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La Politica Agricola Comune che verrà... ma che ancora non si vede

Franco Rainini

In questi mesi è difficile sentire usare la parola agricoltura senza che sia accompagnata dall’aggettivo sostenibile. A parole (appunto) la prossima politica agricola comune europea (PAC), che sostituirà quella già scaduta all’inizio di quest’anno, dovrebbe essere condivisa ed ecocompatibile; in realtà rischia di emergere alla fine di un lacerante confronto istituzionale e di non rispettare (rimandandoli?) gli obiettivi fissati dalla Commissione UE.

Stiamo parlando di una cospicua questione. In termini economici si tratta di diverse centinaia di miliardi di euro, distribuiti in sei anni a percettori (agricoltori, ma anche latifondisti, consorzi, sistemi cooperativi di ogni tipo) dei ventisette paesi europei. In termini ambientali la descrizione più efficace di quello che ci stiamo giocando è presente in un rapporto della Corte dei Conti Europea dello scorso maggio, dall’illuminate presentazione: “La Corte osserva che il declino della biodiversità nei terreni agricoli continua nonostante le specifiche misure della PAC” (https://www.eca.europa.eu/it/Pages/NewsItem.aspx?nid=13859 con possibilità di leggersi e scaricarsi il rapporto in italiano).

Quando uscì questo rapporto in molti commentarono la tempestività, rispetto alla di poco precedente emissione da parte della Commissione delle due, ormai famose, strategie EUbiodiversity e Farm to Fork, la prima orientata a contenere la perdita di biodiversità, la seconda di attivare un modello virtuoso di agricoltura consapevole ed in grado di ridurre l’impatto sull’ambiente (https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal/actions-being-taken-eu/farm-fork_it, https://ec.europa.eu/environment/strategy/biodiversity-strategy-2030_it)

Secondo tali strategie entro il 2030 avremo raggiunto (insieme ad altri ambiziosi obiettivi puntualmente fissati) la riduzione del 50% del consumo di pesticidi e di antibiotici (questi in allevamento), la destinazione del 30% delle superfici agricole al biologico e del 10 % delle superfici delle aziende agricole ad aree che favoriscano la naturalità e la biodiversità.

Dopo la primavera promettente e l’estate segnata dalle prese di posizione non esattamente consonanti dal Consiglio europeo dei Ministri Agricoli (Agrifish) arrivarono le concrete delusioni autunnali espresse sia da Agrifish che dal Parlamento europeo, il quale a maggioranza votò un compromesso al ribasso, derivato da un accordo tra il partito socialista europeo, i macroniani e il partito popolare europeo, che raccolse l’appoggio di tutti i gruppi (compresi quelli euroscettici) ed esclusi i verdi europei e GUE/NGL. Si segnala che tra i parlamentari italiani il consenso fu quasi totale: contro la proposta votarono solo quattro eletti che abbandonarono il gruppo di appartenenza per passare ai verdi europei. Tra i parlamentari dei gruppi del Nord Europa il dissenso fu più diffuso, anche all’interno dei gruppi promotori.

Questo il commento nel comunicato del 21 ottobre 2020 della Coalizione #cambiamoagricoltura, a cui aderisce la nostra Federazione: “I ministri dell'agricoltura dell'UE hanno adottato una posizione sulla prossima Politica Agricola Comune (PAC) che demolisce la proposta della Commissione UE e nello stesso momento la maggioranza dei membri del Parlamento Europeo ha votato emendamenti peggiorativi della proposta di riforma della PAC. In entrambi i casi il risultato è stato molto deludente per gli scienziati, per le Associazioni di protezione ambientale e dell’agricoltura biologica ed i cittadini ed agricoltori virtuosi che rappresentano”.

Di grave delusione si trattava: tutti gli obiettivi delle strategie proposte dalla Commissione da raggiungere entro il 2030, erano espunti dalla PAC, rimandati agli anni successivi: una esplicito rigetto di quanto segnalato dalla Corte dei Conti e proposto dalla Commissione. La sintesi delle diverse posizioni proposte dalle istituzioni europee è diventata giocoforza difficile; nel confronto tra i soggetti (Commissione Agrifish e parlamento, il cosiddetto “trilogo”) non si è ancora arrivati ad una sintesi condivisa, mentre il peso delle lobby si fa sempre più evidente e pesante.

Purtroppo le lobby che contano non sono le organizzazioni ambientaliste e dell’agricoltura biologica ,in Italia rappresentate da #cambiamo agricoltura. Il sistema agroindustriale flette i muscoli e si fa sentire. Principale portavoce è purtroppo l’organizzazione che rappresenta i principali sindacati agricoli europei (COPA-COGECA). Questa è la sintesi delle pressioni esercitate da COPA-COGECA sul trilogo: “Vogliamo il massimo dei pagamenti diretti, vogliamo il minimo di eco-schemi, vogliamo massima flessibilità sugli eco-schemi, vogliamo che le misure cui gli agricoltori dovranno ottemperare siano misure che già stanno adottando”. Questo atteggiamento, non incoerente con la posizione del Parlamento ed Agrifish, ha portato al fallimento dei negoziati del trilogo, che si prepara a una nuova serie di incontri, il cui risultato rischia di peggiorare ulteriormente.

Il problema alla base dell’immanente disastro è l’incapacità di rappresentare le esigenze diffuse della società civile, rispetto a quelli concentrati ed organizzati di un gruppo limitato, ma potente e coordinato di rappresentanti dei latifondisti (quelli che si oppongono a un limite massimo di sussidi a favore di un solo soggetto), rappresentanti delle società che utilizzano i prodotti agricoli (interessate all’acquisto di prodotti a basso prezzo e con qualità spesso solo formalmente garantita) e i produttori di macchine e materiali per l’agricoltura (interessati a vendere prodotti costosi, magari in quantità esuberante la necessità e spesso con un impatto negativo sull’ambiente). Le esigenze di questi soggetti non sono necessariamente coerenti con quelle della maggior parte degli agricoltori, che devono in primo luogo fronteggiare la drammatica riduzione dei propri redditi, provocata dalla continua riduzione in termini di moneta reale (e spesso anche di moneta corrente, cioè al lordo dell’inflazione) dei prezzi delle derrate agricole. In Italia l’attuale prezzo del latte alla stalla è inferiore a quello pagato una trentina di anni fa e grossomodo uguale a quello dell’inizio degli anni ’70, non molto diversa o peggiore la situazione dei cereali, per non parlare della carne, in particolare quella avicola.

La posizione di COPA COGECA è quindi favorevole a chi è causa della difficile situazione degli agricoltori piccoli e medi: questa politica provoca in Italia una continua erosione del numero di aziende agricole, la concentrazione in aziende più grandi, con necessità di adottare tecniche e macchinari incompatibili con la conservazione del paesaggio agrario tradizionale e una idea di sostenibilità solo economica. In questa luce deve essere valutata l’avversione per l’agricoltura biologica, espressa recentemente da esponenti del Senato della Repubblica Italiana in occasione del dibattito riguardante il Progetto di Legge sull’agricoltura biologica (http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/51061.htm).

Quando misure di minore impatto ambientale sono proposte in questo quadro economico - che vede le necessità di salute e ambiente dei consumatori e degli agricoltori compresse e sacrificate agli interessi concentrati dell’agroindustria - si tratta spesso di modi di produrre che richiedono grandi investimenti e rispondono in modo solo parziale ai bisogni di una nuova agricoltura; ne sono esempi la coltivazione di precisione e l’agricoltura conservativa, le quali non sono sganciabili dall’utilizzo dei pesticidi e di grandi macchine agricole, con richieste di potenza spesso superiori a quelle dell’agricoltura tradizionale.

Un modo diverso di produrre esiste, mantenendo un’elevata presenza di biodiversità naturale e agricola, garantendo adeguati margini di redditività alla generalità delle aziende, fornendo prodotti buoni e a costi accettabili per i consumatori, esiste ed è già comune in molte aziende delle filiere agricole biologiche e biodinamiche.

Con buona pace dei difensori dei modelli tradizionali e degli auspici di avere in Italia le colture transgeniche già corresponsabili della deforestazione in America Latina, il sistema agricolo italiano è in parte significativa sganciato dall’uso dei pesticidi, contemporaneamente questa tendenza è penalizzata dall’afflusso di aiuti pubblici a pioggia che in quota maggiore sostengono modelli agricoli intensivi destinati ad essere trasferiti agli attivi di bilancio dei produttori di gliphosate e di trattori da 250 kW e più. È questo ciò di cui hanno bisogno l’Europa e l’Italia?

Nel nostro paese si gioca una battaglia non meno importante sul fronte della politica Agraria. Nel dibattito delle istituzioni dell’Unione l’Italia ha finora assunto una posizione molto conservatrice e contraria alle scelte reclamate dalle strategie europee. Ora si debbono declinare gli indirizzi comunitari nel Piano Strategico Nazionale (PSN) e definire quali pratiche, migliorative dal punto di vista della sostenibilità ambientale, possono essere premiate con una quota dei sostegni diretti agli agricoltori: si tratta dei cosiddetti Ecoschemi, una rilevante e potenzialmente positiva novità della nuova PAC.

Sfortunatamente le stesse pressioni in opera nell’Unione operano anche in Italia, dove alcune contraddizioni del sistema agrario sono più nette ed evidenti: difficile immaginare un’effettiva possibilità di migliorare il sistema agricolo presente in ampie aree dell’Italia settentrionale, basate sull’allevamento intensivo di bovini da latte, suini e pollame , quest’ultima categoria allevata generalmente in aziende prive di attività di coltivazione connessa e totalmente dipendente da mangimi acquistati fuori dall’ambito dell’azienda agraria, con le conseguenti ricadute ambientali, anche per lo “smaltimento” della pollina.

Di conseguenza il confronto su Ecoschemi e PSN è difficile e imbarazzante, le puntuali prescrizioni poste dalla Commissione UE spingono a obiettivi ambientali più alti, ma le resistenze sembrano prevalere. Dopo un avvio che sembrava promettente il tavolo di confronto dedicato a questo scopo non si è mai avviato, la preoccupazione di #cambiamoagricoltura è espressa in alcuni comunicati stampa, per la verità non molto raccolti da un sistema di media che è generoso definire disattento: “La Coalizione #Cambiamoagricoltura attende risposte dal Ministro Stefano Patuanelli, auspicando maggiore trasparenza ed un reale e sostanziale coinvolgimento del partenariato economico e sociale nella redazione del Piano Strategico Nazionale, non solo formale per superare l’esame della Commissione UE, nonché un impegno dell’Italia a spingere il Consiglio verso posizioni più ambiziose per non far naufragare del tutto le timide ambizioni ambientali di questa PAC e la possibilità di raggiungere i target fissati dal Green Deal Europeo”.

Le proposte che la coalizione intende portare al tavolo di confronto rappresentano le preoccupazioni sopra espresse e si basano sul riconoscimento di una gerarchia di valore delle misure ben espresso in un recente documento della Società Europea di Agroecologia (Agroecology Europe).

Si tratta in sostanza di discriminare proposte che comportano solo un incremento di efficienza (ad esempio l’agricoltura di precisione), da quelle che costituiscono un cambio di tecnica (come l’agricoltura con minimo movimento terra, cosiddetta conservativa, su cui però pesa l’uso massiccio del diserbo chimico), per arrivare, è il caso dell’agricoltura biologica e della stessa agroecologia ad una riprogettazione del sistema agricolo). Queste ultime dovrebbero dunque essere favoriti nella forma di sostegno attraverso gli ecoschemi.

