di Franco Rainini
Il Parco Nazionale dello Stelvio ha molte ragioni per essere al centro dell’attenzione degli ambientalisti italiani (ne parleremo più diffusamente nel prossimo di “Natura e Società”), ma lo stimolo per queste note deriva da una diversa ragione, sollevata nel corso della preparazione di questo numero della rivista da Ferdinando Boero. In sintesi, il professore si chiede se, a fronte della prossima entrata in vigore delle norme disposte dalla Direttiva 2014/89/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014 (che istituiscono un quadro per la pianificazione dello spazio marittimo con lo scopo di “pervenire a una gestione efficace delle attività marittime e all'utilizzo sostenibile delle risorse marine e costiere basandosi su un approccio ecosistemico”, in quanto sarebbe “opportuno che la pianificazione dello spazio marittimo applichi l’approccio ecosistemico di cui all’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 2008/56/CE allo scopo di garantire che la pressione collettiva di tutte le attività sia mantenuta entro livelli compatibili con il conseguimento di un buono stato ecologico”), esiste qualcosa di paragonabile in ambito terrestre, cioè un approccio ecosistemico perseguito negli strumenti di programmazione territoriale del territorio.
Per comprendere i termini della questione bisogna recuperare il significato originario della definizione di approccio ecosistemico, come “la conoscenza scientifica delle relazioni ecologiche nell’ambito di un complesso quadro di aspetti sociali e politici e di valori, verso l’obiettivo generale della protezione dell’integrità degli ecosistemi in una prospettiva di lungo termine” https://www.unife.it/scienze/lm.ecologia/Insegnamenti/management-degli-ecosistemi/materiale-didattico/Grumbine%201994.pdf.
La risposta alla domanda posta, e cioè il riferimento alle Direttive Europee Uccelli (79/409/CEE) ed Habitat (92/43/CEE), non può essere considerate soddisfacente. Si tratta infatti di tentativi di assicurare la difesa dell’ambiente attraverso la protezione di specie o habitat considerati indicativi dello stato ambientale, l’opposto logico di quello che viene descritto come approccio ecosistemico. Non possono considerarsi soddisfacenti neppure gli strumenti di programmazione che ogni amministrazione pubblica adotta, con prevalente interesse all’uso del territorio e con annessi accessori a dimostrare ex post la “sostenibilità”.
Dobbiamo quindi concludere che l’approccio ecosistemico non viene in realtà seguito spesso, proprio per carenza di conoscenze sugli ecosistemi stessi e sul loro funzionamento, per non parlare poi degli impatti che subisce anche per processi attivati dall’uomo di portata globale. Per chi vuole approfondire, ricordiamo che si trovano facilmente in rete o in forma stampata istruttivi cataloghi dei disastri che con noncuranza stiamo provocando, es. https://link.springer.com/book/10.1007/978-3-030-71330-0?source=shoppingads&locale=en-it&gad_source=1&gclid=Cj0KCQjwpZWzBhC0ARIsACvjWRM-dTIY2mEkNnzpbFOKfFABmBawXtzg-RXNrKWm6tzdjOdf8oGoKGYaAsoHEALw_wcB.
Se si parla di gestione confusa di un territorio terrestre in un contesto di pesanti modifiche climatiche in corso, accompagnate da una storia di contrasti, se non di esplicita avversione alla tutela del territorio, ed un presente di smodati appetiti per il consumo delle residue risorse ambientali, è facile riferirsi allo sfortunato esempio del Parco dello Stelvio. È anche convinzione di chi scrive che un indagine su quanto è successo e succede nel Parco può aiutare a comprendere le ragioni per cui risulta particolarmente difficile declinare l’approccio ecosistemico in territori terrestri, specie in quelli caratterizzati da una peculiare e profonda connessione con le vicende umane, storiche e politiche.
Il Parco dello Stelvio è il più grande parco nazionale delle Alpi italiane, il cuore del Parco è costituito dal massiccio dell’Ortles Cevedale, con cime intorno ai 4000 metri, posto a separare fisicamente la Lombardia dal Tirolo; in effetti ha costituito un confine efficace e sicuro, tra le due parti del passo non vi sono in effetti stati contatti sufficienti a stabilire un rapporto organico tra i due territori, a differenza dei numerosi rapporti che intercorrono tra la Lombardia e il Trentino, oppure i Grigioni, come pure tra il Tirolo con Grigioni e Trentino. L’annessione del Sud Tirolo/Alto Adige alla fine della Prima Guerra Mondiale unifica i due versanti del massiccio.
Qualcosa deve essere detto riguardo a questo territorio orograficamente complesso e intricato, costituito da una rete di valli, collegate da passi altissimi, ghiacciai una volta estremamente vasti, ma che ancora oggi è imponente: i ghiacciai del gruppo Ortles Cevedale rappresentano quasi un terzo dei ghiacciai lombardi (oltre 2800 ettari). Ancora più imponenti i ghiacciai sul versante settentrionale del massiccio (3438 ettari); complessivamente i ghiacciai all’interno delle tre sezioni (sud-tirolese, trentina e lombarda) del Parco arrivano (o arrivavano nel 2019) a 11.011 ettari ed un volume accantonato di acqua di 3 miliardi di metri cubi, una riserva ancora grandissima e, come ha dimostrato la siccità del 2022, di valore immenso.
