Membro di
Socia della

Archivio Rassegna Stampa

La fine del Mondo

L’Orologio dell’Apocalisse è a 100 secondi dalla fine del mondo. Ma cos’è l’Orologio dell’Apocalisse? E persino – cos’è la fine del mondo?

Riccardo Graziano

La prima risposta è semplice: l’Orologio dell’Apocalisse (in inglese Doomsday Clock, letteralmente l’Orologio del Giorno del Giudizio) è un’ideazione del 1947, agli albori dell’era atomica e della Guerra Fredda fra USA e URSS. Un gruppo di scienziati di Chicago propose di immaginare un orologio nel quale la mezzanotte rappresentasse la fine del mondo e le lancette venissero regolate in base al rischio e alla criticità del momento, per rendere plasticamente visibile all’opinione pubblica la gravità della situazione. All’epoca della sua istituzione, l’Orologio prevedeva solo la possibilità di olocausto nucleare a seguito di una guerra atomica ed era arrivato fino a meno due minuti dalla mezzanotte. Dal 2007, in un clima geopolitico mutato, vengono presi in considerazione anche altri scenari in grado di arrecare danni apocalittici all’umanità, quali i cambiamenti climatici ormai in corso. La posizione delle lancette viene fissata in genere una volta l’anno e ora siamo a meno 100 secondi, mai così vicini alla fine del mondo, almeno secondo l’opinione degli scienziati che si occupano di “spostare” le lancette a seconda del contesto, in base comunque a valutazioni piuttosto rigorose e supportate da fatti.

Ma veniamo alla seconda domanda: cosa intendiamo per “fine del mondo”?
Se pensiamo all’Universo, possiamo stare relativamente tranquilli: si espande da 14 miliardi di anni e continuerà a farlo per un tempo più o meno simile, dopodiché non si sa cosa succederà, perché i cosmologi non hanno ancora capito bene se continuerà a crescere o se collasserà su se stesso, magari innescando un nuovo Big Bang, ma abbiamo un tempo sufficientemente lungo per occuparcene.
Se invece pensiamo più modestamente al nostro Sistema Solare, anche qui non abbiamo grosse preoccupazioni: il nostro Sole è una “Nana Gialla”, una stella estremamente stabile che produce energia e calore bruciando idrogeno da 5 miliardi di anni e continuerà per altrettanto tempo a farlo, fino a quando esaurirà il combustibile. A quel punto, prima collasserà su sé stesso a causa della forza di gravità, poi la violenta compressione provocherà un’esplosione di potenza inimmaginabile, facendolo espandere alle dimensioni di una “Gigante Rossa” la cui circonferenza arriverà fino all’orbita terrestre, investendo il nostro povero pianeta e friggendo qualunque forma di vita vi fosse ancora presente. Ma anche qui, abbiamo ancora parecchio tempo per preoccuparci e non è il caso di considerarla un’urgenza.

Ma c’è un’altra “fine del mondo” da tenere in considerazione: quella dell’Umanità, intesa come estinzione di massa, o comunque della civiltà come oggi la conosciamo, con un collasso epocale in termini sia numerici, sia di condizioni di vita, o meglio di sopravvivenza. E qui i rischi ci sono, gravi e incombenti.
I mutamenti climatici sono ormai evidenti a tutti, tranne ai negazionisti di mestiere, come è anche chiara la nostra responsabilità diretta in ciò che sta accadendo, tanto che l’attuale epoca viene definita Antropocene, per rimarcare l’influsso dell’Uomo sul sistema terrestre. Siamo anche abbastanza consci del fatto che stiamo inquinando il pianeta, a partire dall’accumulo delle plastiche nell’ambiente. Più sfumata invece la percezione della perdita della biodiversità e dei rischi sistemici che questa comporta. Ma quella che manca quasi totalmente è la consapevolezza della gravità della situazione, tranne che fra gli addetti ai lavori e fra gli ambientalisti, che però ancora troppo spesso vengono etichettati come Cassandre, allarmisti, pessimisti e chi più ne ha più ne metta.
Purtroppo non è così. Come ha scritto giustamente qualcuno anche su queste pagine, la realtà non lascia più spazio al pessimismo. La situazione attuale ricalca quella preconizzata 30 o 50 anni fa dagli esperti che disegnavano scenari futuri a 30 o 50 anni. Le loro previsioni si sono puntualmente concretizzate, in alcuni casi in termini persino peggiori di quanto paventato. Chi scrive ricorda per esempio una conferenza sull’ambiente di oltre trenta anni fa, nella quale il relatore metteva in guardia sul fatto che con lo scioglimento dei ghiacciai e il modificarsi del regime delle precipitazioni, alla lunga le risaie del Piemonte avrebbero potuto trovarsi in difficoltà per carenza d’acqua nel periodo della coltivazione: ed eccoci qua, esattamente in quella situazione, con parecchi risicoltori in seria difficoltà, come peraltro molti altri coltivatori, messi in ginocchio da una siccità senza precedenti e successivamente colpiti da eventi meteorologici estremi, grandinate e alluvioni che hanno spazzato via in pochi minuti il lavoro di un’intera stagione.

Non siamo ancora ai livelli di una possibile carestia, ma il rischio diventa di anno in anno più concreto, specialmente in un Paese che continua insensatamente a cementificare e asfaltare i campi coltivabili e che nell’arco di pochi decenni ha ridotto drammaticamente la propria sovranità alimentare, ovvero la capacità di produrre sul proprio territorio il cibo destinato alla sua popolazione. Attualmente, siamo già costretti a importare l’equivalente del 38% del nostro fabbisogno di proteine e calorie. Ciononostante, continuiamo a erodere la nostra superficie coltivabile: lo stesso PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che dovrebbe guidare la “transizione ecologica” prevede di sacrificare ulteriori 200.000 ettari di terre fertili per la produzione di energia “verde”.

Nessuno contesta la necessità di riconvertire la produzione energetica puntando sulle rinnovabili e abbandonando il più velocemente possibile le fonti fossili, anzi, gli ambientalisti lo sostenevano da decenni, ben prima che la guerra in Ucraina mettesse in luce la nostra dipendenza dalle forniture russe. Tuttavia, generare energia a scapito della produzione agricola non sembra affatto una buona idea, perché lo stesso conflitto ha messo bene in evidenza anche la nostra dipendenza dalle importazioni di grano da Russia e Ucraina, cosa della quale non avevamo contezza. Per essere davvero “resiliente“, una nazione dovrebbe prima di tutto puntare all’autosufficienza alimentare oltre che energetica, sfruttando con oculatezza le proprie risorse ambientali, a partire dall’acqua e dalle terre fertili per arrivare al sole e al vento, che dovrebbero diventare i nostri fornitori esclusivi di energia, senza però impattare sull’ambiente. Constatare che il PNRR non è sufficientemente incisivo in questa direzione, anzi che addirittura si muove in modo contraddittorio, non è per nulla rassicurante.

La situazione è persino peggiore se allarghiamo lo sguardo a livello globale. Pensiamo al fondamentale rapporto “I limiti dello sviluppo” commissionato dal Club di Roma al MIT di Boston, che proprio quest’anno compie 50 anni e che ha chiarito oltre ogni dubbio che non si può crescere all’infinito in un sistema finito, quale è il nostro pianeta. Gli scenari delineati da quello studio sono attualissimi e le previsioni si sono dimostrate azzeccate, alla faccia delle innumerevoli critiche che hanno cercato di delegittimare il rapporto in ossequio alla concezione “sviluppista” tuttora in corso. Dopo la flessione produttiva dovuta alla pandemia Covid-19, abbiamo sentito da più voci ripartire il mantra della “crescita”, vista come unica opportunità per garantire benessere. Evidentemente, non abbiamo ancora capito la situazione.

Eppure, i segni della catastrofe imminente sono già presenti, non sono nemmeno più “segnali premonitori”, tuttavia ci rifiutiamo di vedere le cose per quello che sono e, soprattutto, non sembriamo intenzionati a porre rimedio alla situazione, perché ciò significherebbe mettere in discussione le nostre abitudini e i nostri stili di vita, mutare radicalmente il nostro paradigma produttivo ed economico. Tutte cose che non vogliamo fare, anche se ci stanno portando verso l’autodistruzione. Perché ci sono seri motivi se gli scienziati hanno messo le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse a soli 100 secondi dalla fine.

Il 2022, ci dice la cronaca, è l’anno più caldo e arido di sempre. Finora. Ma per visualizzare la situazione occorre un cambio di prospettiva: il 2022 rischia di essere l’anno più fresco e mite dei prossimi 30 anni, poi forse la situazione peggiorerà ulteriormente, ma di quello non è il caso di preoccuparsi, perché è possibile che ci estingueremo prima, a causa del collasso delle risorse planetarie, a partire da acqua e cibo, e delle guerre e dei conflitti che si innescheranno per accaparrarsi tutto il possibile. La conflittualità mondiale è in crescita esponenziale: russi contro ucraini, israeliani contro palestinesi, cinesi contro taiwanesi, bianchi contro neri, uomini contro donne, tutti contro tutti. Segno di un’umanità in declino che si auto divora nell’illusione di poter sopravvivere a scapito dell’altro, homo homini lupus e mors tua vita mea direbbero gi antichi. In alternativa, alcuni mega ricchi hanno pensato di blindarsi in Nuova Zelanda, paese ricco di risorse, probabilmente il più attento e avanzato in termini di tutela ambientale e, cosa non trascurabile, decisamente isolato dal resto del mondo. Un’isola felice dove i drammi globali impatterebbero assai meno che altrove. Ma le strategie di aggressione o fuga rischiano di essere entrambe fallimentari.

