Membro di
Socia della

Archivio Rassegna Stampa

Lo sconvolgente caso della colomba migratrice

Vincenzo Rizzi

Spesso capita di registrare domande del tipo "Ma per quale ragione dobbiamo preoccuparci dell'estinzione di una specie?" Ci sono molti modi di rispondere, ad esempio potremmo immaginare le specie come una biblioteca, dove attraverso la lettura degli oltre 50 milioni di libri riusciremmo a comprendere i tanti misteri legati alla vita. Forse qualcuno ostinato però potrebbe controbattere che sarebbe come voler conservare tutte le edizioni difettose di un dato autore, ad esempio Pirandello.... A questo ostinato si potrebbe rispondere che in un cromosoma di una blatta ci sono più informazioni di tutte le edizioni dell'enciclopedia Treccani messe insieme. Tenuto conto che sulla terra probabilmente sono vissute 5 a 50 miliardi di specie e che attualmente ne sopravvivono da 5 a 50 milioni (cioè meno del 1%), che l'uomo, la specie più recente, ha attivato la sesta estinzione di massa e visti gli attuali tassi d'estinzione, è probabile che gran parte delle restanti specie si estinguerà nel giro di 1-2 secoli. Purtroppo è evidente che c'è una incapacità di comprendere la gravità di quanto stia succedendo, se ancora oggi c'è gente che può pensare che sia un sacrilegio chiedersi se le 626 opere di Mozart non siano troppe, ma può invece domandarsi “se abbiamo veramente bisogno di 100 milioni specie".

Pochi ricordano che nello zoo di Cincinnati, alle 17 del pomeriggio del 1 settembre 1914, all'età di 29 anni moriva Martha.

La domanda spontanea è "Chi era Martha?" La risposta è semplice: Martha è la dimostrazione concreta che la guerra infinita alla biodiversità può (purtroppo) essere vinta dall'uomo.

Ma oltre i simbolismi, chi era materialmente Martha? Marta fu l'ultimo esemplare di colomba migratrice (Ectopisters migratorius), la specie di uccello più numerosa sulla Terra. Si stimava che da sola essa superasse il 40% del numero di esemplari totali di uccelli del nuovo continente. Alexander Wilson, che era un valente naturalista, ci ha lasciato un'importante testimonianza che ci racconta l'imponenza e la forza di cosa doveva essere poter vivere lo spettacolo della migrazione del più grande piccione dall'inconfondibile colore grigio sulla testa e sul dorso, con il petto macchiato di rosa che tendeva al bianco sul ventre, il becco nero, le zampe rosse e gli occhi arancioni.

Il suo areale principale corrispondeva a tutta la parte centrale e orientale degli Stati Uniti, fino al golfo del Messico mentre a nord comprendeva anche il Canada.

Tornando agli studi di Wilson, egli nel 1800 osservò uno stormo che si spostava tra il Kentucky e l'Indiana che valutò di una lunghezza di 390 km, con una larghezza di oltre un km e mezzo. Egli stimò, per difetto, che tale stormo contenesse non meno di 2.230.272.000 di uccelli. Pertanto è lecito pensare che questi uccelli potessero consumare una quantità pari a circa 633.690 m3 di semi e nocciole al giorno.

Anche il noto ornitologo e illustratore naturalistico James Audubon nel 1813, durante un viaggio che lo stava riportando a casa a Louisville sul fiume Ohio nel Kentucky, dopo che aveva percorso circa 88 km, si trovò quasi in trance ad ammirare la vista di un incredibile spettacolo come la migrazione della colomba migratrice. Da bravo artista estrasse il suo fedele taccuino e cercò di immortalare quel momento di stordimento, circondato da milioni di uccelli in volo, mentre il cielo improvvisamente si oscurò malgrado fosse mezzogiorno, per cui sembrava di assistere ad una eclissi totale: in realtà era uno stormo di colombi.

Probabilmente Audubon poté osservare l'avvicinarsi dei rapaci allo stormo, che reagiva compattando i ranghi come a formare un’enorme unica massa. In un immenso fluire vitale, un ordinato brulicare di esseri che si butta ora in cielo ora verso il suolo, formando linee per poi rapidamente trasformarsi in una successione di onde, che si lanciavano in vorticose forme impalpabili sfiorando in un baleno ora il suolo, per poi tornare a risalire in alto quasi perpendicolarmente, come a formare una immensa macchia di uccelli che oscurava l'orizzonte. Questi instancabili acrobati con sorprendente velocità riprendevano a volare in spirali riconquistando il cielo e sfuggendo in mille forme serpentiformi. Audubon sicuramente fu profondamente colpito da tutto questo, notò come simili assembramenti si susseguivano senza interruzione di continuità, praticamente era una nazione che stava migrando. Il sole non aveva ancora lasciato il passo al crepuscolo, quando il naturalista pittore entrò nella sua città. Il cielo era ancora ammantato dallo stormo in migrazione. Per tre giorni i colombi continuarono a migrare ininterrottamente oscurando il cielo, ma al contempo le loro evoluzioni riempivano il cielo colorandolo ora di viola e porpora, ora facendo scorgere bagliori dorati o di fulgido verde a seconda di come gli animali viravano in volo e intercettavano i raggi del sole regalando agli osservatori migliaia di sagome blu, rosse, grigie.

Il naturalista calcolò la dimensione di un solo di questi stromi che stimò largo un 1,6 km, la cui velocità era di circa 1,6 km al minuto e che pertanto in tre ore avrebbe contato circa 1.015.036.000 esemplari, anche se Il suo collega e rivale Wilson suggerì invece che la popolazione ammontasse a più di due miliardi. Inoltre stimò che uno stormo avrebbe consumato circa 316.844 m3 di cibo. Egli si recò nei luoghi dove questi animali si fermavano per nidificare e rilevò la presenza di moltissimi rami di grosso diametro superiore ai 60 cm spezzati per il peso degli animali. Laddove si posavano, soprattutto nei boschi aperti, con alberi enormi e rado sottobosco, la vegetazione risentiva della presenza di milioni di uccelli concentratisi per dormire, ma tutto questo era nelle cose e rappresentava un elemento fondante di quegli ecosistemi.

Nei giorni successivi Audubon si recò nei luoghi del massacro che si ripeteva ormai ininterrottamente da giorni. Infatti da alcune settimane le colombe usavano quell'area boscosa per la sosta e con regolarità ogni sera i cacciatori procedevano al massacro. Alle prime avvisaglie dell’imbrunire, ancora non si presentavano i colombi all’orizzonte, ma già l'area si riempiva di una moltitudine di persone con cavalli e carri, fucili e munizioni. Preparavano i loro appostamenti ai margini del bosco. Addirittura certi allevatori percorrevano oltre 150 chilometri con i loro trecento maiali, per farli ingrassare con le carcasse degli uccelli. Ai margini del bosco Audubon osservava le persone ancora in procinto di spennare e salare le colombe uccise la sera prima in pentoloni pieni di zolfo. Ma con l'approssimarsi dell'arrivo dei piccioni, le torme di cacciatori si armavano, alcuni di bastoni e torce, ma la maggioranza imbracciava i fucili. Aspettavano con crescente agitazione l'arrivo degli uccelli e, mentre il sole scompariva, finalmente il grido che rivelava l'arrivo dello stormo annunciato dal rumore di milioni e milioni di ali che sbattono producendo un rumore simile all'ululato di una tempesta... Poi il vento e gli spari, una apocalisse di piombo, un'immensa carneficina, migliaia di uccelli cadevano uccisi con i bastoni. Scrive Audubon: "Quando si accesero le torce lo spettacolo che si appalesò ai miei occhi era tanto incredibile quanto orrido. Gli uccelli colpiti si ammassavano a terra, intorno ai tronchi, formando grandi mucchi. Qua e là i rami cadevano per il peso degli uccelli posati, trascinandosi dietro alcune vittime. Tutto intorno a me c’era tumulto, furore e pazzia. Neanche cercai di fermare quelli più vicini a me. Non si notava neanche più il rumore dei fucili. Mi rendevo conto che qualcuno aveva sparato solo quando vedevo il cacciatore ricaricare il suo fucile. Nessuno si azzardava a entrare nel bosco: tutti uccidevano dai margini. Anche i maiali erano ancora nei recinti: il loro intervento era previsto solo per l’indomani. Senza fermarsi altre colombe proseguirono il volo. Solo poco dopo mezzanotte mi decisi a comprovare fino a dove si poteva percepire il rumore assordante del massacro. Inviai un mio assistente per il bosco, il quale tornò dopo due ore, dicendomi che a quattro chilometri di distanza si poteva ancora percepire chiaramente il frastuono. Il silenzio si rimpadronì dei boschi solo verso l’alba. Poco prima che il sole spuntasse, le colombe sopravvissute si levarono in volo, proseguendo la migrazione, mentre l’ululato dei coyote, dei lupi ci ricordava che non eravamo gli unici predatori nel bosco. Volpi, linci, puma, orsi, orsetti lavatori e puzzole si muovevano nel sottobosco in cerca delle colombe, mentre astori, aquile e altri rapaci si avvicendavano sugli alberi, intenti a dividersi le prede con gli avvoltoi. A quel punto anche gli uomini osarono avventurarsi nel bosco, fra le colombe morte, quelle ferite, quelle moribonde, quelle mutilate. Gli uccelli vennero raccolti, messi in mucchietti ordinati, finché ciascuno si impadronì di tanti quanti ne potesse ragionevolmente accatastare. Poi si lasciarono liberi i maiali, perché si nutrissero di quelle che rimanevano al suolo."

Nell'aprile del 1871 i terreni aridi e sabbiosi del Wisconsin centro-meridionale, caratterizzati dalla presenza di radi boschi di querce, furono teatro della massima concentrazione di questo popolo migratore in un sito di nidificazione. Il numero di uccelli stimati fu di ben 136 milioni, che ricoprì una superficie di 2.000 km2. Grazie alla recente invenzione del telegrafo tutti i cacciatori della nazione furono informati, per cui chiunque avesse avuto un'arma, fosse anche stato un bastone, raggiunse il Wisconsin per dare seguito alla mattanza. Il risultato fu che migliaia di cacciatori uccisero milioni di piccioni, che furono venduti e spediti grazie alla ferrovia al prezzo di 15-25 cent la dozzina (Matthiessen 1959).

Può sembrare inverosimile che una specie così numerosa potesse venire cancellata per sempre dalla faccia della Terra, ma purtroppo gli esemplari adulti erano facili da uccidere e i piccoli erano una leccornia. I ventrigli, le viscere, il sangue e persino gli escrementi di questi uccelli venivano venduti come rimedi medicinali contro i calcoli biliari, mal di stomaco, dissenteria, coliche renali, infezioni agli occhi, febbre e, dulcis in fundo, potevano curare l'epilessia. Il piumino veniva utilizzato per coperte e cuscini. Venivano catturati anche per il mercato dei richiami vivi. I cosiddetti sportivi dediti al tiro al "piccione" compravano non meno di un milione di uccelli l'anno, visto che per una gara di una settimana venivano sacrificati fino a 50.000 uccelli. Ovviamente, la sopravvivenza di questi animali nelle mani degli "sportivi" era nulla in quanto oltre a quelli colpiti direttamente, il semplice esercizio del lancio con l'apposito strumento provocava lesioni tali da comportare la morte degli animali.

Nelle competizioni sportive per poter aspirare ad eventuali premi bisognava superare la soglia dei 30.000 uccelli abbattuti. Verso il 1855 un commerciate di New York smerciava giornalmente 18.000 colombe. Nel 1869 ne furono catturate in una sola località sette milioni e mezzo.

Ovviamente, visto il mercato, la caccia al colombo divenne un'attività professionale per molte migliaia di persone. E grazie al telegrafo e alla ferrovia nessuno stormo era al sicuro, nessun sito di nidificazione fu al sicuro.

Per completare lo sterminio furono perfezionate apposite armi come cannoni e percussori per le mitragliatrici.

La guerra fu totale, spietata, gli stormi venivano localizzati e annientati con qualsiasi mezzo, persino con l'artiglieria pesante. Centinaia di carri merci venivano inviati con le carovane di cacciatori per essere riempiti con i cadaveri. Furono realizzate trappole con reti in grado di catturare oltre 2.000 esemplari alla volta. Nel 1878 nel Michigan, e precisamente a Petoskey, i cacciatori individuarono un sito di nidificazione lungo ben 64 km e largo da 5 a 16 km. Gli "sportivi" si avventarono con feroce efficienza in un'unica partita di caccia: furono sterminati un miliardo di esemplari. Nel 1896 rimanevano solo 250.000 mila colombi migratori. Questi ultimi giunsero per l'ultima volta in un unico stormo per nidificare in Ohio, nella foresta del Green River nei pressi di Mammoth Cave. I cacciatori, avvisati mediante telegrafo, arrivarono da tutti gli Stati. Il risultato fu circa 200.000 carcasse di animali raccolti, 40.000 esemplari feriti e mutilati; 100.000 non ancora svezzati, che non valeva la pena catturare, furono abbandonati. Forse meno di 5.000 esemplari sfuggirono alla strage. Ironia della sorte, gli animali uccisi dovevano venire trasportati con la ferrovia, ma in seguito ad un deragliamento tutto il carico di 200.000 carcasse fu abbandonato e lasciato putrefare sul terreno, in un profondo vallone a pochi km dal deposito ferroviario.