Queste caratteristiche sono necessarie per spiegare la straordinarietà dello Stelvio e vale la pena rimarcare che, mentre in altre parti le Alpi sono permeabili ai collegamenti umani, in questo distretto il Parco dello Stelvio risulta davvero essere una barriera tra il mondo latino e quello germanico. Del resto, le durissime condizioni ambientali hanno protetto le caratteristiche naturali dell’ambiente alpino, salvaguardandolo da interventi umani particolarmente distruttivi.
Dopo la guerra e l’annessione si creano anche le condizioni per la realizzazione del Parco Nazionale, che nasce con legge 24 aprile 1935 “allo scopo di tutelare e migliorare la flora, di incrementare la fauna, e di conservare le speciali formazioni geologiche, nonché le bellezze del paesaggio e di promuovere lo sviluppo del turismo, il territorio delimitato in rosso nell'annessa carta topografica…” il Re d’Italia sancisce la costituzione del Parco nazionale dello Stelvio.
La lettura del testo della norma interessante e sorprendente: non sono previsti modi di partecipazione attiva della popolazione all’attività del Parco, se non l’obbedienza alle norme, vigilata dalla Milizia Forestale, la stessa che qualche mese dopo si distinguerà nell’invasione dell’Etiopia.
In questo quadro non è sorprendente che l’opposizione al Parco si sia immediatamente manifestata, in particolare nella parte sudtirolese, dove era presente la frustrazione e l’insofferenza per il tentativo, neppure mascherato, di assimilazione culturale e linguistica.
Inevitabilmente il sentimento di alterità rispetto alle esigenze della conservazione della natura, rappresentato dall’Ente Parco è sopravvissuto ben oltre la fine del regime e del Regno. Il professor Franco Pedrotti, autorevole membro del comitato scientifico della Federazione Pro Natura, riferisce il racconto del giornalista e ambientalista Aldo Gorfer: “Nel 1971 Aldo Gorfer stava compiendo un’inchiesta sui masi dell’Alto Adige, poi raccolta nel libro “Gli eredi della solitudine”. Durante l’incontro con un contadino che abitava in un maso a 1780 m di quota in Val Martello, il discorso è finito sul parco. Secondo quel contadino il parco minacciava di togliere la libertà ai contadini, per cui il problema più grave degli abitanti dell’alta Val Martello era “la lotta contro il Parco dello Stelvio”».
L’avversione alle regole imposte da parte di popolazioni che si sentivano marginali, o addirittura estranee rispetto al consesso nazionale che decideva dell’uso del proprio territorio, si salda facilmente con interessi economici e politici più robusti, che nel corso degli anni hanno imposto una profonda trasformazione del modo di vivere in montagna, rendendola subalterna all’abuso da parte degli abitanti delle terre basse: la montagna solo come luogo di vacanza invernale, da fruire attraverso lo sci alpino, con il contorno di impianti di risalita, attrezzature turistiche, e più recentemente con l’innevamento artificiale.
Se l’economia turistica è egemone sul versante lombardo, su quello sudtirolese il turismo è accompagnato da un sistema agricolo intensivo ed estremamente aggressivo anche all’interno delle aree protette del Parco. Mentre il fondovalle della Val Venosta è occupato esclusivamente da meleti e centri abitati, costituendo un distretto agricolo che fornisce una quota rilevante della produzione di mele, non solo nazionale ma europea (fino ad oltre 300.000 tonnellate all’anno di mele, grossomodo il 3% dell’intera produzione dell’Unione Europea), in Lombardia si registra la coltivazione di albicocche, che pure supera abbondantemente la quota di 1000 m slm. Più in alto, in Val Martello, la coltivazione protetta di fragole raggiunge 1700 m slm, all’interno delle aree di protezione.
L’impatto di questo tipo di agricoltura sulla salute e sugli ecosistemi della valle e del Parco sono illustrati, per la sola parte relativa all’abuso di pesticidi, dallo studio apparso sull’autorevole rivista Nature, https://www.nature.com/articles/s43247-024-01220-1, da cui si evince una diffusa contaminazione del suolo e della vegetazione dovuta all’uso corrente dei pesticidi lungo un gradiente altitudinale in una valle alpina europea. La lettura è abbastanza agghiacciante: i pesticidi sono presenti all’interno delle aree urbane, comprese i parchi giochi, ed arrivano ad altezze considerevoli, ben oltre 2000 metri, condizionando la presenza e la biodiversità delle comunità presenti a quelle quote.
