Andrea Mandarino
(Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita – Università degli Studi di Genova)
Pensando al modo in cui un corso d’acqua “lavora” in termini geomorfologici, ovvero modella il paesaggio, è evidente come esso possa essere paragonato ad un nastro trasportatore che prende in carico sedimenti e legname dalle aree montane e li trasporta verso valle alle aree di pianura ed infine alla foce, plasmando le forme del rilievo terrestre. Un corso d’acqua principale, i suoi affluenti e gli affluenti degli affluenti, tutti nastri trasportatori che complessivamente definiscono il reticolo idrografico, drenano una regione, ovvero il bacino idrografico, e con il fluire della corrente da monte verso valle connettono porzioni di territorio anche molto distanti tra loro.
La morfologia e la dinamica di un corso d’acqua dipendono da: variabili guida (disponibilità di sedimento e portate liquide) e condizioni al contorno (assetto fisico delle valli, vegetazione perifluviale, caratteristiche sedimentarie). La variazione di questi elementi generalmente innesca risposte idromorfologiche, cioè modifiche della forma dell’alveo e dei processi geomorfologici prevalenti, più o meno intense ed estese in termini spaziali e temporali in funzione dell’entità della variazione stessa.
Le numerose ricerche condotte negli ultimi decenni per analizzare l’evoluzione morfologica storica e recente degli alvei italiani hanno delineato complessivamente due fasi storiche di prevalente restringimento e incisione dell’alveo che si collocano rispettivamente (i) tra gli ultimi decenni del XIX secolo e gli anni Cinquanta del XX secolo e (ii) tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta di quest’ultimo.
La prima è stata interpretata come la risposta morfologica dell’alveo ai cambiamenti antropici dell’uso del suolo a scala di bacino, alle sistemazioni idraulico-forestali in ambiente montano, alla costruzione di dighe e, in alcuni casi, ai cambiamenti climatici successivi alla fine della Piccola Era Glaciale. La seconda invece, caratterizzata da variazioni morfologiche ben più significative, rapide e diffuse della prima, è stata associata alle escavazioni in alveo e alle opere di regimazione (canalizzazioni, rettificazioni), fermi restando i persistenti impatti di quanto ha caratterizzato la fase precedente. Nella seconda metà del XX secolo, lungo i corsi d’acqua italiani sono stati documentati restringimenti dell’alveo in generale superiori al 50%, fino a valori dell’85-90%, e abbassamenti comunemente dell’ordine di 3-4 m e localmente di 10-12 m. A tali processi si è accompagnata spesso una trasformazione dell’alveo che da multicanale è diventato a canale singolo. “Affascinanti ecosistemi viventi” si sono dunque trasformati in “squallide condutture idrauliche” (Sansoni 1995, p. 1), dal momento che quanto rilevato si è tradotto in una generalizzata banalizzazione delle forme e dei processi fluviali con conseguente perdita di habitat e biodiversità, e riduzione dei preziosi servizi ecosistemici che i sistemi fluviali offrono all’uomo. È ormai ampiamente riconosciuto il ruolo determinante degli interventi antropici, escavazioni di materiale litoide in primis, nell’aver determinato le suddette modificazioni, il cui principale fattore causale è stato identificato nella riduzione della disponibilità di sedimento.
Benché molte aste fluviali abbiano una lunghissima storia di canalizzazioni e rettificazioni, è all’incirca dalla metà del XX secolo che questi interventi hanno assunto un carattere sostanzialmente irreversibile sul lungo periodo e una diffusione generalizzata a scala nazionale. Le opere di difesa dall’erosione (difese spondali) e dall’esondazione (argini) hanno causato, in sinergia con altre pressioni antropiche, una progressiva stabilizzazione del tracciato planimetrico dell’alveo, un suo restringimento e una riduzione dello spazio fluviale nel suo complesso. Le pianure, conseguentemente, sono rimaste disconnesse dai sistemi fluviali e le aree di pertinenza fluviale “difese” sono state coltivate o urbanizzate e, successivamente, ulteriormente protette con altre opere di canalizzazione. In molti contesti, inoltre, l’espansione delle aree urbane ha portato non solo alla canalizzazione degli alvei, ma anche alla loro completa copertura; si pensi, per esempio, ai corsi d’acqua tombati sotto l’area metropolitana di Milano, oppure a quelli che attraversano le città costiere della Liguria.