Vale per gli Ecoschemi la sintesi fatta da Paolo Mosca agricoltore e attivo esponente di Pro Natura del Vercellese, che rappresenta la nostra Federazione in #cambiamoagricoltura: “Gli ecoschemi devono favorire chi fa più di quanto già richiesto per l’ambiente”, una posizione opposta a quella espressa da COPA COGECA, che segna la differenza tra la burocrazia succube dell’agroindustria e quella dei comuni cittadini”.

Note finali. Rileggendo il testo sopra è evidente che chi scrive non è riuscito a rendere in modo comprensibile ed efficace un tema tanto importante e vicino agli interessi di tutti ed anche alla missione della Federazione Nazionale Pro Natura. La PAC è un argomento ostico e complesso, non certo perché le cose di cui si occupa siano particolarmente complicate in sé, quanto per l’enorme accumulo di atti documentali, articoli, prese di posizione, comunicati che sono prodotti a riguardo, immagine degli enormi interessi in ballo, ben oltre le stesse somme stanziate dall’Unione, fino a riguardare l’intera massa di denaro che gira intorno all’agroalimentare a alle filiere collegate.

Parte della confusione è forse dovuta all’intreccio di obiettivi che la PAC si pone, e che sono sanciti anch’essi, da trattati, regolamenti e piani strategici, la stessa UE nello schema riportato qui sotto li riporta, ecumenicamente, con eguale importanza e dignità. Forse sarebbe opportuno stabilire una gerarchia e individuarne connessioni e vincoli reciproci, forse se ne potrebbero trovare altri, come il divieto di importare materie prime esportando degrado ambientale... Può essere il compito del movimento che propone una diversa più trasparente e condivisa politica agraria.

5 giugno - Giornata Mondiale dell'Ambiente

Riccardo Graziano

Sono passati quasi 50 anni da quando nel 1972 l’ONU, in occasione dell'istituzione del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (UNEP), ha proclamato il 5 giugno “Giornata mondiale dell'ambiente”, celebrandola poi per la prima volta nel 1974, all’insegna del motto Only One Earth - Una Sola Terra.
Un monito validissimo ancora oggi, perché abbiamo un solo Pianeta a disposizione e se lo devastiamo ne paghiamo le conseguenze anche noi, inteso come intera specie umana. Tuttavia, in questo mezzo secolo, dal punto di vista ambientale le cose non sono andate per niente bene.
Il fatto è che non basta segnare una data sul calendario e dedicarla a un tema specifico, se poi non si lavora ogni giorno nella giusta direzione. Certo, è importante richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi di informazione su determinati argomenti, ma l’istituzione di queste “giornate” è ormai inflazionata, se ne celebrano oltre un centinaio nel corso dell’anno, da quella per la giustizia sociale a quella sui legumi, dunque il rischio è di perderne il significato e farne un simulacro ipocrita per far vedere che ci si occupa di un problema quando nella realtà non è così.

Se questa affermazione dovesse sembrarvi troppo cruda e pessimista, basta analizzare ciò che è successo all’Ambiente da quando è stata proclamata la “giornata” che dovrebbe ricordarci di proteggerlo, iniziando dal surriscaldamento globale, problema ormai arcinoto, ma per il quale si fa ancora troppo poco, nonostante sia ormai evidente come esso abbia già oggi pesanti ripercussioni sulla vita delle persone e anche sull’economia, mentre un domani potrebbe mettere addirittura a rischio la nostra stessa sopravvivenza. In questi cinque decenni la temperatura media globale è salita di circa mezzo grado centigrado, ma l’Italia si surriscalda più velocemente di altre regioni e nel 2014 è stato registrato un aumento di quasi un grado e mezzo rispetto al trentennio 1970 – 2000. L’aumento è indotto principalmente dell’effetto serra provocato dall’immissione di anidride carbonica (CO2) in atmosfera a causa delle attività umane, nello specifico l’utilizzo di combustibili fossili e la crescente deforestazione. In epoca preindustriale, la concentrazione di CO2 era di 280 parti per milione (ppm); negli anni settanta del secolo scorso si era già arrivati intorno alle 330 ppm, ma da allora abbiamo peggiorato parecchio e ormai si sfiorano le 420 ppm, segno che non ci siamo impegnati per nulla a invertire la tendenza, anzi abbiamo addirittura accelerato.

Discorso analogo per la plastica, nata negli anni ’60 del novecento e che nel 1970 iniziava la sua espansione inarrestabile: allora, la produzione mondiale poteva essere stimata intorno ai 20 milioni di tonnellate annue, oggi siamo arrivati a 310 milioni, di cui una porzione rilevante adibita al monouso. Se consideriamo che solo una minima parte della plastica immessa in commercio viene effettivamente riciclata, ne consegue che un’enorme quantità rimane nell’ambiente, quando va bene in discarica o nei fumi degli inceneritori, altrimenti dispersa su terreni e corsi d’acqua, comunque fatalmente destinata a finire in mare. Da lì, ritorna poi al mittente attraverso la catena alimentare, a partire dal plancton fino ai pesci che portiamo sulle nostre tavole. Proseguendo di questo passo, nel giro di pochi lustri la quantità di plastica in mare sarà superiore a quella di pesce, tuttavia la previsione è quella di aumentare ancora la produzione.

Discorsi analoghi possono essere fatti per la deforestazione, che avanza implacabile, per lo scioglimento dei ghiacci, per la perdita di biodiversità e altre questioni globali di grande rilevanza, che finiscono per impattare anche sulle nostre vite. È noto per esempio che la causa principale dell’emergere di nuove malattie è il cambio di destinazione d’uso dei suoli, ovvero la trasformazione di habitat naturali in coltivazioni intensive o zone urbanizzate, fattore che provoca promiscuità fra fauna selvatica e animali domestici, con possibile trasmissione di virus sconosciuti. Anche gli allevamenti intensivi  amplificano i fattori di rischio, perché fungono da incubatori per microorganismi e mutazioni che possono a volte effettuare lo spillover, il salto di specie, arrivando a infettare l’uomo.

Di tutto questo i decisori politici si occupano troppo poco e l’opinione pubblica ancora meno, anche se nell’ultimissimo periodo la sensibilità ambientale sembrerebbe aumentata. Ma spesso si tratta di un atteggiamento di facciata, buono per attirare consensi o impostare campagne commerciali, quello che in gergo viene definito greenwashing, “lavaggio verde”. Poi, se vai a vedere come stanno veramente le cose, ti accorgi che la filosofia è quasi sempre quella del business as usual, affari come al solito, senza una vera svolta ecologista. È l’accusa che viene mossa da più parti anche al PNRR, il Piano di Ripresa e Resilienza con il quale l’Italia dovrebbe indirizzare i fondi europei del Next Generation EU in un’ottica di transizione ecologica, ma che rischiano di essere l’ennesima occasione sprecata.

Si potrebbe fare una carrellata infinita di brutti esempi mostrati dalla politica a ogni livello, dai comuni al governo centrale, e peggio ancora succede nel mondo “produttivo”, dove si moltiplicano i comportamenti illeciti, dallo spargimento di fanghi tossici sui campi coltivati ai roghi di capannoni pieni di rifiuti.

Ma per questa Giornata dell’Ambiente ci piace ricordare il leader che più di tutti è conscio del problema e si batte in prima persona per alzare il livello delle coscienze, quel papa Francesco che all’ecologia ha dedicato la sua Enciclica Laudato Sì, analisi minuziosa e onnicomprensiva dei disastri ambientali in corso e dei possibili rimedi. Ma ha fatto anche qualcosa di concreto, nel minuscolo Stato che amministra: la Città del Vaticano è uno dei territori più sostenibili del mondo, con una grande attenzione al risparmio energetico, alla gestione dei rifiuti, al consumo di acqua. Sono banditi i pesticidi, la raccolta differenziata è elevata, gli impianti di illuminazione a basso consumo. Insomma, un modello di gestione encomiabile e da seguire. Solo che lo Stato pontificio è minuscolo, mentre i giganti della Terra non sono altrettanto attenti, anzi contribuiscono a peggiorare le cose.

C’è bisogno di fare molto di più, in fretta. Questo decennio è decisivo, se si vuole invertire la rotta in senso sostenibile e provare ad arrestare la devastazione del pianeta, poi sarà comunque troppo tardi per evitare la catastrofe ecologica che progressivamente peggiorerà la vita di tutti noi e delle generazioni future. È imperativo che la Giornata dell’Ambiente sia tutti i giorni, nei nostri comportamenti quotidiani e nel nostro stile di vita.

Apro gli occhi e vedo

Sofia Filippetti

Apro gli occhi e vedo: la Natura.

Le foglie di smeraldo che si allungano come mani che tentano di acchiappare le nuvole, la luce che filtra attraverso le forme, le braccia di corteccia che si distendono pigramente circonvolute verso il cielo, le nervature che scivolano sul tronco e si conficcano sotto il terreno, a raggiungere radici misteriose, cervella che sembrano sorreggere il mondo sul quale camminiamo.

Che poi il mondo intero c’è davvero sugli alberi: api che ronzano, formiche laboriose, frutti come gemme preziose, rampicanti come abiti, fiori al pari di gioielli, nidi d’uccelli appollaiati a scrutare l’orizzonte… Il mondo intero c’è davvero sugli alberi, in questi scrigni di biodiversità unici, differenti gli uni dagli altri, che creano una raffinata rete di connessioni, geometrie, forme, collegamenti sopraffini di cui rare volte ci accorgiamo.

Apro gli occhi e vedo: la Natura in città.

All’apparenza sembra essere così fuori posto, così bislacco e assurdo, trovare vegetazione laddove mi sono abituata a vedere e trovare una distesa di cemento grigio. C’è il verde, invece. C’è il verde anche in città. E più lo osservo, più lo ammiro, più mi lascio affascinare, più mi rendo conto che non potrebbe essere altrove. La Natura in città. La città nella Natura. Perché anche noi siamo questo, no? Siamo città, siamo Natura. Siamo esseri viventi esattamente come quelle piante che, talvolta, ci potrebbero sembrare alieni inerti. Magari alieni lo sono sul serio, ma inerti no. Quello mai. Le piante sono fatte così: silenziose danzatrici statiche che permettono anche a noi di crescere rigogliosi e fieri su questa Terra.

Che poi la Terra viene definita come pianeta blu, sì, ma a guardarlo bene è pure verde. Tanto verde. Forse perché il verde è il colore della speranza, forse perché il verde è il colore della linfa vitale che troppo spesso diamo per scontata. Il simbolismo dell’ecologia è qualcosa di complesso, esattamente come lo sono le protagoniste indiscusse, i pilastri degli habitat, del globo.