Nel 1857 vi fu chi saggiamente suggerì di mettere sotto tutela la specie, ma l’istanza fu rigettata perché: “la specie é estremamente prolifica e possiede boschi sconfinati come siti di riproduzione, non c’é nessuna forma di persecuzione che può metterla in pericolo”. Quarant’anni dopo la specie era ormai condannata all’estinzione: si calcolò che più di 3 miliardi di individui erano stati uccisi nel corso di un secolo. Forse sul finire dell'800, ne erano rimaste ancora alcune migliaia. Le si osservava ancora in piccoli stormi dispersi fra il Michigan, il Wisconsin, l’Indiana e il Nebraska. Ancora venivano implacabilmente cacciati, certo non più in maniera industriale con l’uso dello zolfo, delle reti, delle trappole e delle mazze: questi mezzi di distruzione di massa erano ormai inutili, le si abbatteva ormai solo con i fucili. Questa specie un tempo era stata padrona dei cieli americani, uno spettacolo così grande come una delle piaghe d’Egitto, ora grazie alla caccia era stata annientata. La sua scomparsa avrebbe cambiato il volto della natura americana. La profezia sulla scomparsa della natura dei nativi si avverava. Gli enormi stormi era stati ridotti in infinitesimali frattali. Questi uccelli, che si erano evoluti per vivere fra migliaia di loro consimili, non riuscirono ad adattarsi a questa nuovo status. Non più in grado di rispondere alle pressioni ambientali, a partire dai loro predatori attraverso il meccanismo dello stormo, colpite da incendi boschivi ed epidemie, le ultime centinaia di colombe rinunciarono semplicemente a riprodursi e si abbandonarono nel mistero dell'estinzione.

Nel 1900, l'anno in cui il Lacey Act divenne legge, fu osservato un solo piccione migratore selvatico, in Ohio.

L'epopea del popolo migratore libero si conclude il 24 marzo 1900, sempre nell'Ohio, contea di Pike, quando un ragazzo di 14 anni uccise una femmina: essa era l'ultimo esemplare libero di colomba migratrice.

Martha aveva preso quel nome in onore della vedova di Gorge Washington, era una star, ma deludeva i sui visitatori, era così anziana da avere difficoltà a muoversi. Come racconta Joel Greensberg nel suo recente libro A feathered river across the sky, c'era “chi tirava della sabbia nella gabbia per costringerlo a camminare”. Ma dal 1 settembre del 1914, all'età di 29 anni, nello zoo di Cincinnati, Martha, che era nata in cattività e che non aveva mai vissuto in uno stormo, simbolo di una guerra vinta vita dall'uomo, smise di subire queste umiliazioni.

Che dire in conclusione di questo racconto? Mi è capitato di ricevere una telefonata dal prof. Giuseppe Nicoletti, che mi ha fatto una domanda secca: "Sai chi è Rachel Carson?", vuoto totale, il nome lo conoscevo ed ero cosciente che era legato ad un volume... ma niente, non riuscivo a ricordare (maledetti neuroni). Ovviamente il prof. secco mi ha detto "Sei bocciato!!! ... vergogna". Aveva ragione... Mi sono vergognato... Il contributo di Rachel Carson alla cultura ambientalista è stato fondamentale. Il suo libro, Primavera silenziosa (Silent Spring), era stato pubblicato nel 1962 ed è stato ripubblicato in tutto il mondo, contribuendo alla causa dell'ambientalismo.

Eppure quando la Carson scrisse “perché tacciono le voci della primavera in innumerevoli contrade d'America? E' quanto cercherò di spiegare in questo libro...” era già stata colpita dall'amnesia storica, l'oblio aveva cancellato la memoria degli americani sugli infiniti stormi che oscuravano il cielo, miliardi di ali in movimento che dovevano riempire l'aria di un suono così potente da assomigliare ad un immenso boato... È difficile pensare ora ad un cambiamento più grande di questo che possa aver contribuito a trasformare l'America del nord in un paese infinitamente più silenzioso... dalla scomparsa del piccione migratore le primavere del secolo breve diventarono irrimediabilmente più silenziose per tutti noi.

Estinzioni: quando muoiono le specie(?)

Ferdinando Boero
Fondazione Dohrn, c/o Museo Darwin Dohrn, Napoli

Quante sono le specie sul pianeta terra?
Non abbiamo risposta a questa semplice domanda: non lo sappiamo. Ne abbiamo descritte circa due milioni ma continuiamo a trovarne di sconosciute e si stima che la risposta sia tra gli otto e i dieci milioni. Forse molte di più se consideriamo anche batteri, archea e virus.
Nell'arco della mia attività mi sono posto la domanda "quante specie di idrozoi ci sono sul pianeta?" e ho iniziato con il Mediterraneo. Quanti sono gli idrozoi (classe di Cnidari, cui appartengono, ad esempio, polipi e meduse, NdR) del Mediterraneo? L'elenco, redatto negli anni Cinquanta, ammontava a circa 200 specie; nel 2004 ho pubblicato, con alcuni colleghi, una monografia sugli idrozoi del Mediterraneo e la lista era raddoppiata. Con il proseguire degli studi sulla biodiversità il numero delle specie continua ad aumentare: invece di diminuire pare che la biodiversità aumenti.
Mi sono chiesto, allora, ma quante saranno le specie di idrozoi che magari non si trovano più? E già, se una specie entra in una lista faunistica, lì rimane, dando la sensazione che la biodiversità aumenti continuamente, man mano che si trovano specie sconosciute per l'area considerata ma conosciute altrove, o specie sconosciute per la scienza (le specie "nuove"... ovviamente per noi).

Paleontologia e estinzioni
La paleontologia studia le tracce fossili di vite passate e ricostruisce la storia della vita sul pianeta.  La storia di una specie inizia dal suo primo ritrovamento negli strati geologici e finisce con l'ultimo ritrovamento negli strati geologici successivi. Se una specie è presente, come fossile, in strati di 50 milioni di anni fa, e la sua presenza persiste fino a 20 milioni di anni fa, e poi non c'è traccia di lei nei reperti fossili successivi, si ritiene che essa si sia estinta 20 milioni di anni fa. Alcune linee evolutive arrivano fino a oggi, altre si interrompono. Come quella dei trilobiti, ad esempio. Le testimonianze fossili ci insegnano che in passato, quando non eravamo in giro a far danni, ci sono state cinque estinzioni di massa. Ora stiamo parlando della sesta, causata proprio da noi.
La paleontologia, quindi, ci insegna che l'estinzione è un fatto naturale: le specie muoiono come muoiono gli individui e, in questo contesto, potrebbero essere considerate alla stregua di meta-individui soggetti anch'essi all'invecchiamento e, infine, alla morte. L'estinzione altro non è che l'invecchiamento di una specie che, perso il vigore di un tempo, alla fine cede.
Si può morire di morte naturale, dopo una lunga vita, oppure si può morire per fattori accidentali, mentre si è ancora nel vigore degli anni (ad esempio per l'impatto di un asteroide), oppure si può morire assassinati, come pare stiamo facendo noi per le specie che uccidiamo in modo industriale con il prelievo, ad esempio con la pesca, o con la deliberata distruzione, come i disboscamenti per fare spazio all'agricoltura industriale. Un modo sottile di uccidere consiste nel "far morire" le specie, creando condizioni ad esse avverse senza prenderle necessariamente di mira. L'inquinamento non uccide: fa morire. E questo vale anche per noi.
La paleontologia, però, ci insegna che l'assenza dalle testimonianze fossili non necessariamente implica l'estinzione. I fossili viventi, infatti, sono specie (più spesso generi) presenti in reperti antichissimi e assenti nei reperti fossili più vicini a noi; questo viene interpretato come prova della loro estinzione. Fino a quando non si trovano esemplari vivi e vegeti che dimostrano come una linea evolutiva possa scomparire dalle testimonianze fossili pur continuando a vivere. Il caso più proverbiale è quello dei pesci con le pinne lobate, probabili progenitori dei tetrapodi, ritenuti estinti da milioni di anni e trovati vivi e vegeti alle Isole Comore.

Classificazione delle estinzioni
Di solito si pensa all'estinzione come alla morte di una specie, un evento noto come "estinzione finale". Ci sono però anche le estinzioni locali, che vedono la scomparsa di una specie da località dove prima era presente e la sua presenza, comunque, in altre località. Poi c'è l'estinzione commerciale, soprattutto nel campo della pesca. Le popolazioni di specie bersaglio possono essere talmente decimate dal prelievo, di solito industriale, che la loro pesca non è più economicamente vantaggiosa: si spende di più a prendere i pochi esemplari rimasti di quanto si guadagni a venderli.
L'estinzione, però, può anche essere il preludio all'evoluzione di nuove specie. Le specie presenti oggi sul pianeta condividono discendenza comune con le specie del passato. I loro antenati sono "morti" (sono estinti) ma continuano con loro. Si parla, in questo caso, di "estinzione per speciazione": una specie si estingue diventando un'altra specie, o più specie, nel caso che due o più popolazioni occupino areali disgiunti dove l'evoluzione fa il suo corso in modo indipendente, portando all'insorgere di nuove entità biologiche differenti da quella originaria.
Volendo tornare all'analogia con gli individui, l'estinzione per speciazione implica la scomparsa di una specie a seguito di una nuova venuta, una figlia: la nuova specie. Può anche succedere che la specie "madre" resti in vita e che le sue "figlie" evolvano mentre la "mamma" cambia poco nel corso del tempo: genitori e figli coesistono. Poi, se la separazione permane, anche la specie genitrice cambia e non può più essere considerata "antenata" delle specie che derivano dalla specie originaria: tutte derivano da un antenato comune.
L'estinzione per speciazione può essere brusca ma può anche avvenire gradualmente: la specie genitrice "diventa" la specie figlia senza che sia possibile trovare un momento in cui il cambiamento avviene. Se si guardano momenti evolutivamente lontani, però, è chiaro che si tratta di specie differenti, ma se si guardano momenti evolutivamente vicini non si trova il momento in cui l'antenato si estingue dando vita al discendente.

Estinzione e rarità: a lezione da Volterra
Per misurare lo stato di salute di una specie si può valutare la consistenza delle sue popolazioni. Una specie rappresentata da tanti individui distribuiti su una vasta area geografica può essere considerata in "buona salute". Se il monitoraggio di quelle popolazioni mostra una diminuzione del numero di individui e il restringimento delle loro distribuzioni, allora si può iniziare a parlare di situazioni problematiche. Prima ci sono le estinzioni locali, poi quelle commerciali (se la specie è di interesse commerciale) seguite dall'estinzione finale.
Se fosse sempre vero questo andamento nelle abbondanze, però, potremmo anche pensare che, valutando lo stato della biodiversità in una data area, tutte le specie rappresentate da pochi individui (le specie rare) siano in pericolo di estinzione. Se così fosse, la grande maggioranza delle specie dovrebbe essere sull'orlo dell'estinzione!
Se le valutazioni sono a lungo termine, però, si possono osservare casi come quelli descritti da Vito Volterra riguardo alle fluttuazioni di prede e predatori. Verbalmente, il modello di Volterra si può descrivere come segue: in un dato momento, la specie preda è molto abbondante e il predatore è raro. L'abbondanza delle prede favorisce il predatore e ne garantisce il successo riproduttivo, portando ad un incremento dell'entità delle sue popolazioni. La pressione del predatore sulle popolazioni della preda, dovuta all'aumento di "bocche da sfamare" nelle popolazioni di predatori, fa diminuire la numerosità della preda che, quindi, diventa rara. La rarità della preda riduce la disponibilità di risorse per il predatore che, quindi, va incontro a una riduzione delle sue popolazioni, tornando alla rarità. La rarità del predatore allenta la pressione sulla preda che, quindi, torna ad aumentare. E il gioco ricomincia.
Non è detto che sia sempre così, comunque. Un gatto portato su un'isola dove vivono uccelli che nidificano a terra e che non sono etologicamente adattati ad interazioni con predatori può sterminare la popolazione in pochissimo tempo: l'uccello in questione è uno scricciolo endemico di una piccola isola della Nuova Zelanda, sterminato da un gatto (e dai suoi figli) che faceva compagnia al guardiano di un faro. Una fine simile è toccata al famoso dodo di Mauritius. Si trattava, però, di specie terrestri, molto vulnerabili, e con habitat molto ristretto.
Questo non vale, però, per il tilacino, visto che Australia e Tasmania hanno dimensioni ragguardevoli.
Dato che le estinzioni documentate sono veramente poche, come possiamo avanzare l'ipotesi che una specie sia estinta?

