ma io, personalmente, la differenza tra i 30°C (registrati) e i 27.5°C (registrati) l’ho sentita tutta.

E se non è abbastanza allarmante già così, i dati ci avvisano, tranquilli e precisi, del fatto che l’Europa a partire dal 1980 (per quando tornerete indietro a rileggere: a partire dal 1980) s’è riscaldata ad una velocità doppia (sempre per quando tornerete indietro a rileggere: velocità doppia) rispetto alla media globale. Se volevamo un completo-primato, eccolo qua: l’Europa è il continente che si riscalda più velocemente di tutta la Terra.
Gli scienziati ci avvisano che tale record (si parla solo di record, in questo articolo) è dovuto ad una certa quantità di elementi, incluso il fatto che la zona dell’Artico con le temperature più-al-di-sopra-della-media di tutto il pianeta è proprio quella europea, e che le variazioni nella circolazione atmosferica ci regalano ondate di calore estivo più frequenti. Perché l’estate del 2023 avrà il quasi-primato di estate più calda mai registrata, ma è senza alcun dubbio quella che a volte ci ha fatto vivere condizioni estreme.

Sì, avete letto bene: condizioni estreme. Quand’è che usate termini del genere? “Condizioni estreme”? Fa paura, questo binomio, e fa paura ancora di più se lo dite a voce alta (dovreste provare).
Be’, a noi che abitiamo nella zona europea, l’estate del 2023 a volte ci ha fatto vivere condizioni estreme. I mesi che vanno da giugno a settembre, la cosiddetta “estate estesa”, sono stati costellati da ondate di calore, incendi, siccità e alluvioni. Contrasti rilevanti, tra temperature e precipitazioni, sul breve e sul lungo periodo, che generano ricadute importanti su ogni singolo livello della nostra esistenza. L’International Disaster Database, che si occupa di quantificare anche questi impatti, ha generato e condiviso le stime preliminari di quello che abbiamo vissuto nel 2023 che, ve lo anticipo, fanno accapponare la pelle. Si parla di 1.6 milioni di persone danneggiate dalle inondazioni, 550.000 persone colpite dal maltempo e 36.000 da incendi; considerando che il numero di decessi per queste ragioni dovrebbe essere sempre uguale a 0, le stime riportano almeno 63 morti a causa delle perturbazioni atmosferiche, 44 per alluvioni, 44 per incendi. In denaro, per chi capisce (solo?) questa lingua, una perdita stimata di 13.4 bilioni di euro. E si sta considerando la situazione unicamente in Europa, che sia ben inteso. Numeri allarmanti, e ancora non sono disponibili quelli degli effetti delle ondate di calore.

Ondate di calore che preoccupano davvero, tra temperatura reale e temperatura percepita, che hanno effetto su tutta la popolazione. Tanto che, di recente, un articolo di una qualche testata giornalistica ha ricordato che le città preparano i rifugi per difendersi dalle ondate di calore. Sembra di vivere in un qualche libro distopico (lascio a voi la scelta di decidere se firmato da Orwell, Huxley o Bradbury), ma è la nostra realtà. Vi (ci) conforto, però, dicendovi che per “rifugi climatici” si intendono tutti quegli spazi urbani pubblici che, in occasione di “stress termico estremo” o “stress termico forte”, possono fornire riparo e frescura. A leggere il termine “rifugio”, ciò a cui si pensa istintivamente è un luogo chiuso, una infrastruttura di qualche genere, come i centri civici e le biblioteche che, in effetti, rientrano proprio nella definizione. Ma gli scienziati (e non solo) definiscono come “rifugi climatici” anche gli spazi verdi, i parchi, i giardini e qualsiasi cosa che proietti un’ombra sotto cui rifugiarsi… per esempio la chioma di un albero.

Insomma, gira e rigira, arriviamo sempre allo stesso punto: per salvarci da noi stessi c’è bisogno della natura. Di quanti altri record avremo bisogno prima di impararlo?



Bibliografia e sitografia
- European State of the Climate 2023: https://climate.copernicus.eu/esotc/2023
- Storymap European State of the Climate 2023: https://storymaps.arcgis.com/stories/58d3859cd31146e2be835f7d57a38383
- Antonini Roberto, “Da Parigi a Madrid, le città preparano i rifugi per difendersi dalle ondate di calore”, Huffpost: https://www.huffingtonpost.it/dossier/terra/2024/05/18/news/da_parigi_a_madrid_le_citta_preparano_i_rifugi_per_difendersi_dalle_ondate_di_calore-15911478/

1954 – 2024 Pro Natura Genova compie 70 anni

Abbiamo pensato che la cosa migliore per offrire una seppur sintetica descrizione dei nostri primi 70 anni fosse quella di affidarci a due dei soci che sono stati affiliati per più anni a Pro Natura Genova e che, avendo partecipato molto attivamente alla vita dell’Associazione, sono stati in grado di offrirci dei ricordi vividi e a tratti struggenti della nostra storia.
Ne viene fuori un “amarcord” certamente nostalgico poiché, senza neppure andare a molti decenni fa, la società civile era completamente diversa e c’era voglia di mettersi in gioco e partecipare alla vita associativa anche da parte di molti giovani, una voglia che oggi sembra almeno in parte scomparsa; tuttavia il rivivere questa storia e l’impegno che tanti soci hanno profuso nel tempo, ci può servire da esempio e da sprone per il futuro, per non tradire le generazioni che in passato si sono tanto adoperate per difendere l’ambiente attraverso la nostra Associazione.

Marco Appiani

 

70 ANNI DI PRO NATURA GENOVA
Quest’anno ricorrono i Settant’anni dalla fondazione di Pro Natura Genova. L’Associazione nasce nel 1954 per volontà del dottor Antonio Anfossi, all’epoca Presidente della sezione agricolo-forestale della Camera di Commercio di Liguria e Provincia di Genova. Impegnato  nella gestione del territorio, dedica una particolare attenzione alle problematiche di salvaguardia dell’ambiente naturale. Per questo decide di fondare il Comitato Provinciale per la protezione della Natura che poco dopo assumerà la denominazione di Patronato Genovese Pro Natura “A. Anfossi”.

Lo Statuto dell’Associazione viene rapidamente messo a punto ed approvato nel 1955, in cui è previsto, tra l’altro, che i soci devono corrispondere una quota annuale pari a 1000 lire. Nella necessità di avere una collocazione più consona alle finalità del Patronato, la sede viene trasferita nel Museo di Storia Naturale “G. Doria”, scelto quale luogo di maggiore identità e prestigio sotto il profilo naturalistico. Tra i fondatori e primi collaboratori figurano Milli Leale Anfossi figlia del fondatore, l’entomologo Emilio Berio, per molti anni colonna portante della Società Entomologica Italiana con sede al Museo “G. Doria”, lo zoologo Luigi Cagnolaro e tanti altri ricercatori appassionati come Ducezio Grasso. Una menzione particolare va attribuita ad Alda Ascenso, segretaria dell’Associazione per più di vent’anni, che con grande passione e dedizione ha contribuito alla diffusione di quel messaggio che ancora oggi è simbolo dell’Associazione: conoscere la natura per amarla e rispettarla. In un’intervista che ebbi il piacere di fare alla stessa segretaria in occasione del Quarantennale di Pro Natura Genova, tra i tanti ricordi e testimonianze mi ha colpito quel suo grande entusiasmo nel descrivere il ruolo didattico dell’Associazione. Mi disse della collaborazione con tante scuole genovesi, dove alcuni soci qualificati tenevano periodicamente delle lezioni, come pure dei corsi sulla conoscenza della natura e dei suoi pregi. Grazie a contatti con l’Ambasciata americana a Genova, aveva ottenuto in prestito dei filmati su pellicola inediti per l’Italia, realizzati da documentaristi di fama internazionale, una rarità per l’epoca. I relatori di Pro Natura le proiettavano nelle scuole a supporto della lezione, con l’intento di accrescere l’attenzione e l’interesse dei giovani alunni. Questo aspetto didattico che fin dall’inizio ha contraddistinto l’Associazione insieme a tante altre importanti iniziative, si perpetua ancora oggi con proiezioni in Anfiteatro su temi naturalistico-ambientali in collaborazione con il Museo “G. Doria” e con escursioni didattiche in Aree Parco ed altri siti di notevole interesse.