Il verde in città ci deve proprio stare. Perché il verde, in città, ci permette di respirare. Leggetela come preferite, in ogni modo, con tutti i sottintesi che vi vengono in mente. Perché è così da ogni prospettiva: il verde ci permette di respirare. Ci permette di raccogliere le idee, risvegliando in noi quell’innato senso della biofilia che s’è insinuato in tempi antichi dentro i nostri geni e s’è sviluppato assieme a noi, a permettere un’attenzione che si riposa e si rigenera nel guardare la Natura, permettendoci di essere più svelti, concentrati, rinvigoriti dentro alle sinapsi. Ci permette di assimilare ossigeno, la vegetazione, attraverso le eleganti reazioni chimiche che avvengono nelle infinitamente piccole cellule che la compongono. Lo sapevate, voi, che l’ossigeno è in realtà un elemento di scarto? Che l’ossigeno è ciò di cui necessitiamo per funzionare? Lo sapevate, voi, che senza le piante l’atmosfera non si sarebbe mai sviluppata come la conosciamo oggi? Lo sapevate, voi, che le piante possono vivere tranquillamente senza di noi ma noi non possiamo vivere senza di loro? Quando l’ho scoperto, quando ho scoperto tutto questo, non potevo crederci. Perché, a ben pensarci, l’essere umano è sempre stato più attratto da ciò che è dinamico, che è più vicino a lui, che riconosce come tale, come animale. Mentre i vegetali, oh, sono così diversi da noi! Sono autori di trame che non siamo in grado di individuare con esattezza né con immediatezza. Crescono ogni attimo di più, e a stento ce ne rendiamo conto. Ci permettono di esistere, e non facciamo nulla per ringraziarle. Anzi, talvolta le troviamo persino fastidiose. Talvolta troviamo irritante il loro ciclo vitale, la loro stessa esistenza, le radici che rompono l’asfalto per raggiungere la superficie. Talvolta non le vorremmo.

Potrei quasi definirlo un rapporto di odi et amo, quello che noi esseri umani abbiamo con le piante.
Odi: quando ci intralciano, quando le riteniamo pericolose, instabili, quando non ci danno quello che vogliono. Et amo: quando ci ricordiamo che senza di loro non potremmo esistere, che i nostri polmoni sono legati alle fotosintesi che solo loro sono in grado di portare avanti, quando ci rifugiamo sotto la loro ombra in un’afosa giornata soleggiata, quando raccogliamo fiori e frutti, quando abbelliscono il paesaggio. Che poi mica è tutto qua. Mica è tutto qua il motivo di quel “et amo”. È solo che non ci pensiamo. È normale, no? Noi siamo così presi dalle nostre vite, dalla nostra quotidianità ripetitiva, da non renderci conto di tutte le altre funzioni che le piante hanno. Certo, abbiamo cercato di inquadrare e raccogliere il tutto dentro il – talvolta sterile e riduttivo – concetto di “servizio ecosistemico”, come se le piante, no?, le avessimo assunte noi, come se avessimo deciso noi cos’è che fanno e cos’è che non fanno, come se noi facessimo un favore a loro a lasciarle vivere…

Non ce ne rendiamo conto, non completamente: sono troppo misteriose. Sono troppo particolari, distanti dal nostro essere, dalla nostra fisiologia, e forse è per questo che, con una certa arroganza, ci piazziamo lì ad ignorarle o a definirle, talvolta, sbagliate. Alle volte siamo davvero troppo piccoli, troppo sciocchi, troppo limitati. Le piante esistono da prima di noi, continueranno ad esistere anche dopo di noi, è un dato di fatto. E continueranno a fare quello che hanno sempre fatto. Con o senza di noi.

La questione è che, magari, finché ci siamo, sarebbe il caso di apprezzare. Apprezzare il fatto che, dentro le città, ad esempio, è stato dimostrato (ma scommetto che lo avete tranquillamente provato anche voi sulla vostra pelle, senza studi scientifici di alcuna sorta) che gli alberi assorbono fino a 6-7 °C, rinfrescandoci con le loro chiome rigogliose; che assorbono inquinanti, fino al 20% del particolato prodotto dal nostro impatto antropico; riducono i danni di alluvione con le loro radici che trattengono il terreno; hanno effetti psicologici positivi, ché il luogo verde è sinonimo anche di aggregazione, di incontro… e potrei continuare all’infinito, sul serio. Però mi preme sottolineare una cosa, e cioè che: le piante non sono invincibili. No. Come ogni essere vivente, d’altra parte, anche loro sono suscettibili e soggette ai danni. Danni che, troppo spesso, facciamo noi. Per esempio, a star dentro un habitat come quello della città, è difficile. Difficile perché l’inquinamento è troppo, perché il loro spazio vitale non è rispettato. Perché certe volte ci arroghiamo il diritto di poterle soffocare, noi, queste piante. Ci arroghiamo il diritto di piazzarle lì e di gettare attorno a loro una valanga di cemento, aspettandoci, poi, che crescano come lo desideriamo noi. Allora sì che la pianta finisce per appassire, perché il suo spazio vitale non è rispettato. E se non appassisce, perché la pianta è tenace, è testarda, allora troviamo le radici che salgono in superficie, alla ricerca di nutrimento, di acqua, di aria, ché là sotto non ci si sta proprio, non si ha spazio di manovra, è tutto troppo impermeabile. Allora ci lagniamo, ci lamentiamo, perché poi l’asfalto non è tutto dritto, perché l’albero non se ne sta nel quadrato che gli abbiamo disegnato noi, perché l’albero ha bisogno di troppo, secondo la nostra ottica antropocentrica. Ma la verità è che star dentro una città non è facile. Non è facile perché si è soggetti a continui input, ad una routine che si ripete costantemente, ogni giorno, perché la crescita non è lineare, ma tortuosa, perché ci sono tante, troppe variabili di cui tenere conto. Allora dobbiamo aiutarle, noi, le piante. Dobbiamo aiutarle con la manutenzione, con la cura. Un po’ come noi curiamo il nostro corpo, così dobbiamo curare il corpo delle piante: acqua, attenzione, affetto e ogni tanto un taglio di capelli – pardon, di chioma! – ben fatto però, eh? Non quelle capitozzature che sono ferite inutili e dannosissime, con le quali abbiamo condannato tanti di questi meravigliosi esseri viventi ad un ingiusto declino… Dobbiamo aiutarle, le piante, a stare dentro la città, perché, se fosse per loro, probabilmente sarebbero già fuggite altrove. E invece no, invece se ne stanno qui, assieme a noi, a regalarci ossigeno e a salutarci quando il vento soffia tra le loro foglie. Se ne stanno qui, a rinfrescarci e a depurare l’aria, a donarci sprazzi di naturalità che altrimenti avremmo dimenticato. Se ne stanno qui, nonostante tutto. Dovrebbero stare qui, sopra tutto.

Ho fatto ricerche, ho seguito webinar, letto tanti libri, ascoltato molti esperti. Tutti concordano col dire che il verde in città è importante, che va preservato, protetto, incrementato. Tutti dicono che devono essere fatte manutenzioni, cure, che le piante devono poter crescere bene, laddove riescono meglio.
Ma se c’è qualcosa che ho imparato, tra gli appassionanti e professionali studi, oltre le dimostrazioni empiriche, oltre la lettura dei dati concreti, oltre il valore economico che si dà agli alberi, questo è che senza Natura non possiamo vivere. Perché noi siamo Natura quanto un albero. Non importa quanto proviamo a rinnegare, a sradicare e strapparci di dosso questa definizione, noi rimaniamo Natura.

Allora dovremmo anche essere Pro Natura. Con i fatti, non solo con le parole. Nella vita quotidiana, non solo nelle dissertazioni scritte, come questa.
Dovremmo essere Pro Natura ogni giorno, aiutandola, la Natura, a star meglio in città, nel nido che ci siamo costruiti.
Dovremmo essere Pro Natura nel nostro piccolo, nelle nostre abitazioni, nelle nostre regioni.
Dovremmo essere Pro Natura attivamente, a ricordare a noi stessi e agli altri di quella sensibilità che ci accomuna, volenti o nolenti, e ci lega l’un l’altro, tra di noi, con la vegetazione selvaggia e addomesticata.

Allora apri gli occhi e vedi: la Natura.

Demografia & Demagogia

Proviamo a ragionare sul futuro della popolazione mondiale senza preoccuparci delle nostre pensioni?

Valter Giuliano

Puntualmente, come un ritornello, torna il lamento italico sulla mancata crescita demografica, non supportata nemmeno più dalla prolificità degli immigrati.
Allarme! Gli italiani sono sempre meno.
Ieri bisognava procreare per rifare l’Impero, andare a combattere contro la Russia, la Francia, fedeli a Hitler e al Duce. Procreare carne da mandare al macello sull’altare ignobile di qualche pazzo visionario egocentrico.
Qualche pazzo visionario egocentrico, in giro c’è ancora, ma per fortuna il sistema democratico, per ora, riesce a isolarlo.
Dobbiamo anche isolare chi continua a pensare al riequilibrio demografico del nostro Paese come a una disavventura.
Bisogna fargli capire che è necessario passare da una logica locale, che riguarda singole nazioni, a una visione globale che oggi attraversa i flussi non solo delle merci ma dei migratori di massa, coinvolgendo ogni angolo del mondo.
Dobbiamo assumere la consapevolezza della necessità di una decrescita demografica globale, per garantirci un futuro più sostenibile.
È evidente che non siamo pronti. Anche perché nessuno ci informa.
Finché era vivo, Giovanni Sartori, a ogni Ferragosto ce lo ricordava dalle pagine del Corriere della sera. Quasi fosse un vezzo, contro l’uniforme disinformazione condivisa. La stessa che resiste oggi.
Opinione di un pensatore e non analisi di un demografo. Ma non era affatto campata in aria.
Cosa direbbe al suo quasi omonimo leader delle Sardine, Mattia Santori, che qualche tempo fa ha dichiarato: «La Rivoluzione è procreazione»?
Segnale preoccupante che ci indica come anche la parte, in teoria, più progressista del mondo giovanile, pur inserita nella dimensione globalizzata, non ha contezza della situazione demografica planetaria.
A fine Settecento, all’inizio della rivoluzione industriale, la popolazione mondiale contava 750 milioni di persone. Tra il 1800 e il 1930 i terrestri salgono a due miliardi. Solo 47 anni dopo, nel 1974, il numero degli individui raddoppia a quattro miliardi.
Oggi sulla Terra vivono circa 7,5 miliardi di persone e i demografi stimano che si arriverà a 10 miliardi nel 2100.
Una crescita tanto imponente ha sconvolto gli assetti socio-economici delle popolazioni, con la definitiva prevalenza di addensamenti urbani rispetto alle campagne e alle zone montane. Nel mondo ci sono sempre più metropoli e almeno 20 megalopoli abitate da più di dieci milioni di persone. Già oggi più di metà della popolazione mondiale vive in aree urbane in continua espansione e secondo l’ultimo World Urbanization Prospects, il documento del Dipartimento economico e degli affari sociali delle Nazioni Unite sull’urbanizzazione, salirà ad oltre sei miliardi entro il 2045.