Scavare nelle testimonianze tassonomiche e biogeografiche
Per studiare la biodiversità bisogna conoscere la letteratura tassonomica e questa può essere utilizzata come una sorta di informazione paleontologica.
Usando la letteratura sugli idrozoi come se fosse una testimonianza fossile, assieme ad alcuni colleghi, ho ricostruito la storia di ogni specie di idrozoo del Mediterraneo, attraverso la letteratura. L'inizio della storia tassonomica è segnato dalla descrizione della specie. Per gli animali la storia inizia nel 1758, quando Linneo pubblica la decima edizione del suo Systema Naturae. Da allora il numero di specie è sempre aumentato. Una specie viene trattata nella letteratura anche dopo la sua descrizione: i nuovi ritrovamenti ne ampliano l'areale di distribuzione, gli studi ecologici mostrano i suoi rapporti con l'ambiente abiotico e biotico, e poi ci sono studi fisiologici, etologici. Mettendo assieme tutti i lavori in cui una specie è trattata si ricostruisce la sua "storia tassonomica": la storia della sua conoscenza.  Una specie comune è citata spesso e ogni studio ecologico riguardante i suoi ambienti di elezione la riporta. Altre specie sono riportate meno frequentemente. Come già rimarcato, la maggior parte delle specie è rara e non è facile da trovare, altrimenti non ci sarebbero circa sei milioni di specie ancora da scoprire.
L'analisi della presenza di 398 specie mediterranee di idrozoi nella letteratura tassonomica ha rivelato che 53 specie (il 13% del totale) non si trovano da più di 40 anni. Tricyclusa singularis non viene ritrovata da più di un secolo e mezzo, cioè dalla sua descrizione originale nel Golfo di Trieste.  Tutte le citazioni della specie in letteratura non sono altro che citazioni della descrizione originale.
Non è facile documentare con certezza l'estinzione di una specie, a meno che si tratti di specie molto grandi e di facile identificazione, come i cetacei. Queste 53 specie di idrozoi che mancano all'appello potrebbero essere molto rare, gli ambienti in cui vivono potrebbero essere stati poco coperti dai campionamenti, o potrebbero essere rimasta inosservate a causa di scarsa competenza tassonomica da parte di chi ha analizzato i campioni di biodiversità. In questi casi, piuttosto che parlare di estinzione si può parlare di estinzione putativa: l'estinzione è un'ipotesi che deve essere vagliata. Per farlo bisogna cercare attivamente le specie che non si trovano più da decenni, andandole a cercare dove, in passato, sono state ritrovate. Se questi campionamenti mirati non portano a ritrovamenti, l'ipotesi dell'estinzione diventa molto solida.
La biodiversità del Mediterraneo ammonta a circa 17.000 specie. Se le estinzioni putative corrispondessero a quelle rilevate per gli idrozoi (13%) si potrebbe ipotizzare che circa 2.200 specie mediterranee potrebbero essere estinte.
Per gli inventari di biodiversità, invece, il numero delle specie è in continuo aumento, visto che non è mai successo che una specie fosse rimossa dalle liste, proprio come avviene per Tricyclusa singularis, mai più trovata ma sempre presente nelle liste di specie del Mediterraneo.
Non mi risulta che una specie marina mediterranea sia stata dichiarata estinta, a parte un piccolo mollusco maltese che poi è stato ritrovato vivo e vegeto.

Le liste rosse
Le liste rosse di solito comprendono specie abbastanza appariscenti che pare siano in pericolo di estinzione. Sui siti IUCN, comunque, le estinzioni documentate sono pochissime (circa 40), mentre sono relativamente tante le specie che potrebbero correre qualche rischio. Si tratta comunque di numeri veramente esigui se confrontati con l'entità delle specie attualmente descritte (circa due milioni) e con la stima del numero di specie che potrebbero essere presenti in natura (tra otto e dieci milioni). Papa Francesco, nel capitolo 34 di Laudato Si', parla di specie minacciate di estinzione e ci mette in guardia dall'esprimere troppa preoccupazione per il destino di specie molto "evidenti": Probabilmente ci turba venire a conoscenza dell’estinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e l’innumerevole varietà di microorganismi. Alcune specie poco numerose, che di solito passano inosservate, giocano un ruolo critico fondamentale per stabilizzare l’equilibrio di un luogo. Il collegamento tra le specie (la biodiversità) e il funzionamento degli ecosistemi ci mette in guardia da approcci emotivi che potrebbero indurci a eccessiva preoccupazione per cose poco importanti e a sottovalutazione di fenomeni di grande rilievo. Quale è il ruolo ecologico delle specie di cui tanto ci preoccupiamo? Francesco ci parla delle specie architrave (keystone) che, pur non essendo rappresentate da grandi quantità di individui, possono avere ruoli essenziali nel determinare la stabilità degli ecosistemi. Spesso si tratta di predatori che rimuovono gli individui di specie potenzialmente monopolizzatrici della biodiversità, permettendo che altre specie abbiano la possibilità di esprimersi ecologicamente.
Sarebbe interessante, a questo punto, "pesare" l'importanza delle specie minacciate in base ai loro ruoli ecologici ma si tratterebbe di un esercizio di scarsa attendibilità perché, per la stragrande maggioranza delle specie che hanno un nome, le conoscenze sono molto rudimentali: raramente conosciamo i cicli biologici delle specie, per non parlare della loro posizione all'interno delle reti trofiche, il che rende problematica la valutazione dell'impatto di possibili estinzioni.
Le liste rosse comprendono specie  un tempo comuni e ora diventate rare, oppure specie con areali molto limitati e costituite da popolazioni di piccole dimensioni, anch'esse, quindi, classificabili come "rare".

Le specie Lazzaro
Alzati e cammina, dice Gesù a Lazzaro, resuscitandolo. Le specie Lazzaro, dopo esser state considerate estinte a causa di assenza prolungata di ritrovamenti, sono "riapparse" in natura. La loro estinzione era soltanto presunta e non è detto che specie dichiarate estinte possano "tornare" spontaneamente alla ribalta, sovvertendo dichiarazioni di morte presunta.  

Ancora rarità: rischio o opportunità?
La rarità può essere soffusiva quando una specie è rara in molte località ma è comune in almeno un sito, oppure diffusiva, quando una specie è rara ovunque, all'interno del suo areale. La scarsa numerosità di individui implica che la specie sia geneticamente "povera" in termini di variabilità. Piccole popolazioni vanno incontro a colli di bottiglia che restringono la loro variabilità genetica e, in teoria, le mettono a rischio di estinzione. Il collo di bottiglia, però, potrebbe anche essere il risultato di selezione naturale che, eliminate espressioni negative di variabilità genetica, permette solo l'espressione di adattamenti vantaggiosi. A questo punto l'effetto fondatore (fondare una nuova popolazione a partire da pochi individui, con scarsa variabilità genetica) può innescare processi che possono portare persino all'insorgere di nuove specie.
Le specie rappresentate da molti individui sono spesso soggette a selezione stabilizzante e il flusso genico che collega praticamente tutti gli individui "appiattisce" la variabilità. Paradossalmente, quindi, l'evoluzione può diventare più "creativa" quando una specie è apparentemente in crisi, attraversa un collo di bottiglia e poi riparte, con l'insorgere dell'effetto fondatore. Il rischio di estinzione c'è, ma c'è anche l'opportunità di novità evolutive in termini di adattamento a nuove condizioni.
La già citata dinamica di predatore e preda nel modello di Volterra, si ripete nelle specie che vogliamo far estinguere con i pesticidi usati, in questo caso, come sostituti dei predatori.
Consideriamo un insetto nocivo, rappresentato da moltissimi individui, che viene combattuto con un pesticida. Le prime applicazioni di pesticida riducono le popolazioni ai minimi termini, tanto da eliminare la nocività della specie, ridotta ai minimi termini. Riprendiamo ora il concetto di collo di bottiglia: la specie, prima rappresentata da moltissimi individui, ora è diventata molto rara. I pochi individui rimasti sono stati selezionati dal pesticida e sono probabilmente ad esso resistenti. La resistenza era presente nella variabilità della specie, ma non era molto diffusa, tanto che la gran parte degli individui muore a seguito dell'applicazione. Restano solo gli individui resistenti che, a questo punto, iniziano a riprodursi. L'effetto fondatore fa sì che la resistenza sia trasmessa ai nuovi nati e se la specie ha grandi possibilità riproduttive si ricostituisce una popolazione in piena salute, cioè rappresentata da moltissimi individui tutti resistenti. L'applicazione dell'insetticida non dà i risultati sperati e bisogna ripetere le applicazioni per avere qualche effetto. Gli individui diminuiscono nuovamente, ma restano individui ancora più resistenti. Lo stesso succede con le popolazioni batteriche trattate con antibiotici.
La rarità diventa il momento più creativo nella storia evolutiva di una specie e, probabilmente, il passaggio da abbondanza a rarità e poi il ritorno ad abbondanza è il meccanismo evolutivo più diffuso.
In altre parole: prima di estinguersi, una specie è rappresentata da pochi individui. Ma non tutte le specie rappresentate da pochi individui sono destinate ad estinguersi.

Il lungo termine
Per capire lo stato della biodiversità occorre valutare il numero di specie presenti e le loro abbondanze relative, nei vari habitat in cui esse sono riscontrate. Se si compie un rilevamento in un dato momento, non è detto che la situazione resti invariata. Se il primo rilevamento viene preso come termine di riferimenti, ogni deviazione da quei risultati verrà ritenuta negativa a meno che il numero di rilevamenti non diventi sufficientemente ampio da garantire una vasta copertura spaziale e temporale, in grado di identificare fluttuazioni, declini, aumenti, scomparse, nuovi arrivi. L'interpretazione dei cambiamenti dipende dai rapporti tra le specie e dall'influenza del clima e delle pressioni antropiche dirette. Non è detto che ogni variazione sia negativa.
Le tartarughe marine e la Posidonia oceanica sono state a lungo considerate specie mediterranee ad alto rischio di estinzione. I siti di nidificazione delle tartarughe erano molto limitati e la posidonia si riproduceva solo asessualmente, ad indicare uno stato di disagio delle popolazioni. Con il riscaldamento globale questi rettili marini si sono spinti sempre più a nord e la specie, per quanto riguarda il Mediterraneo, è definita di "least concern" nelle liste IUCN delle specie a rischio. Se ne pescano tante perché... ce ne sono tante. Le fioriture di posidonia sono sempre più frequenti e la pianta marina ha ripreso vigore. Le due specie, probabilmente, sono favorite dall'aumento di temperatura che, invece, ha effetti devastanti sulle specie ad affinità fredda, come le gorgonie e molte spugne.
La valutazione dello stato della biodiversità richiede l'allestimento di osservatori che prendano in considerazione la presenza e l'abbondanza delle specie nei vari habitat, e le osservazioni devono essere ripetute regolarmente.

L'indice storico di biodiversità
L'Italia è il primo paese al mondo ad aver compilato la lista delle specie animali (marine, terrestri e d'acqua dolce) presenti nel suo territorio. Esiste anche una classificazione degli habitat, anche se grossolana, come proposto dalla Direttiva Habitat.
Incrociando la lista delle specie con quella degli habitat è possibile compilare liste di specie ritrovate in ogni tipologia di habitat che, quindi, diventa un'ipotesi: se un dato habitat è presente, allora in esso dovrebbero riscontrarsi le specie che, in passato, si sono registrate in quell'habitat.
Se un campionamento in un habitat porta al ritrovamento di tutte le specie registrate in quell'habitat nella storia dello studio della biodiversità, allora l'indice vale 1. Se non se ne trova nessuna allora è 0. Se si trovano specie non presenti nella lista, esse vanno semplicemente aggiunte alla lista. Raramente si troveranno valori estremi (o 0 o 1) e, più spesso, i valori saranno intermedi. Un habitat in cui, in una data località, l'indice vale 0.7 è più ricco di specie dello stesso habitat in cui, in un'altra località, l'indice vale 0.3.
Di solito, nelle valutazioni, si fa l'elenco di quel che si è trovato ma l'applicazione dell'indice storico di biodiversità ci dice non solo le specie riscontrate ma anche le specie assenti: quelle presenti nella lista che non sono state ritrovate nel rilevamento.
Se, a seguito di valutazioni temporali e spaziali dello stato della biodiversità in un dato habitat, esiste un certo numero di specie che non risulta mai presente, è possibile sollevare casi di estinzione putativa da investigare con maggiore attenzione.
Molte specie hanno stadi di resistenza e possono riapparire dopo lunghi periodi di assenza, altre specie possono estinguersi localmente ed essere reintrodotte da siti limitrofi dove sono sempre state presenti. Ogni situazione andrà affrontata caso per caso. Si possono proporre soglie temporali al periodo di assenza: per quanto tempo una specie non deve essere trovata perché se ne dichiari l'estinzione putativa? Ovviamente i tempi sono diversi per specie di grandi dimensioni e molto evidenti, rispetto a specie poco appariscenti e di piccole dimensioni, magari tipiche di habitat poco studiati o di gruppi poco studiati.
L'applicazione dell'indice storico di biodiversità a tutta la fauna e alla flora italiane porterebbe a lunghe liste di specie putativamente estinte se, ad esempio, si considerassero 40 o 50 anni di assenza di segnalazioni come campanelli di allarme.

Al lupo al lupo
Durante il secondo congresso mondiale sulla biodiversità marina, ad Aberdeen, una relazione ad invito trattò delle estinzioni in mare e il relatore parlò di sesta estinzione di massa. Alzai la mano e gli chiesi di nominarmi cinque specie marine estinte. Non minacciate, estinte localmente, estinte commercialmente, gli chiesi quali fossero le estinzioni documentate. Imbarazzo. Non ne seppe dire neppure una. Io ne avevo diverse, oltre a Tricyclusa singularis, ma lui no. Quale sarebbe la reazione di un politico che, a fronte di continui allarmi sulle estinzioni, ponesse la domanda che ho posto io al relatore di quel congresso, sentendosi rispondere che non lo sappiamo? Se fossi quel politico direi: ma sapete di cosa state parlando? Se qualcuno mi dicesse che milioni di persone moriranno per un determinato motivo gli chiederei quanti sono attualmente i morti. E se non mi sapesse rispondere perderei fiducia nel suo allarme. Il che è male, perché quel che ho trovato per gli idrozoi ci dice che le estinzioni ci sono eccome. Anche se bisogna capire se ne siamo responsabili.