Dal punto di vista della pericolosità geo-idrologica, le variazioni morfologiche che hanno interessato nel XX secolo gli alvei italiani si sono tradotte in una riduzione della capacità di laminazione delle piene, ovvero di attenuazione dell’onda di piena, e in una generalizzata instabilità morfologica degli alvei associata a processi erosivi. In alvei stretti e incisi, infatti, la frequenza di inondazione della pianura alluvionale adiacente diminuisce in conseguenza dell’aumento della portata contenuta dall’alveo stesso. Sebbene questo aspetto sia generalmente percepito dai cittadini come qualcosa di positivo, occorre notare che, a parità di evento meteorico, il minore allagamento delle aree prossime all’alveo provoca un incremento delle portate al colmo a valle associato ad una più rapida propagazione della piena. Le suddette principali caratteristiche geometriche degli alvei, inoltre, a fronte di un aumento della velocità della corrente fluviale e quindi della sua maggiore capacità erosiva, promuovono l’innesco di erosioni di fondo e laterali, le quali, di conseguenza, possono minare la stabilità delle sponde e dei manufatti presenti nell’alveo stesso, come è ampiamente accaduto.
Per quanto riguarda le zone di pianura adiacenti all’alveo, la riduzione delle aree inondabili, generalmente associata alla costruzione di argini, risulta in un incremento dei livelli idrometrici e della velocità della corrente sulle aree allagate, ovvero della capacità di modellamento di tali aree, rispetto alle condizioni precedenti. La progressiva occupazione delle aree di pertinenza fluviale da parte di insediamenti urbani, zone industriali e aree agricole, avvenuta soprattutto nella seconda metà del XX secolo e talvolta ancora in corso, ha inoltre aggravato ulteriormente questo quadro critico essendo all’origine di una considerevole esposizione di elementi vulnerabili quali beni, servizi e persone agli eventi geo-idrologici (inondazioni e dinamica morfologica). Molto spesso sono state realizzate difese per ridurre la probabilità di inondazione di queste aree, oppure, viceversa, alcune aree sono state difese per consentirne l’utilizzo, con l’assunto che le pianure siano esenti dal pericolo di inondazione grazie al sistema difensivo. Le opere di difesa soddisfano le richieste di sicurezza e di sviluppo economico della società, essendo opinione comune che esse possano definitivamente resistere alle inondazioni. Tuttavia, paradossalmente, ad una riduzione della pericolosità si può accompagnare un incremento del rischio connesso alla maggiore esposizione di beni e a maggiori investimenti, ovvero a maggiori danni potenziali in caso di collasso del sistema di difesa.
A livello di bacino, le variazioni di uso del suolo risultanti nell’incremento delle aree edificate hanno influito, anche se realizzate distanti dagli alvei, sull’acuirsi delle problematiche inerenti agli eventi alluvionali. Esse hanno complessivamente causato un incremento della pericolosità associato al fatto che le superfici impermeabilizzate trasformano istantaneamente gli afflussi meteorici in deflussi che vengono convogliati nelle reti di drenaggio confluenti negli alvei. In conseguenza, a parità di precipitazioni, si generano portate al colmo maggiori e in tempi più brevi.