A questo bisogna aggiungere il perdurare di tentativi di inserire all’interno del Parco strutture sciistiche: nel settore sudtirolese il tentativo più consistente è stato quello del progetto Ortler Ronda, nella Val di Solda, che voleva realizzare un sistema di piste collegate e dotate di impianti di risalita che abbracciasse tutto l’arco della testata della valle, ai piedi dell’Ortles e del Gran Zebrù. Il progetto è stato bloccato anche grazie alla mobilitazione delle Associazioni organizzate nell’Osservatorio del Parco dello Stelvio, tuttavia non senza difficoltà e minacce di rilancio del progetto.
Dall’altra parte del Passo dello Stelvio i progetti di “valorizzazione turistica” sono anche più preoccupanti, legati anche alle prossime olimpiadi di Milano Cortina, che vedono l’alta Valtellina quale sede delle prove di sci alpino, ma anche fuori dall’ambito olimpico le minacce sono numerose, come l’apertura o il rinnovo delle piste e degli impianti di risalita (Valfurva), che comportano quasi sempre l’abbattimento di alberi e l’allargamento delle piste (il cosiddetto ambito sciistico). Vi sono anche progetti più ambiziosi, come il collegamento sciistico del Passo del Tonale con Bormio, del quale si parla da tempo.
Questi progetti si debbono confrontare con i cambiamenti climatici provocati dalle attività umane, a cui si intende rimediare con impianti di innevamento artificiale che consumano acqua, energia ed anche paesaggio e biodiversità. È la realizzazione di un impianto di innevamento artificiale che ha portato ad uno dei progetti più distruttivi che ha per oggetto la derivazione di acqua dal Lago Bianco, bacino glaciale che si trova a più di 2600 m slm presso il passo Gavia, tra l’estremità orientale della Valtellina e la Val Camonica, all’interno del Parco. Questa ipotesi è stata oggetto di una aspra opposizione da parte di Comitati Locali e dell’Osservatorio delle Associazioni ambientaliste, che alla fine ha portato allo stralcio della derivazione dal lago (rarissimo esempio di ambiente lacustre in ambito glaciale, di inestimabile valore naturalistico e geomorfologico) dal progetto di innevamento artificiale, che comunque prosegue.
Questi pochi e frammentari appunti sulle minacce al Parco debbono essere qui integrate con il quadro amministrativo che rende possibile una situazione così degradata, alla fine torniamo al contadino della Val Martello che individua nel Parco la principale minaccia alla sua vita. Quella opposizione alle norme del Parco, se non alla sua stessa esistenza, ha trovato espressione attraverso i corpi sociali intermedi: associazioni di agricoltori, operatori turistici, ma anche cacciatori (la caccia al cervo in Val Venosta è rivendicata come espressione di identità culturale, come lo è la caccia ai migratori nel bresciano, e una volta era addirittura praticata anche all’interno delle zone militari), trovando infine rappresentanza nei partiti politici. È questa la genesi della frammentazione del Parco in tre entità, due provinciali (TN e BZ) e quella lombarda. La somma delle rivendicazioni ha portato alla proposta di smembramento del Parco, mai compiutamente realizzata e rintuzzata fino al 2014. Poi, il 28 gennaio 2015i le Province autonome di Trento e Bolzano, la Regione Lombardia, con la “mediazione” dei Ministeri per gli Affari Regionali e per l’ambiente hanno preso in carico, ognuno per la parte di Parco ricadente nel proprio territorio, la gestione di quello che è o era il più grande Parco Nazionale alpino.
“Ci troviamo, di fatto, di fronte all’aberrazione di uno smembramento di un’area protetta che va in contrasto con qualsiasi politica europea in ambito di tutela ambientale”
Nei fatti questo avvertimento si è realizzato. Ad oggi non sono ancora state stabilitele norme di tutela. Le tre Valutazioni Ambientali Strategiche relative alle proposte di Piano del Parco Nazionale dello Stelvio unico ma con tre diversi piani e tre diverse VAS, non hanno ancora portato a risultati: i piani sono stati presentati, ma ad oggi il Piano Unitario del Parco non risulta ancora approvato e le norme di tutela, indefinite, sono lasciate alla puntuale applicazione di quelle inserite nelle Direttive Uccelli ed Habitat, comunque, evidentemente troppo poco.
Ritorniamo al punto di partenza per commentare le ragioni di questo evidente insuccesso nella programmazione di un’area protetta che, sebbene, particolarmente critica, non può essere considerata eccezionale nella distanza di applicazione dei principi dell’approccio ecosistemico, ma proprio nella sua particolarità può fornire qualche suggerimento sulle difficoltà di applicazione di tale approccio in territori storicamente così complessi, così vicini ad aree di forte sviluppo economico e inevitabilmente esposti a pressioni ed interessi formidabili.
La prima considerazione è che poco può essere fatto in assenza di un forte supporto sociale alla conservazione, il che comporta a sua volta la consapevolezza dei rischi che corriamo seguitando il saccheggio delle risorse ambientali, fino al collasso degli ecosistemi. In secondo luogo è evidente che un salto di qualità deve essere fatto nell’approccio ai problemi delle aree marginali, riconoscendo un valore ed un importanza in sé e non solo come annessi più o meno ben mantenuti delle aree metropolitane.