Dopo parecchi anni di attività, in cui la divulgazione naturalistica e l’attenzione ai pregi del territorio sembravano prevalere tra gli aspetti statutari, si rendeva vieppiù necessario mettere a fuoco azioni dirette alla salvaguardia dell’ambiente naturale, sempre più aggredito e devastato tanto in città quanto sulla fascia costiera, forse un po’ meno nell’entroterra. Per questo motivo negli anni Settanta si decide di adottare un cambio di passo, dando maggiore impulso alle azioni di denuncia contro ogni abuso ed offesa l’ambiente. Per questo nel 1979 viene elaborato un nuovo Statuto, con l’intento di rivedere le priorità d’intenti e dare il via ad una sorta di rifondazione che metta al passo coi tempi il ruolo dell’Associazione stessa. Tutto questo avviene grazie alla disponibilità e competenza del professor Enrico Martini che insieme ad altri colleghi dell’Università di Genova e a tanti collaboratori entusiasti, entrano a costituire il nuovo Consiglio direttivo. Il presidente Enrico Martini viene così affiancato dai consiglieri dott.ssa Giacomina Andreola, prof. Attilio Arillo, prof.ssa Giuseppina Barberis, prof.ssa Alberta Boato, dottor Roberto Costa, dott.ssa Gianna Danovaro, dott.ssa Cinzia Margiocco, dott.ssa Matilde Moresi, prof.ssa Cecilia Ravaccia, prof. Giulio Relini. Anche la denominazione viene aggiornata, diventando Pro Natura Genova.

Varie saranno le denunce contro devastazioni ed abusi sia in ambito cittadino sia sul territorio in genere, altrettante le proposte per la salvaguardia dei delicati equilibri che regolano i rapporti tra uomo e natura, in un territorio già di per sé complesso e difficile da gestire sotto il profilo geomorfologico.

Se una particolare attenzione è stata rivolta alle problematiche ambientali, non per questo le finalità didattiche dei primi anni dalla fondazione sono venute meno. Al contrario, sempre per iniziativa del professor Martini si è voluto dare un nuovo impulso a questa attività, con la realizzazione di alcune Serie didattiche costituite da diapositive corredate di relativo testo, da lui e da altri realizzate appositamente per le scuole. La collaborazione con gli Istituti genovesi si è potuta consolidare grazie al contributo dei molti insegnanti che Pro Natura Genova annoverava in quel periodo tra i propri soci. Oggi quelle “Serie” sono state rinnovate ed aggiornate, ricorrendo anche a supporti informatici moderni e di più facile fruizione. Al contempo una particolare attenzione veniva rivolta alla programmazione di corsi tematici, con lezioni nei locali della sede dove si svolgono ancora oggi con grande partecipazione da parte degli iscritti.  

Tra gli impegni per la salvaguardia del patrimonio faunistico ligure è da sottolineare la partecipazione al Progetto Emys, volto alla conservazione e reintroduzione della testuggine palustre Emys orbicularis ingauna nel suo habitat naturale, testuggine che si pensava estinta. L’allora Presidente professor Riccardo Jesu riveste il ruolo di coordinatore in un progetto che vede coinvolta l’Università di Genova e l’Acquario di Genova insieme ad enti e associazioni. Altrettanto importante è la funzione didattica, con la realizzazione di un apposito Centro dove le scolaresche possono vedere gli esemplari nel loro ambiente e impararne le caratteristiche.

C'è stato un tempo in cui avevamo più di 300 soci, in cui un giornalista, esterrefatto nel vedere quante persone erano presenti ad una conferenza nell'anfiteatro del Museo che ci ospita se ne uscì con un articolo dal titolo: "Al Museo di sera va più gente che in balera" e un lungo testo su tre colonne pieno di elogi per Pro Natura Genova. Un tempo in cui avevamo un folto Gruppo Giovani e una delle squadre antincendi boschivi tra le più efficienti, volenterose e attive della Liguria. Questa rinascita è stata funestata negli anni successivi da alcuni eventi tanti gravi quanto improvvisi, come le alluvioni che hanno colpito periodicamente Genova, di cui quella del 1992 e la più recente del 2014 hanno devastato la nostra Sede. L’archivio che conservava la documentazione storica è andato irrimediabilmente perduto, come pure i computer e molto altro materiale indispensabile per l’attività corrente, senza dimenticare i tanti libri che costituivano una piccola ma preziosa biblioteca aperta al pubblico.

A questi eventi che hanno costretto ad una lenta e difficoltosa ripresa della vita associativa, si è aggiunto il recente periodo Covid che tra il 2020 e il 2022 ha visto il venir meno della presenza dei soci sia in sede sia per quanto riguarda l’organizzazione di eventi pubblici, come le conversazioni tenute il martedì pomeriggio nell’Anfiteatro del Museo “G. Doria”. La volontà di molti tra i nostri più stretti collaboratori a non demordere, ha fatto in modo che si adottassero nuove strategie di comunicazione, puntando su quanto mette a disposizione la tecnologia. La ripresa dei contatti da remoto tra i soci e, in particolare, tra consiglieri e collaboratori, le conferenze on line e l’aggiornamento puntuale del Sito internet, hanno permesso di proseguire nell’attività, nonostante le difficoltà in tempo di Pandemia dovute alle restrizioni in tema di spostamenti tra le persone. Con il ritorno alla normalità si è fatto tesoro dell’esperienza acquisita, continuando ad utilizzare i mezzi tecnologici a disposizione e, al contempo, rinsaldando quei rapporti in presenza tra soci che sono irrinunciabili e di cui si è tanto avvertita la mancanza per oltre due anni.

Oggi una nuova ripartenza è possibile grazie alla dedizione di tante persone che continuano a collaborare con rinnovato entusiasmo. Basti vedere la grande partecipazione al Corso di geologia tenuto recentemente in sede a cura del Professor Claudio Vanzo, corredato di alcune uscite sul campo per l’osservazione di formazioni di particolare interesse. Si è reso necessario dividere il corso in tre sessioni a causa dell’elevato numero di partecipanti.

A vedere quale vitalità l’Associazione continua a dimostrare nel farsi promotrice di tante iniziative, potremmo affermare che Pro Natura Genova ha compiuto settant’anni ma non li dimostra. Vorrei esprimere un ringraziamento da parte di tutti i soci a quanti si sono succeduti in questi settant’anni nel ricoprire l’incarico di Direttore del Museo di Storia Naturale “G. Doria”, in particolare la dott.ssa Lilia Capocaccia, il dottor Roberto Poggi e il dottor Giuliano Doria, per la fiducia attribuita all’Associazione e per il prezioso sostegno in tante iniziative in ambito museale.

Piero Anfossi

 

BREVE VIAGGIO NEI RICORDI
Ho conosciuto Pro Natura Genova nel dicembre 1976 grazie a un trafiletto sul Secolo XIX in cui il Gruppo Giovani dell'Associazione faceva sapere della propria costituzione e rivolgeva un appello per l'adesione di nuovi volontari. Ho così fatto la conoscenza  di un gruppo di ragazzi,  prevalentemente studenti universitari come me, in parte iscritti a Pro Natura, in parte anche ad Italia Nostra, pieni di entusiasmo e desiderosi di fare qualcosa per l’ambiente e per la propria città. Dal gennaio successivo ho iniziato a lavorare con loro.

Una delle prime iniziative fu una mostra fotografica sui cambiamenti avvenuti nella delegazione di Prà, la sua progressiva urbanizzazione e la sparizione della spiaggia sacrificata all’ampliamento del porto con la sparizione dei piccoli cantieri navali e dei tradizionali stabilimenti balneari. La mostra restò visibile per parecchie settimane presso la scuola media Assarotti. Sempre come Gruppo Giovani fummo presenti con pannelli illustrativi dell’attività dell’Associazione a più di un’edizione di Euroflora. In quegli anni il Gruppo Giovani portava avanti anche un’attività nelle scuole, recandosi nei diversi istituti per proiettare diapositive che illustrassero i pregi e i problemi del nostro ambiente. Più tardi vennero elaborate le serie didattiche da dare in prestito agli insegnanti che ne facessero richiesta. Tra le serie possiamo ricordare quelle relative alla vegetazione ligure, ai fiori protetti in Liguria, agli incendi, alle fitopatie e ai problemi ecologici dei boschi, ai segreti del mare. Le serie erano costituite da gruppi di 50 o 100 diapositive corredate da didascalie e testi di approfondimento.

Nel contempo iniziarono le gite naturalistiche. La prima, organizzata in collaborazione con Italia Nostra, fu al Museo oceanografico di Monaco. A questa ne seguirono altre e l'organizzazione delle escursioni didattiche divenne un fiore all'occhiello dell'associazione.

Inizialmente in Liguria e zone limitrofe, poi sempre più a largo raggio. Il primo viaggio all’estero fu in Camargue, organizzazione un po’ spartana (ricordo che preparavano noi ogni giorno i cestini per il pranzo per tutti i partecipanti!) ma fu un successo. Negli anni successivi ci perfezionammo, anche avvalendoci di agenzie di viaggio perché nel frattempo la normativa era cambiata e l'organizzazione in proprio, seppure senza scopo di lucro, non era più legalmente  possibile. Le escursioni di un giorno furono tantissime: ricordo in particolare numerose escursioni nelle Alpi liguri, nel finalese, alle grotte di Toirano, alla riserva delle Agoraie, al Parco del Ticino, nell’Oasi di Crava Morozzo; per i viaggi di più giorni andammo in Sardegna, sul Delta del Po, al Parco d’Abruzzo, alle Foreste casentinesi, in Maremma e, all'estero, in Corsica, ai Parchi Nazionali di Doñana e di Aiguestortes e Ordesa in Spagna. Quello che non mancò mai negli anni fu la serietà della parte didattica delle escursioni grazie all’impegno dei volontari,  tra cui mi piace ricordare Mino Montano, Roberto Costa, Gianna Danovaro e naturalmente l’imprescindibile Giorgio Scopesi, e di molti docenti universitari iscritti a Pro Natura, quali il professor Martini, il professor Salamanna, la professoressa Barberis, il professor Cortesogno. Senza scordare Teresita Totis che ci ha fatto conoscere i segreti dei parchi cittadini e Antonio Berveglieri, indimenticato Presidente appassionato studioso dell'ambiente ligure che purtroppo ci ha lasciato troppo presto.