Responsabilità dirette e indirette
Il riscaldamento globale causa l'aumento delle temperature superficiali degli oceani e dei mari e sono documentate mortalità di massa di animali marini dovute al surriscaldamento delle acque marine. Parallelamente, però, si assiste all'instaurarsi di specie tropicali in mari dove prima non erano presenti. In Mediterraneo sono stati registrati numerosi casi di mortalità massive dovute a ondate di calore ma, contemporaneamente, si registra l'instaurarsi di migliaia di specie tropicali che, oggi, formano popolazioni fiorenti dove prima erano assenti.
La biodiversità risponde ai cambiamenti. Le specie ad affinità fredda non sono morte per l'arrivo di specie ad affinità calda, sono morte per il caldo. Lo spazio ecologico vacante è stato riempito da specie preadattate alle nuove condizioni.
Gli impatti che hanno portato a questa situazione sono di origine antropica ma il riscaldamento globale non è stato generato direttamente nei luoghi dove il suo impatto ha causato problemi a specie con determinate caratteristiche: quelle specie non hanno problemi a causa di comportamenti degli umani che vivono proprio in quei luoghi. I ghiacci polari, ad esempio, non si sciolgono per le attività di popolazioni che vivono in prossimità dei poli: l'impatto è indiretto e le responsabilità sono su scala globale.
La rimozione di impatti diretti è relativamente facile, mentre è difficile rimuovere gli impatti indiretti. Le aree protette evitano gli impatti diretti ma non quelli indiretti che, viste le ripercussioni del riscaldamento globale, sono molto più drammatici.

Dall'emotività alla conoscenza
Come suggerito da Papa Francesco, l'estinzione possibile di specie carismatiche causa reazioni emotive che ci spingono a voler "salvare" le specie in pericolo, ignorando la complessità dei fenomeni che stiamo causando con le nostre azioni. La conoscenza della biodiversità è rudimentale anche solo in termini di specie conosciute ma è ancora più drammatica la scarsa conoscenza della biologia e dell'ecologia delle specie conosciute.
Dato che l'estinzione è un fenomeno naturale e fa parte del gioco dell'evoluzione, potremmo compiere enormi sforzi per salvare specie arrivate alla fine della loro storia evolutiva, mentre non ci curiamo di specie molto importanti che potrebbero essere ancora sconosciute, come le specie "keystone" ricordate da Francesco.

Ambientalismo e neoambientalismo, la faglia generazionale

Riccardo Graziano

Era l’ormai lontano 1948 quando, fra le macerie della guerra e la ricostruzione in corso, un gruppo di pionieri dell’ambientalismo decise di fondare il MIPN – Movimento Italiano per la Protezione della Natura, che qualche anno dopo avrebbe preso la denominazione di Pro Natura, attiva tutt’oggi e col vanto di essere la prima organizzazione ecologista italiana, con oltre settanta anni di attività.

In tutti questi decenni, sono state innumerevoli le istanze e le battaglie portate avanti da Pro Natura e da tutte le altre organizzazioni ambientaliste che via via si sono formate e strutturate, cercando in primo luogo di tutelare un patrimonio naturale sempre più aggredito e devastato in nome di un modello di sviluppo economico insostenibile. Ma ben presto ci si è resi conto che la sola tutela del patrimonio naturale non era sufficiente: "l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio" diceva Chico Mendes, ucciso per il suo impegno a tutela della foresta amazzonica. Per questo le associazioni ambientaliste hanno iniziato ad affiancare all’attività di tutela del patrimonio naturale quella di denuncia di un sistema socio-economico rapace e distruttivo, lanciando appelli sempre più accorati (e inascoltati) per attuare una svolta radicale verso una maggiore sostenibilità, perseguendo la ricerca del benessere senza infliggere danni permanenti alla biosfera che ci consente di sopravvivere.

Un messaggio, lo ripetiamo, pervicacemente ignorato dalle élite dominanti, ma anche dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica dei Paesi sviluppati, troppo intenta a farsi sedurre dall’illusorio benessere offerto dal capitalismo e da tutti gli altri “-ismi” suoi corollari: consumismo, sviluppismo, liberismo, edonismo, individualismo, globalismo e chi più ne ha più ne metta. Per decenni gli ambientalisti si sono sgolati a urlare avvertimenti e allarmi all’indirizzo di un sistema economico avido e predatorio, di “rappresentanti” politici inetti e collusi e di un’opinione pubblica distratta e menefreghista, collezionando sconfitte e frustrazioni, finché ….

Finché il danno ambientale e il rischio climatico sono diventati talmente macroscopici da essere evidenti e innegabili persino per i più distratti, eccezion fatta per i negazionisti di mestiere, che negano l’evidenza e portano avanti pervicacemente una miope difesa dei loro interessi personali a scapito del bene comune.

Questa presa di coscienza ha messo in moto la (ri)scoperta delle tematiche ambientali da parte delle generazioni più giovani, dopo decenni di oggettivo declino dovuto in buona parte all’assenza di coinvolgimento delle generazioni di mezzo, quelle appunto che, come si diceva poc’anzi, si erano cullate nell’illusorio benessere dell’era del capitalismo suadente e “felice”, prima che il suo vero volto fatto di sfruttamento e devastazione diventasse palese.

Ora, questa (ri)presa di coscienza ambientale e sociale da parte della generazione dei millennials – i giovani nati a cavallo del cambio di millennio – non poteva che far piacere agli anziani ecologisti boomers, quelli nati negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, stanchi e frustrati da decenni di battaglie ambientaliste di cui poche vinte e troppe perse e che avevano visto calare inesorabilmente l’attenzione dell’opinione pubblica su questi argomenti.

La (ri)nascita di un movimento ecologista sembrava di ottimo auspicio, ma la realtà attuale ha smorzato parecchio gli entusiasmi, almeno di qualcuno. Innanzitutto perché molti dei nuovi ambientalisti sembrano spesso atteggiarsi come se fossero i primi e gli unici a preoccuparsi delle sorti del pianeta, senza ombra di riconoscimento del grande lavoro fatto finora dalle associazioni che li hanno preceduti e che tuttora portano avanti la duplice attività di tutela del patrimonio naturale e denuncia dei danni ambientali in continuo aumento. Lo dimostra il fatto che una parte preponderante di loro, anziché incanalare il proprio entusiasmo e le proprie rivendicazioni all’interno delle associazioni ambientaliste già esistenti, attive da decenni e ben strutturate, ha preferito fondarne altre ex novo, con tutte le problematiche relative all’inesperienza e alla mancanza di basi solide su cui poggiare. Questi ragazzi avevano la possibilità di “camminare sulle spalle dei giganti”, apprezzando e portando avanti il lavoro che altri avevano fatto prima del loro ingresso nel mondo dell’ambientalismo, nonché del loro ingresso nel mondo tout court, cioè ben prima che loro nascessero. Invece hanno preferito partire da zero, senza ombra di riconoscimento di tutto il lavoro svolto prima, come se fosse inutile o sbagliato. E hanno anche scelto metodi di intervento e di lotta discutibili, troppo spesso scarsamente efficaci se non addirittura controproducenti.

Un giudizio troppo severo da parte di un anziano ecologista amareggiato e frustrato? Forse, ma proviamo a dare un’occhiata oggettiva all’azione dei principali movimenti neoecologisti.

I primi in ordine di apparizione e probabilmente tuttora i più numerosi sono i Fridays For Future (FFF), nati su ispirazione degli “scioperi del venerdì” iniziati dall’adolescente svedese Greta Thunberg, giovane attivista preparata e determinata, leader in grado di amplificare il messaggio ecologista e smuovere le coscienze. Ma dopo un boom iniziale davvero notevole e promettente, il movimento sembra asciugarsi lentamente, senza aver conseguito successi significativi e proporzionali alla ribalta mediatica ottenuta inizialmente, forse anche perché troppo legato a una “liturgia” che a volte sembra preponderante rispetto al messaggio e alle rivendicazioni, a partire proprio dalla consuetudine di reiterare gli “scioperi” per il clima al venerdì, giornata lavorativa che impedisce la partecipazione dei lavoratori. Ne consegue che a queste manifestazioni riescono a partecipare solo gli studenti e alcuni vecchi ambientalisti boomers, grazie al fatto di essere ormai in pensione…. Ma l’assenza delle generazioni intermedie, quelle mature e produttive, pesa molto e contribuisce a esacerbare quella frattura sociale e generazionale che ha provocato il declino del movimento ambientalista durato una trentina d’anni. Oggi ci sarebbe l’occasione di coinvolgere nella lotta quelle generazioni di mezzo che ben poco si sono interessate alle tematiche ecologiche, ma la scelta di manifestare in un giorno lavorativo ne impedisce o quantomeno non ne incentiva la partecipazione, contribuendo ad approfondire il solco generazionale. In più, FFF rifiuta la presenza di bandiere di appartenenza alle proprie manifestazioni. Ora, se questa cosa è comprensibile per quello che riguarda i vessilli di partito e persino dei sindacati, per evitare strumentalizzazioni, è francamente incomprensibile per quanto riguarda le bandiere delle altre associazioni ambientaliste, che con la loro presenza darebbero anche l’impressione di una comune volontà di intenti e di collaborazione. Il problema è dunque capire se tale volontà di collaborazione col resto del mondo ecologista è presente all’interno di Fridays For Future, cosa che a prima vista non sembra.

Altra associazione nata sull’onda neoecologista è Extintion Rebellion (XR) un movimento che “chiama alla disobbedienza civile nonviolenta per chiedere ai governi di invertire la rotta che ci sta portando verso il disastro climatico e ecologico”.  Sulla reale efficacia della “disobbedienza civile” ci sarebbe da discutere a lungo. Tuttavia, abbiamo anche sentito esponenti di XR teorizzare sul fatto che storicamente le rivoluzioni si sono innescate quando il 3 per cento della popolazione era determinata a farle partire. Anche sorvolando sull’ossimoro potenziale fra rivoluzione e nonviolenza, in termini strettamente quantitativi per l’Italia significa un milione ottocentomila persone disposte a “rivoluzionare” il Paese e le proprie vite in nome della svolta ecologica, un numero che ci pare francamente lontano rispetto all’attuale capacità di mobilitazione del movimento ambientalista nella sua interezza, figuriamoci se frammentato al suo interno. Inoltre, la componente quantitativa è necessaria, ma non sufficiente, come si dice in matematica. Occorre che i “rivoluzionari” siano di qualità, ovvero inseriti nei gangli strategici del sistema socioeconomico, per poter essere efficaci, qualcosa che difficilmente è appannaggio degli ambientalisti che, come abbiamo visto, sono in maggioranza studenti o pensionati. Dunque resta solo la “disobbedienza civile”. Auguri.

Per ultimi, è il caso di dirlo, sono spuntati i neoecologisti di Ultima Generazione, quelli diventati famosi perché vanno in giro a imbrattare monumenti per denunciare la mancanza di volontà politica nel contrastare i cambiamenti climatici. Definizione forse un po’ schematica e semplicistica, ma questo è il messaggio che loro stessi hanno contribuito a far passare nella maggioranza dell’opinione pubblica, senza peraltro ottenere nessun risultato concreto e alienandosi anche la (poca) simpatia che la stessa opinione pubblica sembrava iniziare a manifestare nei confronti degli ecologisti. Un’azione dunque non solo inutile, ma pure controproducente, che rischia di squalificare l’intero movimento ambientalista facendolo passare per una massa di teppisti fanatici. Del resto, protestare contro le brutture fatte dall’umanità imbrattando le cose belle fatte dall’umanità stessa è già una contraddizione in termini. Ma su una cosa questi ragazzi hanno purtroppo ragione: se si continua così, la loro sarà davvero l’Ultima Generazione.

Per questo sarebbe il caso di invertire la rotta quanto prima possibile e in maniera decisa, ma il sistema politico e socioeconomico globale non sembra intenzionato ad agire in questo senso, o almeno non abbastanza in fretta. E un’azione forte e determinata di un movimento ambientalista numeroso e coeso sarebbe auspicabile per spingere l’opinione pubblica e di conseguenza i decisori politici in questa direzione.

Ma sembra che i movimenti ecologisti non siano purtroppo così numerosi e, soprattutto, non si intravede la necessaria coesione, anzi la spaccatura fra ecologisti della prima ora e neoecologisti attuali sembra assai difficile da colmare. E pensare che già i nostri avi dicevano “se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse….”.

Ecco, i vecchi – pardon, anziani, pardon, diversamente giovani – ambientalisti “storici” sono qui, con tutto il loro bagaglio di lotte, esperienze e piccole vittorie, pronti a supportare questa nuova ondata ecologista, con rinnovato entusiasmo. Resta da capire se fra i giovani che hanno preferito fondare nuovi movimenti ci sia una reale volontà di ascolto e collaborazione, cosa che al momento non sembra. Ma saremmo felicissimi di essere smentiti.

Comunicare con i giovani nel 2023

Edoardo Ricci

PREMESSA
Questo articolo non ha la pretesa di trovare soluzioni a problemi complessi, ma di mettere sotto i riflettori come l’attività delle associazioni ambientaliste, specialmente di gruppi attivi a livello locale e di medio-piccole dimensioni, influenzi e potrebbe incentivare la partecipazione attiva dei ragazzi tra i 18 e 30 anni. Con questo articolo, noi giovani ci rivolgiamo al mondo delle associazioni classiche, per eliminare il pregiudizio antico che le nuove generazioni siano sempre più pigre e disinteressate alla vita sociale rispetto alle precedenti. Cerchiamo allora di capire come mai realtà storiche attive sui temi ambientali e di protezione della natura e del territorio stiano subendo un declino di iscritti o, nei migliori dei casi, una lenta crescita, e perché questo accade in un momento storico nel quale in televisione e sui giornali sentiamo ogni giorno che c’è sempre più attenzione sui temi dell’ecologia e della protezione dell’ambiente. Questo ovviamente è un ragionamento molto generalista, non tutte le piccole associazioni sono in questa situazione, e anzi ogni anno nuovi gruppi nascono e altri esplodono di attivisti e volontari, vedi i gruppi più politicamente rumorosi e mediaticamente seguiti come “Ultima Generazione”, “Extinction Rebellion” e “Just Stop Oil”. Come mai questi gruppi sono così dominanti nel dibattito pubblico? Cos’hanno questi movimenti di diverso per attirare tutte queste attenzioni? Ma prima mettiamo una base sulla quale costruire il nostro ragionamento: I giovani sono interessati all’ambiente? Ho intervistato diversi studenti appartenenti all’Alma Mater Studiorum di Bologna. Studenti di corsi di laurea diversi e quindi con background diversi, ma che nel corso del mio lavoro ho notato avere dei punti in comune nelle loro argomentazioni, punti che ora andremo ad analizzare uno a uno.
    