Il riscaldamento globale provocherà mutamenti climatici estremi, di cui i fenomeni attuali sono solo una pallida anteprima. L’alimentazione mondiale, basata su una varietà limitatissima di prodotti coltivati industrialmente, è totalmente priva della resilienza garantita dalla biodiversità: se le mutate condizioni climatiche dovessero impedire qualcuna delle monoculture su cui si basa il sistema agroindustriale, rischiamo di non avere un’alternativa in grado di sopperire ai mancati raccolti. L’accordo di Parigi prevedrebbe di contenere il surriscaldamento globale “ben al di sotto di 2°“, ma il modello di business che continuiamo a perseguire rischia di portare a un aumento medio anche di 3° - 3.5° nell’arco di questo secolo, con conseguenze inimmaginabili. Di sicuro, i ghiacciai sono destinati a scomparire nel giro di pochi anni, gradualmente o anche in modo traumatico, come ci ha mostrato la tragedia della Marmolada.

I mari saliranno inesorabilmente, nel 2050 il livello potrebbe essere più alto di 30 o 90 centimetri, a seconda degli studi. Se vi sembrano pochi, provate a chiederlo ai veneziani in un giorno di “acqua alta”. Oppure calcolate la porzione di territorio del Bangladesh destinata a diventare invivibile a causa di alluvioni o della salinizzazione delle falde acquifere, tenendo presente che sono 160 milioni in un territorio metà dell’Italia, quindi ogni Km quadrato perso vuol dire 1.000 profughi climatici. In circa trent’anni, la Grande Barriera Corallina australiana, culla di biodiversità oceanica, ha perso metà della sua superficie e rischia di scomparire del tutto, perché innalzamento e acidificazione delle acque uccidono i coralli. Entro il 2050 in mare ci sarà più plastica che pesce, lo dicono i numeri, ma noi pensiamo di aumentare ancora la produzione di plastica e sfruttiamo i banchi ittici più velocemente d quanto siano in grado di ripopolarsi. E sulla terraferma non va meglio.

La fotografia è quella di un pianeta al collasso, non più in grado di mantenere una umanità in crescita di numero e voracità. Tuttavia, lo scenario attuale è in genere quello del business as usual, avanti come se nulla fosse, continuando a segare il ramo su cui stiamo tutti seduti.
Eppure i rimedi li conosciamo da tempo: stop ai combustibili fossili, fermare il consumo di suolo, mangiare meno carne, elettrificare i trasporti utilizzando le rinnovabili, implementare l’economia circolare… Una pletora di buone intenzioni attuate solo in minima parte, insufficiente a cambiare il corso delle cose.

Noi, gli ambientalisti accusati di pessimismo, disfattismo e di “dire di no a tutto”, continueremo a impegnarci per invertire la rotta, per frenare il disastro, per salvaguardare l’ambiente, ma le forze a disposizione sono poche. Chi invece devasta ha dalla sua fiumi di denaro, potere e influenza su politici e sistema mediatico. Ma a pesare di più sul piatto della bilancia e a farci scivolare inesorabilmente verso il baratro è soprattutto l’inerzia, o forse il menefreghismo, della grande massa della popolazione, troppo incentrata su una quotidianità sempre più faticosa per vedere la catastrofe all’orizzonte.
A fronte di ciò, come detto, noi ambientalisti possiamo solo impegnarci in prima persona per quanto possiamo e informare l’opinione pubblica sulla gravità della situazione: siamo a meno 100 secondi dall’Apocalisse, dice l’orologio, mai così vicini. Tradotto, i dati e le previsioni di quelli che ci hanno già azzeccato in passato ci dicono che siamo a una trentina d’anni da un epocale collasso planetario, graduale o repentino che sia, che rischia di spazzare via le generazioni presenti, non quelle future. 0ra lo sapete. Se decidete di agire, fatelo alla svelta.

Due Parchi, cento anni, sei parole

Toni Farina

Due parchi: Abruzzo (Lazio e Molise) e Gran Paradiso. Cento sono gli anni trascorsi dalla loro nascita. Una ragione più che valida per fare festa. E sono stati soprattutto giorni di festa con tanto di taglio di torta quelli trascorsi a Roma da venerdì 22 a domenica 24 aprile all’Auditorium Parco della Musica. Tre regioni di incontri finalizzati soprattutto a enfatizzare i risultati raggiunti. In primis la salvezza delle specie simbolo dei due parchi, orso marsicano e stambecco che uniti vivacizzano il logo ideato per il centenario. E non sono risultati di poco conto, considerati i 69 anni trascorsi dal 1922 al 1991, anno di approvazione della legge quadro nazionale che ha dato finalmente origine a un sistema nazionale di aree protette.
Un evento nazionale che sarà seguito da eventi locali fino alla primavera del 2023. Sarà opportuno che in tali sedi non ci si limiti alle celebrazioni, ma si ragioni sui cento anni a venire che si annunciano tutt’altro che semplici.
L’evento nazionale che ha avuto eco mediatica soprattutto grazie alla presenza il primo giorno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il Presidente non ha gratificato la platea con un intervento, ma la sua presenza è stata comunque un importante segno di attenzione istituzionale.
Officianti ufficiali della celebrazione sono stati i due presidenti: Giovanni Cannata, fresco di insediamento alla guida del Parco nazionale d’Abruzzo, e Italo Cerise che a settembre terminerà il suo secondo mandato alla guida del Parco nazionale Gran Paradiso. Dieci anni di impegno finalizzato in gran parte a consolidare il rapporto con le amministrazioni e comunità locali, a superare i dissidi che hanno caratterizzato la vita del parco. Obiettivo in buona parte raggiunto, considerata la folta presenza dei sindaci in sala, con tanto di fascia tricolore.

Molte le parole proferite negli incontri. Gli autorevoli intervenuti hanno ribadito concetti importanti, a partire dal valore della tutela della biodiversità, esaltato soprattutto da Giampiero Sammuri, presidente di Federparchi: “l’Italia è il primo paese in Europa per varietà di specie naturali” (ma non è certo il primo per impegno nella loro tutela, aggiungo io).
Parole come un fiume in piena, dal quale ne ho tirate a riva quattro: laboratorio, territorio, governo, limite.
Laboratorio. I parchi “laboratorio di sostenibilità ambientale”, non è una tesi coniata di recente, ma nella tre giorni romana la tesi è stata ufficialmente sdoganata. Molti interventi hanno ribadito il concetto. Ma quanti l’hanno affermato con cognizione di causa? Perché se la missione dei parchi è questa, le risorse messe oggi a loro disposizione sono men che ridicole. Risorse finanziarie e risorse umane, la cui carenza è stata ampiamente ribadita dal Presidente Cerise.

Territorio. Termine che va per la maggiore, per i primi posti se la gioca con “sinergia” e “fare sistema”. Ascoltare il territorio, valorizzare il territorio, cose così, insomma. Ma, qual è il territorio di competenza di un parco? Soprattutto di grandi parchi come i festeggiati che interessano più regioni. Possono limitare la loro azione di governo all’area interna ai confini? Se così fosse la missione di cui sopra è fallita in partenza. Si pensi solo al turismo, alla mobilità dei flussi. Quando che nel consiglio direttivo del Gran Paradiso di cui faccio parte affermo che il parco inizia non a Ceresole o a Ronco, ma a Torino (per quanto riguarda il Piemonte), sono guardato in modo “strano”. Tuttavia, il flusso di visitatori motorizzati che preme ai confini dell’area protetta, fuggendo dalla città nelle torride domeniche estive è un problema la cui (difficile) soluzione va cercata fin dalla città o dalla pianura. E il parco volente o nolente è coinvolto.

Governo. O per meglio dire “governance”, termine tecnico che non poteva non entrare a buon diritto. Gli abissali ritardi nel rinnovo degli organi direttivi degli enti (presidente in primis) sono un vero handicap per la funzionalità degli enti. Ritardi in buona misura dovuti alla ricerca quasi paranoica della condivisione locale, con i veti incrociati e il bilancino a dosare l’alternanza fra regioni e comuni. E la competenza dei candidati quasi sempre messa nell’angolino.

Limite. Il termine ha in realtà brillato per l’assenza. A quel che ricordo soltanto direttore del Parco d’Abruzzo (Lazio e Molise) Luciano Sammarone ne ha accennato in una slide, facendo riferimento a forme di turismo in espansione, quale il turismo detto esperienziale o la fotografia naturalistica. Un segno questo di quanto tale termine continui a creare inquietudini.
A queste quattro parole ne aggiungo due che, al netto dei cali di attenzione, non ho udito negli interventi: libertà e pace.

Libertà. “Acque libere: uomini liberi - Qui comincia il paese della libertà”. Si incontrano queste parole su alcune bacheche collocate all’inizio di alcune frequentate mulattiere del Parco Gran Paradiso. Fanno parte di un manifesto dedicato al parco dallo scrittore e cineasta francese Samivel.
Subito a seguire però Samivel specifica: “La libertà di comportarsi bene”.
Come declinare questo invito oggi, 2022, anno secondo della transizione ecologica? Cosa vuol dire comportarsi bene in un parco naturale? Un luogo in cui Homo sapiens dovrebbe entrare in punta di piedi, perché la priorità andrebbe data agli altri esseri viventi. Per il Parco nazionale Gran Paradiso la risposta arriverà con l’approvazione del regolamento. Norme che dovranno sanare vuoti in diversi ambiti, da una puntuale pianificazione territoriale alla fruizione turistica. Norme che daranno un segnale per i 100 anni a venire.

Pace. Non so il terzo giorno di incontri, ma nei primi due questa parola non è giunta. Eppure, di questi tempi, un appello neppur troppo simbolico, alla pace fra Uomo e Natura sarebbe stato una bella cosa. Perché la pace fra uomo e natura non è poi molto diversa di quella fra uomini.
Auguri a noi e ai due parchi centenari. I prossimi cento sono un bel dilemma.