Negli anni ’80 l’iniziativa di maggior impatto fu senz’altro il progetto “Ecologia in città”. Realizzato in collaborazione con il comune di Genova, il Museo Civico di storia naturale e la delegazione di Genova della Lipu, il progetto si proponeva di individuare una serie di località, nell’ambito del comune di Genova, con caratteristiche ambientali di particolare rilievo naturalistico e didattico in previsione di un loro utilizzo a scopo educativo e formativo nei riguardi soprattutto del mondo della scuola. Nel febbraio 1984 venne inaugurata presso il Museo, dopo circa un anno di lavoro di ricerca e studio degli itinerari,  la  mostra che ne costituiva il primo risultato pratico.  Ricordo le serate passate a preparare i pannelli. In prima linea con noi a sistemare foto e didascalie anche la dottoressa Capocaccia, allora direttrice del Museo. La  mostra accompagnata da un ciclo di conferenze restò aperta per tre mesi e riscosse un grande successo con circa 43.000 visitatori. Successivamente si trasferì a Pegli e nei mesi di luglio e agosto fu visitata da circa 20.000 persone.

Fin dagli inizi  Pro Natura ha sempre operato in collaborazione con le altre associazioni presenti sul territorio. Negli anni 70/80 la collaborazione si concretizzò anche nella stampa di un periodico "L’ambiente naturale e urbano” che fu allora la prima o forse l'unica rivista in Liguria ad affrontare temi ambientali: conservazione, urbanistica, inquinamento, energia, agricoltura, sviluppo sostenibile.  Dal gennaio 1981 la redazione ebbe sede proprio presso Pro Natura. Nella redazione della rivista erano presenti, oltre a Pro Natura Genova, Pro Natura Torino,  Italia Nostra, Lipu, WWF, Gruppo Difesa Ambiente Valle Stura, Comitato per la salvaguardia dell’ambiente naturale della valle Bormida. Fra i collaboratori docenti universitari come Enrico Martini, Attilio Arillo, Emilio Balletto.

In quegli anni il Consiglio Direttivo ritenne poi opportuno elaborare un notiziario, proprio dell’associazione, che, oltre a presentare il consueto programma di conferenze e gite, informasse i soci sulle iniziative in corso di attuazione e rappresentasse un mezzo per stimolare le idee e la partecipazione attiva del maggior numero di persone possibile alla vita del Pro Natura. Ricordo i primi numeri in formato A4, faticosamente stampati foglio per foglio con le matrici inchiostrate inserite nel  ciclostile manuale.

Nulla a che vedere con gli ultimi numeri stampati  in parte anche a colori, corredati da fotografie e  da qualche anno disponibili anche sul sito.

Proprio scorrendo le annate del notiziario è possibile vedere quanto negli anni abbia fatto Pro Natura Genova confrontandosi  anche con le istituzioni locali, ponendosi spesso in posizione critica, e richiamare alla memoria la gran mole di iniziative portate avanti, dalle conferenze settimanali del martedì alle gite naturalistiche, dalle serie didattiche agli incontri nelle scuole, dalle conferenze nei quartieri in collaborazione con il comune di Genova ai convegni su temi scottanti di tutela ambientale, dagli esposti e segnalazioni alle autorità competenti per illeciti ambientali all’attività di sensibilizzazione degli organi regionali, compresa la presentazione di alcune proposte di legge di iniziativa popolare, affinché approvassero leggi e provvedimenti rispettosi dell’ambiente.

Un notevole salto di qualità sotto l'aspetto della difesa attiva del territorio fu la costituzione nel 1992 della squadra antincendi boschivi del Pro Natura Genova, nata su impulso di Franco Gaggero, in allora membro del Consiglio direttivo e Vicepresidente dell’Associazione. La squadra era operava nell’area compresa tra i comuni di Vado Ligure e Rapallo con baricentro sui comuni di Arenzano e Cogoleto, con una media di 30/40 interventi l'anno, anche in notturna. La loro generosità, capacità e dedizione erano apprezzate anche dagli addetti ai lavori, compreso il Corpo Forestale dello Stato.

Ritornando all’attività didattica, come non ricordare i corsi di ecologia ed etologia tenuti per anni nella nostra sede dal professor Salamanna? La didattica è sempre stata un fiore all’occhiello dell’Associazione e ha caratterizzato, oltre alle escursioni naturalistiche, anche gli incontri del martedì a volte organizzati in veri e propri cicli di approfondimento come quelli sulla vegetazione ligure e i suoi problemi a cura di Enrico Martini o i corsi di aggiornamento per insegnanti “L'acqua e Genova” con la collaborazione di A.M.G.A. e Museo di Storia naturale, coordinati dalla compianta prof. Maria Pia Turbi. Di Maria Pia, per anni membro del Direttivo, ricordiamo  il costante impegno nel proporre temi per le conferenze del martedì, a volte con interi cicli dedicati ad argomenti di elevato valore scientifico.

Oltre a costituire un importante momento didattico, i corsi erano anche un momento di aggregazione: anche grazie ad essi i soci frequentavano assiduamente la sede e la biblioteca (accolti da Piero Anfossi e dalla simpaticissima Laura Ottolenghi). Questo spirito di aggregazione fu molto utile nei momenti bui dell'associazione come in occasione dell'alluvione del settembre ‘92 quando i soci si rimboccarono le maniche per risollevare le sorti dell'Associazione che aveva praticamente perso tutto. La solidarietà non si fece attendere e grazie all'impegno in prima persona di tanti soci e alla sottoscrizione straordinaria di altri Pro Natura riuscì a risollevarsi. A causa dello straripamento del Bisagno l'acqua nei fondi del Museo raggiunse l'altezza di oltre 2 metri e mezzo sommergendo i mobili, le attrezzature, gli scaffali dei libri. Andarono perse le serie di didattiche, il computer, la stampante laser appena acquistata. Anche il Museo patì danni gravissimi. Tuttavia Pro Natura Genova riuscì a risollevarsi proprio grazie al contributo dei soci, di quanti, non avendo possibilità di intervenire direttamente, corsero a versare in anticipo la quota associativa per il nuovo anno (in molti anche arrotondandola generosamente), e di quanti  passarono giorni e giorni a ripulire la sede e a  cercare di di salvare il salvabile.

In  particolare per i libri ricordo le giornate passate ad asciugare,  una per una, le pagine con il phon. Purtroppo tanti risultarono irrimediabilmente danneggiati ma dei 2000 da cui era costituita la biblioteca almeno 200 furono salvati in questo modo. Memori dell’accaduto spostammo le attrezzature più costose nella segreteria accanto all’Anfiteatro ma la biblioteca dovette rimanere nei fondi e fu definitivamente spazzata via dalla successiva alluvione del 9 e 10 ottobre 2014. In quell’occasione non si fece in tempo ad arrivare: volontari estranei all’Associazione intervennero prima di noi, buttando indiscriminatamente tutto senza curarsi di vedere se qualcosa si potesse salvare.

Chiudo qui il mio “amarcord” per i 70 anni. La ricorrenza mi ha dato l’occasione per ricordare un periodo pieno di entusiasmo e di voglia di fare che non sono venuti meno con gli anni. Molti fra quelli che hanno collaborato allora con Pro Natura Genova hanno preso strade diverse, altri purtroppo ci hanno lasciato per sempre, ma nuove persone sono subentrate, pronte a portare avanti l’attività dell’associazione ancora per molti anni sempre nel segno dell’impegno costante per l’ambiente.