Cosa accade in Italia?
Gli ultimi dati ISTAT indicano in 59,6 milioni gli abitanti della nostra penisola.
L’età media è di 45,2 anni, il 23% supera i 65 anni e solo il 13% è composta da giovani al di sotto dei 15 anni.
Questi dati fanno scattare, come ogni anno, l’allarme e riempiono le pagine dei giornali e delle televisioni con il lamento della crisi demografica e l’invocazione a fare più figli.
Anche in questo caso la logica non sfugge all’imperante economicismo e alla dittatura del mercato. Il rischio evidenziato come il maggiore è: «Chi pagherà le pensioni?».
Recentemente si è aggiunto lo strillo razzista che evoca la perdita di identità nazionale (quale?) a causa dell’invasione delle culture migranti destinate a prendere il sopravvento.
Qui sarebbe troppo facile rispondere che geneticamente ogni popolazione che si chiude in se stessa rischia un affermarsi dei caratteri degenerativi e, per contro, ogni incrocio tra individui di provenienza lontana la rivitalizza.
Ma al di là di ciò, conviene fare un ragionamento un po’ meno affrettato alla cui origine sta  la constatazione che la popolazione, né in Italia né sul pianeta, può crescere all’infinito.
Intanto, restando in Italia, annotiamo una densità abitativa - calcolata al lordo delle superfici non utilizzabili perché già cementificate o asfaltate oppure composte di rocce, ghiacciai, corsi d’acqua e bacini idrici naturali o artificiali - che segna 200 persone per chilometro quadrato.
Ognuno di noi ha, attualmente, a disposizione mezzo ettaro. Che non è molto.
Se calcoliamo la capacità di carico - cioè il numero di esemplari di una specie che un determinato territorio può sopportare in termini di cibo fornito e smaltimento rifiuti richiesto, - del nostro territorio rispetto alla popolazione insediata risulta che viviamo ben al di sopra delle possibilità.
Siamo oltre di quattro volte e lo possiamo fare perché viviamo sulle spalle di altri territori (quasi esclusivamente quelli che teniamo nel sottosviluppo) per il nostro fabbisogno di materie prime. E, soprattutto, stiamo pesantemente intaccando le ricchezze destinate alla generazioni che verranno. Che infatti stanno cominciando a protestare e a chiedercene conto insieme al degrado inflitto dal nostro abulico egoismo, alla natura e al paesaggio.
Debito pubblico e debito ambientale vanno a braccetto, ma per quest’ultimo non c’è Banca centrale nè europea, nè mondiale, che ci possa salvare.

L’orizzonte globale
Proviamo allora ad approfondire l’argomento a livello globale.
Anche in questo caso partendo dai dati.
Siamo grosso modo 7,5 miliardi di umani e cresciamo al ritmo di 80 milioni l’anno (poco meno gli abitanti della Germania); quarant’anni fa eravamo 3 miliardi.
Secondo il modello demografico delle Nazioni Unite si stima che la popolazione mondiale salirà a 9,7 miliardi nel 2050, per poi cominciare a stabilizzarsi arrivando a fine secolo sugli 11-10 miliardi.
Per allora ci dovrebbe essere una diminuzione della popolazione cinese che si dovrebbe stabilizzare sui 950 milioni di persone. In compenso l’India arriverà a 1,5 miliardi, Resterebbe comunque invariato il conto per la cosiddetta area geopolitica chiamata Cinindia.
Il massimo che il nostro pianeta può sopportare è di 8 miliardi.
L’Africa è l’unico continente in cui la natalità è ancora al di sopra del livello di sostituzione (nascite che rimpiazzano le morti). Il picco è rappresentato dalla Nigeria che dovrebbe raggiungere i 750 milioni di esseri. Il tasso di crescita è comunque quasi dimezzato rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo allorché partì l’allarme di Paul Erlich con il suo saggio La bomba demografica. Inoltre il miglioramento produttivo dell’agricoltura ha consentito di far fronte alle necessità di cibo ad oggi sufficiente, anche se ingiustamente distribuito.
Il problema principale non è la mancanza di spazio sul Pianeta bensì la carenza di risorse e il suo impatto ambientale. Già ora la popolazione mondiale consuma le sue intere disponibilità annuali in poco meno di sei mesi. Come potrà la Terra sostenere una popolazione in costante aumento?
Ciò fa si, tra l’altro, che il cosiddetto Earth Overshoot Day (giorno in cui l’umanità ha consumato tutte le risorse biologiche che gli ecosistemi naturali possono rinnovare nel corso dell’anno), ogni anno anticipa (nel 2020 ad agosto, in controtendenza con un ritardo di un mese rispetto agli ultimi anni grazie al lockdown), al punto che la nostra impronta ecologica globale richiederebbe ormai 1,7 Terre  il che significa che siamo fuori dal pareggio di bilancio ambientale del 70%.
Secondo la FAO, entro il 2050 la quantità di acqua potabile disponibile pro capite scenderà del 73%. Considerando che ogni anno ben 5 milioni di persone muoiono per la scarsità di acqua e per la mancanza di servizi igienico-sanitari di base è facile prevedere che in un futuro ormai prossimo il numero dei morti per questa causa è destinato a salire.

Sovrappopolazione e cambiamenti climatici
Le conseguenze della sovrappopolazione e dei suoi attuali modelli di produzione e consumo sono drammatiche non solo per la mancanza di risorse per tutti, ma anche per l’ambiente.
Si stima che l’aumento dell’80% di gas serra tra il 1970 e il 2010 sia dovuto per il 50% proprio all’incremento di abitanti.
Una recente ricerca dell’OMS ha rilevato che, a causa dei cambiamenti climatici e dei fenomeni a esso collegati, ogni anno muoiono circa 300 mila persone, il 50% in più rispetto al 2000.
Sostanzialmente, i cambiamenti climatici sono quasi tutti imputabili all’uomo in quanto l’innalzamento delle temperature è stato causato dall’uso massiccio e quasi esclusivo dei combustibili fossili come petrolio, carbone e metano.
A destare l’allarme sono anche l’aumento dei tassi di deforestazione che, a questo ritmo, renderanno entro pochi anni la situazione non sostenibile.
Anche qui, ovviamente il riferimento non può che essere a scala planetaria e come per l’andamento demografico la tendenza nazionale non fa testo.
A causa di questo scenario, afferma l’associazione Greenpeace, il livello di anidride carbonica presente nell’atmosfera ha già superato le 400 parti per milione, un livello che sulla Terra non veniva toccato da almeno 3 milioni di anni. Se non riusciremo a ridurre questi valori, le conseguenze sul clima potrebbero essere devastanti e, nel giro di pochi anni, il numero dei morti a causa dei fenomeni climatici potrebbe diventare spaventoso.
Si paventa la devastante previsione del più 4 gradi. Significherebbe effetti sconvolgenti: l’acqua salata in aumento, quella dolce in regresso. Significa che la sopra richiamata Cinindia che attinge dal grande bacino himalayano si troverebbe rapidamente in profonda crisi da stress idrico.
Lo stesso per gli Stati Uniti che dipendono in gran parte dalla grande falda acquifera Ogallala, in costante abbassamento (tra i 30 e i 90 cm l’anno). Che accadrà all’Europa e alle sue Alpi?
Questa tendenza globale, e lo scenario che ne deriva, ci inducono a porci ulteriori domande.
A partire dalla constatazione delle notevoli diseguaglianze non più tollerabili se si punta, e lo si deve, a un equilibrio planetario.
Non si può più consentire che il mezzo miliardo più ricco della popolazione mondiale, all’incirca il 7%, sia oggi responsabile della metà delle emissioni mentre il 50% vi contribuisce solo per il 7%.
Quali sarebbero le azioni a maggior impatto positivo nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e gas termoalteranti?
Ben più del riciclo dei rifiuti e delle azioni di efficientamento energetico, tanto evocate, vi contribuirebbe la rinuncia al traffico privato automobilistico che significherebbe 2,4 tonnellate equivalenti di CO2 in meno ogni anno a persona. Ma anche i viaggi aerei, se pensiamo che ogni spostamento transcontinentale andata e ritorno influisce per 1, 6 t equivalenti.
Soprattutto, però, avere un figlio in meno, globalmente significherebbe riduzione di 58 t equivalenti a testa di CO2.

Cosa potrà accadere?
Dunque il problema demografico non è nè secondario nè superato e la ricerca di una stabilità equilibrata ancora lontana da raggiungere.
Come una copiosa nevicata o la rigidità delle temperature invernali non significano un’inversione nella tendenza al surriscaldamento del pianeta, così leggere flessioni nella natalità di qualche Paese non sono in grado di contrastare una corsa all’esplosione demografica.
Cosa potrà capitare? Ciò che profeticamente si legge nell’introduzione de La società suicida (G.R. Taylor, Milano 1972): «Mettete dei batteri in una provetta, con nutrimento e ossigeno, ed essi prolificheranno in modo esplosivo, raddoppiando di numero ogni venti minuti circa, fino a formare una massa visibile e solida. Ma a un certo punto la moltiplicazione cessa, man mano che i microbi vengono avvelenati dai loro stessi prodotti di rifiuto. Nel centro di questa massa verrà così a costituirsi un nucleo di batteri morti o morenti, tagliati fuori dal nutrimento e dall’ossigeno del proprio ambiente dalla solida barriera dei loro vicini, Il numero dei batteri viventi si ridurrà quasi a zero, a meno che le materie di rifiuto non vengano eliminate».
L’umanità si trova oggi in una situazione simile. La popolazione sta aumentando in maniera esplosiva, ma i prodotti di rifiuto della tecnologia cominciano a esigere il loro tributo. Le materie inquinanti che avvelenano l’aria e l’acqua non sono soltanto uno sgradevole sottoprodotto della tecnologia; esse costituiscono una minaccia per la vita, proprio perché l’incremento demografico è stato così anormalmente rapido. Queste materie nocive fanno parte del meccanismo di reazione con il quale la natura cerca di frenare una crescita eccessiva.
Lo sfacelo finale della popolazione, quando le difficoltà sul larga scala diverranno schiaccianti, deve ancora arrivare. Se l’esperienza di altre specie può servire da esempio, la popolazione sarà ridotta all’incirca a un terzo della sua cifra massima. In tutte le forme di vita animale si notano periodiche esplosioni demografiche. Queste terminano tutte con un collo. Potrà l’uomo costituire la sola eccezione? Oppure la sua abilità tecnologica gli permetterà di posporre l’apocalisse, e di volare ancora un po’ più in alto soltanto per cadere più lontano?
(...) la popolazione mondiale raggiunse il miliardo solo nel 1850, mentre ci vollero solo 80 anni perché, nel 1930, se ne aggiungesse un altro. Nel 1960 si toccò il terzo miliardo in soli 30 anni. Il quarto sarà raggiunto nel 1975, in soli 15 anni. Ma il ritmo accelera sempre di più: un quinto miliardo per il 1985 -86, un sesto per il 1993 - 96 circa, un settimo per l’anno 2000 o subito dopo. (...) É chiaro che l’espansione non può continuare all’infinito con questo ritmo ma finora non vi è alcun segno di rallentamento».