Appendice
C’è stata un’altra assenza durante la tre giorni romana: le associazioni di tutela ambientale. Gli “ambientalisti”. Nessun spazio è stato riservato alle associazioni negli interventi. Solo Legambiente aveva uno spazio espositivo dell’area detta “villaggio dei parchi”. Come interpretare tutto ciò?
Il movimento della protezione della natura è ormai obsoleto? Un fastidioso ingombro?
Un residuo del passato, di cui non si avverte più necessità? I parchi hanno dunque lasciato l’alveo originario per avventurarsi verso sorti magnifiche e progressive? Per una risposta non ci sarà da attendere 100 anni.

Transizione energetica: la vogliamo fare per davvero?

Riccardo Graziano

La transizione energetica è una necessità assoluta, sia in termini ambientali, sia in termini economici. L’Italia sembrerebbe esserne pienamente consapevole, tanto da aver istituito un apposito Ministero, che ha preso il posto di quello che era il Ministero dell’Ambiente. Sembrerebbe, appunto. Perché alle volte l’impressione è che il Ministro sia lì per ostacolarla, la transizione, o perlomeno per attuarla avendo come bussola di riferimento gli interessi di alcune compagnie energetiche, piuttosto che l’emergenza climatica. Infatti, suona abbastanza strano che per attuare il necessario e ormai indifferibile abbandono dalle fonti fossili che provocano l’effetto serra, si punti sul metano, gas fossile a elevato effetto serra. O che per diminuire la dipendenza dal gas russo si punti sul gas dell’Azerbaijan, paese contiguo alla Russia stessa. O ancora, che si indichi la soluzione miracolistica del nucleare di “quarta generazione”, che di fatto non esiste e che potrebbe essere operativo, forse, fra trent’anni, senza peraltro risolvere l’annoso problema delle scorie radioattive. Invece, dalle parti del Ministero si parla troppo poco di energie rinnovabili, che sono la vera soluzione ai problemi energetici del nostro Paese e la strada giusta per mitigare il riscaldamento globale, oltre a presentare vantaggi anche dal punto di vista economico e occupazionale.
Le ragioni per spingere in questa direzione sono essenzialmente tre: la necessitò di arginare la crisi climatica, la crescente competitività economica delle rinnovabili e il forte ritardo accumulato dall’Italia nel percorso di decarbonizzazione, che rischia di porci in difetto e farci sanzionare per il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dagli accordi internazionali.

Il fatto che le rinnovabili rappresentino il futuro della produzione energetica è ben chiaro da tempo agli ambientalisti e a una fetta crescente di opinione pubblica, ma soprattutto lo hanno capito anche molti operatori del settore, che hanno fiutato ottime possibilità di business, specialmente in vista della pioggia di soldi in arrivo col PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, da attuare con i fondi previsti dalla UE.
Sono proprio questi produttori a premere sull’acceleratore e a mettere in risalto i vantaggi delle rinnovabili, fornendo forse la spinta decisiva verso la necessaria svolta energetica, da tempo auspicata dagli ecologisti. Ma non è tutto “verde” quello che luccica…

Partiamo dalle considerazioni economiche, che sono quelle più care ai produttori. Il prezzo dei contratti di acquisto a lungo termine di energia rinnovabile sono scesi a precipizio nell’arco di pochi mesi, passando da 270 €/MWh a 68 €/MWh, meno di un quarto rispetto all’autunno scorso. Inoltre, sul lungo periodo la IEA (International Energy Agency) prevede che almeno la metà degli asset (i beni di proprietà) delle aziende legate al fossile subiranno sensibili deprezzamenti già entro il 2036, abbassando la capitalizzazione di questi soggetti, motivo per cui anche le nazioni più retrive, Cina e India (che prevedono l’uscita dal fossile rispettivamente al 2060 e 2070) potrebbero decidere di anticipare la transizione, per evitare dissesti finanziari.

Accelerare sulla decarbonizzazione, oltre che una necessità ambientale, è dunque anche una scelta strategica vincente sul lato economico, con importanti ricadute positive tecnologiche e occupazionali. Le stime ci dicono che puntando in maniera decisa verso l’elettrificazione (nel settore della mobilità, nell’ambito domestico eccetera) nel 2030 il fabbisogno energetico italiano dovrebbe aggirarsi sui 340-350 TWh, anche se non è semplice calcolare i risparmi derivanti dall’aumento dell’efficienza e dalla progressiva dismissione delle raffinerie di combustibili fossili, impianti altamente energivori, oltre che fonte di inquinamento. Questo fabbisogno andrà soddisfatto aumentando la quota di rinnovabili nel mix energetico italiano, passando dall’attuale 40% al 72%. In termini assoluti, si tratta di passare dai circa 180 TWh prodotti col gas nel 2019 a 80 TWh nel 2030, mettendoci anche parzialmente al riparo dal’impennata dei prezzi di questo combustibile, che oggi pesa tantissimo sui rincari delle nostre bollette. Questi 100 TWh di differenza dovranno essere garantiti dall’installazione di nuovi impianti rinnovabili per 70 GW di potenza, essenzialmente fotovoltaico ed eolico, il cui prezzo è decisamente meno soggetto ai capricci del mercato, al limite un po’ a quelli del meteo. Per capirci, i rincari dei prezzi del gas hanno provocato un incremento della bolletta nazionale dai 44 miliardi del 2019 ai 75 del 2021, un aumento di 31 miliardi che ci saremmo risparmiato se avessimo già avuto un maggior apporto dalle fonti rinnovabili pari a quello previsto per il 2030, appunto 70 GW di potenza in più. Un obiettivo teoricamente a portata di mano, se si considera che Terna, il gestore della rete di distribuzione nazionale, ha già ricevuto richieste di allacciamento per 155 GW di nuovi impianti, più del doppio della cifra ipotizzata. La stessa Enel, maggior produttore nazionale, prevede 210 miliardi di investimenti “verdi” da qui al 2030 e l’uscita completa dal fossile nel 2040.

A fronte di ciò, i produttori lamentano la lunghezza degli iter autorizzativi (cinque anni il tempo medio per il via libera) e l’elevata percentuale di mancate autorizzazioni: su 42 pareri espressi dalle Regioni, 41 sono negativi, su 45 pareri espressi dal Ministero della Cultura, 35 sono negativi. Sempre i produttori pongono l’accento sulle calamità provocate dall’emergenza climatica, che ogni anno costano all’Italia miliardi di danni per compensare le devastazioni del territorio, sostenendo che la difesa del territorio medesimo passa proprio attraverso quegli impianti che spesso non vengono autorizzati per ragioni paesistiche e ambientali.

Ed è proprio qui che si annida il rischio che qualcuno ha giustamente intravisto nella modifica dell’articolo 9 della Costituzione, dove alla tutela del paesaggio si affianca quella dell’ambiente, anche a vantaggio delle “future generazioni”. Lo stesso rischio ancora più evidente nel “Decreto semplificazioni” studiato per eliminare i “lacci burocratici”, o nel continuo depotenziamento delle Soprintendenze. Il rischio, per dirla chiaramente, che il territorio e il paesaggio, elementi caratteristici e vincenti del Belpaese, vengano sacrificati per piazzare un po’ ovunque pale eoliche gigantesche o impianti fotovoltaici a terra, con la scusa di “tutelare l’ambiente a vantaggio delle future generazioni”. Secondo le previsioni dell’ISPRA – l’Istituto nazionale che si occupa di ricerca e protezione ambientale – e del GSE (Gestore Servizi Energetici) potremmo subire una perdita compresa tra i 200 e i 400 chilometri quadrati di aree agricole entro il 2030 per il fotovoltaico a terra, a cui secondo Enel se ne aggiungerebbero altri 365 per nuovi impianti eolici.

E pensare che abbiamo una porzione enorme di territorio già ampiamente cementificato, asfaltato, impermeabilizzato, spesso già in stato di abbandono e degrado, senza necessità di devastare altro suolo. Sempre secondo l’ISPRA, la superficie di tetti dove sarebbe possibile installare pannelli fotovoltaici è sui 700/900 chilometri quadrati, quanto basterebbe per produrre i 70 GW in più che ci servono. Se poi aggiungiamo parcheggi e aree dismesse, possiamo valutare un’ulteriore superficie in grado di fornire altri 60 GW di potenza installata, senza consumare un metro di suolo. Eppure queste ipotesi non vengono minimamente prese in considerazione, mentre ci si ostina a voler occupare terreno vergine, che invece andrebbe riservato alla produzione agricola o alla tutela della biodiversità e dei servizi ecosistemici.

La sfida per le Associazioni ambientaliste è dunque quella di far capire all’opinione pubblica e ai produttori di energia che questa è la strada da percorrere, evitando il consumo di suolo e generando l’energia direttamente dove serve, sui tetti delle case e dei capannoni industriali o nei parcheggi dei centri commerciali, anziché in mezzo alle campagne. Facendo capire che non siamo quelli del “NO” allo sviluppo, bensì che vogliamo indirizzare il progresso in modo tale da ottenere la riconversione energetica senza danneggiare l’ambiente, puntando sull’innovazione tecnologica sia degli impianti di produzione e accumulo, sia della rete di distribuzione.

Ci mancava la peste suina...

Roberto Piana e Piero Belletti

Le vicende legate alla presenza del cinghiale sul territorio sembra non possano mai avere pace. A fianco delle ormai croniche problematiche legate ai danni all’agricoltura, si è recentemente aggiunta anche l’epidemia di peste suina africana, di cui alcuni focolai sono stati individuati nei mesi scorsi nelle zone al confine tra le Province di Alessandria, Genova e Savona.
La reazione del mondo politico, ma soprattutto di quello venatorio, è stata improntata più all’isterismo che alla pacata e razionale analisi dei fatti. Da un lato, infatti, si sono adottati provvedimenti di eliminazione generalizzata di cinghiali, ma anche di maiali, nelle aree coinvolte. Non solo, è anche stata confermata la concessione ai cacciatori di effettuare i cosiddetti piani di prelievo (ci rifiutiamo di considerarli “selettivi”…), anche con l’aiuto dei cani. Cosa che è unanimemente riconosciuta come deleteria, sia per la diffusione dei cinghiali che viene provocata, sia per il pesantissimo impatto su molte altre specie animali che condividono l’areale con il cinghiale. Dall’altra parte si sono sentite assurde accuse contro la presenza del lupo, che invece rappresenta forse l’arma più efficace per contrastare la diffusione dell’epidemia.
Va in ogni caso riconosciuto che le difficoltà del mondo agricolo legate alla diffusa presenza della specie sul territorio, reali ed oggettive, non hanno trovato adeguate risposte da parte degli Enti Pubblici, a partire dallo Stato fino a giungere alle varie Amministrazioni Regionali.