Matilde Moresi

Per una gestione dell'ambiente marino basata sulla conoscenza

di Ferdinando Boero
Fondazione Dohrn

 

 

Dalla Convenzione di Rio sulla Biodiversità del 1992, i nostri impatti sul mondo naturale hanno guadagnato l'attenzione universale e sono stati elaborati piani per migliorare una situazione di deterioramento ambientale che ostacola le nostre possibilità di benessere persistente. Gli stati industrializzati, con la delocalizzazione delle produzioni inquinanti, hanno esportato anche i loro impatti in altri paesi, portando a un'economia globale che ha globalizzato non solo le produzioni, ma anche le loro conseguenze ambientali: l'inquinamento viaggia così come il commercio, e anche di più, raggiungendo ogni angolo del pianeta, compreso l'oceano profondo. Gli stati industrializzati hanno raggiunto buoni standard di vita sfruttando pesantemente sia il loro capitale naturale sia quello delle loro colonie passate, mentre gli stati non industrializzati, pur avendo ecosistemi floridi, non hanno una qualità di vita simile alla nostra. Gli stati con foreste estese, ad esempio, sono invitati a non distruggerle e trasformarle in campi agricoli o industriali, come hanno fatto gli stati industrializzati, perché lo stato globale del pianeta ne risentirebbe, così come il nostro benessere. Le popolazioni di questi territori, tuttavia, non sono d'accordo nel rinunciare alla loro crescita economica a vantaggio delle popolazioni che hanno alterato i loro territori in nome della crescita economica. La sindrome del "Non nel mio cortile" (Not In My Back Yard: NIMBY) è diventata proverbiale quando si sono prese decisioni su dove mettere le produzioni inquinanti come fabbriche di acciaio, centrali nucleari e depositi di scorie, e molte altre imprese che sono possibilmente necessarie, ma che non dovrebbero essere installate vicino a me: mettiamole da qualche altra parte. La stessa sindrome sta ora influenzando la nostra reazione alle politiche di sostenibilità: perché dobbiamo cambiare le nostre produzioni se gli altri stati non fanno altrettanto? Produrre senza inquinare ha costi immediati più alti, e chi inizia sarà escluso dal mercato. La sindrome "Non fino a quando gli altri lo fanno" (Not Until The Others Do It: NUTODI) è parallela alla sindrome NIMBY. Aspettando una decisione globale verso un cambiamento nel modo in cui produciamo e consumiamo, lo stato del mondo peggiora, portando a condizioni insopportabili. Dopo la Convenzione di Rio, diverse Conferenze delle Parti e altre Convenzioni hanno concordato sull'urgenza di azioni, fissando obiettivi di sostenibilità che sono stati invariabilmente mancati semplicemente perché non sono state adottate misure efficaci. Dobbiamo fare qualcosa, ma non nel mio cortile e non fino a quando gli altri fanno altrettanto.

Una politica unilaterale

In questo scenario apparentemente senza sbocchi, l'Unione Europea ha deciso unilateralmente di avviare un percorso verso la sostenibilità, senza aspettare che gli altri facciano lo stesso, emanando una serie di misure che favoriscono un uso razionale dello spazio marittimo alla luce della sostenibilità (Fig. 1). Questo approccio è iniziato nel 1979 con la direttiva sugli uccelli (https://environment.ec.europa.eu/topics/nature-and-biodiversity/birds-directive_en) concentrata sulla protezione di una porzione carismatica della biodiversità. Questo ha portato al riconoscimento di Aree Specialmente Protette e una lista di 500 specie protette. Nel 1992 la Direttiva Habitat (https://environment.ec.europa.eu/topics/nature-and-biodiversity/habitats-directive_en#overview), ha identificato Aree Speciali di Conservazione e Siti di Importanza Comunitaria, coprendo sia specie che habitat. Con la Direttiva Habitat, la protezione si estende anche a specie ancora sconosciute, promuovendo il concetto che se gli habitat sono protetti, questo è benefico per tutte le specie che li abitano. Il numero di habitat marini protetti (9), tuttavia, è piccolo, rispetto a quello degli habitat terrestri (189). La fusione delle Direttive su Uccelli e Habitat ha portato a una rete di aree protette, la Rete Natura 2000, che considera solo gli habitat bentonici, ignorando la colonna d'acqua, la stragrande maggioranza dello spazio abitato dalla vita. La colonna d'acqua non è un semplice mezzo, come lo è l'atmosfera negli habitat emersi, ma una serie di habitat. La Direttiva quadro sull'acqua ha continuato su questa strada nell'anno 2000 (https://environment.ec.europa.eu/topics/water/water-framework-directive_en), con una serie di prescrizioni per lo Stato di Qualità delle acque superficiali e delle acque sotterranee, basate sulle loro caratteristiche chimiche. Nel 2008, la Direttiva quadro sulla strategia marina (MSFD, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex:32008L0056) ha coperto sia la biodiversità che il funzionamento degli ecosistemi con il concetto di Buono Stato Ambientale (GES, https://environment.ec.europa.eu/topics/marine-environment/descriptors-under-marine-strategy-framework-directive_en), declinato con undici descrittori che coprono sia la colonna d'acqua sia il fondale marino. La biodiversità è il primo descrittore, gli altri 10 descrittori coprono una serie di stress e processi, prescrivendo che non dovrebbero compromettere il funzionamento degli ecosistemi. La Direttiva sulla strategia marina ha introdotto l'Approccio Ecosistemico, (EA, https://maritime-spatial-planning.ec.europa.eu/faq/ecosystem-based-approach#:~:text=According%20to%20the%20EU%20MSP,has%20a%20number%20of%20challenges) passando dagli habitat agli ecosistemi come oggetti di gestione e conservazione, prescrivendo che il GES doveva essere raggiunto in tutte le acque europee entro il 2020, un obiettivo che è ben lungi dall'essere stato raggiunto. La Direttiva quadro sulla strategia marina, tuttavia, ha stabilito un principio chiave: qualsiasi cosa facciamo deve tenere conto della qualità della biodiversità e degli ecosistemi.

Nel 2013 la Politica Comune della Pesca (https://eur-lex.europa.eu/EN/legal-content/summary/the-eu-s-common-fisheries-policy.html) ha riordinato una serie di norme riguardanti la pesca, mirando all'approccio ecosistemico nella gestione dell'estrazione delle risorse marine viventi. Nel 2014 la Direttiva sulla pianificazione dello spazio marittimo (MSPD, https://www.eea.europa.eu/policy-documents/directive-2014-89-eu-maritime), ha introdotto il concetto di Crescita Blu e prescritto la pianificazione di tutte le attività umane basate sul mare in modo strategico e non una per una, al fine di preservare lo spazio marittimo rispetto a una serie di molteplici stress di origine umana. Per sottolineare ulteriormente la visione olistica dell'UE nella gestione dello spazio marino, nel 2021 è stata lanciata la Missione Oceani, Mari e Acque Costiere Salutari, sulla base del fatto che tutte le acque, sia marine che interne, devono essere comprese in un unico quadro (https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/591d6563-379b-11ec-8daf-01aa75ed71a1). Nel 2019 la Commissione europea ha lanciato il Green Deal europeo (https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/european-green-deal_en) con l'anno 2050 come anno target per la costruzione di un'economia verde in Europa, basata sulla transizione ecologica. Nel 2021 l'Area missione su Oceani, Mari e Acque Costiere Salutari è evoluta in Missione: Ripristinare i nostri oceani e acque (https://research-and-innovation.ec.europa.eu/funding/funding-opportunities/funding-programmes-and-open-calls/horizon-europe/eu-missions-horizon-europe/restore-our-ocean-and-waters_en), passando dalla protezione al ripristino attivo e fissando il 2030 come termine per il compimento della missione. Nel 2022 la Legge sul Ripristino della Natura (https://environment.ec.europa.eu/topics/nature-and-biodiversity/nature-restoration-law_en) ha formalizzato gli obiettivi della Missione.

Incoerenze nell'applicazione delle misure

La Fig. 1 mostra che ogni misura è stata aggiunta alle precedenti, senza sostituirle: nel 2022 coesistevano nove misure legislative, alcune sono state aggiornate ma spesso sono applicate e interpretate indipendentemente le une dalle altre. Inoltre, i singoli stati le applicavano in base alle loro politiche nazionali, alcune più sensibili alla conservazione del capitale naturale, altre più sensibili alla crescita del capitale economico e sociale. Inoltre, le politiche sulla pesca sono sviluppate separatamente da quelle sugli ecosistemi. I siti marini di Natura 2000 si concentrano ancora sugli habitat bentonici e non coprono gli ecosistemi: il focus sugli habitat, nonostante l'approccio ecosistemico, rimane forte e trascura gli aspetti funzionali, considerando solo il benthos. Inoltre, i descrittori di Buono Stato Ambientale sono affrontati spesso singolarmente, in modo riduzionistico, trascurando l'approccio olistico che è il marchio distintivo della Direttiva quadro sulla strategia marina: una strategia è perseguita da una serie di tattiche non coordinate. Per la Commissione europea, inoltre, le Aree Marine Protette coincidono con la rete Natura 2000, mentre gli stati singoli hanno istituito Aree Marine Protette nazionali che non necessariamente si sovrappongono a quelle della Rete Natura 2000. Le Nazioni Unite hanno proposto di classificare il 30% dello spazio marittimo come Aree Marine Protette entro il 2030 (https://sdgs.un.org/partnerships/classify-30-national-maritime-space-marine-protected-areas-mpas-2030), mentre la Direttiva quadro sulla strategia marina prescrive che il Buono Stato Ambientale debba essere raggiunto in tutte le acque dell'UE entro il 2020. Questo è molto più del 30%; GES, infatti, chiede la conservazione sia della biodiversità sia degli ecosistemi: il vero obiettivo delle AMP. Le attuali AMP proteggono habitat eccezionali ma non necessariamente comprendono interi ecosistemi che permettono la salute di habitat particolari. Pertanto, le reti di AMP focalizzate sugli habitat devono coprire ecosistemi, come richiesto dall'attuazione della Strategia Marina. Chiedere il 30% dello spazio protetto, in presenza di una direttiva che chiede una buona gestione per il 100% dello spazio marino europeo, abbassa le aspettative di protezione.