CI INTERESSANO I TEMI AMBIENTALI?
La risposta in breve sarebbe sì, ci interessano i temi ambientali, o quanto meno molto più che in passato. Fortunatamente questa sensibilità oggi è molto più diffusa, ma ci sono delle notevoli differenze in base a molti fattori sociali, noi prendiamo in considerazione l’età: Secondo ISTAT: “L’età rappresenta un’importante determinante della variabilità delle preoccupazioni ambientali. I giovani fino a 24 anni sono più sensibili delle persone più adulte per quanto riguarda la perdita della biodiversità (il 31,1% tra i 14 e i 24 anni contro il 19,4% degli over 55), la distruzione delle foreste (26,2% contro 20,1%) e l’esaurimento delle risorse naturali (30,3% contro 22,6%).” (https://www.istat.it/it/files//2023/05/TODAYCOMPORTAMENTIAMBIENTALI2022.pdf). O ancora da ANSA: “Gli adolescenti italiani si dimostrano sempre più sensibili ai temi che riguardano la sostenibilità, intesa maggiormente come rispetto e difesa ambientale (41%), ma anche presa in considerazione dal punto di vista sociale (23%) e alimentare (33%).”(https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/teen/2021/09/30/adolescenti-come-greta-thunberg-sempre-piu-sensibili-alla-sostenibilita-ambientale_c980ef7d-d593-4727-b742-64185a061c8f.html) Questi dati hanno avuto la loro rappresentazione pratica con tutto ciò che ha riguardato il movimento Fridays For Future nato grazie a Greta Thunberg. Una partecipazione giovanile senza precedenti, un fenomeno sociale e culturale che dobbiamo studiare bene: come ha fatto una ragazzina di soli 15 anni a mettere in moto un fenomeno così grande e complesso? Sicuramente trovarsi nel luogo giusto nel momento giusto ha aiutato, ma tantissimo di quello che ha dato forza a FFF è stata la sua capacità comunicativa e l’abile utilizzo di uno strumento estremamente potente: i social.

AL PASSO CON I TEMPI
C’è chi li vede solo come una perdita di tempo e un mezzo di disinformazione, ma se ci fermiamo a questa visione rischiamo di non apprezzarne il potenziale e di non vedere quanto oggi le grandi piattaforme siano parte integrante del tessuto socio-economico globale e italiano: “In Italia, a Gennaio 2022, su una popolazione residente di circa 59 milioni di persone, si contano circa 50 milioni di persone connesse a internet (84,3%) e circa 42,2 milioni di utenti attivi iscritti ad almeno un social media (71,6%).” (https://italiaindati.com/internet-e-social-network/) “In Italia, i giovani tra i 18 e i 30 anni, i primi cresciuti durante il boom dei social network e del web 2.0, sono il 14% della popolazione, la percentuale più bassa di tutta Europa. Di questi, il 91% è iscritto a un social network”. (https://www.repubblica.it/tecnologia/2012/11/21/news/italia_il_91_dei_giovani_social-47128623/).
In caso servisse un’altra prova di quanto siano rilevanti i social nella comunicazione, vi sfido a trovare un singolo personaggio pubblico o politico che non sia presente e attivo su Facebook o Twitter. È ormai evidente che stiamo vivendo un cambiamento nel modo di comunicare. Anche i giornali stanno spostando sempre di più le loro risorse online, spinti dalla crisi della carta stampata e dal sempre più frequente utilizzo dei social come mezzo di informazione. Per raggiungere le nuove generazioni e rendere più rilevanti le nostre associazioni, non possiamo ignorare queste piattaforme e questo cambiamento. Ogni social ha le sue regole, i suoi modi di esprimersi e soprattutto un target diverso: se vogliamo comunicare con un pubblico adulto, utilizzeremo principalmente Facebook; se vogliamo raggiungere i ragazzi, useremo Instagram, e così via. Ma come si applicano queste informazioni alle associazioni ambientaliste? Ci interessa davvero come opportunità? Ci deve interessare. Altro fattore emerso durante le interviste è quanto sia difficile per chi non è già all'interno di questo sistema conoscere associazioni, soprattutto locali e più silenziose; “Non sapevo che ci fosse anche a Bologna”, parlando di una delle associazioni ambientaliste più importanti e conosciute al mondo. È una risposta che già potrebbe farci riflettere, ma che mostra una criticità importante nel rapporto che abbiamo con l'esterno: non facciamo pubblicità. La parola "pubblicità" nel mondo del volontariato e delle associazioni senza scopo di lucro è spesso quasi malvista. Non c'è nulla di male nell'investire fondi e tempo nella promozione di ciò che si fa all'interno delle associazioni, anzi, ciò permette di far parlare i fatti e di raggiungere sempre più persone. I social sono straordinari in questo senso: una buona pagina social permette di valorizzare il proprio lavoro e di diffonderlo, raggiungendo un vasto pubblico in modo totalmente gratuito (in maniera anche molto più efficiente che appendendo volantini per strada). E la pubblicità non è l'unico servizio che possiamo ottenere; i social permettono anche di fare informazione di ottima qualità. Soprattutto su piattaforme che consentono contenuti più complessi, come YouTube, negli ultimi 10 anni sono nati moltissimi canali di divulgazione scientifica. Gli esempi, anche solo in Italia, sono moltissimi: da Dario Bressanini, Ruggero Rollini, il canale "Entropy for life" di Giacomo Moro Mauretto, "Barbascura X", "Zoosparkle" e Andrea Boscherini sono seguitissimi da ragazzi e adulti, che ne hanno riconosciuto un tipo di contenuto che manca altrove e che ha un valore. Il tema degli influencer è vastissimo, ma ci dimostra che quel tipo di comunicazione funziona ed è richiesta. Ancora una volta possiamo prendere ciò che sta già accadendo su internet come esempio virtuoso da portare nelle nostre associazioni.

CREARE UNA COMUNITY
Questa componente è molto variabile e cambia da gruppo a gruppo. Sicuramente possiamo dire che creare legami tra persone all'interno della stessa associazione è importantissimo. Quello che possiamo fare per incentivare questo meccanismo è non trascurare la salute sociale delle nostre associazioni. Organizzare eventi e cene è un modo per conoscersi tra soci, ma è anche importante creare canali come WhatsApp e Telegram per comunicare in maniera più o meno informale. La coesione è una chiave importantissima per attirare persone dall'esterno. Mi è capitato di parlare con ragazzi che in vari ambiti associativi si sono allontanati perché non si sentivano accolti o in contatto con il gruppo, o che dopo mesi non avevano ancora avuto modo di conoscere altri soci. Questa struttura permette di rimanere in contatto anche quando, come spesso accade a noi studenti, ci si sposta o trasferisce per motivi di lavoro o studio. Il senso di appartenenza rende più solida anche in quei casi la partecipazione e il legame con l'associazione. Un discorso simile va fatto tra le diverse associazioni: organizzare momenti di scambio di idee e di socializzazione, oltre a progetti e collaborazioni, permette di avvicinare i vari gruppi e prevenire il fenomeno, molto frequente tra le piccole associazioni locali, di rivalità e campanilismo, che vanno poi a minare la credibilità del gruppo.

UNIVERSITÀ E SCUOLE
Un altro capitolo da aprire quando si parla di coinvolgimento giovanile e di educazione ambientale. Iniziamo parlando delle università, in particolare per quanto riguarda le associazioni con un'inclinazione più orientata alla ricerca e alla protezione della natura rispetto alla sola divulgazione. La possibilità di collaborare con i vari atenei è un'ottima occasione per collegare sempre meglio il mondo accademico e scientifico alle persone comuni e per creare progetti con una utilità sia scientifica che sociale. Negli ultimi due anni, la mia attività di rappresentante degli studenti mi ha permesso di parlare molto con i ragazzi di Scienze Naturali e Scienze Biologiche; molto spesso mi è stato segnalato il desiderio di partecipare ad attività extracurricolari di interesse naturalistico e di avere difficoltà nel venire a contatto con queste opportunità. Il ruolo che le associazioni potrebbero avere potrebbe essere proprio quello di intercettare questo interesse e organizzare assieme a professori e agli atenei attività di citizen science, proporre tirocini, tesi di laurea e stage. Organizzare questo tipo di eventi è anche un ottimo modo per farsi pubblicità davanti a un pubblico già interessato al tema Natura, diventando un catalizzatore di opportunità per i giovani appassionati e uno stimolo per coloro che stanno cercando di entrare in questo mondo. Un esempio di grande successo di cui ho avuto esperienza diretta sono i campi di volontariato come quelli organizzati dal Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, ai quali partecipano sia adulti che ragazzi con un lodevole successo. Per quanto riguarda invece le scuole, soprattutto la primaria e l'infanzia, si sta vedendo un forte interesse e una sensibilità ambientale importante nei docenti, che sempre più spesso sono loro i primi a contattare le associazioni locali per creare attività per i giovanissimi. Meno scontata è la situazione alle scuole medie e superiori, dove le Scienze già vengono insegnate poco, e quelle Naturali ancora meno. Potremmo noi, come lobby ambientalista, chiedere che questa situazione cambi? Forse sì, ma è un lavoro che richiede coraggio e una forte coesione. Vedremo nei prossimi anni se si riuscirà a raggiungere tale obiettivo. Uno dei ruoli sociali che le nostre associazioni dovrebbero avere è proprio quello di tradurre e portare alle masse le scoperte e gli insegnamenti che il mondo scientifico ci offre, e riuscire ad entrare nelle scuole e nelle università ci permette di colmare una carenza educativa nella scuola italiana, offrendo una migliore opportunità di apprendimento per i ragazzi.

CONCLUSIONE
Il filo conduttore dietro a questa piccola ricerca è sempre uno solo: se si vuole rendere inclusiva e aperta a tutti la partecipazione alla vita associativa, l'unico modo per farlo è discutendo di politiche giovanili, comunicare con i ragazzi e capire nei singoli centri cosa loro vogliono portare alla collettività e cosa la collettività può offrire loro. Alcune associazioni già fanno questa cosa, e i risultati si vedono. Anche questo articolo da solo mostra che da parte di molti c'è un interesse ad avvicinarsi ai giovani, ma accettare il cambiamento e le novità spesso è più difficile di quanto vorremmo credere e alcuni fanno ancora molta fatica. La parola chiave è dialogo.

Paleo e neo-gretini uniti nella lotta ai cretini

Ferdinando Boero

Quarant'anni fa parlavamo delle generazioni future che avrebbero ereditato da noi il debito ecologico causato dal nostro momentaneo benessere. Una volta udii un'obiezione a questa preoccupazione: perché dovremmo preoccuparci delle generazioni future? Cosa hanno fatto per noi?
Le generazioni future sono arrivate e si sono accorte del debito ereditato, e molti di noi "anziani" stanno reagendo alle loro rimostranze come quel signore che si rifiutava di preoccuparsi per loro. Le obiezioni alle proteste giovanili si concentrano su Greta Thunberg e, in Italia, chi protesta per il clima viene ascritto, con non celato intento derisorio, alla categoria dei gretini. Gli appellativi dedicati ai giovani che protestano sono tutti di decisa denigrazione: eco-ansiosi, eco-terroristi, eco-catastrofisti. Il prefisso eco- è, ovviamente, quello di ecologia, non quello di economia.
Questo livore forse cela un senso di colpa, oppure è solo egoismo. Il bello è che gli "anziani", dal Papa con la sua Enciclica Laudato Si', ai rappresentanti dei paesi di tutto il mondo, sono unanimi nel'ammettere che  la situazione ambientale, a livello planetario, è grave. Hanno iniziato a farlo nel 1992, con la Convenzione di Rio de Janeiro sulla biodiversità, messa a rischio dagli impatti antropici, e hanno continuato con convenzioni ulteriori, con protocolli, con dichiarazioni sempre più allarmate. Il tutto basato sulle risultanze della ricerca scientifica sul clima e sulla biodiversità. Preso atto dei moniti della comunità scientifica, i decisori hanno deciso di accettare di essere preoccupati per lo stato del pianeta.
Le ansie degli ecoansiosi, quindi, si basano sulle risultanze delle ricerche della comunità scientifica, non su loro convinzioni campate in aria. Che ne sanno, loro, di ambiente? Beh, tanto quanto la gente comune che non se ne occupa professionalmente. Ma se i grandi di tutto il mondo sono preoccupati per lo stato del pianeta, è normale che lo siano anche i giovani: dovrebbero esserlo tutti, non solo i giovani!