Il cinghiale, all’inizio del secolo scorso, era scarsamente presente in Italia e limitato ad alcune aree dell’Italia centro-meridionale e della Sardegna. Di fatto era assente in tutto il nord del Paese. In seguito, una forte espansione dell’areale venne ottenuta da un lato a seguito dell’abbandono di numerose aree fino ad allora coltivate, ma soprattutto a seguito di massicce immissioni di esemplari provenienti da allevamenti oppure dall’estero, unicamente per fini venatori e incoraggiate dagli Enti Pubblici di riferimento: Regione e Province. Tra l’altro, tali interventi hanno riguardato la sottospecie centro-europea (e non quella maremmana autoctona nel nostro Paese), più grande e prolifica, ma anche più esigente dal punto di vista alimentare. Nel giro di pochi anni la presenza di questo suide si è così radicata sul territorio nazionale, interessando sempre di più le aree agricole e causando danni ingentissimi alle coltivazioni. I danni, mai adeguatamente ristorati o mitigati dalle politiche gestionali di settore, hanno messo in difficoltà e spesso in ginocchio le imprese agricole. La compromissione degli ambienti naturali è progredita in parallelo, impoverendo la biodiversità degli ecosistemi. L’abnorme diffusione del cinghiale, voluta dal mondo venatorio, ha causato la sottrazione di ambienti e risorse trofiche alle altre specie selvatiche. Le politiche venatorie, per decenni seguite ed ancora oggi propagandate come metodo di gestione della specie, sono miseramente fallite. Oggi assistiamo in tutta Italia a una situazione di fatto in cui l’allevamento dei cinghiali allo stato brado avviene a spese del mondo agricolo e degli ambienti naturali.
Braccate e girate con l’utilizzo dei cani determinano la disgregazione dei gruppi sociali di questo suino, la dispersione dei capi, la perdita della sincronizzazione dell’estro delle femmine, la costituzione di nuovi branchi a spese dei campi coltivati, l’aumento degli incidenti stradali, il danno alle altre specie selvatiche, la “militarizzazione” del territorio ad opera delle squadre dei cinghialai, l’aumento del pericolo anche per gli esseri umani. Ormai nessuno crede più che i cacciatori, cioè coloro che hanno contribuito a realizzare questa situazione, possano proporsi come gestori e solutori del problema.

Parallelamente alla crescita numerica dei cinghiali si è realizzata una filiera clandestina della carne, con pericoli sanitari ed una economia sommersa che sfugge ai controlli fiscali. Si realizza così l’illecito guadagno di pochi a danno di tutti.
Per cercare di migliorare la situazione è stato avviato in Piemonte un confronto tra ambientalisti ed agricoltori. Confronto che prosegue tuttora e che coinvolge anche altre Organizzazioni professionali.
Un primo importante risultato è stato ottenuto: le Associazioni ambientaliste ed animaliste del "Tavolo Animali & Ambiente" di Torino (tra cui Pro Natura Torino e Pro Animali e Natura, entrambe aderenti alla Federazione Nazionale Pro Natura) hanno convenuto sulla assoluta necessità di riduzione numerica della specie cinghiale a livelli compatibili con il legittimo diritto di chi coltiva di poter raccogliere ciò che semina, a partire dalla corretta applicazione dell’art. 19 della Legge n. 157/1992, che antepone gli interventi ecologici a quelli cruenti, affidandone la gestione agli Enti Pubblici e non ai cacciatori, per i quali è fin troppo evidente il conflitto di interesse.
Alla luce dell’attuale drammatica situazione, il COAARP (Comitato Amici degli Ambienti Rurali del Piemonte) ed il citato Tavolo, pur nella differenza degli interessi rappresentati e delle diverse metodiche di approccio al problema, si sono trovati concordi sull’analisi della situazione in atto e sugli irrinunciabili principi e obiettivi, riassunti in un manifesto articolato in cinque punti.

1. La riduzione numerica della specie cinghiale sul territorio a livelli compatibili è obiettivo irrinunciabile, a partire dalla corretta applicazione dell’art. 19 della Legge n. 157/1992, che antepone gli interventi ecologici a quelli cruenti, affidando la gestione agli enti pubblici e non ai cacciatori. La gestione del cinghiale deve essere sottratta al mondo venatorio, che non ha alcun interesse a vedere ridotta numericamente la specie e per il quale è fin troppo evidente il conflitto d’interesse. Le attività di controllo competono alle Province e alle Città Metropolitane attraverso il proprio personale e non ai cacciatori.

2. L’agricoltore ha diritto di poter raccogliere ciò che semina. I ristori, peraltro doverosi che arrivano dalla politica, interessano poco: alle già tante difficoltà create dagli eventi atmosferici non vi è bisogno si aggiungano le calamità create dal mondo venatorio per soddisfare i propri interessi ludici ed economici.

3. L’attività venatoria non costituisce alcun valore aggiunto per l’agricoltura Il cacciatore usufruisce gratuitamente dei terreni privati, coltivati e non, a spese dei proprietari e spesso è anche di ostacolo ad utilizzi turistici e culturali in grado di sviluppare economie locali ecologicamente compatibili. L’agricoltore ha il diritto di poter escludere dai propri fondi coloro che ritiene possano essergli causa di danni. Il superamento della deroga pro caccia dell’art. 842 del Codice Civile, che consente al cacciatore di poter entrare nei fondi privati contro il volere del proprietario, dovrà trovare accoglimento da parte del legislatore.  

4. No alla realizzazione di una filiera della carne di cinghiale L’ipotesi della realizzazione di una filiera della carne di cinghiale determinerebbe unicamente la permanenza e l’incremento dell’attuale situazione.

5. Il futuro dell’attività agricola sarà nel tempo sempre più improntato a produzioni ecologicamente sostenibili, rispettose degli equilibri ambientali e del benessere degli animali nonché valorizzanti le produzioni e le eccellenze locali con il saggio decremento delle importazioni dai Paesi esteri.
Un primo passo, lungo una strada difficile ma che è necessario intraprendere, nella speranza che anche in altre realtà regionale si organizzi qualcosa di simile.

Guerra in Ucraina

Riccardo Graziano

Giovedì 24 febbraio, alle prime luci dell’alba, le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, attaccandola su più fronti, da nord, est e sud. Quella che i russi, con colossale ipocrisia, continuavano a indicare come “esercitazione” si è trasformata nella più grande occupazione di una nazione sovrana europea dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, l’equivalente dell’aggressione nazista e sovietica del 1939 contro la Polonia.
L’evento è di una gravità inaudita, sia per i cittadini ucraini, che subiscono in prima persona la violenza dei combattimenti, sia per l’Europa, dove si ripercuoteranno contraccolpi di notevole portata, sia per il mondo intero, dove iniziano a delinearsi con chiarezza nodi di tensione destinati a esplodere in conflitti fra i blocchi di potere che puntano a conquistare la supremazia planetaria.
Si tratta di un evento di portata storica e globale, destinato  a impattare anche sulle nostre vite, anche se al momento ce ne rendiamo conto solo in parte. Un avvenimento che presenta molteplici profili di complessità, sotto l’aspetto strategico, politico, economico, sociale e ambientale, che una rivista come la nostra, che si chiama non a caso Natura e Società, ha il dovere di analizzare. Perché sappiamo bene che la giustizia climatica non è raggiungibile senza giustizia sociale e viceversa. E sappiamo bene che, con le sfide ambientali che incombono, l’umanità dovrebbe utilizzare ogni risorsa disponibile per tutelare la propria sopravvivenza, anziché accelerare sulla strada della propria autodistruzione.
Data l’ampiezza della questione, ci concentreremo principalmente sugli aspetti più vicini alle tematiche ambientali e su come queste vengano “considerate” dai vertici del Cremlino, gli stessi che hanno pianificato e lanciato l’attacco contro l’Ucraina.
Una cosa però ci preme ricordare, al di là di ogni retorica: come sottolineava Gino Strada, uno che sapeva bene di cosa parlava, dopo decenni passati a praticare chirurgia d’emergenza in zone di conflitto, la guerra provoca morti, feriti, invalidi, traumatizzati. Il 90 per cento di queste vittime sono civili indifesi, di cui un terzo bambini. Persone che subiscono senza colpa le smanie di potere e le ambizioni di conquista del potente di turno, in questo caso Vladimir Putin, il nuovo zar di tutte le Russie, che accarezza il sogno di ricostruire l’Unione Sovietica.

L’impero del fossile
Da quando Putin si è insediato al Cremlino, ha perseguito con determinazione a tratti feroce la ricostruzione politica, economica e militare di un Paese in crisi profonda dopo il crollo dell’URSS e il saccheggio delle sue enormi ricchezze perpetrato attraverso la privatizzazione selvaggia di beni e aziende statali. Lo ha fatto puntando dal punto di vista politico sul sentimento nazionalista ferito e dal punto di vista economico sulla disponibilità di risorse fossili, in particolare gas e petrolio, da vendere a un mondo sempre più affamato di energia. Il colosso petrolifero russo Gazprom è fra i principali produttori ed esportatori di combustibili fossili, nonché fra i maggiori responsabili mondiali di emissioni di gas a effetto serra, fattore che è alla base dei cambiamenti climatici ormai evidenti. La transizione ecologica verso le rinnovabili, sempre più urgente, viene regolarmente ostacolata da una serie di Paesi le cui economie si reggono sulle fonti fossili, utilizzate in proprio o esportate che siano. La Russia è uno di questi Paesi, come ha dimostrato per esempio alla Cop 24 di Katowice, dove insieme al Kuwait, all’Arabia Saudita e agli USA di Trump, ha manovrato per annacquare gli accordi finali del vertice, anche perché sembra convinta di avere tutto da guadagnare dai mutamenti climatici, a scapito delle nazioni della fascia temperata che vanno verso la tropicalizzazione del clima o dei piccoli Stati insulari, che rischiano di essere sommersi dall’innalzamento degli oceani.