Sostenibilità

L'insostenibilità dei sistemi economici attuali, che esercitano pressioni insopportabili sugli ecosistemi, ha portato all'emanazione del Green Deal europeo. Il raggiungimento della sostenibilità attraverso il Green Deal richiede l'aggiornamento delle attuali tecnologie al fine di minimizzare gli impatti futuri su biodiversità ed ecosistemi. Questo richiede nuovi modi di ottenere energia, incluso il cibo, e l'uso dei materiali alla luce di un'economia circolare che riduce la linearità dell'economia mainstream: gli oggetti devono essere riutilizzati e i loro materiali, se il riutilizzo non è praticabile, non devono terminare la loro vita come rifiuti ma essere invece riciclati. Le misure della Direttiva Marina permettono di valutare l'efficacia delle nuove tecnologie in termini di GES: se le nuove tecnologie migliorano lo stato dell'ambiente, allora sono sostenibili, se lo stato dell'ambiente rimane invariato, non sono realmente efficaci, mentre se lo stato ambientale viene abbassato, le tecnologie sono chiaramente insostenibili. Il successo della transizione ecologica verso una nuova economia sostenibile è una questione sia di tecnologia sia di ecologia. Le tecnologie, inoltre, devono essere inserite in un contesto spaziale, come prescritto dalla DSSM, perché i loro impatti (sperabilmente positivi) devono essere valutati nel loro complesso, e non uno alla volta. L'impatto cumulativo di molteplici fattori di stress potrebbe essere insopportabile, anche se l'impatto dei singoli stress potrebbe risultare di scarso effetto sia sulla biodiversità sia sugli ecosistemi. Lo stesso impatto, inoltre, potrebbe avere risultati diversi in luoghi diversi.

La via verso una gestione basata sulla conoscenza

La missione della scienza è identificare l'ignoranza e ridurla; l'ignoranza sulla biodiversità e sugli ecosistemi è grande, poiché la maggior parte delle specie è sconosciuta e il funzionamento degli ecosistemi è lungi dall'essere completamente descritto e compreso. Questa ignoranza è la causa principale della cattiva gestione dei sistemi naturali. La consapevolezza della necessità di una transizione ecologica, cioè il passaggio dall'attuale modo di rapportarsi alla natura a un altro che dia importanza alla conoscenza della natura (ecologia), è una precondizione per decisioni sagge. L'approccio precauzionale prescrive che non dovremmo perseguire alcuna iniziativa le cui conseguenze siano sconosciute, ma ciò impedirebbe tutte le iniziative, con altre conseguenze, specialmente sul nostro benessere. Tuttavia, non possiamo aspettare di acquisire tutte le conoscenze ecologiche necessarie per decidere cosa fare. Caso per caso, quindi, le conseguenze delle azioni specifiche devono essere valutate, con un approccio volto ad imparare facendo, utilizzando le "migliori" conoscenze disponibili, essendo consapevoli che l'attuale "meglio" è insufficiente e necessita di seri miglioramenti. Valutazioni specifiche aggiungono nuove conoscenze che dovrebbero essere organizzate in un database generale volto a raccogliere e integrare tutte le conoscenze disponibili sui sistemi marini. La valutazione ecologica dell'efficacia delle iniziative di sostenibilità, compreso il ripristino, dunque, deve basarsi sia sulla biodiversità che sugli ecosistemi, come dettano le attuali Direttive. La strada verso la sostenibilità richiede una strategia per acquisire la conoscenza mancante sui sistemi che pretendiamo di gestire. Questo può essere realizzato attraverso una serie di passaggi.

Passo 1: fare l'inventario della biodiversità

Le specie sono il nucleo della biodiversità. Nonostante la consapevolezza che la biodiversità sia essenziale per il nostro benessere, legato al funzionamento degli ecosistemi, nessun piano strategico ha mai adottato la procedura suggerita da May nel famoso articolo "Quante specie ci sono sulla terra?"  per "esplorare" la diversità della vita: "Una proposta ambiziosa per gli standard ecologici (anche se non per quelli delle scienze fisiche) è quella di assemblare un team di tassonomi, con una gamma completa di competenze, e poi fare una lista approssimativa di tutte le specie trovate in un ettaro rappresentativo nella foresta pluviale tropicale; sarebbe meglio censire diversi di questi siti. Fino a quando ciò non sarà fatto, non mi fiderò di nessuna stima del totale globale delle specie". May si riferiva agli acari tropicali, ma questo suggerimento si applica a tutto il mondo. È suggestivo che May (un fisico) richiami imprese nelle scienze fisiche che riguardano progetti ancora più ambiziosi di questo; come la ricerca di vita extraterrestre, la colonizzazione di altri pianeti o la scoperta di buchi neri o bianchi. Questo primo passo richiede il rilancio delle competenze in biodiversità. Gli strumenti molecolari potrebbero aiutare, ma il sequenziamento del DNA e l'assegnazione delle sequenze alle specie aiuta l'esplorazione della biodiversità se i campioni sequenziati sono identificati da specialisti ben addestrati, portando a un'etichettatura corretta della sequenza. Identificazioni errate portano a errori perpetui. Il numero di specie sequenziate è molto piccolo e anche se tutte le specie conosciute fossero affidabilmente sequenziate, il numero di specie sconosciute rimarrebbe alto, e se le sequenze non sono riferite a una specie nominata rimangono di significato sconosciuto. Questo primo passo, quindi, mira a conoscere quali specie sono presenti in ogni habitat ed ecosistema.

Passo 2: svelare i ruoli delle specie

Fornire un elenco di specie, valutando anche le loro abbondanze relative nelle diverse porzioni degli ecosistemi, durante i loro cicli di vita, tuttavia, non è sufficiente, se ciò che fanno è sconosciuto. La maggior parte delle specie che ha ricevuto un nome scientifico (la stima è di due milioni) è conosciuta solo come fenotipi estratti dal loro ambiente. Le specie sono cicli vitali e svolgono ruoli diversi durante la loro esistenza. L'ecologia delle specie una volta era studiata dall'autoecologia, un ramo dell'ecologia oggi poco praticato e che dovrebbe essere rilanciato, così da dare un significato ecologico ai nomi delle specie che conosciamo, oltre alle affinità filogenetiche che svelano le loro relazioni evolutive, come definite dalle categorie linneane, dai regni alle specie. Le specie devono essere collegate tra loro chiarendo i loro ruoli nelle reti trofiche.

Passo 3: comprendere le relazioni ecologiche che collegano le specie tra loro e con l'ambiente fisico

Questo porta alla comprensione del funzionamento degli ecosistemi, da un approccio sia strutturale (biodiversità) sia funzionale. Dall'autoecologia, dobbiamo passare alla sinecologia, studiando le relazioni tra le specie e con la componente abiotica degli ecosistemi.

Passo 4: inquadrare la biodiversità marina e il funzionamento degli ecosistemi in un contesto spaziale

Gli ecosistemi marini sono molto dinamici e il loro funzionamento richiede un approccio a cinque dimensioni: il fondo marino bidimensionale, la terza dimensione della colonna d'acqua, e queste dimensioni devono essere inquadrate nel tempo, la quarta dimensione, poiché gli eventi ecologici sono rapidi e intensi, con fioriture (bloom) di produzione e consumo. Le caratteristiche dei sistemi marini cambiano nel tempo e un'unica istantanea non è sufficiente per comprenderne appieno la struttura e la funzione. Questo non può essere fatto in un solo luogo: gli ecosistemi devono essere inquadrati in un contesto geografico, aggiungendo una quinta dimensione, basata sulla connettività tra i diversi habitat. Sistemi di osservazione efficaci sono essenziali per rilevare, descrivere e comprendere i cambiamenti.

Passo 5: pianificare le nostre attività

Il vero adempimento dell'approccio ecosistemico richiede che tutte le nostre attività siano inserite negli ecosistemi, considerando le conseguenze positive e negative con attente analisi costi-benefici volte a raggiungere un'economia sostenibile. Le attività umane, come prescritto dalla Direttiva sulla Pianificazione Spaziale Marittima, determinano una serie di stress multipli che spesso agiscono in sinergia. Gli impatti degli stress, quindi, sono cumulativi e le loro conseguenze sia sulla biodiversità sia sul funzionamento degli ecosistemi (come prescritto dalla Direttiva Quadro sulla Strategia Marina) non possono essere valutate considerando uno stress alla volta.