I numerosi eventi alluvionali che si sono verificati negli ultimi anni hanno messo in luce prepotentemente il difficile rapporto che si è instaurato tra i cosiddetti anthropogenic landscapes – gli ambienti antropizzati – e le dinamiche idromorfologiche proprie dei sistemi fluviali. Ad ogni alluvione, quando i corsi d’acqua si riprendono determinati spazi in termini di allagamento o di dinamica d’alveo, non mancano le proteste di cittadini e amministratori locali in riferimento a quanto accaduto, spesso lamentando l’assenza di “pulizia dei fiumi” e la mancata messa in sicurezza del territorio. Occorre considerare che il concetto di messa in sicurezza è fallace e irrealistico; non è infatti possibile mettere in sicurezza il territorio, dal momento che può sempre verificarsi un evento imprevisto che le opere e gli interventi realizzati non sono in grado di fronteggiare adeguatamente, e che è impossibile cristallizzare, ovvero stabilizzare, ciò che per sua natura è dinamico e mutevole. Per ridurre la pericolosità geo-idrologica e per minimizzare il danno che si può verificare conseguentemente ad eventi geo-idrologici, ovvero, nel complesso, per mitigare il rischio, possono essere adottate misure strutturali e non strutturali, purché siano definite alla scala di bacino; in presenza di elementi antropici, tuttavia, vi sarà sempre un certo rischio che non potrà mai essere annullato – il rischio residuo.
La “pulizia dei fiumi” è un falso mito. Con questa locuzione semanticamente errata si intende generalmente la rimozione di sedimenti e materiale legnoso dall’alveo, e la ricalibratura dell’alveo stesso. Questo tipo di intervento ricade tra le misure finalizzate alla riduzione localizzata della pericolosità, ma occorre necessariamente tenere presente che esso squilibra il corso d’acqua, ovvero può innescare processi erosivi e deposizionali anche lungo vaste porzioni dell’asta fluviale stessa. Questo intervento, inoltre, comporta generalmente una velocizzazione del fluire delle acque di piena verso valle, unitamente a conseguenze negative in termini ecologici. Gli effetti negativi della rimozione dei sedimenti sono ampiamente e dettagliatamente documentati nella letteratura scientifica. La diffusa credenza secondo la quale “quando i fiumi si pulivano le alluvioni non si verificavano” è semplicemente smentita considerando (i) che prima della diffusione delle grandi macchine operatrici i prelievi di sedimento avvenivano manualmente e tramite l’uso dei tombarelli quale mezzo di trasporto, il che evidentemente costituiva un forte limite alla movimentazione di ingenti volumi, (ii) che negli anni a cui si fa riferimento, ovvero generalmente la seconda metà del XX secolo in base alla memoria storica delle persone, l’intensa escavazione dei sedimenti dagli alvei veniva effettuata ai fini commerciali e non di riduzione della pericolosità geo-idrologica, (iii) che le conseguenze di tali attività private condotte a scopo di lucro si sono riflesse su beni collettivi, quali i manufatti in alveo ed il sistema fluviale stesso, a danno di tutti, e (iv) che eventi alluvionali di notevole entità si sono verificati anche allora, basti pensare alle alluvioni del Polesine nel 1951, di Firenze nel 1966, di Genova nel 1970, del Basso Piemonte nel 1977 e nel 1994, solo per citarne alcune.
Meritano infine una riflessione le due comuni affermazioni “a memoria d’uomo non è mai successo”, spesso riferita ad alluvioni, frane o fenomeni di migrazione laterale dell’alveo, e “l’abbandono della montagna causa le alluvioni”. La prima, spesso smentita tramite dati d’archivio, mette in luce la miopia della visione antropocentrica dei processi morfologici di evoluzione del rilievo terrestre, posti erroneamente sul piano della memoria umana; la seconda viene smentita dai numerosi studi idrologici effettuati che dimostrano che il bosco, derivante in questo caso dallo spopolamento delle aree montane verificatosi nel corso del XX secolo, attenua gli effetti delle precipitazioni intense, contribuendo a ridurre, o quantomeno a dilazionare nel tempo, la quantità di afflusso meteorico che si trasforma in deflusso. L’abbandono della montagna non causa alluvioni in pianura e, nelle aree montane, in presenza di piogge particolarmente intense l’innesco di processi di instabilità di versante è inevitabile.