Gli amici del cambiamento climatico
Fino a oggi gran parte del territorio russo è stato caratterizzato da un clima estremamente rigido: la Siberia è sinonimo stesso di freddo glaciale e condizioni di vita estreme. Dal punto di vista di Mosca, il riscaldamento globale sembrerebbe vantaggioso, perché potrebbe trasformare le gelide steppe del nord da distese di muschi e licheni in terre fertili e coltivabili, su un’estensione tale da garantire una produzione in grado di soddisfare mezzo pianeta, mentre le attuali zone temperate vedrebbero il proprio clima tropicalizzarsi o peggio desertificarsi, come potrebbe succedere anche all’Italia. Già oggi grazie all’innalzamento delle temperature la produzione di grano in Russia è salita vertiginosamente, tanto da farla diventare il maggior esportatore a livello mondiale, proprio a scapito della quota della UE. Ne consegue che la classe dirigente moscovita non sembra minimamente preoccupata dal costante surriscaldamento atmosferico, nonostante sia potenzialmente nefasto anche per il loro territorio, che a causa di siccità prolungate e temperature anomale ha visto svilupparsi incendi devastanti nelle foreste boreali del Paese. Nel 2020 gli incendi hanno devastato un'area di 27,75 milioni di ettari, di cui il 64% erano boschi. Nel 2021 si stima sia andata ancora peggio, con circa 30 milioni di ettari in fumo, più o meno come se fosse bruciata l’intera Italia.

Inoltre, è noto che il surriscaldamento delle zone artiche provoca lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno un tempo perennemente ghiacciato, con tutte le conseguenze che questo comporta, a partire dall’instabilità che si crea sotto la superficie. Si sono già registrati vari episodi di sprofondamento del terreno, a volte con l’apertura di vere e proprie voragini. Finché questo accade in qualche zona spopolata, va ancora bene. Ma quando succede sotto le (per fortuna poche) zone abitate della regione, la questione cambia. La città di Vorkuta ha già visto quasi metà dei suoi edifici inclinarsi pericolosamente, a causa dell’instabilità del terreno. Ma ancor peggio è andata a Norilsk, dove sono collassate le fondamenta di un deposito di carburante che ha riversato 20.000 tonnellate di gasolio nei terreni e nelle acque circostanti, provocando danni per milioni di dollari. Più in generale, lo sprofondamento non uniforme del terreno provoca infossamenti, crepe e collassi in tutte le infrastrutture delle zone a cavallo del circolo polare, con la necessità di spendere milioni di dollari per rattoppare i danni. Il cambiamento climatico è dunque una minaccia anche per la Russia, così come per il resto del mondo, ma allo zar queste quisquilie non interessano: lui il mondo vuole dominarlo, mica preservarlo per le future generazioni.      

Ghiaccio bollente
Un altro degli effetti del riscaldamento globale è lo scioglimento della calotta polare artica, in rapida accelerazione. Da tempo il mondo scientifico e ambientalista ha lanciato l’allarme per il rischio di perdere questa zona glaciale, un vero e proprio “termoregolatore” planetario che contribuisce alla “climatizzazione” globale e che aumenta l’albedo della Terra, ovvero la sua capacità di riflettere i raggi solari: nel momento in cui la superficie ghiacciata si riduce, le acque scure del mare artico assorbono maggiori quantità di radiazioni e si riscaldano, facendo sciogliere ulteriormente la calotta. Un fenomeno dunque che si autoalimenta e rischia di far scomparire del tutto i ghiacci del Mare Artico, provocando conseguenze gravi e imprevedibili sulla circolazione delle acque e sulla flora e fauna marine. Uno scenario che preoccupa scienziati e ambientalisti, ma che la Russia vede invece come un’opportunità, perché consentirebbe di aprire nuove rotte commerciali nordiche e transpolari attualmente precluse dalla presenza dei ghiacci. Inoltre, con una buona dose di cinismo, la Russia ha pensato di approfittare dei tratti di mare già liberati dal ghiaccio per sfruttare giacimenti fossili sottomarini finora difficilmente raggiungibili. Qualche anno fa, la motonave Arctic Sunrise di Greenpeace aveva solcato quelle acque per manifestare pacificamente il dissenso verso le trivellazioni petrolifere nelle acque polari. La marina russa aveva immediatamente abbordato l’imbarcazione, ponendola sotto sequestro e imprigionando per varie settimane gli attivisti a bordo, ennesima riprova della “democraticità” dei metodi di Mosca e della sensibilità sociale e ambientale che si respira da quelle parti.

E-missioni di guerra
Un carro armato consuma in media 2 o 3 litri di carburante a chilometro, vale a dire 200/300 litri ogni 100 km. Per un’ora di volo, un elicottero da combattimento brucia circa 500 litri di carburante, un cacciabombardiere oltre 16.000. I mezzi di appoggio mediamente necessitano di un litro a chilometro. I carburanti emettono in media 2,5 kg di anidride carbonica per ogni litro bruciato. Utilizzando questi dati, il portale di meteorologia Nimbus nel 2003 aveva calcolato l’ordine di grandezza delle emissioni della scellerata guerra degli USA di Bush jr. in Iraq, quantificandolo in oltre 112.000 tonnellate di anidride carbonica al giorno, derivanti dai circa 45 milioni di litri di carburante utilizzati quotidianamente nei combattimenti [http://www.nimbus.it/articoli/2003/030325climaguerra.htm]. Il dispiegamento di forze in Ucraina da parte di Mosca è presumibilmente inferiore, ma ciò non toglie che le emissioni saranno elevatissime. Un brutto modo per implementare l’effetto serra e i mutamenti climatici derivanti dal surriscaldamento globale, ma come abbiamo visto la Russia è convinta di trarne giovamento...

Chernobyl e le sue sorelle
In Ucraina ci sono quattro centrali nucleari con quindici reattori, oltre a quella tristemente famosa di Chernobyl, protagonista del più grave caso di incidente avvenuto in questo tipo di impianti, con una fuga di radioattività che interessò tutta l’Europa e costrinse gli abitanti del luogo ad abbandonarlo per sempre. Le truppe russe puntano al controllo di questi siti strategici e sono abbastanza vicine a conseguire l’obiettivo, con risultati imprevedibili. Le centrali forniscono oltre la metà del fabbisogno energetico dell’Ucraina: se cadono in mano all’invasore, c’è come minimo il rischio di vedersi tagliare la fornitura elettrica. Ma occorre non sottovalutare il pericolo intrinseco di questi impianti, che se manomessi deliberatamente possono diventare un’arma atomica impropria in mano al nemico, con un potenziale letale di materiale esplosivo e radioattivo. Una debolezza strategica, insomma. L’eventualità che le centrali nucleari possano diventare bersagli sensibili e pericolosissimi in caso di conflitto è un’ulteriore fattore di rischio da mettere in conto, proprio ora che in Italia erano di nuovo spuntati parecchi fautori dell’energia atomica, che blateravano di centrali “sicure” senza avere la minima idea di cosa stessero parlando e non tenendo conto del fatto che per due volte i cittadini hanno bocciato il nucleare attraverso lo strumento democratico del referendum. Per ora, l’attacco militare alle centrali ucraine li ha bruscamente costretti al silenzio.

Dalla Russia con stupore
L’invasione russa ha improvvisamente zittito anche le voci di quei purtroppo non pochi politici italioti – a volte gli stessi sostenitori del nucleare – che esaltavano la figura dell’uomo forte Putin, salvo stupirsi oggi del suo comportamento da dittatore e assassino seriale, come se le guerre in Cecenia, Georgia e Crimea le avesse ordinate qualcun altro. In alcuni casi, sono gli stessi che invocano un intervento più deciso dell’Europa, dopo averla criticata per anni. Anche l’incoerenza, a questi livelli, rischia di diventare un’arma di distruzione di massa, però rivolta verso i propri cittadini, compresi quelli che votano per loro.

Il profugo che viene dal Nord
In questi giorni abbiamo assistito a un esodo di massa dei civili ucraini verso Occidente, improvviso e tumultuoso, con milioni di profughi. Abbiamo visto quale straordinaria e commovente catena di solidarietà si sia mobilitata per accoglierli, specialmente in Polonia, dove si registra l’afflusso maggiore. Questo tuttavia non ci fa dimenticare che, solo poche settimane fa, quei confini erano stati brutalmente blindati nei confronti dei profughi afgani, a loro volta in fuga dal regime dei Talebani, che in una scala della ferocia sono perfino superiori a Putin. Significa che la “fortezza Europa” accetta solo profughi “interni”? Che i rifugiati di guerra sono tali solo se la guerra si combatte in Europa? Strano concetto di accoglienza, peraltro ben esemplificato dalle parole di un politico norditaliota (guarda caso sostenitore del nucleare e pure di Putin, almeno fino a poco fa…) che sosteneva che vanno accolti solo i profughi delle “guerre vere”. Cioè? Le guerre in Afghanistan, Siria, Yemen e i molteplici conflitti africani non valgono? Eppure le persone muoiono anche lì, compresi donne e bambini. Urge un riesame delle pratiche di accoglienza e solidarietà, specialmente in vista del fatto che, entro pochi anni, questi esodi biblici aumenteranno in maniera esponenziale, a causa dei mutamenti del clima. Per ora, i “profughi climatici” sono una minoranza, ma sono destinati a crescere costantemente di numero. Cosa faremo quando milioni di persone saranno costrette a spostarsi dai loro territori? Li discrimineremo in base a provenienza e colore della pelle? Se scappano dalle inondazioni sì, se fuggono dalla siccità no? E se toccasse anche a noi? L’Italia è uno dei Paesi più esposti ai cambiamenti climatici. Pensiamoci, prima di sbattere la porta in faccia a qualcuno.