Fermiamoci un attimo a questo primo atto di questa storia. Chi nega che ci sia un problema dice che non tutta la comunità scientifica è d'accordo, e porta come prova le opinioni di fior di scienziati. In Italia i paladini di questa sdrammatizzazione della situazione sono Franco Prodi e Antonino Zichichi. I due, però, non sono esperti di clima. Prodi ha pubblicato un solo articolo scientifico in cui sostiene che le preoccupazioni siano infondate, ma l'articolo è stato poi ritirato dalla rivista perché... infondato. Zichichi... lasciamo perdere: ha perso la sua reputazione negando la scientificità dell'evoluzione. In fisica sarà un campione, ma in altri campi, dalla biologia all'ecologia, la sua opinione vale quanto quella di un avventore al bar che abbia ecceduto nel consumo di bevande alcoliche. Riformuliamo la posizione della comunità scientifica: gli scienziati che si occupano di clima e di ambiente sono unanimemente convinti che le nostre attività stiano cambiando lo stato del pianeta e che il cambiamento sia a noi sfavorevole. Una parte della comunità scientifica che NON si occupa di clima e di ambiente, è scettica al riguardo. Ma, aggiungo io, non riesce a pubblicare articoli scientifici che possano confutare le posizioni di chi, invece, dice che i problemi ci sono.
In una situazione del genere, a chi dar retta? Beh, i decisori non hanno avuto dubbi, visto che le convenzioni, i protocolli e altri gesti formali sono stati sottoscritti. Le obiezioni degli scettici sono infondate: i motivi per essere ansiosi ci sono tutti.

L'altra obiezione che si oppone ai giovani che protestano è: ma loro, cosa propongono? Non hanno proposte!!!! Anche questa obiezione è infondata. Non sono i giovani a dover fare le proposte, sono gli scienziati e i tecnologi a doverlo fare. Chiedere che siano loro a farle equivale a chiedere a un malato: hai un bel lamentarti per i tuoi malesseri, cosa proponi per eliminarli? Ma il malato può solo dire di star male, non gli si può chiedere di fare quel che dovrebbe fare il medico e magari, visto che non sa come rispondere, dirgli che non ha motivo di lamentarsi!
Questa stupida opinione, inoltre, è confutata dal fatto che molti paesi, e l'Unione Europea per prima, hanno lanciato programmi che si prefiggono la sostenibilità e la decarbonizzazione. L'abbandono dei combustibili fossili e lo sviluppo di metodologie che producano energia da fonti rinnovabili fa parte del programma di molti paesi: vento, sole, geotermia, onde, correnti, fiumi sono fonti di energia che non prevedono la combustione e la produzione sostanze climalteranti, prima di tutto l'anidride carbonica. Volete tornare alle lampade a petrolio, dicono... e invece è esattamente il contrario: il fine di queste proposte è di uscire finalmente dall'era della combustione, mentre chi non vuole farlo è ancorato al passato.
I giovani non propongono proprio niente: chiedono agli anziani che diano seguito alle loro preoccupazioni e che sviluppino il rinnovamento che dicono di voler sviluppare. Le soluzioni sono a portata di mano, e ci sono anche grandi investimenti per migliorarle: il nostro paese ha ricevuto 209 miliardi per realizzare il PNRR che altro non è che la versione italiana del Next Generation EU e dell'European Green Deal. Next Generation vuol dire proprio "prossime generazioni" e, quindi, i "gretini". E il nuovo patto verde significa proprio che si deve cambiare. Il Papa, in Laudato Si', chiede la conversione ecologica, e l'Unione Europea, con il New Green Deal, si prefigge la transizione ecologica. Quell'eco- che viene associato ad ansie, terrorismo e paranoie, è in effetti l'ispiratore delle nuove politiche. Bisogna solo attuarle. Ed è quello che chiedono i giovani.

Altra obiezione: è inutile che lo facciamo noi, ditelo alla Cina e all'India. Noi non possiamo pensare di cambiare le cose in modo unilaterale. Come dire: visto che ci sono Cina e India, e molti altri paesi, che inquinano anche più di noi, è inutile che ci comportiamo virtuosamente. Tanto vale continuare così. Un ragionamento spregevole. Anche perché la Cina, l'India etc. producono in gran parte le merci che compriamo proprio noi. Abbiamo chiuso le fabbriche in occidente e le abbiamo aperte in oriente per due motivi principali: costo bassissimo della manodopera e assenza di leggi che proteggono l'ambiente. Abbiamo ipocritamente trasferito le produzioni inquinanti dove l'inquinamento non è un reato ma, così facendo, abbiamo continuato a contribuire, per procura, al degrado dello stato del pianeta. La globalizzazione dell'economia deve fare i conti con la globalizzazione dei nostri impatti: l'economia globale genera il cambiamento globale. Sono i giovani ad averlo determinato? Loro stanno subendo queste scelte. Hanno tutte le ragioni per protestare. E poi: sono i paesi che più hanno goduto del "miracolo" del benessere a dover fare i primi passi verso la sostenibilità, anche approvando leggi interne che abbiano portata globale. Tipo: in Italia non si importa nulla che sia stato prodotto infrangendo le leggi in vigore in Italia. Se un paese produce beni e servizi con procedure per noi illegali, quei beni e qui servizi non sono esportabili da noi: non compriamo merce prodotta da chi inquina per produrla.
Ci siamo accorti con il Covid quanto dipendiamo da "quei paesi". Dobbiamo innovare tecnologicamente e sviluppare nuovi modi di produrre e di consumare, senza consegnarci con mani e piedi legati a chi controlla la produzione di beni per noi essenziali. Pensavano di sfruttarli e ora sono loro a tenerci in pugno. Chi ha determinato questa situazione merita le riprovazioni dei giovani e deve rimediare ai propri errori.

L'ultima obiezione posta ai "gretini" consiste nell'accusarli di dire no a tutto. Questa è proprio buona. I "gretini" dicono no a cose che, evidentemente, ci hanno portato nella situazione attuale. Dicono sì a tutte le innovazioni che stanno iniziando ad evolvere e che ci permetteranno di mettere in atto la transizione ecologica. Chi accusa i "gretini" di dire no a tutto, in effetti dice no a tutte le innovazioni e vuole restare al lume a petrolio (la combustione).

Conclusioni
Ho 72 anni, ma quel che dicono i giovani adesso lo dicevo anche quando avevo la loro età, e lo sostengono tutte le associazioni ambientaliste da altrettanto tempo, Pro Natura per prima. Non eravamo in molti a dirlo, e la situazione era meno grave di oggi, ma c'erano già tutti gli elementi per capire dove saremmo arrivati. Molti "vecchi" avvertono della gravità della situazione da quando erano "giovani" e , quindi, oggi restano dalla parte dei giovani attuali che, però, proprio come i vecchi, non sono una categoria monolitica. I "gretini" non sono la maggioranza dei giovani (e dei vecchi). Sono, purtroppo, una minoranza. In effetti, comunque, le avanguardie sono sempre minoranze, ma possono fare la differenza.
L'importante non è avere ragione ma riuscire a farla valere. I paleo-gretini (noi vecchi) e i neo-gretini (i giovani) cercano di dar forza alle loro opinioni anche con atti dimostrativi ma la dura realtà insegna che, in Italia, essere a favore dell'ambiente non paga da un punto di vista elettorale. Forse anche perché chi non vuole la conversione e la transizione ecologica (prima di tutto chi basa la sua ricchezza su pratiche produttive inquinanti) ha enormi capitali a disposizione e li usa per generare consenso attraverso i molti media che controlla.
Poco male, per la natura. Non siamo così forti da poterla alterare in modo irreparabile, anche perché dipendiamo dalle condizioni che stiamo alterando, con chiaro intento suicida: quando le avremo alterate oltre i limiti di nostra tolleranza delle nuove condizioni (da noi generate) saremo nei guai e smetteremo di alterarle. La natura troverà altre soluzioni. I gretini, infatti, non chiedono che si salvino delfini, panda e balene, sono preoccupati per il loro futuro di umani. Vogliono un benessere che sanno sarà loro negato a causa dell'egoismo delle generazioni che li hanno preceduti.

La disobbedienza di Ultima Generazione per chiedere giustizia climatica e sociale

Giordano Stefano Cavini Casalini

Negli ultimi anni spesso viene osservato come ci sia una sempre crescente attenzione ed attivazione cittadina, specialmente da parte della fascia più giovane, verso le tematiche ambientali; la nascita di movimenti e campagne quali Friday for Future, Extinction Rebellion e Ultima Generazione ne sono un’emblematica prova.
In realtà tale osservazione, seppur vera, si rivela troppo semplicistica e quindi incapace di fornire un esauriente analisi. Storicamente, nel nostro Paese, così come negli altri, le tematiche climatiche sono sempre state al centro delle lotte territoriali, strettamente connesse e spesso di fatto inscindibili da tematiche sociali.
Tutela del suolo, salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, prevenzione del rischio idrogeologico, accesso all’acqua potabile ed al cibo, diritto alla terra e di accesso alle risorse naturali, sono solo alcune delle tematiche facenti capo più o meno indirettamente all’ambiente. All’interno di questo corollario di voci possiamo allora inserire molte campagne storiche, di lotta e rivendicazione dei diritti promosse dai popoli aborigeni (tra cui il movimento Zapatista), la cui nascita è ben antecedente agli anni 2000. Da osservare come anche organizzazioni, internazionali e non, molto conosciute e di stampo dichiaratamente ambientale (WWF, Legambiente, Greenpeace) siano tutte nate tra gli anni 60 ed 80 del secolo scorso; aggiungiamo pure che la fondazione dell’IPCC (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) è avvenuta nel 1988.
Insomma, sembra che l’attenzione per il clima ci sia sempre stata se prendiamo in analisi i fatti storici, ricordiamoci come il primo rapporto scientifico effettivo sui limiti e le future criticità dell’attuale modello di sviluppo capitalista risalga ad inizio anni 70 (The Limits to Growth).

Oggi osserviamo solamente e semplicemente il continuo dello scontro, avviato ormai oltre 50 anni fa, tra la volontà cittadina e l'inazione istituzionale. Trascinare un conflitto per così lunghi anni porta inevitabilmente alla sua esacerbazione e comporta quindi la naturale nascita di movimenti sempre più dirompenti e disposti ad utilizzare modalità di manifestazione estrema, come Ultima Generazione.
Contemporaneamente il temporeggiare delle istituzioni ha reso i danni derivanti dal collasso climatico (siccità, ondate di calore, fenomeni meteorologici estremi, ecc...) ineludibili, frequenti e pericolosi per tutti noi ed in particolar modo per le fasce di popolazione più giovani, rendendole di conseguenza anche le più interessate, attive e radicalizzate nell'affrontare il problema.
Ancora in tv, in radio ed in politica si continua troppo spesso a parlare di maltempo ed eventi imprevedibili, riguardo ad inondazioni, incendi, trombe d'aria, grandinate con chicchi di ghiaccio grossi come palline da tennis e temperature estreme sopra i 50 gradi, tutti eventi catastrofici e mortiferi. La realtà però è diversa, la verità è che i nostri rappresentanti e governanti hanno scelto deliberatamente questo scenario, con la consapevolezza di renderlo ancor più grave in futuro, hanno deciso di esporre tutti noi ad un pericolo ben noto ed evitabile.
Di fronte alla scelleratezza della nostra classe dirigente, il dialogo ed il confronto attraverso le modalità legittimamente previste dalla legge, come manifestazioni, petizioni e referendum, già tutte largamente tentate, si è rivelato inefficace alla risoluzione del problema. In realtà non dovremmo esserne stupiti, quanti di noi non hanno mai ritenuto che dietro a determinate scelte politiche si celassero interessi economici? Chi di noi è pienamente convinto che l'unico obiettivo dei nostri rappresentanti sia quello di adempiere alla volontà popolare? Molti tentennerebbero di fronte a queste domande, ma per qualche strano bias cognitivo, si è comunque portati a ritenere necessario, da parte dei cittadini, un comportamento corretto ed aperto al dialogo verso le istituzioni... Un po' come dire che all'interno di una partita a carte truccata, non è lecito ribaltare il tavolo di gioco, ma solo provare comunque a vincere seguendo le regole.

I cittadini aderenti alla campagna di disobbedienza civile non violenta di Ultima Generazione, stanchi, disillusi e preoccupati per il proprio futuro, non potendo più concordare con questa vaga idea di perbenismo, consci del dissenso che poteva genere la loro azione, con coraggio hanno scelto, letteralmente, di ribaltare il tavolo da gioco. Ovviamente non sono stati i primi, la strada era già ben tracciata da grandi nomi del passato come Mandela, Gandhi ed il movimento delle suffragette, giusto per citarne alcuni; si uniscono a loro, nel presente, lavoratori in sciopero, occupanti degli squat, studenti in rivolta e chiunque abbia scelto di opporsi concretamente ad un sistema iniquo rivalorizzando il significato della parola "lotta"; un termine così ricorrente da essere ormai svalutato, perché il dissenso, non necessitando di permesso, si agisce, così come un diritto, non necessitando di concessione, si conquista.
Ultima Generazione ha fatto proprio un modello d'azione forte ma pacifico, si tratta di una scelta strategica, il giusto compromesso all'interno di un sistema che ancora si descrive democratico e libero. Non abbiamo accuse da esprimere verso chi agisce attraverso altre modalità di contrasto; in fondo del nostro passato amiamo spesso ricordare un grande esempio virtuoso di guerriglia armata (in vero era ben più di questo), sto parlando della lotta partigiana: essa era ben giustificata all'interno del periodo storico in cui è nata, una realtà dittatoriale in cui libertà e diritti erano totalmente cancellati.
Contemporaneamente apprezziamo e riconosciamo il ruolo di coloro che investono energie e tempo nell'informazione e sensibilizzazione; far conoscere il problema ed i rischi legati al collasso climatico, così come le possibili soluzioni da adottare, è necessario. Però a chi crede che questa sia la strategia migliore e quindi l'unica realmente valida per raggiungere un cambiamento, chiedo di riflettere su quanto tempo ci resta per invertire la rotta (il climate clock, nel momento in cui scrivo, ci ricorda che sono al massimo 5 anni e 330 giorni) e quanto, obiettivamente, credono di doverne ancora impiegare per raggiungere il numero minimo di persone informate necessario ad operarlo. Siamo così certi di riuscire da soli?