Che fare?
Certo, non è saggio continuare a vivere come se si trattasse di scenari futuribili e lontani. La sovrappopolazione è un fatto. È in atto, così come i suoi effetti sull’ambiente.
Dunque la politica più efficace, intanto, è quella di non destare allarmi ma lasciare che la naturale evoluzione verso un riequilibrio proceda. Senza fare campagne per fare più figli altrimenti la Nazione è finita, la Patria distrutta. Slogan buoni per stagioni che auspichiamo definitivamente superate e messe in archivio. Semmai si interverrà sulle politiche sociali.
Per qual che concerne l’annunciato disastro ambientale, cui non sarà possibile trovare rimedio né ci saranno possibili vaccini, bisogna agire sui proprio comportamenti personali, impegnarsi sulle questioni locali, sostenere chi lavora a livello nazionale, europeo e mondiale per fermare la china suicida.
Occorre dar seguito immediatamente agli Accordi di Parigi sul Clima e quindi investire sulle energie rinnovabili, sulla mobilità sostenibile, sulla riduzione dei gas climalteranti ed avviare una revisione sugli accordi commerciali. Mettendo davanti a tutto l’emergenza ambientale.
A livello nazionale ed europeo, è necessario lavorare per una politica energetica sostenibile, che punti al 100% di energie alternative. Per raggiungere questo obiettivo servono investimenti in energie rinnovabili ed efficienza energetica, scaglioni vincolanti di riduzione di CO2 e l’abbandono progressivo delle fonti fossili. È necessario che, a partire dal 2030, venga vietata la circolazione dei mezzi alimentati con combustibili fossili e che vengano mitigate le emissioni in agricoltura, nell’industria, negli ambienti domestici.
Come invocato dai tempi della battaglia contro il nucleare, la fonte primaria di energia è il risparmio, l’efficienza. Anche l’economia circolare non è un toccasana perché alla fine del ciclo restano comunque residui, rifiuti, che spesso non rientrano nel ciclo biologico alterato dai nuovi prodotti di sintesi messi in produzione nel devastante Antropocene.
Il nostro Paese, attraversato da una crisi profonda aggravata dalla pandemia, deve inoltre promuovere la conversione ecologica dei modelli sociali e di quelli produttivi.
Conversione che può tradursi anche in un volano per uscire dallo stallo e per creare occupazione di qualità. Concretamente, questo comporta che si investa sulla mobilità sostenibile attraverso la cura del ferro, si punti sul trasporto pubblico e sui sistemi di multi-sharing, si crei la filiera dell’auto elettrica e dell’auto pulita (anche in questo caso, attenzione, l’impatto zero non esiste e il problema di come si costruiscono le batterie  coinvolge aspetti ecologici e socio-umanitari mostruosamente conflittuali e insostenibili), si incentivino la mobilità ciclistica, le zone 30 e le aree pedonali.
Perseguire una svolta verde significa, inoltre, prevenire il dissesto idrogeologico e i rischi nelle aree sismiche attraverso un’adeguata politica di tutela del territorio, contrastare il consumo di suolo, l’abusivismo edilizio e i provvedimenti di legge tesi a fermare le demolizioni.
E, ancora, impegnarsi per raggiungere la sostenibilità della produzione alimentare, ribadire il no agli OGM, sostenere la catena della produzione tipica, i prodotti a chilometri zero, l’agricoltura biologica e biodinamica, tutelare la biodiversità, i parchi e i diritti degli animali.
Difesa dell’ambiente, gestione delle risorse, salvaguardia della biodiversità, quindi, come correttivi della sovrappopolazione e strumenti di innovazione e occupazione.
C’è nell’arco dei partiti e dei movimenti un soggetto capace di assumere queste tematiche così come sono, raccordate tra loro in una visione unitaria?
Di farsene portavoce e costruirci, meno rozzamente di quanto fatto in queste righe, una strategia politica, un programma?
Alcuni dei temi compaiono, per lo più slegati da una visione globale, tra i 5 Stelle e in quel che resta dei Verdi. Sono, entrambi, movimenti cui si sono ben presto spezzate le ali a causa dell’incapacità di resistere al richiamo del potere che impone compromessi, e delle pulsioni personali che alimentano le vanità.
Ma non tutto è perduto. Le idee e i valori restano riferimenti validi su cui costruire un rinnovato progetto e, soprattutto, nuovi interpreti capaci di ridare loro nuovi strumenti per riprendere il volo.

Valorizzare le interconnessioni tra la natura e l’uomo

Mirko Vecchiarelli, Dottore di ricerca in Pedagogia sperimentale, “Sapienza” Università di Roma
Elisa Mendolia, laureanda in Servizio Sociale e studiosa di Eco Social Work, “Sapienza” Università di Roma

Il patrimonio naturalistico di Roma
Roma possiede un patrimonio naturalistico tra i più vasti d’Europa. Quattordici parchi naturali, ampi spazi di biodiversità e campagna all’interno della città; le sue ville: Villa Doria Pamphili, la più grande di Roma, Villa Ada, Villa Borghese. Una estensione e varietà del verde che rappresenta il 67% del territorio comunale ovvero 85mila ettari sui 129 mila totali.
Ci sono poi i Parchi e le Riserve Naturali sparse tra la periferia fino ad arrivare a ridosso del centro. Tra le 18 aree protette, ci sono la Riserva di Castel Fusano, dell'Insugherata, della Marcigliana, il Parco di Vejo ed ancora il Parco del Pineto, la Valle dei Casali, la Tenuta dei Massimi e la Riserva di Monte Mario. Roma è anche il più grande comune agricolo d'Europa con i suoi 50 mila ettari coltivati.

Perché la natura ci fa star bene
La recente ricerca scientifica1 ha messo sempre di più in evidenza il ruolo della natura nella vita dell’uomo come fonte di benessere fisico e psicologico.
La gamma di benefici derivanti dall’interazione con la natura può essere suddivisa in tre aree: benessere psicologico, benessere cognitivo e benessere fisiologico. Dal punto di vista psicologico, sono stati registrati effetti positivi nei processi mentali, come aumento dell’autostima, stabilizzazione dell’umore, riduzione del senso di frustrazione e dell’ansia. Relativamente all’area cognitiva si evidenzia una diminuzione della fatica mentale, un miglioramento nella performance accademica o scolastica, connesse ad una maggiore capacità di attenzione. Quest’ultimo aspetto è stato riscontrato soprattutto nei bambini con ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione Iperattività). Infine, si sottolineano tangibili vantaggi anche per quanto riguarda la salute fisica dell’individuo: riduzione dello stress, dei livelli di cortisolo e della pressione sanguigna. Si abbassano quindi le probabilità di soffrire di mal di testa o sintomi stress correlati, così come si assottigliano le percentuali di morti per malattie circolatorie e/o cardiovascolari.
In termini di salute, gli outcome evidenziati dalla recente letteratura scientifica sono vari; ma non ci si ferma qui. Infatti, sono stati osservati effetti favorevoli anche dal punto di vista sociale su scala individuale, comunitaria e nazionale, l’uno è conseguenza dell’altro. L’interconnessione con la natura aumenta il supporto e la coesione sociale con una maggior facilità nello stringere legami e un più autentico senso di empowerment di comunità. Conseguentemente, la violenza e i tassi di criminalità si riducono.
Sentirsi connessi alla meraviglia della natura contribuisce alla creazione di una sensazione di interdipendenza tra il sé e gli elementi del Pianeta. Ci si sente parte di un organismo immensamente grande, co-partecipi (e responsabili anche) di una ricchezza non quantificabile.  
A livello quotidiano assistiamo alla diffusione di pratiche che ci stimolano a riappropriarci della natura, esperienze che migliorano le nostre coscienze ambientaliste e la consapevolezza di dover optare per un modello di sviluppo e uno stile di vita all’insegna della sostenibilità. Un esempio tra tutti, la diffusione della pratica giapponese dello Shinri-yoku, “Bagno nella foresta”. Immergersi nella natura alla ricerca dei benefici precedentemente descritti costituisce una vera e propria terapia per il corpo e lo spirito2.

Educazione all’aperto e sviluppo del saper essere
Percorsi di educazione non formale e apprendimento esperienziale outdoor per lo sviluppo del saper essere rappresentano oggi grandi opportunità di crescita e di benessere allo sviluppo e apprendimento. Tre sono i messaggi chiave evidenziati da ricerche ed esperienze sul campo: 1) La natura è il contesto ideale in cui i giovani possono coltivare la loro salute psico socio emotiva e il loro benessere, poiché consente loro di muoversi in modo libero e naturale. Ciò favorisce la salute fisica e mentale, favorendo al contempo la relazione e l’interazione sana dell’individuo con gli elementi naturali e il contesto ambientale in cui vive; 2) Le attività avventurose outdoor in gruppo coinvolgono i giovani a livello emotivo, sensoriale, relazionale, fisico e cognitivo. Sono per questo delle pratiche con un approccio olistico che favoriscono l’attivazione di mente e corpo; 3) La natura e i suoi cicli sono lo spazio ideale dove i giovani possono riconnettersi con sé stessi, gli altri e l’ambiente. Tramite di essa possono esperire il momento presente attraverso i sensi3.  
Nel 2015 si è costituita la prima Rete italiana di Scuole nel Bosco come attività formativa continuativa per bambine e bambini nella natura. Pedagogisti ed educatori credono che la natura sia un ambiente particolarmente stimolante per curare tutti i bisogni di crescita fisica, emotiva, psichica e relazionale di bambine e bambini. E’ questo l’approccio proprio dell’Eco-pedagogia.
Lo scorso anno la Regione Lazio ha approvato la Legge n. 7 del 5 agosto 20204 relativa al servizio integrato 0-6 anni che, oltre alle nuove norme per la disciplina del sistema, riconosce l’importanza dei servizi educativi sperimentali in natura, come l’asilo nel bosco o l’agrinido. Uno specifico articolo della legge introduce ufficialmente l’outdoor education (educazione all’aperto), ossia la possibilità per tutti gli asili e le scuole dell’infanzia di poter utilizzare come spazi educativi fattorie, parchi, riserve naturali, agriturismi.

Natura e Servizi integrati per il benessere della persona
L’approccio eco-sociale (Eco-social work), nel lavoro sociale, implica una visione olistica del rapporto uomo-natura, ossia, l’insieme dei mezzi e dei fini per la realizzazione della politica sociale e la pianificazione dei servizi. Un approccio ecologico del lavoro sociale in armonia con uno sviluppo ambientale sostenibile. Nella tradizione anglo-americana, tale approccio ecologico enfatizza l’importanza dell’adozione di una visione olistica e sistemica dei problemi sociali e una relazione reciproca tra le persone e l’ambiente. Il movimento ecologico in Germania ha avviato una riflessione e sperimentato soluzioni pratiche di politica eco-sociale, ossia sostenibilità sociale ed ecologica delle società moderne. Anche in Finlandia il dibattito ecologico riguarda il binomio politiche sociali-lavoro sociale5.
Alla luce delle evidenze poste dalla ricerca internazionale sull’Eco social work, diventa necessario ripensare il patrimonio naturalistico anche come spazio di scambio, di educazione, di inclusione e convivenza tra anziani, bambini e disabili. In Italia, il modello può essere rappresentato dalla nascente esperienza del Bosco integrale realizzata a Cento (FE)6. In modo particolare per le bambine e i bambini con bisogni educativi speciali, occorre mettere a sistema, nei diversi territori della città, percorsi ed esperienze in collaborazione con i Servizi Sociali degli enti territoriali, ASL, associazioni del Terzo settore, la comunità in generale e le famiglie.
È oggi necessario mettere in campo un nuovo modello di Servizi integrati, in interconnessione con la natura, capace di promuovere l’inclusione sociale e il benessere psico-fisico ed emotivo delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che vivono la città.
Roma città verde del mondo potrebbe diventare il fulcro di un nuovo modello di Sistema integrato di Servizi alla persona, basato sulla valorrizzazione del patrimonio naturalistico e del patrimonio umano, rappresentato nel caso specifico dalla comunità educante. Un insieme di energie ed esperienze positive composto da educatrici ed educatori, maestre e maestri, assistenti sociali e operatori socio-sanitari, associazioni e famiglie, che certamente costituirebbe il valore aggiunto del nuovo modello proposto.