La quinta colonna
Infine, un accenno al nemico più insidioso da sconfiggere, una vera e propria “quinta colonna”, numerosa e ramificata in tutta Europa, che sostiene Putin e la sua guerra finanziandoli a piene mani. Siamo noi, tutti noi, che utilizziamo energia elettrica prodotta per quasi la metà col gas, di cui la Russia è il nostro maggior fornitore. Grosso modo, un quinto dell’elettricità che utilizziamo è prodotta col gas che ci vende Mosca, per non parlare del petrolio. Il miglior modo per frenare il conflitto sarebbe di non comprare più quel gas, tagliando una fonte di finanziamento vitale alla Russia. Ma non andando a comprare gas e petrolio da qualche altra parte, spostando semplicemente la nostra subalternità strategica verso qualcun altro. No, la strada giusta è quella di puntare verso le rinnovabili, che ci consentirebbero di produrre energia a casa nostra, con sole e vento, che di sicuro non ci applicheranno rincari. E nell’attesa di implementare la produzione delle rinnovabili, ridurre drasticamente i consumi. Ma saremmo capaci – e motivati – a fare delle rinunce per fermare la guerra? Saremmo disposti a condividere con i fratelli ucraini il disagio del coprifuoco, per consumare meno energia di notte? O perlomeno a ritoccare i nostri consumi senza troppo sconvolgimento, per esempio non giocando più nessuna partita di calcio in notturna, evitando così di accendere i riflettori, o altre cosuccie di questo tipo. Variazioni minime delle nostre abitudini, piccole limature ai nostri capricci e privilegi, che consentirebbero di dare un taglio ai consumi e limitare le importazioni di combustibili fossili, a cominciare da quelle provenienti dalla Russia. Un buon modo per rafforzare la bilancia dei pagamenti import-export ed evitare di finanziare dittatori e “stati canaglia”.

Ma al di là dell’indignazione, delle belle parole e delle frasi di circostanza, ce l’abbiamo davvero la volontà di farlo?



L’ambiente e gli animali entrano nella costituzione. Ma c’è proprio da festeggiare?

Piero Belletti

Lo scorso 8 febbraio la Camera dei Deputati ha approvato, praticamente all’unanimità e in forma definitiva, la Legge costituzionale che include la tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali fra i principi fondamentali della Costituzione della Repubblica italiana. Sembrerebbe una buona notizia, visto lo storico disinteresse mostrato dal legislatore italiano nei confronti di queste tematiche. Ma è proprio così?

Una maggioranza schiacciante, tale da rendere inutile il ricorso al referendum popolare confermativo: così il Parlamento ha modificato la Costituzione della nostra Repubblica, inserendo tra i Principi Fondamentali alcuni dei temi che hanno sempre contraddistinto le nostre battaglie. Tra parentesi, stupisce non poco il silenzio che ha accompagnato l’intero iter procedurale: al di fuori dei luoghi di potere se ne è parlato pochissimo e la maggioranza della popolazione è venuta a conoscenza della questione a cose fatte. Forse (eufemismo…) si poteva ampliare preliminarmente il dibattito, coinvolgendo in misura molto maggiore i settori della società civile interessati. Il fatto che tutto sia avvenuto sotto traccia e quasi alla chetichella non giova certo alla trasparenza e alla irreprensibilità degli scopi dei proponenti. Ipotesi, questa, rafforzata dalla votazione, come detto quasi unanime. Quindi, anche gli esponenti delle forze partitiche storicamente contrarie ad ogni ipotesi di tutela dell’ambiente (ed altrettanto storicamente vicine a cementificatori, inquinatori, cacciatori, ecc.) si trovano d’accordo su queste modifiche costituzionali. Mah….
In ogni caso, a seguito delle modifiche approvate, la nuova Costituzione risulta essere la seguente (in grassetto le parti che sono state aggiunte):
Articolo 9 - La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.
Articolo 41 - L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute, all’ambiente. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.

I commenti sono stati molteplici e diversificati. Ovviamente, in ambito parlamentare, l’entusiasmo è stato generalizzato e gli aggettivi altisonanti si sono sprecati: “un passaggio storico” (il Presidente della Camera Roberto Fico), una giornata epocale (il Ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani). Anche molte Associazioni ambientaliste hanno espresso la loro piena soddisfazione.

Altre voci, invece, sono più critiche ed evidenziano almeno due considerazioni. La prima riguarda l’effettivo significato della modifica costituzionale. Fabio Balocco, avvocato e ambientalista della prima ora, scrive su “Italia Libera”1 che “nel concreto, non vi era nessun bisogno di mettere nero su bianco che la Repubblica tutela l’ambiente. L’art. 117 della Costituzione afferma già che lo Stato ha giurisdizione esclusiva su “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.” In pratica la tutela dell’ambiente, con la modifica, viene richiamata anche nei “Principi fondamentali” che sono gli articoli dall’1 al 12. Con l’aggiunta della tutela degli animali. La difesa dell’ambiente rientrava già appieno fra i compiti della nostra Repubblica. Ma non solo la tutela dell’ambiente c’è già nella nostra Costituzione, ma la Corte Costituzionale si è più volte espressa sull’importanza dell’ambiente come bene fondamentale della Repubblica, da privilegiare rispetto a quello economico. A parole. In realtà, quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, in Italia ci si comporta in modo diverso”.
Ma l’aspetto più preoccupante riguarda per l’appunto la capacità, o meglio la volontà politica, di tradurre in fatti ciò che è stato scritto nella Costituzione. E qui i precedenti sono quanto meno inquietanti. Infatti, nel nostro Paese sono numerosissime le norme del tutto inapplicate. Oppure quelle in cui nel preambolo si afferma un principio, e poi nell’articolato si prevede l’esatto contrario o quasi.
Un classico esempio è la legislazione sull’attività venatoria (Legge n. 157 del 1992): nell’art. 1 si afferma che lo Stato tutela la fauna selvatica, nei successivi 36 si normano i modi per poterla sterminare….
Ancora Fabio Balocco ci presenta un altro esempio, quanto mai pertinente: “Nel 1939, in piena epoca fascista, furono promulgate le cosiddette “leggi Bottai”, dal nome del proponente. Un articolo dello storico Antonio Paolucci, sulla Treccani, afferma che la prima, sulla “Tutela delle cose di interesse artistico e storico”, del 1 giugno 1939 n. 1089, «era e resta un capolavoro di civiltà e di sapienza giuridica». Ad essa, pochi giorni dopo, seguì l’altra fondamentale legge Bottai, la n. 1497 del 29 giugno 1939,“Protezione delle bellezze naturali”, sulla scorta della quale una buona parte del paesaggio italiano fu vincolato. Inoltre, essa prevedeva, al comma 5, come efficace strumento di tutela per il futuro, il “piano territoriale paesistico”, che doveva essere redatto dall’allora ministro per l’Educazione nazionale. Ci fu la guerra, la norma rimase inapplicata, ma tale rimase anche con il passaggio dalla dittatura alla democrazia, anche con la Costituzione, anche con il suo art. 9. Occorre arrivare al decreto legge Galasso nel 1985 (ben quarantasei anni senza fare nulla, tanto era importante l’art. 9…) perché i piani, definiti adesso “paesaggistici” tornino di moda e siano di competenza delle singole Regioni. Norma poi mutuata dal Codice dell’Ambiente. Bene, ad oggi sono solo cinque le Regioni che il piano l’hanno adottato, ma di fatto esso non serve a nulla perché non ha posto dei reali vincoli al territorio oltre a quelli già esistenti.”
D’altra parte, è anche evidente che non basta elencare un principio nella Costituzione e sperare che la sua applicazione sia automatica e completa. Basti pensare alla solidarietà economica e sociale, all’uguaglianza di fronte alla legge, al diritto al lavoro, allo sviluppo della cultura, alla tutela del patrimonio storico e artistico, ecc.: tutti postulati compresi nei Principi Fondamentali della Costituzione, ma che sappiamo benissimo essere applicati quanto meno in modo parziale.

C’è poi un altro rischio, molto ben espresso da Alessandro Mortarino, uno dei fondatori del Movimento Stop al Consumo di Territorio, sul periodico online “Altriasti”2: “c’è anche il pericolo che, con la modifica costituzionale, la tutela del paesaggio possa trovarsi in subordine rispetto a quella ambientale e desta qualche preoccupazione il fatto che l’aggiunta «anche nell’interesse delle future generazioni» sia riferita solo alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi e non a quella del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Il collegamento con uno sviluppo “forsennato” degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili (eolico e fotovoltaico a terra in primis) a danno del paesaggio stesso, è abbastanza automatico… Va aggiunto che la modifica costituzionale stride con i continui processi di “semplificazione” delle norme autorizzative (cioè tempi più rapidi), tanto a livello centrale quanto a livello regionale, e con il continuo e progressivo indebolimento delle Soprintendenze, cioè di coloro che dovrebbero controllare e autorizzare (che sono sempre più ridotti di numero e sempre più oberati, dunque meno in grado di tutelare). Di fondo – diciamocelo – resta la consapevolezza che nonostante il nostro “bellissimo” attuale articolo 9, in questi 75 anni il paesaggio italico abbia subito, ogni giorno, sfregi inenarrabili. Come poter pensare che la stessa sorte non subiscano anche l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi?”.