Negli ultimi anni, parlando di alluvioni, si fa comunemente riferimento a piogge eccezionali e al cambiamento climatico. Intense precipitazioni si sono verificate anche in passato; un evento eccezionale non necessariamente è nuovo, piuttosto è raro. Qual è quindi la responsabilità del climate change in atto? Il mondo scientifico è concorde nel sostenere che il riscaldamento globale stia incrementando la frequenza di accadimento dei fenomeni estremi, ovvero sono più probabili gli episodi di pioggia intensa. Non è possibile, tuttavia, definire quale sia stato il contributo dei cambiamenti climatici antropogenici ad un certo evento in assenza di accurate valutazioni modellistiche, ovvero senza appropriate analisi di lungo periodo condotte ad una scala spaziale sufficientemente ampia.
Non esiste un criterio unico e sicuro per risolvere le criticità geo-idrologiche di un territorio perché, da un lato, ogni bacino idrografico rappresenta un caso a sé stante e, dall’altro, non è possibile “risolvere” in senso assoluto tali criticità. È prioritario ridare spazio ai corsi d’acqua, fermare il consumo di suolo a livello di bacino, non occupare ulteriormente con insediamenti le aree soggette a pericolosità geo-idrologica, ridurre gli elementi esposti, e creare aree di laminazione diffusa, importanti per la mitigazione del rischio e, nell’ottica della riqualificazione fluviale, per la riconnessione delle pianure agli alvei. Si tratta di attuare “l’uso del suolo come difesa” (Cannata 2007, p. 208), ovvero una efficace delimitazione delle possibilità di uso del suolo in funzione della pericolosità geo-idrologica. Benché siano indirizzi ormai ovvi, ancora oggi vengono disattesi a fronte di scelte politiche recenti dirette ad un ulteriore sfruttamento delle aree prossime agli alvei. Per quanto riguarda la manutenzione delle aste fluviali è necessario considerare che le reti di drenaggio urbano, i reticoli idrografici artificiali in ambiente agricolo, i corsi d’acqua montani, quelli urbani e quelli di pianura sono elementi distinti che necessitano di appropriati e specifici approcci gestionali non generalizzabili e che tengano conto del fatto che tutti questi elementi sono comunque interconnessi tra loro all’interno del bacino idrografico.
Ad oggi vi sono numerose questioni aperte circa la gestione dei corsi d’acqua: la mancanza di studi e di valutazioni quantitative circa il trasporto solido fluviale, elementi fondamentali per implementare efficaci misure di gestione dei sedimenti e dell’ambiente fluviale in genere; la regolamentazione della nuova corsa all’energia idroelettrica che negli ultimi anni ha portato i fiumi italiani verso un’ulteriore frammentazione longitudinale; la nuova politica relativa agli invasi quali strumento di contrasto alla siccità; la mancanza di un catasto delle opere in alveo aggiornato/aggiornabile al fine di effettuare valutazioni complessive a scala di bacino; l’assenza di procedure obbligatorie, robuste e standardizzate per la valutazione dell’impatto di opere e interventi sulla dinamica e sulla morfologia dei corsi d’acqua; l’aggiornamento del catasto, la definizione delle aree demaniali e la proprietà delle aree adiacenti all’alveo; la presenza di contrasti normativi e la sostanziale discrepanza esistente tra i principi generali dettati dalle principali norme di riferimento in materia di gestione fluviale e quanto viene effettivamente concretizzato.