Un sesto passo potrebbe riguardare il ripristino, come richiesto da una recente direttiva dell'UE (FIG. 1). Il ripristino implica spingere attivamente per il ritorno delle condizioni "pristine" dopo la rimozione degli stress che le hanno alterate. Questo richiede una conoscenza di base di quali dovrebbero essere le condizioni desiderate, cioè quelle registrate prima degli impatti negativi. In un periodo di rapido cambiamento globale come quello attuale, tuttavia, le comunità di specie di 10 o 20 anni fa potrebbero non essere adatte ad affrontare le condizioni attuali, anche dopo la rimozione degli stress. Meglio lasciare che la natura faccia il suo corso, senza interferire.

Conclusioni

Le Direttive dell'UE, auspicabilmente con una certa armonizzazione delle loro logiche, definiscono una chiara strada verso la progettazione di un uso sostenibile dello spazio marittimo. Questo può essere realizzato solo con una profonda conoscenza dei sistemi che devono essere gestiti. Questa conoscenza è ancora incompleta e le sue lacune possono essere colmate mentre pianifichiamo le nostre attività. Ne "L'arte della guerra", Sun Tzu illustra cosa deve fare un generale per raggiungere la vittoria. Il capitolo X è dedicato al Terreno, le cui caratteristiche sono descritte secondo sei principi e il consiglio di Sun Tzu è: "Questi sei sono i principi legati alla Terra. Il generale che ha raggiunto un posto di responsabilità deve stare attento a studiarli". Conoscere la Terra, cioè il terreno, è cruciale se si ingaggia una battaglia. La transizione ecologica è una battaglia contro un atteggiamento verso la Terra che, a lungo termine, sta rivelando molti svantaggi, dopo aver fornito molti vantaggi alla nostra specie. Evidentemente, non siamo stati abbastanza attenti a studiare la Terra, così da capire le conseguenze delle nostre azioni. L'ecologia è la scienza che studia la Terra vivente, e il fatto stesso che solo recentemente ne abbiamo realizzato la rilevanza nelle nostre politiche rivela la negligenza dei nostri leader e di coloro che li scelgono. La tattica (l'approccio analitico delle singole scienze) permette di vincere battaglie, ma senza una strategia (la sintesi delle conoscenze) ci sono buone probabilità che le guerre siano perse. La strategia proposta qui è che le cinque dimensioni dell'ambiente marino, come definite dalle Celle del Funzionamento degli Ecosistemi (porzioni omogenee dell'ambiente, collegate dalla connettività), devono essere mappate e comprese, e che la loro evoluzione sia costantemente osservata, così da decidere cosa fare, e dove, e quando e, soprattutto, perchè.

Il contenzioso ambientale tra l’Italia e l’Unione Europea

Le sentenze della Corte di Giustizia riconoscono la responsabilità del nostro Paese per non avere recepito il diritto ambientale dell’Unione Europea e impongono anche sanzioni pecuniarie

di Giovanni Cordini
Professore Emerito di Diritto Pubblico Comparato e Diritto dell’Ambiente nell’Università degli Studi di Pavia e Direttore dell’Istituto Internazionale di Studi Europei “Antonio Rosmini”, Bolzano

 

 

Gli impegni che l’Italia assume in ambito internazionale ed europeo, così come gli accordi bilaterali tra Stati, comportano sempre delle azioni successive volte a conseguire gli obiettivi ed a dar seguito ai contenuti. Quando, poi, questi vincoli giuridici conseguono dall’adempimento degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione Europeo, ogni trasgressione si traduce in una responsabilità dello Stato che potrà essere fatta valere dinanzi alle Corti. Da diverso tempo il nostro Paese si trova ai primi posti nella non encomiabile classifica degli Stati inadempienti in ordine all’attuazione del diritto ambientale dell’Unione Europea.

Gli atti giuridici (in particolare regolamenti e direttive) dell’Unione Europea, com’è noto, sono vincolanti per tutti i Paesi membri. I regolamenti hanno immediata e diretta efficacia, fatti salvi gli ambiti non vincolanti e gli eventuali indirizzi programmatici, ivi definiti. Le direttive consentono agli Stati un adattamento, sia in ordine temporale, stabilendo i termini per l’entrata in vigore e, dunque, per la definitiva obbligatorietà delle norme ivi contenute, sia per la determinazione, in concreto, delle misure necessarie per dare concretamente seguito all’articolato. Il prospetto che segue mette in evidenza la difficoltà, per l’Italia, di adempiere, entro i termini stabiliti dall’atto comunitario, agli obblighi ivi previsti e sottolinea i diversi profili, per i quali, facendo valere un inadempimento dello Stato, è stato avviato, nei confronti del nostro Paese, il procedimento d’infrazione. Il contenzioso ambientale, da un lato conferma la preoccupazione delle istituzioni europee per il crescente numero di violazioni del diritto ambientale comune e dall’altro è indice della sensibilità che l’amministrazione comunitaria manifesta richiedendo ai Paesi membri di assicurare l’effettiva applicazione del diritto comune e vigilando per censurare l’inosservanza delle regole.

Posto che nella sfera dell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea rientra la potestà di negare validità alle regole degli ordinamenti statali che si pongono in contrasto con le disposizioni comuni emanate in ambito europeo, le questioni giuridiche essenziali per la definizione dei rapporti tra l’ordinamento dell’Unione e gli ordinamenti degli Stati membri riguardano la “validità sostanziale” della legislazione dell’Unione e il quadro giuridico entro il quale si configura e si realizza l’accertamento delle violazioni. La complessa struttura dei sistemi giuridici integrati richiede la garanzia dell’effettività delle regole superiori e impone ai legislatori nazionali obblighi in tema di coerenza e di conformità il cui rispetto riesce essenziale per la coesistenza dei diversi livelli di governo.  

 

I PROCEDIMENTI PROMOSSI DALLA COMMISSIONE E SOTTOPOSTI ALL’ESAME DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DI LUSSEMBURGO

 

Procedimento.   Materia         Direttive non recepite e                    Fase del

                                                Trasgressioni                               procedimento

 

2003/2077         RIFIUTI           DIRETTIVE 1975/442, 1991/156,              Sentenza

                                                     1991/689 e 1999/31

 

2004/2034.          ACQUE              DIRETTIVA   1991/271                      Sentenza

 

2007/2195           RIFIUTI              DIRETTIVA   2006/712                      Sentenza

 

2009/2034.          ACQUE              DIRETTIVA  1991/271                       Sentenza

 

2011/2215           RIFIUTI              DIRETTIVA  1999/731                       Sentenza

 

2013/2177       EMISSIONI            DIRETTIVE  2008/1 e                         Sentenza         

                                                           2010/75

 

2014/2059         ACQUE                 DIRETTIVA  1991/271                     Sentenza

 

 

2014/2147           ARIA                   DIRETTIVA  2008/50                      Sentenza

 

2015/2043     ARIA                        DIRETTIVA  2008/50                       Sentenza

 

2015/2163    NATURA                   DIRETTIVA  1992/43.               Avvio del procedimento

 

2017/2181    ACQUE                     DIRETTIVA   1991/271                          “    “

 

2018/224      ACQUE                     DIRETTIVA  1991/76                            “    “

 

2020/2299    ARIA                         DIRETTIVA   2008/50                          “     “

 

2021/2028    NATURA                   DIRETTIVE 1992743 e 

                                                          2009/147                               “     “     

 

2023/0152      RIFIUTI                    DIRETTIVA. 2023/544                         “     “

 

 

 

Come si può notare gli atti contestati consistono in direttive che consentono agli Stati membri di adottare le misure necessarie per il loro recepimento nell’ordinamento interno nei termini ivi indicati. Le contestazioni avanzate dalla Commissione riguardano, essenzialmente, il mancato recepimento delle prescrizioni nell’ordinamento interno o la non conformità delle disposizioni attuative rispetto agli obblighi assunti in ambito comunitario. La Corte di Lussemburgo, mediante la sua giurisprudenza relativa a tematiche ambientali ha fornito alcune definizioni ed ha indicato dei criteri importanti per configurare l’inadempimento degli obblighi imposti dal diritto comunitario: a) l’inadempimento consistente nell’omissione totale o parziale delle prescrizioni normative è di gran lunga quello prevalente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

La Corte, di volta in volta, ha sanzionato: a) la conformità solo parziale e l’applicazione inadeguata delle disposizioni dettate dalla normativa europea in materia di ambiente, venendo meno, ad esempio, l’obbligo di assicurare l’integrale ed effettiva trasposizione delle direttive ambientali nell’ordinamento interno; b) gravi ritardi nell’adeguamento del diritto interno al diritto comunitario; c) la mancata comunicazione all’Unione Europea dei provvedimenti adottati in ambito nazionale; la connessa violazione degli obblighi d’informazione prescritti dalle norme europee. La procedura d’infrazione prende avvio per iniziativa della Commissione con la “lettera di costituzione in mora” che avvisa le autorità statali e indica gli ambiti dell’inadempimento chiedendo allo Stato di provvedere e di fornire le necessarie giustificazioni. Se la risposta non risulta soddisfacente o non perviene la Commissione adotta un “parere motivato” e indica una scadenza.