Su posizioni ancor più critiche è Carlo Iannello, giurista e docente universitario. Il quale scrive su “Italia Libera”3: “Il paesaggio ha una sua specificità perché eccezionale è il valore tutelato: la cultura espressiva dell’identità nazionale. Ambiente e urbanistica, invece, tutelano valori differenti che si aggiungono a quello paesaggistico, senza mai confondersi con esso, come la Corte costituzionale ha più volte affermato. L’ambiente tutela gli equilibri ecologici in favore delle future generazioni. L’urbanistica persegue l’ordinato assetto della vita sociale, per rendere ai cittadini i servizi essenziali. La possibile confusione tra questi concetti risiede nella circostanza che tutti insistono sul medesimo bene, il territorio. Ma questa circostanza non annulla le differenze. Il paesaggio, come osservato, è l’aspetto visibile del territorio. Ed è per questo motivo che la sua tutela prevale sulle altre. Si può e si deve tutelare l’ambiente e pianificare le città nel rispetto della parte visibile del territorio. Viceversa, lo stravolgimento della parte visibile del territorio, eventualmente richiesta da esigenze urbanistiche o ambientali, può attentare irreversibilmente al paesaggio. L’unico modo di conciliare le tre distinte tutele è dare prevalenza a quella paesaggistica, come prevede l’art. 145 del Codice del paesaggio. La pianificazione paesaggistica si impone su quella urbanistica e su quelle ambientali per la forza delle cose. La tutela dell’ambiente e le esigenze urbanistiche, anch’esse essenziali, devono essere soddisfatte nel rispetto del volto del paese, se si vogliono tutelare il paesaggio e i valori culturali che esso esprime”.

Ma forse l’aspetto più contorto della questione riguarda gli animali. Questi, infatti, secondo il Codice Civile continuano ad essere considerati “beni mobili”, negando quindi loro di fatto ogni riconoscimento come esseri senzienti dotati di un valore intrinseco, e non limitato all’uso o all’utilità che li caratterizza. Una contraddizione abbastanza palese, anche se su quale delle versioni prevarrà sussistono ben pochi dubbi. C’è quindi il timore che il nuovo dettato costituzionale di fatto si limiti a considerare i cosiddetti animali da affezione, tralasciando invece quelli selvatici e, in modo ancor più evidente, quelli che, con una terribile locuzione, vengono definiti “animali da reddito”.

In conclusione, il rischio che la montagna abbia partorito il classico topolino è molto reale: ovviamente starà ai politici fare in modo che le dichiarazioni di principio si trasformino, almeno in parte, in atti concreti. Molto dipenderà anche da noi, dall’opinione pubblica, e in particolare dalla sua capacità di trasmettere con forza e chiarezza ai propri rappresentanti politici la propria volontà. Ma su questo, consentitemi di avere molti, molti dubbi...

***
1. https://italialibera.online/politica-societa/modifica-art-9-della-costituzione-cosa-ce-di-storico-fico-o-addirittura-di-epocale-cingolani/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=gli-ultimi-articoli-di-italia-libera

2. http://www.altritasti.it/index.php/archivio/ambiente-e-territori/5108-articolo-9-della-costituzione-paesaggio-e-patrimonio-artistico-non-sono-piu-soli

3. https://italialibera.online/politica-societa/paesaggio-e-modifica-dellart-9-della-costituzione-uno-sfregio-frutto-di-un-ingenuo-errore/?utm_source=mailpoet&utm_medium=email&utm_campaign=gli-ultimi-articoli-di-italia-libera

Imprenditori agricoli lungimiranti

Mentre è in corso la discussione per il Piano Strategico Nazionale che recepirà la nuova Politica Agricola Comune della UE -che si vuole, a parole più “verde” e innovativa, ma che, per quanto constatato dai rappresentati della Federazione nel tavolo di partenariato sociale ed economico, è la riedizione della rovinosa esperienza passata- offriamo ai lettori di Natura e Società il contributo di Paolo Mosca, che oltre a rappresentare la Federazione in diverse istanze (Tavolo Regionale piemontese per il Piano di Sviluppo Rurale, Coalizione #cambiamoagricoltura), è agricoltore biologico, agronomo e attivo propugnatore di un approccio agroecologico nello svolgimento delle pratiche agricole, quale sola strada per avviare una autentica transizione del sistema agroindustriale (che da solo rappresenta più del 15% del valore monetario dell’economia italiana e gestisce due terzi del territorio nazionale – somma superficie agricola e forestale – [dati CREA, Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Economia Agraria].
Al centro dell’approccio agroecologico vi è  l’agricoltura contadina, da intendersi in senso più estensivo e radicale di quanto inteso dal senso comune: Secondo il professor  J. D. van der Ploeg, docente di sociologia rurale presso l’Università di Wegeningen l’agricoltura contadina non si distingue da quella imprenditoriale per le sue caratteristiche istituzionali ma per uno stile di gestione. Lo stile contadino si caratterizza per specifici modi di rapportarsi con la natura e la società, di mobilitare, combinare e sviluppare le risorse e di organizzare e sviluppare la produzione.  Ecco dunque il senso dell’impegno di chi come il dottor Mosca si impegna quotidianamente a fornire prodotti alimentari e forestali sani e sicuri, nonostante le resistenze d un sistema basato sull’agrochimica, superato da decenni, che sopravvive solo in forza degli interessi economici di pochi e dell’inerzia politica dei più.

RICERCA PARTECIPATA E PRODUZIONE SOSTENIBILE NELLA NUOVA PAC
Paolo Mosca
Rielaborazione dell’intervento all’omonimo seminario Federbio del 18/03/21 (prima che si concludesse il trilogo sulla nuova Pac)