Ottenere giustizia climatica richiede un radicale cambio di sistema, culturale, economico e politico; passa da un nuovo modello di ridistribuzione del potere e necessita di un vero ottenimento di equità sociale. È indubbiamente la sfida più grande e complessa mai incontrata dalla nostra specie, le strategie da mettere in campo per la sua realizzazione sono innumerevoli e complesse, abbracciano tutto il possibile, dalla vita individuale all'organizzazione collettiva, dalla gestione dell'orto di casa a quella del territorio nazionale, e si snodano attraverso un sapere interdisciplinare. Appare quindi ovvio come, al pari delle soluzioni da adottare, anche gli strumenti con cui intervenire siano molteplici; non è possibile pensare di raccogliere tutto in un'unica visione o modo d'azione. La disobbedienza dei cittadini di Ultima Generazione per raggiungere l'obiettivo ha bisogno del supporto di chi informa, di chi lotta e di chi ha scelto di vivere in campagna.
Disobbedienza civile non è infrangere la legge, disobbediente è chi agisce contro ed a contrasto di un modello sbagliato, minandone e mettendone in discussione leggi, meccaniche, valori e costumi.

Noi tutti vogliamo creare un modello diverso, alla base di ogni struttura vi sono determinati valori e principi; il mondo nuovo che desideriamo e di cui necessitiamo dovrà essere, sopra ogni altra cosa, solidale. Diamo quindi valore a questo elemento cardine iniziando a metterlo in pratica in prima persona, sostenendo chi agisce per il bene comune, anche se non nello stesso modo impeccabile, perfetto, inoppugnabile di come lo facciamo o faremmo noi.

Che noia questi ragazzi... Protestino con più garbo!

Valter Giuliano

Interprete dell’insofferenza verso i flash mob della nuova generazione ecologista, Giovanni Orsina è intervenuto sulle pagine del quotidiano La Stampa (22 maggio). Offrendo uno spunto per riflettere...

Prologo
- Che noia Signora questi profeti di sventura! Questi giovani che non sanno più divertirsi e si preoccupano del futuro del Pianeta. Che per questo si incatenato, imbrattano opera d’arte, monumenti, fontane! Pensi, addirittura il Palazzo del Senato!
Cribbio, sono persino riusciti a infastidire Chicco Mentana! E a irritare il vignettista Osho!
Una guardia giurata è addirittura dovuta intervenire estraendo la pistola, e a Firenze meno male che c’era “Rambo” Nardella...
Questi ragazzotti, “profeti di sventura” non si rendono conto che non li sta più a sentire nessuno?
E poi, che diamine, sono davvero ecovandali, vanno messi in gattabuia. Per fortuna ho sentito che hanno deciso pene più severe.
Imparino a protestare con un po’ più di garbo, senza dare troppo fastidio.
Cambiamenti climatici... è sempre capitato: un giorno c’è il sole, l’altro piove, poi c’è caldo e poi c’è freddo, che sarà mai? I ghiacciai si sono sempre sciolti, lo dice la Storia geologica, e poi, zac!, è arrivata un’altra glaciazione... Le alluvioni? Bisognava pensarci prima, scavare i fiumi dalla ghiaia, rafforzare gli argini, magari farli in cemento che resistono meglio.
Sa cosa diceva, giustamente, Margaret Mead (come non sa chi è? Si informi...): «Il profeta che non riesce a presentare un’alternativa sopportabile e ciò nonostante annuncia l’Apocalisse è parte della trappola di cui postula l’esistenza».

- Peccato Signore, ha incontrato la Signora sbagliata, che non è affatto in sintonia con lei e non vuole affatto condividere la sua ignoranza....
Sa che hanno ragione loro?
Abbiamo sin qui imbrattato il mondo, inquinato le acque, coperto di smog i monumenti, umiliato il Senato – dentro – con frequentatori indecenti.
Il fatto, poi, è che alternative il profeta le annuncia da tempo insieme ai pericoli. Ma prima ancora che venissero a noia, costretti a ripetersi perché inascoltati, chiedevano con insistenza di cambiare radicalmente il progetto di futuro. Perchè oggi, senza una drastica riconversione, stiamo procedendo dritti dritti verso la fine dell’Antropocene.
Come diceva il profeta Guido Ceronetti, corriamo veloci verso Eschede. Che non è solo la sede dal recente campionato europeo di calcio, ma il luogo in cui deragliò tragicamente, il 3 giugno 1998, un nuovo convoglio ad alta velocità partito da Monaco per Amburgo. L’alta velocità, l’ultimo grido della tecnica più avanzata d’Europa, procurò 101 morti e 88 feriti gravi.
Noi siamo un po’ tutti sulla stessa linea. Ad Amburgo è difficile che ci arriviamo.
Anche noi rischiamo di fermarci a Eschede. (cfr V.Giuliano, G.Caresio, In un mondo che corre verso Eschede. Amichevole colloquio con Guido Ceronetti, Parchi n.60 / 2011).
E poi vede, a proposito di alluvioni e dissesto idrogeologico, ad esempio, i “profeti” – capaci di guardare lontano a differenza della miope classe dirigente imprenditoriale e politica – le soluzioni le hanno delineate e suggerite da tempo.
Per restare in Italia, già Antonio Cederna – uno dei profeti inascoltati insieme ad Aurelio Peccei, Girgio Nebbia, Giorgio Bassani, e tanti altri – mise sull’avviso e indicò le misure suggerite dalla Commissione Intergovernativa De Marchi. Qualcuno diede loro ascolto? È così che abbiamo contato centinaia di morti e lasciato l’insicurezza del territorio senza rimedio alcuno. Anche oggi il ministro Fitto stralcia dal PNRR tutto il capitolo della difesa idrogeologica, quasi non fosse il maggior investimento di cui il fragile territorio della penisola avrebbe bisogno...

Lo scenario
Questo è lo scenario che vive l’Italia con improvvidi governanti che si iscrivono, di fatto, alla lista dei negazionisti, a braccetto con tutta la destra europea.
Quella, per intenderci, che difende la distruttiva pratica della pesca a strascico responsabile della desertificazione dei mari, e che fino all’ultimo ha cercato di opporsi, a metà luglio scorso, alla Nature Restoration Law a sostegno del recupero della biodiversità europea, promulgata nel quadro globale sulla biodiversità delle Nazioni Unite di Kunming-Montreal. A favore della nuova Strategia Europea per la Biodiversità, uno dei pilastri fondamentali del Green New Deal Europeo, al Parlamento hanno votato i rappresentanti Socialisti e Democratici,Verdi, Left, i Liberali di Renew e 21 parlamentari Popolari. A supporto della legge si erano espressi oltre 7 mila scienziati e accademici europei, centinaia di associazioni ambientaliste, ed erano state raccolte oltre un milione di firme di cittadini.
La sfida, alle prossime elezioni europee del 2024 sarà proprio tra questi due schieramenti.
Ma la nostra speranza è che anche i Popolari e la destra rinsaviscano sul tema ambientale, prendendo consapevolezza della realtà almeno per quanto riguarda la crisi climatica, che rischia di compromettere il comune futuro.
Altrimenti è inutile andare in TV a piangere lacrime di coccodrillo, come ha fatto il ministro Pichetto Fratin, che non ha altro effetto se non sancire la propria stoltezza e incapacità di affrontare seriamente i rischi per il futuro da consegnare ai giovani che lo reclamano.
Fanno loro da supporto le testate principali e più seguite dell’informazione, appiattite sulla voce del Padrone. Sembrano non essere in grado di guardare oltre il dito dei giovani attivisti imbrattatori per cercare di spiegare cosa indichi. Si indignano per le vernici biodegradabili e il carbone vegetale, e per inesistenti danni al patrimonio artistico, ma nulla fanno contro la situazione delle nostre città, dove crescono le morti per inquinamento e dove le opere d’arte vengono erose, giorno dopo giorno dal cocktail micidiale che entra anche nei nostri polmoni.
Inadeguati, ipocriti, irresponsabili. I primi, che ci governano, come i secondi che dovrebbero aiutarci a comprendere la realtà decodificando le notizie, spesso nascose dal potere.
La noia e il fastidio che i ragazzi del nuovo impegno ambientalista suscitano in alcuni (non in chi scrive, cha a 17 anni era impegnato come loro e stava per temere che la sua battaglia, durata una vita, fosse persa per sempre) non hanno di certo contaminato Papa Francesco. Lui non sembra annoiarsi affatto e avverte sulla necessità di cambiare radicalmente il nostro sistema economico e il modello di sviluppo che su di esso si appoggia. Radicalmente!
Il Vescovo di Roma si erge, tra i pochi leader mondiali, a consapevole testimone «dell’urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune».
Invita i giovani di tutto il mondo a non accontentarsi «di semplici misure palliative o di timidi e ambigui compromessi. Le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro». Bisogna «farsi carico di quello che purtroppo continua a venir rinviato: ossia la necessità di ridefinire ciò che chiamiamo progresso ed evoluzione. In none del progresso si è fatto troppo regresso» .
Parole forti in cui segnala con forza la necessità di un cambiamento delle visione antropologica alla base dell’economia e della politica. Per «ascoltare la sofferenza del pianeta insieme a quella dei poveri».
Sono forse state proprio le parole del Papa a indurre all’appello sei Presidenti del Mediterraneo – Sergio Mattarella, Zoran Milanovic (Croazia), George Vella (Malta), Marcelo Rebelo de Sousa (Portogallo), Natasa Piric Musar (Slovenia) e Katerina Sakellaropoulou (Grecia) – che sottolineando la gravità della crisi climatica invitano l’Unione Europea e gli altri Paesi del Mediterraneo ad attuare da subito politiche concrete per mettervi riparo. senza più perdere tempo e al di là di compromessi per ragioni politiche o economiche.
Ormai non ci sono dubbi e a fianco di Papa Francesco e del Presidente Mattarella ci sono migliaia di scienziati in tutto il mondo, tranne un residuale manipolo di mercanti di dubbi.
O di qualche ministro ignorante che scambia il tempo con il clima. Sul pianeta tutto accade e tutto si modifica, da sempre. Quel che è cambiato è che avviene tutto troppo in fretta, pochi decenni per i ghiacciai in confronto a secoli. E i giovani si preoccupano per i cent’anni che hanno di fronte e che desidererebbero vivere almeno come li abbiamo vissuti noi. Ma per colpa nostra saranno costretti all’emergenza, a cominciare dall’acqua e dal cibo, che a noi non sono mai mancati, e dalla qualità del respirare che a loro rischia di esser compromessa.
Per questo chiedono risposte serie e vere. Per questo si mobilitano. Per questo non si accontentano più di qualche “lavaggio verde” fatto di corsa, per propaganda.
Così la sfida con gli effetti nefasti del riscaldamento globale sarebbe persa in partenza. E la condanna delle future generazioni alla sete, alla fame, alle guerre per le risorse naturali si prospetta come lo scenario più probabile. Che giustamente rifiutano, disposti a tutto.

Epilogo
Non useranno più vernici, non imbratteranno più i monumenti.
In questo scenario in cui ci si illude che tutto possa proseguire come prima, con governanti ignoranti e sistema informativo colluso, i ragazzi attivano l’intelligenza sbeffeggiandoli.
Hanno infatti deciso di imbavagliare i personaggi dei monumenti per denunciare che quei bavagli li vogliono mettere a loro, cui si vorrebbe impedire il diritto alla protesta – sino alla previsione del reato di associazione a delinquere! – contro l’inettitudine di un Governo che non fa nulla per fermare la crisi climatica e predisporre misure per la transizione ecologica, ma anzi si muove all’opposto, continuando a sostenere le fonti fossili climalteranti. Cambieranno forse modalità di intervento, ma per fortuna continueranno a essere loro. Per seguitare a inchiodarci alle nostre responsabilità.
Perché gli ecoterroristi siamo stati noi. Ci indigniamo contro le vernici biodegradabili e il carbone vegetale, ma cosa abbiamo fatto per difendere le nostre città dove crescono le morti per inquinamento? Siamo stati inadeguati, ipocriti, irresponsabili. Non abbiamo chiesto e preteso abbastanza, siamo stati troppo garbati e corretti e non ci hanno ascoltati.
Mio caro Signore la colpa è nostra, è sua.
Lei è libero di continuare, nel suo egoismo, ad annoiarsi.
Io ho deciso di attivarmi per rimediare ai miei sbagli e aiutare il mio nipotino a sperare nel futuro.

Riserva Naturale del Padule di Fucecchio, ieri, oggi e domani. Colloquio con Laura Salaris

A cura di Gabriele Antonacci

Il Padule di Fucecchio è uno dei più importanti sistemi ecologici della Toscana, oggi al centro dell’attenzione per varie criticità inerenti la gestione della Riserva Naturale. Per comprendere gli eventi recenti abbiamo incontrato Laura Salaris, addetta stampa e portavoce dell’associazione “Amici del Padule di Fucecchio per la Biodiversità”, di cui ha fatto anche parte del Consiglio Direttivo. Insegnante di Lingue Straniere in pensione, fin da giovane appassionata di natura e impegnata in movimenti e associazioni ambientaliste, collabora come volontaria con il Centro di Ricerca, Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio nell'accoglienza dei visitatori e in altre forme di volontariato.

IUA: Gentile Laura buonasera. Desideriamo proporre ai lettori della rivista on line “L’Italia, l’Uomo, l’Ambiente” un quadro della storia, della situazione attuale e del futuro della Riserva Naturale del Padule di Fucecchio, e Lei ci può aiutare.