Al termine del tempo concesso, ove non vi sia risposta o la stessa non sia ritenuta idonea a dar conto dell’adempimento, la Commissione chiede alla Corte di valutare il caso ed emettere una sentenza. A fronte di reiterate inadempienze che si riferiscono a casi giudicati, in precedenza e non risolti, la Commissione può chiedere alla Corte di applicare allo Stato membro una sanzione pecuniaria. La Corte ha seguito un criterio prudenziale limitando il ricorso alla sanzione pecuniaria ai casi di precedenti condanne dello Stato inadempiente, considerando, di volta in volta, la consistenza della trasgressione. Se dall’inazione dello Stato può derivare un significativo danno ambientale la sanzione pecuniaria è stata ritenuta necessaria. Queste circostanze, negli ultimi anni, si sono verificate più volte nei confronti dell’Italia e hanno comportato sanzioni importanti (che, nel corso del tempo, ammontano a più di 700 milioni di euro). Riesce interessante osservare che il nostro Paese non ha ancora dato seguito a quanto disposto dal regolamento  2021/770/UE relativo alla c. d. “plastic tax europea”. Gli Stati potevano disporre un prelievo unico sugli imballaggi di plastica sino ad un massimo di 0,80 euro per chilogrammo. L’Italia avrebbe previsto di applicare una tassazione più contenuta pari a 0,45 centesimi per ogni kg. di imballaggi in plastica. Questa misura, tuttavia, non è mai stata concretamente applicata in quanto l’onere è stato costantemente rinviato e la legge di bilancio 2024 ha concesso un’ulteriore posticipazione fino a luglio 2024 per cui il nostro Paese ha imputato al bilancio il relativo costo che ammonta a circa un miliardo e duecento milioni di Euro.

La giurisprudenza costante della Corte di Giustizia evidenzia come gli adempimenti da parte degli Stati membri dell’Unione Europea debbano assicurare sempre l’effettività delle prescrizioni imposte. In taluni casi, tuttavia, per l’adempimento può essere ritenuta sufficiente l’effettiva garanzia offerta dall’ordinamento giuridico interno, assicurata anche mediante la conformità ad una prassi, ove la stessa sia in grado di dare esecuzione all’obbligo. Le giustificazioni addotte, ad esempio, dall’Italia per non avere dato seguito a tutte le prescrizioni imposte dalle direttive europee volte a ridurre l’inquinamento atmosferico, hanno fatto riferimento all’assetto decentrato dei poteri, al rapporto tra Stato e Regioni, ad esigenze di pianificazione che comportano una dilatazione temporale. Sono tutte giustificazioni respinte dalla Corte in quanto gli Stati sono tenuti ad assicurare, nei termini indicati dalla direttiva, l’effettivo adempimento degli obblighi ivi definiti, operando, ove indispensabile, gli adattamenti e le opportune riforme degli ordinamenti interni. La giurisprudenza europea tende a configurare anche una responsabilità civile dello Stato membro inadempiente verso soggetti (persone fisiche e persone giuridiche) privati e pubblici terzi e non soltanto verso l’Unione e gli altri Stati. La giurisprudenza italiana, di regola, ha aderito all’impostazione seguita dal giudice comunitario procedendo alla disapplicazione delle norme interne incompatibili quale rimedio ritenuto efficace per la soluzione delle antinomie tra le fonti normative. Riguardo, ad esempio, alle disposizioni adottate dall’unione in tema di inquinamento atmosferico e per lo smaltimento dei rifiuti, il reiterato inadempimento dell’Italia ha comportato anche delle sanzioni pecuniarie. 

Dal prospetto riportato supra si evince che, per l’Italia, l’adempimento degli obblighi ambientali assunti in ambito europeo è risultato particolarmente difficile soprattutto in alcuni ambiti: le misure adottate per contrastare gli inquinamenti atmosferici, la gestione dei rifiuti e l’inquinamento delle falde acquifere, in particolare in relazione agli scarichi. Sono tutti settori decisivi per il conseguimento degli obiettivi indicati dai programmi ambiente e per l’Agenda ambientale europea. Per tale ragione la vigilanza è stata costante e la Commissione, a fronte di reiterate inadempienze, ha investito più volte la Corte, chiedendo di applicare, alfine, anche delle sanzioni che incidono sul bilancio dello Stato e, indirettamente, sulle condizioni economiche di ciascheduno di noi.

Europa in elettrico. Italia a scoppio… ritardato

di Riccardo Graziano

 

 

Il fatto che il nostro pianeta si stia riscaldando è evidente quasi a tutti, tranne ai negazionisti per vocazione. E che questo surriscaldamento sia dovuto alle attività umane, in particolare all’utilizzo di combustibili fossili, è altrettanto chiaro, tranne ai negazionisti di mestiere, impegnati a difendere lo status quo di un’economia ormai insostenibile. Ma siamo ancora in pochi a renderci conto che è necessario e urgente prendere provvedimenti radicali, prima che la situazione diventi irreversibile e catastrofica. L’impressione è che la maggioranza delle persone veda il cambiamento climatico come qualcosa che farà terminare prima la stagione dello sci e anticiperà le vacanze al mare. Purtroppo non è così. I mutamenti climatici sono destinati, in tempi drammaticamente brevi, a pesare su ambiente, flora, fauna, mari, coltivazioni, eventi atmosferici estremi, carestie, migrazioni di massa e problemi sanitari. In una parola, a incidere profondamente sulle nostre vite.

Se questa consapevolezza fosse maggiormente radicata, sarebbe forse più semplice prendere e far accettare provvedimenti pensati per mitigare i mutamenti del clima e relative conseguenze. Strategie politiche ed economiche decise a livello sovranazionale, come nel caso dell’Unione Europea, i cui singoli Paesi aderenti, su scala globale, sono troppo piccoli per muoversi in ordine sparso. Per questo l’UE ha messo in campo una serie di strategie che, se attuate in tempi brevi e in maniera condivisa, potrebbero avere un impatto positivo sulla decarbonizzazione e sulla limitazione del surriscaldamento globale.

Tra queste, una di quelle che ha suscitato più malcontento fra le multinazionali che difendono a spada tratta il BAU (business as usual, fare affari come si è sempre fatto) c‘è la decisione europea di fermare entro il 2035 la produzione di automobili alimentate a combustibili fossili, per sostituirle con veicoli a zero emissioni. Chi è abituato a incassare miliardi di euro sfruttando una tecnologia collaudatissima come quella del motore a scoppio, non vuole sentirsi dire che deve passare a qualcosa di strutturalmente diverso, su cui occorre investire moltissimo in progettualità e riconversioni, con la prospettiva di vedere sfumare utili e dividendi. Per questo le Case automobilistiche si sono messe per traverso e hanno pesantemente contestato questa disposizione dell’UE, dipingendo un quadro a tinte fosche, con la minaccia di perdita di posti di lavoro, dipendenza da potenze straniere (in particolare la Cina) e crollo dell’economia comunitaria. Tesi chiaramente di parte, ma che sono presto diventate maggioritarie grazie all’influenza di questi colossi sulla politica e sul sistema mediatico. Ciò è avvenuto in particolare in Italia, dove hanno pesato la presenza di un costruttore monopolista, di un’opinione pubblica male informata dai nostri media e di un governo di stampo reazionario. Nel nostro Paese l’auto elettrica ha subito più che altrove una demonizzazione fuori luogo, dipinta come un’imposizione dell’Europa, dei radical-chic, degli ambientalisti fanatici e chissà chi altro, ai danni dei poveri automobilisti vessati.

In realtà, le cose stanno un po’ diversamente Proviamo a fare chiarezza su alcuni punti.

Auto a emissioni zero dal 2035

L’Unione Europea ha stabilito che dal 2035 tutte le nuove auto e i furgoni venduti in Europa dovranno essere a emissioni zero. Questo per ottenere gli obiettivi del pacchetto “Fit for 55”, ossia ridurre del 55% le emissioni entro il 2030 e garantire che entro il 2050 il settore dei trasporti possa diventare a emissioni zero. Dunque ciò non vuol dire che le auto attuali verranno immediatamente bloccate e si dovrà per forza sostituirle, bensì che l’UE prevede ben quindici anni (2035 – 2050) per il ricambio dell’intero parco circolante. Naturalmente, questo significa che, a partire da quell’anno, i costruttori dovranno produrre e immettere sul mercato solo veicoli a emissioni zero, il che attualmente coincide con l’auto elettrica, per ragioni tecniche e di mercato. Ma a loro volta le Case automobilistiche hanno un preavviso di 12 anni per riconvertire le loro produzioni. I costruttori hanno subito protestato, dicendo che il periodo di transizione era troppo breve.