Riferimenti:
1. Lucy E. Keniger 1,*, Kevin J. Gaston 2, Katherine N. Irvine 3 and Richard A. Fuller (2013), What are the Benefits of Interacting with Nature?, International Journal of Environmental Research and Public Health (https://www.researchgate.net/publication/235880961_What_Are_the_Benefits_of_Interacting_with_Nature).
2. Per approfondimenti in merito alla pratica dello Shinri-yoku: (https://www.bagnonellaforesta.com/).
3. Dr Tuuli Kuosmanen, Dr Katherine Dowling & Professor Margaret Barry (2020), Sommario della pratica corrente: un quadro per la promozione della salute psico socio emotiva e del benessere nel lavoro con i giovani in Europa, in: (http://www.kamaleonte.org/wp-content/uploads/O1_brief_IT_print_compressed.pdf). Per approfondimenti in merito a percorsi outdoor e di apprendimento esperienziale: (http://www.kamaleonte.org/).
4. Legge regionale 5 agosto 2020, n.7: Disposizioni relative al sistema integrato di educazione e istruzione per l'infanzia. Istituzione del Coordinatore Pedagogico e dei Coordinamenti Pedagogici Territoriali (https://www.pasqualeciacciarelli.it/file/202012/legge-regionale-5-agosto-2020-n7-disposizioni-relative-al-sistema-integrato-di-educazione-e-istruzione-per-linfanzia-istituz.pdf).
5. Matthies A., Narhi K., Ward D. (eds.) (2001), The eco-social approach in social work, Sophi University of Jyvaskyla (https://jyx.jyu.fi/bitstream/handle/123456789/48562/SoPhi58_978-951-39-6497-9.pdf?sequence=1).
6. Per approfondimenti: (https://www.boscointegrale.org/).

Una bussola per orientarci

Ricordo di Laura Conti a cent’anni dalla nascita

GiVa

Il nome di Laura Conti evoca immediatamente la coraggiosa battaglia sul caso Seveso e la ricerca delle responsabilità di una delle prime tragedie ambientali di innegabile impronta industriale.
Una catastrofe annunciata che scoppiando consentì di alzare il velo di omertà e di accondiscendenza sino ad allora in atto sulle industrie ad alto rischio per il territorio circostante ma anche per chi vi lavorava.
Accadeva il 10 luglio 1972. Dalla Icmesa di Seveso una nube di diossina invade il territorio. Ma non era che l’ultimo caso. Prima la vicenda dell’Ipca, la fabbrica di coloranti all’anilina di Ciriè con i lavoratori colpiti da cancro alla vescica e quello della Val Bormida sacrificata sull’altare delle produzioni dell’Acna di Cengio. In seguito la Caffaro di Brescia e l’inquinamento da Pcb ,e le aziende del settore amianto dalla cava dell’Amiantifera a Balangero, alla Eternit, per citare solo i casi più clamorosi.
Trovo nel settore ambientalista della mia biblioteca tre libri affiancati di Laura Conti: Visto da Seveso, Una lepre con la faccia di bambina e Che cos’è l’ecologia. Poco prima, nell’ordine alfabetico c’è Virginio Bettini con Ecologia e lotte sociali,  poco oltre Raffaele Guariniello e il suo Se il lavoro uccide.
Laura Conti diventò nota al grande pubblico proprio per l’impegno profuso nella battaglia per stabilire le responsabilità del caso Icmesa che, alla fine di un lungo percorso, portò alla conquista della Direttiva Seveso del 1982 che impose agli Stati dell’Unione Europea di dotarsi di una politica comune in materia di prevenzione dei grandi rischi industriali. Una battaglia nella quale, tra gli altri, fu affiancata proprio da Bettini, docente di ecologia, che aveva studiato gli effetti della diossina in Vietnam, da cui scaturì il saggio a due mani con Barry Commoner sopra citato.
Laura era nata a Udine il 31 marzo 1921 (morirà a Milano il 24 maggio 1993); staffetta partigiana venne arrestata e fu internata nel campo di Bolzano; nel 1949 si laureò in medicina in Austria, poi si trasferì a Milano dove, insieme all’attività medica, iniziò la militanza nel Partito Comunista. Consigliere provinciale nel 1960 per un decennio, poi in Regione Lombardia per quello successivo, infine  deputata dal 1987 al 1992, si occupò di Seveso proprio in qualità di consigliera regionale.
Forte, allora, la sua denuncia «della mancanza di controlli pubblici contro lo strapotere degli interessi privati, dell’impotenza della pubblica amministrazione di un Paese, pur industriale e civile, come l’Italia, di fronte a un disastro ecologico imprevisto, ma non imprevedibile».
Sempre schierata sui diritti delle donne e alla salute, si impegnò contro le centrali nucleari, per una rigorosa gestione della caccia, per una agricoltura naturale, portando nel movimento ambientalista la coscienza dei temi del lavoro e della salute in fabbrica nella tradizione di movimenti e di riferimenti giornalistici da Medicina Democratica a Sapere.
A sorreggere la sua riflessione e la sua azione un rigoroso ambientalismo scientifico che ha profondamente contribuito ad affermare, attraverso una critica puntuale di quelle politiche che determinano conseguenze ambientali devastanti e impattano sulla vita delle persone.
Nota la sua polemica, in Parlamento, con i Verdi e con il mondo ambientalista, nel 1990, sulla questione dell’attività venatoria. Commentò così nel libro Discorso sulla caccia (1992): «Quello che mi stupì non fu il rozzo machiavellismo di politicanti di fresca nomina…ma piuttosto il fatto che le associazioni ambientaliste accettarono di farsene asservire, firmando annunci pagati dalle liste dei Verdi nei quali la proposta di legge veniva calunniata in perfetta malafede». E sui due modi opposti di vedere il mondo, con severità concluse: « i deputati Verdi, che avevano escogitato l’ostruzionismo, pensavano di imporre i propri principi etici con la furberia e con la violenza; sembrano persone miti e dolcissime, ma sono dei fanatici della Santa Inquisizione».
Laura apparteneva al filone di pensiero che intendeva dare all’ambientalismo una connotazione politica di sinistra, evitando ogni forma di buonismo ecumenico, e per questo arricchendolo di istanze egalitarie nella convinzione che non esistono problemi ambientali che non siano anche problemi sociali.
Un atteggiamento non solo fatto proprio da chi più propriamente proveniva dal pensiero socialista o  marxiano (Giorgio Nebbia, Dario Paccino, lo stesso Virginio Bettini...) ma che fu ben presente anche nella componente cattolica progressista come ad esempio nel presidente della Pro Natura di quegli anni Valerio Giacomini.
Naturale dunque incontrare Laura Conti nel nucleo dei fondatori, nel 1979, della Lega per l’Ambiente.
Così come averla protagonista nella critica alla non neutralità della scienza, al riduzionismo e alla “inevitabilità” del progresso. Interprete di un impegno che trovava il nucleo aggregante intorno alla rivista Sapere e al suo motore, Giulio Maccacaro.
Per questo fu in prima fila nella battaglia contro la pretesa superiorità e oggettività della scienza, una scienza «quintessenza astratta delle forze produttive». Seguendo Marcello Cini, la scienza e lo scienziato non hanno un ruolo al di sopra delle parti ma va invece dichiarato il contesto in cui ci si colloca, da che parte si sta: quella dell’ambiente e della salute. Non ammetteva, tuttavia, quella pretesa di “pensiero unico”, ancor oggi maggioritario, pur se non più unico, all’interno della comunità scientifica. In questo si trovò in contrasto nel suo stesso partito e verso il Sindacato, accecati entrambi dal credo nelle «magnifiche sorti e progressive» e la base riduzionista su cui poggiava. Peccato che la sinistra si è trascinato per decenni e che ancora oggi sembra avvinghiare la sua classe dirigente incapace di liberarsi da un acritico “sviluppismo” industrialista accecato dal mito della crescita senza limiti.
Una deriva che Laura non esitò a contrastare ricorrendo anche alla provocazione. Al punto che  arrivò a sostenere che in fin dei conti Malthus aveva ragione nei confronti di Marx. Questo colpo dritto al cuore della sinistra era portato per evocare la cultura del limite e cercare di fare breccia nel pensiero appiattito delle dirigenze politiche e sindacali ormai rassegnate all’imperante liberismo consumista.
E questa è una parte del messaggio e della testimonianza militante di Laura Conti su cui sarebbe opportuno ritornare a riflette con serietà e autocritica, proprio adesso, davanti all’urgenza di un radicale cambio di registro nella programmazione di un futuro possibile.
Per porci un altro dei suoi dubbi e dei suoi interrogativi: «Ci dobbiamo chiedere se è possibile salvare l’equilibrio vitale del pianeta, o almeno iniziare un’azione efficace in tale direzione, già all’interno del sistema capitalista, oppure se il sistema capitalista ci farà arrivare alla catastrofe…».
È lo stesso sistema che combatte il movimento ambientalista che chiede soluzioni serie –che non possono che essere radicali, a cominciare da quelle economiche, come solo Papa Francesco sa indicare – e che blandisce invece i “verdi ragionevoli” disponibili a essere normalizzati entrando a far parte dell’ordine internazionale dominato dal pensiero unico della prevalenza del profitto e del consumo, incompatibile con il futuro delle nostra specie.
Un ambientalismo di sistema per il quale va bene la transizione ecologica vuota di contenuti e un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che nulla cambia per il futuro delle prossime generazioni.
È da ciechi non rendersi conto che questo è il tempo dell’individuazione puntuale delle responsabilità precise e di soluzioni efficaci che proprio per questo non possono né essere rinviate, né essere condivise da tutti.
O pensiamo davvero che i ritmi di crescita economica di oggi basati sullo sfruttamento degli uomini e delle risorse, sulle diseguaglianze, sul mantenimento in situazioni di degrado e di ingiustizia sociale della maggior parte del mondo, possano perdurare senza scatenare tra le masse disperate pressioni migratorie, conflitti, rivolte e guerre da cui l’intera umanità non ha che da perdere?
Davvero pensiamo che il progresso tecnologico da solo risolva gli effetti dei cambiamenti climatici, della sovrappopolazione, delle migrazioni ambientali, della carenza di risorse naturali essenziali a cominciare dall’acqua, dell’effetto globale degli inquinamenti?
La transizione ecologica l’abbiamo ridotta a transizione digitale e tecnologica. Ci illudiamo possa metterci al riparo da questa allarmante prospettiva?
O, per chiudere ancora con le domande premonitrici di Laura Conti dovremmo porci questo ulteriore interrogativo: «Si potrà evitare che l’elettronica, coi suoi meravigliosi progressi, finisca col fare di ciascuno di noi un sorvegliato speciale?»

Nota
Valeria Fieramonte, a cento anni dalla nascita, ha dedicato a Laura un libro importante La vita di Laura Conti (Enciclopedia delle donne, 2021) in cui ha saputo raccontarci la vita di una interprete straordinaria del nostro tempo dalla scelta partigiana alla militanza ambientalista prima di tutto come medica poi di studiosa ricercatrice divulgatrice scrittrice, parlamentare. Come abbiamo cercato di sintetizzare, una vita segnata dalla passione e dall’impegno sviluppati con umanità e con  piglio battagliero dalla parte dei beni comuni a cominciare dalla salute pubblica.

Recovery Fund o Next Generation EU?

Riccardo Graziano

La pandemia Covid-19, oltre a provocare una tragedia sanitaria, ha innescato una crisi economica profonda, tanto da convincere l’Europa a mettere da parte le prassi rigoriste e allargare i cordoni della borsa facendo piovere una montagna di denaro sui Paesi membri. Ma non è tutto oro quello che luccica, in particolare per l’Italia, dove i finanziamenti del piano denominato “Next Generation EU” sono stati salutati con grande giubilo e ribattezzati Recovery Fund, spesso storpiato in Recovery “Found”. Potrebbe sembrare una sottigliezza semantica per pignoli, ma in realtà è indice di un approccio inappropriato alla questione, che rischia di vanificare l’opportunità offerta da questa mole di denaro per far ripartire il Paese su basi nuove e di canalizzare ulteriormente la ricchezza verso le solite tasche, lasciando gran parte della popolazione in difficoltà, con l’effetto paradossale di peggiorare la situazione socioeconomica e ambientale.
Ma andiamo con ordine.