Alla luce di quanto esposto all’inizio del presente contributo circa il continuum di forme e processi che caratterizza i corsi d’acqua associato al concetto di “nastro trasportatore”, è evidente che la scala spaziale appropriata per l’implementazione di adeguate strategie gestionali lungo i corsi d’acqua, ovvero per la significativa valutazione della complessità del sistema, sia quella del bacino idrografico. La legge n. 183 del 18 maggio 1989 ha per prima individuato nel bacino idrografico l’unità di riferimento per la gestione del territorio, considerando “i bacini medesimi come ecosistemi unitari” (L. 183/1989, art. 12) e istituendo per il loro governo le Autorità di Bacino, oggi Autorità di Bacino Distrettuali. Con il passare del tempo, tuttavia, questi enti di area vasta sono stati di fatto progressivamente esautorati, a favore di un approccio gestionale maggiormente legato a specifici territori, nonostante sia ben chiaro che il “nastro trasportatore” non conosce confini amministrativi. L’unitarietà del bacino idrografico costituisce “il fondamento della difesa del suolo perché giustamente stabilisce la prevalenza dei limiti geomorfologici ed idrogeologici su quelli amministrativi. […] Si tratta di una prevalenza essenziale per una adeguata pianificazione e gestione di bacino, soprattutto perché solo in questo modo si supera la tradizionale tendenza a ‘scaricare’ a valle ogni problema” (Mariotti e Iannantuoni 2011, p. 216). Ciononostante, si interviene ancora negli alvei per realizzare opere e interventi in assenza di una visione d’insieme su quelle che sono le dinamiche idromorfologiche del corso d’acqua, in un contesto campanilistico e spesso emergenziale. Benché sovente richiesto da enti locali e cittadini, l’approccio gestionale tradizionale al problema della difesa geo-idrologica del territorio, ovvero associato ad interventi puntuali di estrazione di inerti, taglio di vegetazione e difesa, è in realtà “privo di qualsiasi fondamento scientifico e la logica economica stessa, ovvero il rapporto costi benefici, è discutibile” (Comiti et al. 2011).
La gestione dei fiumi non può consistere solo nella realizzazione di opere; essa deve essere inclusa in un più ampio quadro strategico di sviluppo del territorio e uso del suolo definito sulla base di specifici obiettivi e che mira a ristabilire processi geomorfologici dinamici in grado di perseguire un efficace e sostenibile recupero dell’ambiente fluviale e una mitigazione del rischio geo-idrologico, nell’ottica dell’implementazione delle direttive europee in materia di acque (Direttiva 2000/60/EC) e di alluvioni (Direttiva 2007/60/EC). “Non è scritto da nessuna parte che fare divagare un fiume, quindi renderlo più bello, renda anche più facile il suo governo idraulico e geomorfologico. Non è detto, nella pratica però è quasi sempre così, se non sempre” (Cannata 2007, p. 210).
Riferimenti bibliografici
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Comiti F., Da Canal M., Surian N., Mao L., Picco L., Lenzi M.A. Channel adjustments and vegetation cover dynamics in a large gravel bed river over the last 200 years. Geomorphology 2011; 125, 147-59. https://doi.org/10.1016/j.geomorph.2010.09.011
Mariotti E., Iannantuoni M. Il nuovo diritto ambientale. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore; 2011.
Sansoni G. Idee per la difesa dai fiumi e dei fiumi. Il punto di vista ambientalista. Pistoia: Centro Documentazione; 1995.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda ai seguenti riferimenti:
Bravard J.-P., Amoros C., Pautou G., Bornette G., Bournaud M., Creuzé des Châtelliers M., Gibert J., Peiry J.-L., Perrin J.-F., Tachet H. River incision in south-east France: morphological phenomena and ecological effects. Regulated Rivers: Research & Management. 1997;13:75-90.
Colombo A., Filippi F. La conoscenza delle forme e dei processi fluviali per la gestione dell’assetto morfologico del fiume Po. Biologia Ambientale 2010;24:331-48.
Kondolf G.M. Hungry water: Effects of dams and gravel mining on river channels. Environmental Management 1997;21:533-51. https://doi.org/10.1007/s002679900048
Surian N., Rinaldi M., Pellegrini L., Audisio C., Maraga F., Teruggi L., Turitto O., Ziliani L. Channel adjustments in northern and central Italy over the last 200 years. In: Allan James L., Rathburn S.L., Whittecar G.R., editors. Management and Restoration of Fluvial Systems with Broad Historical Changes and Human Impacts. Geological Society of America Special Papers. Geological Society of America; 2009b. p. 83-95. https://doi.org/10.1130/2009.2451(05)
http://www.nimbus.it/articoli/2020/200716AttribuzioneEventiEstremi.htm
https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-working-group-ii/