Per quanto riguarda la tecnologia, al momento l’auto elettrica non ha rivali, ma nulla vieta di trovare altro in questi dodici anni, anche se al momento l’unica alternativa, ovvero l’idrogeno, è in netto svantaggio, come dimostra la vicenda di Toyota, primo produttore a immettere sul mercato, ormai un quarto di secolo fa, un’auto ibrida, la Prius, che le aveva dato un grande vantaggio sulla concorrenza. Ma il colosso giapponese si è incaponito sull’idrogeno, e oggi è stato raggiunto e superato da chi invece ha puntato da subito sull’elettrico. Dieci anni fa c’erano un solo modello a idrogeno e tre o quattro elettrici. Oggi continua a esserci praticamente un solo modello a idrogeno (invenduto) contro decine di modelli elettrici che conquistano fette crescenti di mercato. Questo perché, in termini di mobilità, il ciclo dell’idrogeno è più costoso e meno efficiente, vista la necessità di una doppia conversione. L’idrogeno resta valido, invece, come sistema di stoccaggio di lungo periodo, in alternativa alle batterie, per immagazzinare l’energia in eccesso nei picchi di produzione e rilasciarla quando serve.

La data del 2035 vale naturalmente anche per il trasporto pesante e quello collettivo, per i quali prevede come obiettivi intermedi la riduzione delle emissioni del 45% dal 2030, del 65% dal 2035 e del 90% dal 2040 rispetto ai livelli del 2019. Dal 2030 tutti i bus urbani dovranno essere a emissioni zero.

Previste eccezioni per i piccoli produttori, il cosiddetto emendamento ‘salva Motor Valley’, il cuore dell’Emilia dove si costruiscono i bolidi fuoriserie, nonché per la produzione di carburanti sintetici, come richiesto dalla Germania, ma per entrambi i casi si tratta di piccoli volumi per mercati di lusso, appunto le sportive di alto livello. Bocciata invece la richiesta italiana (o meglio dell’ENI …) per produrre biocarburanti, in teoria con gli oli esausti delle cucine. L’Europa ha impiegato poco a capire che ci sarebbero volute coltivazioni dedicate, che avrebbero sottratto terreni preziosi per la produzione di cibo, e ha rigettato la richiesta.

Mobilità a emissioni zero dal 2035 (?)

Qualcuno obietta che è inutile far circolare auto elettriche per poi produrre l’energia necessaria con le fonti fossili. Ragionamento in apparenza sensato, ma smentito dai fatti. La prima cosa da considerare è l’efficienza dei due motori: quello a scoppio è intorno al 30%, quelli elettrici possono superare il 90%. Poter percorrere il triplo dei chilometri con la stessa energia, o gli stessi chilometri con un terzo dell’energia è un vantaggio straordinario.

Paradossalmente, sarebbe persino più efficiente bruciare i combustibili in una centrale elettrica ad alto rendimento e poi usare l’energia per un’auto elettrica, piuttosto che mettere la stessa quantità direttamente nel serbatoio di un’auto col motore a scoppio (per chi vuole approfondire, https://www.dmove.it/news/le-auto-elettriche-inquinano-come-le-termiche-ecco-la-sfida-con-generatore-diesel).

Ma naturalmente nessuna persona sensata pensa di bruciare combustibili fossili per far viaggiare un’auto elettrica, quando la soluzione ottimale è utilizzare le energie rinnovabili, che già oggi incidono positivamente e in prospettiva vedranno crescere ulteriormente la percentuale di produzione.

In ogni caso, già oggi l’auto elettrica è vincente in termini di emissioni totali per la mobilità, grazie al vantaggio che accumula nel ciclo TTW, ovvero Tank To Wheel, dal serbatoio alle ruote, a zero emissioni. Resta il problema del ciclo WTT, ovvero Well To Tank, dalla sorgente al serbatoio, che sommato al precedente confluisce nel ciclo WTW, Well To Wheel, ovvero dalla sorgente alle ruote. Ma senza annoiare troppo con terminologie tecniche, adottiamo il principio che un’immagine vale più di mille parole, tenendo presente che oggi, a distanza di sette anni, la situazione è ulteriormente evoluta a favore delle elettriche.

Fondamentale infine il ciclo LCA – Life Cycle Assessment (Analisi del ciclo di vita), che prende in considerazione tutta la vita di un prodotto, dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento a fine vita. Anche in questo caso conviene fare ricorso a un’immagine, senza indugiare troppo sulle terminologie tecniche, tenendo d’occhio la discesa dei rombi gialli, corrispondenti alla diminuzione negli anni dell’impatto delle BEV (battery electric vehicle, cioè le elettriche) rispetto alle ICE (internal combustion engine, alias motore a scoppio, D per Diesel e G per Gasoline, ovvero benzina) nella produzione di GHG (Greenhouse Gases, i gas serra come anidride carbonica e metano)

Europa vs Italia

Tenendo conto di quanto esposto sopra, è evidente che l’auto elettrica, pur presentando alcune criticità, risulta vincente per le strategie di decarbonizzazione rispetto a quella a combustione interna. Per questo in Europa e non solo si sta andando in quella direzione già da un po’ di tempo, anche se con colpevole ritardo rispetto a USA e Cina, che in effetti sono più avanti sotto molti aspetti. Per quanto riguarda gli americani, non hanno fatto quasi nulla per meritare questo vantaggio, se non approfittare della genialità di Elon Musk, il padrone di Tesla, che già una quindicina di anni fa ha deciso di entrare sul mercato automobilistico costruendo solo vetture elettriche, sfidando lo scetticismo e l’irrisione degli altri produttori. Nel giro di pochissimo, Tesla ha acquisito (e detiene tuttora) un vantaggio tecnologico enorme, tale da giustificare anche la sua ascesa in borsa, in gran parte speculativa, ma segno che gli investitori hanno creduto fin da subito nelle potenzialità della nuova tecnologia. Al contrario, in Italia il costruttore monopolista, all’epoca Fca, sosteneva che con l’auto elettrica non si poteva guadagnare e che non aveva futuro. Oggi possiamo valutare chi aveva ragione, e forse anche capire perché il nostro Paese è in costante declino.

Invece i cinesi, fiutato il business, hanno iniziato a investire miliardi in quella direzione, cercando e ottenendo il controllo di tutta la filiera: approvvigionamento delle materie prime fuori e dentro i propri confini, ricerca e sviluppo, progettazione e design, produzione e vendita (per ora principalmente sul mercato interno), infine smaltimento e riciclo delle vetture a fine vita. Grazie a questa accelerazione, stanno rapidamente recuperando il gap tecnologico iniziale, anche grazie alla collaborazione con la stessa Tesla, che ha aperto un mega stabilimento a Pechino.

Buona ultima, si è svegliata anche l’Europa, per scoprire che americani e cinesi sono già molto avanti, controllano gran parte delle materie prime e della componentistica e rischiano di stritolare i produttori del vecchio continente. A questo punto, l’UE ha deciso di partire alla rincorsa, cercando di colmare alla svelta il divario su questa tecnologia evidentemente vincente. All’opposto, l’attuale Governo italiano si è arroccato su posizioni reazionarie, difendendo a oltranza un paradigma ormai obsoleto, come se dopo l’invenzione della lampadina avessimo puntato sulla difesa delle candele e delle lampade a olio. L’Italia rischia dunque di diventare (o meglio rimanere) il fanalino di coda di un’Europa già all’inseguimento di una concorrenza mondiale agguerrita e in netto vantaggio. Non una grande prospettiva per il nostro Paese, sia in termini di competitività, sia di occupazione, senza far cenno ai problemi ambientali, che pure ci sono e non faranno che peggiorare, se l’andazzo è questo, con un Governo infiltrato dai negazionisti climatici e schierato a difesa dell’economia fossile.

Intanto, i mercati esteri ci dicono che in Norvegia, la nazione più avanti nella transizione, il parco circolante è ormai per metà elettrico, percentuale che sale all’80% sulle nuove immatricolazioni, segno che i norvegesi apprezzano il cambiamento e non pensano a fare passi indietro, ma anche che le auto elettriche possono convivere con freddi intensi, contrariamente a quanto pensano alcuni. In Cina il 25% di auto vendute è elettrico, nell’UE le vendite di “elettrificate” (che comprendono le ibride) hanno superato da tempo quelle dei Diesel e nel 2023 l’auto più venduta in assoluto in Europa e nel mondo è stata la Tesla Model Y, una berlina elettrica di fascia medio-alta, non esattamente alla portata di tutti, eppure...

Per contro, l’Italia ha una percentuale di elettriche fra le più basse. E pensare che il nostro Paese avrebbe tutto da guadagnare dalla transizione, visto che potremmo puntare sulle rinnovabili (il sole non ci manca) e su una filiera dell’auto ancora valida, nonostante lo smantellamento progressivo a cui è stata sottoposta. Per certi aspetti, siamo persino più avanti di quanto ci si potrebbe aspettare, come per esempio nel numero di colonnine di ricarica installate, ormai oltre 50.000, fattore che annulla una delle scuse classiche di chi non vuole acquistare vetture elettriche perché “poi non so dove ricaricare”.

E allora, cosa serve per far partire la transizione anche in Italia? Forse quello che manca è un cambio di mentalità, come quando siamo passati dal calesse all’auto.