Il percorso
A fine marzo 2020, quando in Italia già serpeggiava velocemente SARS-CoV-2, il virus responsabile della pandemia Covid-19, il resto dell’Europa era ancora relativamente immune dal contagio. Pertanto, Germania, Austria, Olanda, Danimarca e Svezia, definiti spesso impropriamente “paesi frugali”, avevano rifiutato di costruire una strategia comune europea per arginare il diffondersi della malattia e della conseguente crisi economica, il che la dice lunga su quanto la cosiddetta “Unione Europea” sia unita…
Tuttavia, i “frugali” hanno cambiato radicalmente prospettiva quando i contagi sono arrivati anche a casa loro, come succede spesso con molti problemi che non vengono considerati tali finché coinvolgono qualcun altro e diventano priorità assolute quando finiscono fatalmente per diventare anche problemi nostri. Un egoismo, una miopia e un opportunismo che stonerebbero in qualunque contesto umano, ma che diventano particolarmente urticanti ai vertici di quella che dovrebbe essere, appunto, una “Unione”.
A quel punto, per arginare la diffusione del virus, si è deciso di sospendere, giustamente, il Trattato di Schengen, che da decenni autorizzava la libera circolazione delle persone nell’UE. Ma si è anche messo finalmente da parte (provvisoriamente, s’intende…) quel famigerato Trattato di Maastricht che da decenni tiene inchiodata l’economia europea su vincoli tanto rigidi quanto arbitrari. L’impostazione rigorista e austera di matrice tedesca è stata accantonata, perché finalmente  si è capito che, in assenza di poderose misure di sostegno, tutta l’economia europea sarebbe collassata (non solo quella dei Paesi in crisi pregressa, tra i quali l’Italia). Per questo si è arrivati a varare, soltanto nel luglio 2020 e attraverso questo percorso tutt’altro che lineare e spontaneo, il Next Generation EU, faraonico piano di sostegno ai Paesi dell’Unione attraverso un’enorme iniezione di liquidità.

Le cifre
Il Next Generation EU prevede stanziamenti aggiuntivi oltre al bilancio standard 2021-2027 dell’UE per 750 miliardi di euro, dei quali 390 sono erogazioni a fondo perduto e 360 finanziati da prestiti, il tutto così ripartito: 10,6 mld innovazione e agenda digitale, 721,9 coesione, resilienza e valori, 17,5 risorse naturali e ambiente. L’Italia, proprio perché duramente colpita dalla pandemia, ottiene la fetta più grossa, 210 miliardi di euro, dei quali oltre due terzi destinati a nuovi progetti, il restante a quelli in essere. Ma come abbiamo visto non si tratta di un regalo: 120 miliardi di questi fondi sono prestiti che andranno restituiti. È per questo che le manifestazioni di giubilo appaiono fuori luogo: per un Paese che ha già un debito pubblico enorme, oltre 2.650 miliardi di euro, circa il 160% del PIL, la possibilità di indebitarsi ulteriormente non sembra una grande idea, anche se in questo caso il debito originario lo contrae l’UE, quindi a condizioni di mercato più favorevoli di quanto potrebbe fare l’Italia. Tuttavia, forse la scelta più saggia sarebbe stata quella di ridurre il debito, utilizzando le aperture di credito europee per abbassare sia l’indebitamento che il tasso di interesse gravante su di esso, in modo da avere minore esposizione debitoria sui mercati, dunque  anche un rating – ovvero una valutazione finanziaria – migliore, tale da poter pagare interessi minori sul debito stesso. Ma il Next Generation EU non funziona così, l’Europa finanzia a piene mani i suoi stati membri per dare una scossa all’economia, puntando in particolare sulla digitalizzazione e sulla riconversione ecologica, nel convincimento – peraltro condivisibile – che tale strategia porterà a una ripresa più sostenibile e quindi duratura. Dunque, l’approccio vuole essere quello di un investimento sul futuro, che dovrebbe in prospettiva fruttare assai più di quanto costi oggi e garantire benessere anche  alla Next Generation EU, appunto, la prossima generazione di europei.

Il fondo recupero
Purtroppo però in Italia questo messaggio pare non essere passato. Infatti qui ben pochi lo chiamano Next Generation, pensando alla prossima generazione. La denominazione corrente nel nostro Paese è appunto quella di Recovery Fund, fondo “di recupero”, spesso storpiato anche come Recovery “Found”, cioè letteralmente “recupero trovato”. Come dicevamo sopra, non è una sottigliezza semantica. È piuttosto indice della nostra mentalità miope e priva di strategia, che non pensa realmente a degli investimenti veri per il futuro, perché è rivolta al passato, cioè a fornire un “recupero” a chi ha avuto delle perdite o non ha potuto fare affari. E per ottenere questo si orienta verso strade già percorse e obsolete, senza riuscire a capire che questa pandemia ha comunque provocato una cesura netta, tale per cui occorre cambiare, rivoluzionare, modernizzare il nostro paradigma socioeconomico per ripartire su basi nuove, altrimenti non ci sarà alcuna ripresa e l’unica cosa che produrranno gli aiuti europei saranno nuovi debiti da pagare con i sacrifici di tutti, a fronte dell’arricchimento di pochissimi, peraltro già abbienti. Anziché programmare una serie di investimenti strutturali, ci stiamo comportando come se avessimo trovato un forziere stracolmo di denari da sperperare all’insegna del “ce n’è per tutti”, senza pensare che prima o poi i padroni del forziere ci chiederanno conto delle nostre spese. Anzi, sia prima sia poi, nel senso che l’UE vaglierà preventivamente con attenzione i piani preparati dalle singole nazioni per valutare se sono in sintonia con le linee guida dettate dall’Europa e solo se li riterrà adeguati erogherà i finanziamenti, salvo poi farsi restituire i prestiti con gli interessi, anche se su tempi molto dilazionati.

Generazione Futura
Se davvero si vuole pensare alla generazione futura, per prima cosa occorre investire nel luogo dove essa si trova attualmente: la scuola. Sia in termini di revisione dei programmi e dei corsi di studi, sia intervenendo fisicamente sulle strutture che ospitano i nostri ragazzi, quasi sempre inadeguate, spesso addirittura fatiscenti. Occorrerebbe un piano di investimenti strutturale, nel senso di “dedicato alle strutture”, per renderle energeticamente efficienti e adeguarle alle nuove esigenze didattiche, con l’ingresso massiccio del digitale, ma soprattutto con la maturazione di una coscienza ecologica e globale, che insegni subito ai ragazzi l’importanza di preservare l’ecosistema Terra, ma che li prepari anche ad affrontare un futuro nel quale i mutamenti climatici renderanno le condizioni di vita assai più problematiche, a meno che non si rimedi nei pochi anni in cui ancora abbiamo la possibilità di farlo, cosa che non stiamo facendo.

Economia verde
Da più parti è stato criticato il PNRR, il Piano Nazionale Ripresa e Resilienza, che esplicita le linee di intervento attraverso le quali si intendono utilizzare i fondi europei. In generale, l’accusa è quella di greenwashing, un risciacquo “verde” di pratiche e strategie che nulla hanno a che vedere con la riconversione ecologica necessaria e urgente di cui abbiamo bisogno. Lo hanno detto le associazioni ambientaliste, i ragazzi di FFF, esponenti della società civile. Quello che si delinea è un progetto di “ammodernamento” del Paese, come se il problema fosse la nostra arretratezza, mentre il nocciolo della questione è l’insostenibilità del nostro sistema di “sviluppo”, basato su una crescita insostenibile e su un’economia ancora troppo “lineare”, ovvero programmata in senso unidirezionale dalle materie prime ai prodotti ai rifiuti, anziché su una economia “circolare”, in grado di lavorare a ciclo chiuso, come Madre Natura, ovvero dove i rifiuti di una lavorazione diventano la materia prima di un’altra.

Economia digitale
Un altro grande pilastro della strategia UE è la digitalizzazione, in sé positiva, ma solo se si tiene conto dei suoi effetti sull’occupazione. Senza dilungarci troppo, sottolineiamo che è facile prevedere come lo sviluppo dell’intelligenza artificiale produrrà nel giro di pochi anni macchine e robot in grado di sostituire gli umani in modo autonomo in un numero enorme di mansioni, il che può essere positivo se ci evita lavori onerosi o pericolosi, ma occorre tenere conto degli effetti devastanti che può avere sull’occupazione. Il rischio è di aumentare in modo esponenziale i disoccupati, sia per la crisi post-Covid, sia per l’arrivo delle macchine intelligenti. Per evitare una crisi occupazionale e sociale, occorre anche qui invertire il paradigma, che finora ha visto allungare progressivamente l’età pensionabile, strategia che ha inopinatamente tenuto fuori dal mondo del lavoro i giovani, costringendo i lavoratori anziani a rimanere a occupare i pochi posti disponibili. Una follia. Occorre programmare un massiccio ricambio generazionale, che consenta l’ingresso di forze giovani, in grado di metabolizzare meglio le dirompenti innovazioni tecnologiche. Al tempo stesso, occorre prendere atto che i tempi di lavoro andranno ridotti a parità di salario, ridistribuendo le risorse in surplus ottenute grazie all’efficienza delle macchine. Il vecchio slogan “lavorare meno, lavorare tutti” torna prepotentemente attuale ed è l’unica soluzione possibile, se si vogliono evitare conflitti sociali devastanti.

Cosa fare, cosa no
Per avviare sul serio la riconversione ecologica, occorre puntare su cose già dette e ridette, ma mai messe sufficientemente in pratica: sostituire le fonti fossili con energie rinnovabili; utilizzare le energie rinnovabili per implementare la mobilità elettrica dismettendo i veicoli a carburanti fossili; arrestare il consumo di suolo e riqualificare gli edifici esistenti; rinaturalizzare le pratiche agricole; diminuire i consumi di carne ed evitare gli allevamenti intensivi: salvaguardare le foreste primarie, i ghiacciai e in generale gli habitat naturali; proteggere la biodiversità; mettere in sicurezza il territorio; bonificare i siti inquinati, eccetera, senza dilungarci troppo su cose già dette e ripetute, in particolare dagli ambientalisti, ma non solo. Purtroppo inascoltati, come dimostra il caso esemplare della Regione Piemonte, che ha stilato un elenco di 1.273 (sì, milleduecentosettantatre) progetti, una vera pletora di richieste per un totale di 27 miliardi, senza ombra di strategia e di visione, solo un lungo elenco di progetti spesso già accantonati perché inutili, ma ripresi nella speranza di trovare nuovi finanziamenti (all’insegna del “ce n’è per tutti”, appunto), a volte addirittura in conflitto fra loro. Per giustificare questo approccio da burocrate privo di qualità di governo, la Regione Piemonte si è vantata di aver dato voce a tutti. A parte che non è vero, perché ovviamente non ha minimamente preso in considerazione le associazioni ambientaliste, ma comunque non è quello che doveva fare. Il compito delle Regioni era quello di indicare progetti propri o presentati da altri soggetti che fossero compatibili con le linee guida dettate dalla UE, per andarli a inserire in un unico documento nazionale da presentare e sostenere in Europa. Altro che uno sterminato elenco di “progetti” che sembra più una richiesta di elemosine da distribuire a una pletora di questuanti.