Laura Salaris: Potrei prendere come riferimento per raccontare questa vicenda l'anno d'istituzione della Riserva Naturale, che risale al 1996.  L’istituzione della Riserva Naturale è stata il risultato delle mobilitazioni negli anni precedenti da parte delle varie associazioni ambientaliste, conclusione di un lavoro importante.  Con l'istituzione della Riserva Naturale da parte della Provincia di Pistoia, si andavano a definire due aree sottoposte a tutela, entrambe facenti parte della riserva ma non contigue; due superfici che nel complesso costituiscono un’area di circa 200 ha, soltanto il 10% di tutta l'area palustre.  Negli stessi anni, nella parte fiorentina veniva istituita una seconda riserva naturale, di appena 25 ha di superficie, su terreni privati; essa in pratica è rimasta un'area protetta solo sulla carta. Quando fu istituita la riserva si diceva da parte dalle province e della Regione che questo era "solo un primo passo", in quanto, data la grande importanza del sito, sarebbe stato necessario un livello di tutela ben maggiore.
Il Centro di Ricerca Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio, associazione Onlus, già operativo sul territorio da 6 anni, ebbe fin da subito la gestione della Riserva congiuntamente al Consorzio di Bonifica. I due soggetti avevano ruoli diversi: il Centro svolgeva consulenza tecnica sugli interventi di miglioramento ambientale, gestiva l'educazione ambientale, la promozione e la fruizione pubblica, mentre il Consorzio provvedeva a progettare i lavori e a incaricare le ditte per eseguirli. Del Centro facevano parte realtà varie del territorio: soggetti privati, come associazioni ambientaliste e venatorie, ed enti pubblici, come i comuni e le province di Pistoia e Firenze, l’Università di Firenze ecc.
Il Centro ebbe una convenzione con la Provincia di Pistoia per la gestione della Riserva; aveva a disposizione due dipendenti, ed è stato svolto da allora per i 20 anni successivi un lavoro che noi riteniamo molto importante da tutti i punti di vista. Un lavoro di miglioramento ambientale in quanto è stata attuata un'opera di re-naturalizzazione dell'area, cioè di ripristino dell'area umida, che aveva subito interventi di bonifica, un miglioramento mirato alla conservazione di habitat e di specie. Furono attivati molti progetti, un'attività continua di monitoraggio, di censimento, di ricerca e già nell'arco di pochi anni si cominciarono a vedere risultati nel senso che aumentò in maniera considerevole la presenza di uccelli sia in termini di specie sia in termini di individui. E anche l'estetica di entrambe le aree fu notevolmente migliorata, con notevole impatto sulla promozione di tutta l'area e l'afflusso di visitatori. Fu intrapresa un'ampia attività di divulgazione e di educazione ambientale, con le scuole e anche con gli adulti. Ci sono stati anni in cui sono state coinvolte un gran numero di scuole del circondario, e, oltre ai due dipendenti, erano coinvolte altre figure come guide e collaboratori scientifici. Le attività erano molte ed erano generalmente apprezzate. Era una realtà molto vivace.  Grazie anche al lavoro preparatorio del Centro, avviato già nei primi anni 2000, è giunto anche il riconoscimento della sua rilevanza: il Padule di Fucecchio è entrato nel 2013 a far parte dell'elenco delle aree umide di importanza internazionale ai sensi della Convenzione di Ramsar.  È una convenzione internazionale siglata nel 1971 nell'omonima città iraniana, che rappresenta una pietra miliare nel processo di tutela delle aree umide a livello mondiale. È stato un riconoscimento che ha avuto la sua importanza anche a livello di visibilità, il Padule di Fucecchio è stato più facilmente rintracciabile anche da persone interessate e dagli studiosi.
Tutto questo lavoro si basava su una convenzione con la Provincia di Pistoia C’era una buona collaborazione e quindi le cose per diversi anni sono andate bene.

IUA: Per completare questo quadro in questi giorni rileggevo la “Guida del padule di Fucecchio” che avevo comprato al centro di Documentazione: la cosa che mi ha colpito non è soltanto il valore ornitologico dell’area, ma l’importanza delle specie vegetali, dei mammiferi, degli anfibi. È veramente un qualcosa di straordinario.

Laura Salaris: Si, c’era un pool di figure professionali che ci hanno investito molto in termini di studio e in termini di ricerca con passione e con reale interesse.  Questo spiega poi i buoni risultati raggiunti.
Una cosa che ancora non ho detto è il fatto che il Padule di Fucecchio è un luogo tradizionale di caccia. La tradizione della caccia è molto radicata, e inserire un'area protetta in un contesto di questo genere comprensibilmente non era accettabile a tutti, era pur sempre una novità importante. Anche se devo dire che dopo i problemi iniziali col tempo in realtà le relazioni, i rapporti, con i cacciatori da parte del Centro sono andate migliorando. È evidente il fatto che persone che hanno tutto un altro tipo di esperienze fanno difficoltà a comprendere qual è il senso di tutto questo, di una realtà nuova che nasce in una zona che loro avevano sempre considerato loro.  In una realtà come quella il pensiero della conservazione su cui si basa il concetto di area protetta, in qualche modo mettere in atto un tipo di gestione volta non alla caccia bensì alla conservazione degli habitat e delle specie per preservarli per tutelarli, non poteva essere immediatamente comprensibile e accettato dai vecchi padulani, che erano nati e vissuti lì. Avevano a volte difficoltà a comprendere: col tempo loro stessi hanno visto i risultati, e il contrasto non era poi diciamo così forte. Tutto questo è andato in crisi a un certo punto, purtroppo.

IUA: Come mai è nata questa crisi e come si è venuta a creare questa situazione?

Laura Salaris: Le amministrazioni locali facevano parte del Centro. Per tutta la prima fase gli amministratori e i Sindaci della Valdinievole hanno in qualche modo cercato di mantenere un equilibrio tra le istanze diverse, come era nello spirito del Centro, che era un corpo in cui partecipavano vari portatori di interesse. Le amministrazioni diventavano garanti del buon andamento del tutto, in un equilibrio armonico.   A un certo punto si sono verificati dei cambiamenti a livello politico che hanno portato vari amministratori a dare più peso e ascolto alle istanze di alcuni gruppi locali e delle associazioni venatorie, mandando in crisi l’equilibrio precedente.
Alcuni comuni hanno deciso di uscire dal Centro, facendo  mancare in qualche modo la legittimazione alle attività. Di fatto si è preferito compiacere le associazioni venatorie. Quando sono venute a cessare le province nel 2014 è venuta quindi anche a mancare la convenzione con la Provincia di Pistoia: è successo che mentre per gran parte delle altre riserve naturali toscane in qualche modo è stata trovata una soluzione - in quanto la Regione, che aveva acquisito le deleghe dalle provincie,  aveva rinnovato le convenzioni alle realtà che le gestivano – per il Padule questo non si è verificato. In questa dinamica ha senz’altro influito il peso elettorale delle associazioni venatorie.
Lei può capire bene che il Centro, e per chi lo sosteneva come noi, da una realtà che era positiva in tutto e per tutto si è ritrovato in una situazione non del tutto comprensibile.   Si disse che il Centro non aveva i requisiti formali per poter gestire la riserva. Questa argomentazione sembrava un grande pretesto: la Regione ha rinnovato la convenzione ad altre associazioni che in realtà – a nostro avviso - non avevano requisiti assolutamente migliori né diversi perché si diceva che per poter gestire una un'area protetta bisognava essere una realtà associativa a livello nazionale, mentre altre associazioni a cui la convenzione era stata rinnovata non lo erano assolutamente.   Ritengo se ci fosse stata la volontà politica in qualche modo di preservare il Centro una soluzione in tutti i modi si sarebbe trovata.
La perdita di un ruolo e della convenzione ha determinato anche una crisi economica del Centro. Si è cercato comunque di andare avanti, i dipendenti hanno avuto l'orario ridotto pesantemente e  comunque il Centro è riuscito ad andare avanti, svolgendo anche progetti ed interventi commissionati da altre aree protette della Toscana. In questa situazione di crisi si era venuto a creare un gruppo di volontari a vario titolo e di sostenitori che proprio in quella fase (2014-2015) decisero di costituirsi in associazione, con lo scopo in qualche modo di supportare il Centro nelle sue attività. Nacque quindi l'associazione Amici del Padule di Fucecchio per la Biodiversità.
Proprio in quella fase fu creato il nuovo centro visite inaugurato alla fine del 2013. È stato il Centro a intercettare un bando europeo e a predisporre un progetto di massima per partecipare. Nel 2014 il centro visite era appena stato edificato, ma non c'era la possibilità di tenerlo aperto in maniera costante perché le risorse erano state limitate. Fu allora che gli Amici del Padule di Fucecchio  assunsero come impegno principale quello di contribuire a tenere aperto il centro visite e  l’osservatorio delle Morette nei fine settimana, considerato che i dipendenti nei fine settimana erano in genere impegnati in altre attività. Accogliere visitatori, dare informazioni di massima, dare indicazioni era il nostro compito. Questo è durato per molto tempo: dal 2014, ad un mese fa. Siamo andati avanti fino ad ora in tutte queste difficoltà.

IUA: Sono state fatte altre scelte amministrative che hanno determinato la crisi attuale o ci si è limitati a non rinnovare la convenzione con il Centro?

Laura Salaris: Sì, è intervenuto un altro fatto: la scelta della precedente Giunta Regionale di assegnare i beni della riserva ad alcuni comuni e al Consorzio di Bonifica. Questa era una decisione già ipotizzata da tempo, e contro la quale ci eravamo mobilitati. Era stata denominata già allora lo "spezzatino" perché in qualche modo andava a smembrare i beni della Riserva, andando in qualche modo a vanificare una gestione unitaria e coordinata. Noi l'avversammo fin dall'inizio insieme alle altre associazioni ambientaliste. Nel maggio del 2019 organizzammo una marcia dal centro visite di Castelmartini fino alla riserva a cui parteciparono anche le altre associazioni.  Ebbe un notevole riscontro sulla stampa perché fu veramente molto partecipata. All'indomani di tale evento sembrava che potessero aprirsi degli spiragli di dialogo, in quanto fu istituito un tavolo regionale di confronto con le associazioni. Ma a fine mandato l'assessore Fratoni divise i beni della Riserva: il Centro Visite a Larciano e l’osservatorio delle Morette a Ponte Buggianese (l’Area Righetti era già proprietà del consorzio di Bonifica).  La convenzione con i comuni e con il Consorzio si occupò della divisione dei beni della Riserva, ma non specificò chi e come avrebbe dovuto assicurare una gestione complessiva. Questa è stata una demolizione di fatto della Riserva. Il Centro che precedentemente svolgeva un ruolo di gestione e di consulenza tecnico-scientifica è stato messo da parte. Esso ha conservato la sua sede e ha continuato a svolgere visite guidate nell'area protetta, anche se l'area protetta non era più gestita, e nel corso del tempo si è andata deteriorando. La situazione di abbandono attuale è dovuta a questi vari passaggi.
Noi come associazione Amici del Padule ci siamo impegnati finora anche in piccoli lavori di manutenzione e supporto nei censimenti e in altre attività di ricerca. Riparazioni che si sono rese necessarie perché non erano stati fatti lavori importanti.  Abbiamo resistito, abbiamo continuato a impegnarci tutti questi anni anche per mantenere l’attenzione su questa realtà e perché ci dispiaceva che il Centro fosse chiuso nei giorni festivi. Soprattutto i primi anni c'era moltissima gente che arrivava, la situazione era ancora bella.   Prima che si venisse a creare questo deterioramento nei giorni festivi in primavera c'era veramente un afflusso enorme di visitatori e ci dispiace che adesso la situazione sia questa. Però abbiamo deciso di smettere per lanciare un allarme, per dare un segnale forte.  Riteniamo che non soltanto si debba recuperare quello che si è perso, ma che se possibile si debba fare anche un passo avanti: perché un servizio come quello dell'apertura delle strutture di visita in un'area protetta dovrebbe essere finanziato.
Ci aspetteremmo non soltanto un ritorno a una buona gestione, ma un passo in avanti: l'area protetta ricade su appena il 10% dell'area palustre, ed esiste già negli atti programmatici della Regione un documento in cui si prevede l'ampliamento della Riserva. Un documento che risale al 2013, si chiama “Strategia Regionale per la Biodiversità”, dove si prevede l'ampliamento della Riserva.
Sinceramente credo che abbiamo toccato il fondo da cui si deve risalire; speriamo che qualcosa di concreto accada nell'arco di un tempo ragionevole.

IUA: Ammettiamo che tutto vada per il meglio, e la Regione finalmente intervenga, cosa si potrebbe fare?

Laura Salaris: Al di là di quello che sarà il futuro del Centro, che ovviamente conserva delle risorse umane che non dovrebbero andare disperse, è assolutamente fondamentale che la Regione assicuri in modo chiaro una gestione competente dell'area protetta, individuando un soggetto, senza tuttavia escludere gli enti locali.
La riserva andrebbe ampliata, magari con gradualità e con un approccio tecnico, ma senza porre altro tempo in mezzo.
Speriamo che quanto previsto dagli atti di programmazione regionale, che rappresenta anche un obiettivo prioritario dell'agenda 2030, venga messo in atto.

 

Bibliografia

- “PIANO AMBIENTALE ED ENERGETICO REGIONALE”, Obiettivo B.1 Conservare la biodiversità terrestre e marina e promuovere la fruibilità e la gestione sostenibile delle aree protette REGIONE TOSCANA – 2013

- AAVV “Guida del Padule di Fucecchio, natura, storia, tradizioni, itinerari”, Quaderni del Padule di Fucecchio N° 8, 2017.