Conclusioni
L’approccio doveva essere quello di un investimento sul futuro, ma sembra che l’orientamento sia quello di una serie infinita di ristori e regalie mascherate da appalti, una “strategia” in linea con un Paese che invecchia guardando al passato, invece che aprirsi guardando ai giovani e al cambiamento necessario e urgente. Senza dimenticare i soliti favori ai “poteri forti”, che si ammantano di un’aura fintamente “verde” per mettere le mani sul ricco piatto offerto dalla UE. Se non riusciremo a incidere sui decisori politici per cambiare rotta, povera Next Generation, senza ripresa, senza occupazione, con un pianeta devastato da inquinamento e mutamenti climatici e, se ancora non bastasse, anche con un debito enorme da ripagare.

Le tante minacce che si nascondono dietro la transizione ecologica

Mauro Furlani

La galassia di sigle, associazioni, comitati di cittadini, che affolla il campo dell’associazionismo ambientale è da svariati decenni molto ampio, articolato e diversificato. Si va da settori attigui alla ricerca scientifica in campo zoologico, botanico o altri settori, fino a quelli che sfiorano il mondo animalista, passando attraverso campi più legati all’urbanistica.
Sicuramente l’ambiente, inteso nel suo significato più ampio, si presta ad interpretazioni, a sensibilità, ad applicazioni quanto mai diversificate e ampie, che, se da un lato arricchiscono culturalmente il contesto operativo generale, dall’altro lo rendono anche particolarmente fragile.
Il rischio di un facile scivolamento verso l’idea che l’oggetto del proprio campo di interesse, dove si sono acquisite le maggiori competenze, sia centrale e attorno al quale far ruotare altre problematiche è sempre dietro l’angolo delle nostre attività.
Coloro che ormai molti decenni fa decisero di impegnarsi nella costituzione di una Associazione ambientale, come la Federazione nazionale Pro Natura, caratterizzata da una forte connotazione scientifica e naturalistica, hanno intuito che l’impegno ambientale non poteva essere costretto, limitato all’interno di un confine culturale chiuso, dotandolo altresì di un forte carattere locale.
In questi ultimi anni, tra le diverse realtà ambientaliste nazionali, è stato compiuto un grande sforzo per cercare di trovare dei terreni comuni di condivisione su importanti tematiche, seppure settoriali.
Sono sorti numerosi tavoli tecnici, sviluppati per indirizzare la politica nazionale ed europea verso una visione ambientale più attenta e rispettosa degli ambienti naturali e spingerla alla compatibilità di scelte economiche e di gestione del territorio attente e coerenti con i principi di conservazione.
Lo sforzo compiuto è stato quello di sottrarre l’ambiente, il paesaggio, la biodiversità alla marginalità rispetto alla visione economica, anzi, porla al centro rispetto ad essa. Questa idea, che è riuscita a sfondare il muro di ostilità da parte di settori politici ed economici, ha spesso trovato localmente una difficile applicazione. Si pensi solamente alla difficoltà di applicazione locale della Rete Natura 2000, oppure le richieste regionali di deroga alle specie oggetto di attività venatoria o ancora il quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino e numerose altre.

Proprio per sopperire alla debolezza e inefficacia di azioni locali delle singole Associazioni, e per il carattere nazionale ed europeo delle questioni affrontate, sono nati tavoli tecnici sullo sviluppo di un'agricoltura compatibile con la salvaguardia della natura, sulle strategie di conservazione, sulle aree protette e sulle minacce incombenti derivate dalla riforma della Legge quadro sulle aree protette, oppure recentemente sulle infrastrutture da destinare alle Olimpiadi invernali di Milano-Cortina del 2026, sul verde urbano, ecc. La nostra “Agenda ambientale” è stata elaborata in modo concordato e sottoposta sempre alle diverse forze politiche nazionali.
Alcuni recenti interventi e prese di posizione di una parte del mondo ambientalista - riconosciamolo pure - mediaticamente più influenti, rischiano di minare la costruzione di aree di confronto e di condivisione su alcuni grandi temi, mettendo in evidenza non solo le differenze che si sono, ed è bene che ci siano, ma anche la fragilità di quanto costruito in decenni di protezione ambientale.

Uno dei principi che ha sempre ispirato la politica ambientale della Federazione, proprio per le diverse anime che raccoglie, è la sua apartiticità e l’equidistanza politica nei confronti di tutti i governi che si avvicendano nel nostro Paese, comprese quelle espressioni politiche arricchite di qualificate componenti tecniche.
Anche queste ultime, nonostante talune figure particolarmente rappresentative siano attinte dal mondo accademico e scientifico, talvolta prossime al mondo ambientalista, nel momento in cui sono chiamate ad una responsabilità istituzionale, assumono a pieno titolo una connotazione politica, con cui il mondo ambientalista deve dialogare e si deve confrontare, mantenendo tuttavia una propria identità separata e libera di scelte autonome.
Negli ultimi tempi sembra che qualcosa sia cambiato, in modo molto evidente.
Quella costruzione di piattaforme comuni, frutto di faticose mediazioni, rispetto reciproco, condivisione, lealtà sembra essere venuta meno, sotto la spinta di un coinvolgimento privilegiato in un momento storico che prevede una forte trasformazione economica, oltre che sociale, della nostra società.
Seppure, fortunatamente, alcune collaborazioni tra le Associazioni siano rimaste aperte, è innegabile che aver seguito un percorso istituzionale autonomo, con la partecipazione ai tavoli di consultazione dell’ancora in formazione Governo guidato da Draghi da parte di tre Associazioni (Legambiente, WWF e Greenpeace), all’insaputa di gran parte della altre Associazioni, è sembrato a molti uno sgarbo nelle relazioni tra Associazioni. Non aver peraltro discusso alcune priorità da portare all’attenzione del Presidente incarico è sembrata a molti una fuga autonoma, certamente inaspettata, seppure legittima.
Tutto ciò, legittimamente, ha portato, al termine dell’incontro, alla comunicazione della soppressione di quel Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che, pur con tutti i limiti e contraddizioni manifestati, conservava, nel suo nome, l’ambiente come mission istituzionale principale.

A nostro parere, l’istituzione del Ministero della Transizione Ecologica, che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente, non ha comportato solamente una mutazione terminologica; è ben manifesto che la cosiddetta transizione ecologica prevalga sulla tutela dell’ambiente, anzi sembra proprio che questa sia del tutto marginale.
Se, infatti, si legge il Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza si nota facilmente l’irrilevanza con la quale viene trattata la protezione dell’ambiente e della biodiversità, degli habitat naturali ,ecc.
Ancor di più si evidenzia l’allontanamento culturale esaminando i fondi che sono stanziati per la tutela dell’ambiente e della biodiversità: solo 0,8% del totale di 248 miliardi di euro. Praticamente briciole cadute dalla tavola dei grandi investimenti infrastrutturali ed energetici.
Aver accolto e manifestato favorevolmente da parte delle tre Associazioni ambientaliste chiamate alla consultazione questo cambiamento di nome e di finalità, in assenza di una discussione preventiva, o almeno di una comunicazione, ha di fatto creato un fossato di diffidenza non facilmente colmabile, indebolendo ulteriormente la posizione ambientalista in un momento in cui, al contrario, avrebbe dovuto confrontarsi con scelte a nostro parere negative e senza precedenti per l’ambiente.
Il Decreto Semplificazione, infatti, che interviene sulle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), unite alle modifiche del Codice degli Appalti, oltre a ridurre i tempi di realizzazione di un’opera, limita fortemente la partecipazione delle popolazioni alle scelte sul territorio, rischiando di compromettere definitivamente molti ambienti naturali e deturpando paesaggi che sono la vera ricchezza di questo Paese.
Purtroppo, altre prese di posizione pubbliche non hanno certamente favorito le condizioni per rimarginare la ferita prodotta, che sembra resa volutamente più profonda, come per tracciare una distanza e dei distinguo insanabili, giungendo, in alcuni casi, a delle vere e proprie delegittimazioni del pensiero dissonante.
Così come l’attacco effettuato da parte del Presidente di Legambiente, dalle pagine del quotidiano La Repubblica il 19 maggio, nei confronti delle Sovrintendenze ai Beni Culturali e Paesaggistici, evidenzia, a nostro parere, una fuga autonoma su un tema particolarmente delicato. Attacco giunto proprio in un momento in cui queste Istituzioni, nate ormai un secolo fa a presidio della tutela del nostro patrimonio artistico e paesaggistico, sono fortemente sotto attacco da parte di altre Istituzioni per presunte limitazioni e rallentamenti alle azioni imposte dal Decreto Semplificazioni. Delegittimare presidi istituzionali come questi rischiano di aggravare e diffondere quanto purtroppo sta accadendo, ad esempio, nella Tuscia (Lazio), dove tre impianti fotovoltaici (il più grande dei quali sarà anche il più grande d’Europa) andranno a sostituire oltre 250 ettari di aree agricole. Si è ben consapevoli della necessità di uscire dalle fonti energetiche fossili, tuttavia, ciò che non può essere accettabile è la corsa selvaggia in assenza di una rigida pianificazione, in grado individuare le aree idonee e privilegiando l’ utilizzo di spazi degradati come le aree industriali dismesse o le grandi infrastrutture viarie o in manufatti di alcun pregio.

Fortunatamente, se da un lato a livello nazionale sono ben evidenti queste contraddizioni e questi contrasti,  dall’altra, nei territori e a livello periferico, continuano attive forme di collaborazioni con tutte le principali Associazioni su temi locali specifici.
Forse, proprio per cercare di porre un argine a questa marcia forzata in nome della transizione ecologica che può provocare ferite dolorosissime all’ambiente naturale e ai beni paesaggistici del nostro territorio, autorevolmente il Presidente della Repubblica ha ritenuto di porre al centro e all’attenzione della politica quell’art. 9 della nostra Carta, mai così fortemente minacciato come in questo periodo.
Il Presidente scrive, infatti, in un messaggio affidato alle pagine di Vanity Fair per celebrare i 75 anni della Repubblica e il grande patrimonio artistico e culturale dell'Italia, “non c’è transizione ecologica senza rispetto per la nostra ricchezza culturale e paesaggistica” e ancora “ecco perché la ripartenza pone in primo piano l’esaltazione delle nostre risorse e virtualità culturali”.
Se il Ricovery Plan non riserva attenzioni alla tutela della biodiversità e degli ambienti naturali, la Commissione Ambiente del Parlamento Europeo approva la relazione sulla nuova strategia che gli Stati dovranno attuare, modificando radicalmente le proprie politiche ambientali.

L’amara constatazione è il sostanziale fallimento delle strategie fin qui adottate in tema di protezione della Natura e della biodiversità. Ciò, secondo la Commissione, impone che entro il 2030 la politica dell’Unione europea dovrà porre al centro della propria politica ambientale, al pari alla centralità posta per il clima, la biodiversità e le aree protette.
Secondo la Commissione, i paesi membri in questo decennio dovranno mettere in atto un profondo ripristino degli ecosistemi degradati, destinando almeno il 30% del proprio territorio alla protezione della natura e della biodiversità, cercando di contrastare i processi di desertificazione, di degrado del suolo e degli habitat.
Quale dunque tra le due strade sarà quella che l’Italia privilegerà?