Io sono un agricoltore e vi porto oggi la mia esperienza che racconta la storia di un gruppo di agricoltori che hanno provato a reinterpretare l’agricoltura. Parlo di riso perché sono nato nelle risaie e sono interprete di una delle realtà risicole nell’area più importante d’Europa, la pianura vercellese, noi italiani siamo infatti i primi produttori risicoli in campo europeo. Vi riporto un modo di vedere la risicoltura valevole per un gruppo di aziende che hanno cercato di interpretarla in modo diverso da come è sempre stata vista, malgrado, ancora oggi, la maggior parte dei risicoltori proceda ancora in quella direzione. Uno dei punti su cui spesso gli agricoltori si arenano rispetto al cambiamento di modello produttivo è per esempio la questione delle erbe infestanti, dei parassiti e delle avversità. La stampa specializzata è piena, dalla prima all’ultima pagina degli annuari e delle relazioni degli enti pubblici e privati, di argomentazioni sul difficile, complesso, annoso problema della gestione delle erbe infestanti che attanagliano le coltivazioni. Se si gira pagina e ci si dimentica delle erbe infestanti, c’è un altro problema quello degli attacchi fungini. Mi riferisco al Brusone, questo importante agente patogeno che è una delle ragioni delle perdite di produzioni più rilevanti a livello mondiale. Se poi vogliamo ancora voltare pagina ci sono gli insetti. Per citarne uno, il Punteruolo acquatico, che non fa dormire sonni tranquilli agli agricoltori. Questo è quanto la risicoltura convenzionale si trova davanti quotidianamente ponendosi in una prospettiva di risoluzione del problema col controllo chimico come prima ed insostituibile arma di difesa. Se ci riferiamo agli attacchi fungini vi è poi in subordine alla prima soluzione, quella del controllo chimico per i più considerata un’arma insostituibile, una seconda tecnica di difesa che consiste nel scegliere varietà resistenti (in questo caso ci avviciniamo un pochino, se vogliamo, nella direzione della lotta biologica ) e, ancora, come terza possibilità, troviamo modelli di previsione per intercettare quelle che possono essere infezioni e poter intervenire (chimicamente) per tempo. Questo è un modello che ritengo superato, è un modello “Technology based” ovvero basato solo sulla tecnologia che, per come è architettato e come si è evoluto, oggi è completamente superato. Non dico che basare un modello sulla tecnologia sia errato, ci mancherebbe, però per come è architettato e si è evoluto questo modello è completamente superato perché l’innovazione di processo e prodotto è basata solo ed esclusivamente sulla tecnologia, questa è l’essenza che rende obsoleto l‘approccio.
La tecnologia gli agricoltori la acquistano come utilizzatori. E’ un modello che deriva dalla storia dell’evoluzione agricola degli ultimi 50 anni, dal dopoguerra, dalla rivoluzione verde. E’ un modello dove la ricerca e lo sviluppo sono centralizzati, sono svolti dalle multinazionali, dai centri di ricerca, e ricadono dall’alto verso gli agricoltori. Capite che in questo tipo di modello l’agricoltore è posto in basso e tutto il sistema è posto al di sopra di esso e fa cadere dall’alto tecnologia, consigli, pratiche e prospettive di sviluppo. E’ un modello top-down superato: “Technology based model”. che ha dimostrato la sua inadeguatezza nel rispondere alle sfide future, inadeguatezza in termini di sostenibilità sotto tutti i profili.
Il fatto che ci sia un’attesa costante da parte dell’agricoltore moderno nel ricevere tecnologia per risolvere i suoi problemi, che sono in costante crescita, è preoccupante. Si comprende facilmente questa dimensione se si guarda l’indice di una importante pubblicazione [53a Relazione Annuale 2020 Ente Nazionale Risi] uscita meno di un anno fa, redatta dal più importante ente di ricerca italiano in risicoltura: l’Ente Nazionale Risi.
E’ una pubblicazione di 140 pagine e, da pag. 6 a pag. 130 ci sono sostanzialmente solo prove di principi attivi, nuovi protocolli per l’intercettazione delle malerbe via via crescenti, e nuovi fertilizzanti.
L’agricoltore è posto in una posizione di attesa costante, attende che qualcuno gli dia gli strumenti per risolvere i problemi che questo modello agricolo di sviluppo man mano purtroppo ha creato.
Ma questo modello così come è congegnato e strutturato è davvero sostenibile almeno da un punto di vista economico? Io la risposta la cerco tra le righe di un altro importante lavoro [Il bilancio economico dell’azienda risicola] svolto egregiamente dai miei colleghi dottori Agronomi della sezione di Vercelli che ogni tre o quattro anni producono questo importante lavoro che riassumo in parole veramente semplici. Questo lavoro ci porta a capire che la media produttiva di risone tradizionale degli ultimi 15 anni è pari a 6,5 tonnellate per ettaro e, se andiamo a incrociare questo dato con una tabella qualche pagina più avanti, vediamo che nemmeno una produzione di 7,6 t/ha – quindi superiore a quella della media della risicoltura degli ultimi 15 anni – è in grado di portare in equilibrio economico ai prezzi di mercato, (fatto salvo il prezzo di 300 €/t dell’anno appena trascorso). Quindi si evince dal grafico che un’azienda di 50 ha non pareggia il bilancio nemmeno lontanamente, ma il particolare significativo è che nemmeno una azienda di 150 ha riesce a pareggiare, e ancora nemmeno una di 300 ha, come risulta dai dati di un anno e mezzo fa (Medie prezzi di mercato Camera Commercio Vercelli).
Che cosa ci siamo messi a fare io e altri agricoltori per rispondere a questi dati inquietanti che certificano la assoluta insostenibilità economica del modello risicolo attuale?
Ci siamo messi a pensare a un modello di sviluppo agricolo innovativo che rimetta gli agricoltori al centro della scena, basato sull’agroecologia, una parola che oggi ritorna molto di moda, che, con la sua declinazione di agricoltura biologica, confluisce sotto il cappello dell’agricoltura sostenibile – quella vera-.
Quando dico agroecologia intendo dire qualcosa di futuro e di molto lontano? Assolutamente no, forse bisogna semplicemente guardarsi un pochino indietro e fermarsi a ragionare un pochino. Io vengo da una tradizione agricola, la mia è una famiglia di agricoltori da alcune generazioni. Mio nonno, classe 1920, posso dire con assoluta certezza che aveva sulla punta delle dita i concetti base dell’agroecologia, molto più di mio padre classe 1950, nato nel dopoguerra nel momento della rivoluzione verde, che aveva potuto permettersi di perdere alcune di quelle conoscenze perché comodamente sostituite da strumenti più semplici ed economici da utilizzare, arrivavano in quegli anni fertilizzanti ed erbicidi che soppiantavano la zootecnia, le rotazioni, le mondine. Oggi bisogna andare a riprendere l’agroecologia e andarla a reinserire in un modello di sviluppo agricolo che guarda concretamente al futuro.
Nel nuovo modello che stiamo attuando, gli agricoltori e i ricercatori lavorano alla pari, c’è un approccio di spinta dal basso, sviluppano sul campo le soluzioni che gli agricoltori individuano come migliori e che , attraverso uno scambio reciproco, attraverso una diffusione delle conoscenze che tra gli agricoltori stessi, si sviluppano e trovano applicazione. E’ un modello che è ovviamente indipendente dall’intermediazione di terzi. Tutto questo è fondamentale, ridona libertà e autonomia all’agricoltura.
Vi porto l’esempio di questo progetto di ricerca che si chiama Riso Biosystem che coinvolge, oltre ad un gruppo di agricoltori, Università, Crea, Ente Risi con l’approccio dal basso descritto. Ha messo insieme alla pari le conoscenze degli agricoltori con quelle dei ricercatori dei diversi enti di ricerca e sviluppo per trovare soluzioni condivise. E che cosa ha fatto rispetto al modello tradizionale che vi ho descritto? Ha rimesso, al primo posto, la conoscenza, la biodiversità, sia in termini di biodiversità ambientale che quella della comunità in cui l’agricoltura insiste. Mettendo al primo posto la salute del suolo, e questo può essere misurato con degli indicatori. Utilizzando delle tecniche che tengano i suoli sempre coperti con colture dedicate (ultimamente si usano molto le cover crop) ad incrementare la fertilità dei nostri suoli, utilizzo del pascolo, utilizzo della rotazione, utilizzo delle minime lavorazioni e delle false semine. Si ritorna al concetto di agroecologia che dicevo prima.
In questo modo si possono trovare delle soluzioni. Si possono, ad esempio, trovare delle soluzioni per il controllo del brusone, uno di quei problemi che non fa dormire gli agricoltori di notte. Facendo le rotazioni, avendo una buona conoscenza dei suoli e adottando delle coltivazioni per cui si ristabiliscono degli input azotati equilibrati assolutamente organici soltanto derivati da cover crop, si può in questo modo, avendo un apporto bilanciato di azoto e di azoto organico tutto assolutamente derivato dalle cover crop, come dicevo, si può avere un controllo agroecologico del brusone. Per fare questo non servono i droni, non servono i sensori, non serve investire in tecnologie, non servono nuove o vecchie NBT, non serve chiedere a venditori di prodotti, perché l’agricoltore torna proprietario con le sue mani della propria produzione con la sua conoscenza che è il prodotto più importante e prezioso che egli possiede nella sua azienda.
L’altro problema è quello del controllo degli insetti che dicevo prima. Anche in questo caso si tratta di ricreare ecosistemi più complessi, e diversificati.
Più semplifichiamo il sistema, più i problemi vengono accentuati. Quindi ricreando nella gestione aziendale complessità ecologica si guadagna, anche in questo senso, nella gestione alternativa degli insetti. Che cosa abbiamo fatto? Abbiamo per esempio dato il via a un progetto di riqualificazione di un’importante zona umida. Una zona umida considerata dai più una zona marginale che non crea reddito e non ha nessuna rilevanza. In un’ottica di agroecologia e di tutto quello che abbiamo detto fino ad ora, un’area come questa inserita in un contesto agricolo mantenuta ed anzi valorizzata ha un valore agroecologico incredibile: 11 ettari, 3 diversi ecosistemi di rilevanza comunitaria e in quest’area, dove ovviamente ci sono specie autoctone in via di estinzione, ricreiamo quella complessità ecologica che serve all’agricoltura e andiamo ad attuare e a mitigare i problemi che nella risicoltura convenzionale si possono andare a creare. Si tratta di fare un passo indietro? No, io credo che si tratta invece di guardare molto lontano perché fare queste cose significa, per esempio, essere in linea con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, tanto millantati ma troppo spesso poco praticati.
Concretamente, significa essere in linea con una PAC verde e con il nuovo Green Deal. Vediamo che cosa, a titolo esemplificativo, si può mantenere e ottenere curando delle aree di interesse ecologico all’interno di un’azienda agricola: dal punto di vista degli animali, delle specie ittiche, degli insetti, dei pipistrelli, della flora e della fauna di ogni tipo. In quest’area abbiamo censito per esempio la testuggine palustre Emys Orbicularis, alcune specie ittiche molto rare, la farfalla Lycaena Dipsar, un tipo di pipistrello tipico delle zone umide – Pipistrellus Nathusii – e decine di altre specie importantissime dal punto di vista biologico e della biodiversità.
Questa è l’ interpretazione di una agricoltura attenta a questi aspetti. Se non basta lo spazio coltivato, se non basta l’area dedicata alla biodiversità ci sono poi tutta una serie di aree accessorie che ha un’azienda agricola: i bordi dei campi, l’interno dei canali irrigui, che possono essere gestiti con dei miscugli dedicati, con dei filari, con fasce tampone. Anche in questi casi si può creare biodiversità con un costo agricolo veramente basso e dall’output ambientale veramente concreto. Il risultato di questo approccio di ricerca partecipata di questo gruppetto di agricoltori che hanno condiviso le loro competenze insieme ai ricercatori è stato un’ importantissimo riconoscimento, perché questo lavoro che è stato fatto, direi innovativo dal punto di vista della metodologia, è stato pubblicato su Agricoltural Systems, che è un’importantissima rivista di agricoltura di livello internazionale. E questo è un primo riconoscimento. Se però poi andiamo nel concreto di quella che è la mia realtà agricola produttiva tipica di un agricoltore che deve produrre cibo, derrate alimentari, vi descrivo brevemente quella che è stata la mia esperienza di questi ultimi anni. In ottobre è stata seminata la cover crop per nutrire il suolo immediatamente dopo la trebbiatura. Durante l’inverno si è sviluppata questa cover crop che ancora a fine inverno è stata pascolata e quindi sono state rilasciate al suolo importanti quantità di letame. Direttamente su quella cover crop a maggio, la primavera scorsa, è stato seminato il riso semplicemente abbattendola, schiacciandola e seminando con una macchina il riso direttamente su di essa e a ottobre è stato raccolto il riso. Il risultato straordinario di questa operazione è che si è avuto il 100% di riduzione della dipendenza e dall’uso da fitofarmaci e fertilizzanti. Allora, in un’ottica di nuova PAC, di ecoschemi che vadano a premiare la ricaduta in output per la collettività, quanto vale per il pianeta e per la collettività questo approccio agro ecologico completo, profondo? Quanto vale la metodologia produttiva appena descritta rispetto ad esempio a una rispettabilissima precision farm o a una lotta integrata che riduce gli input chimici del 5, 10 o 20%? Questa è una delle domande che faccio e rispetto alle quali mi piacerebbe avere una risposta. Analizzando le produzioni poi, qual è l’output della nostra azienda? Abbiamo prodotto 5,6 tonnellate per ettaro di riso che è un’ottima produzione per il biologico. Ma, attenzione, di riso commodity? Io dico di no! Abbiamo prodotto un prodotto specifico, differenziato, diverso dalla commodity, un prodotto che ridà valore alla produzione. Allora noi dobbiamo anche scegliere quale mercato vogliamo intercettare. Se vogliamo metterci in competizione con una logica produttiva agricola mondiale globalizzata, quindi andare a competere sui mercati con delle commodities, o invece con un prodotto di valore intrinseco perché ottenuto rispettando logiche di tutela ambientale, della biodiversità, del paesaggio, un prodotto con un valore organolettico, nutrizionale, sociale per la collettività. Noi questo stiamo inseguendo. Noi abbiamo prodotto 5,6 t/ha di riso più tante tonnellate di biodiversità, di paesaggio, di presidio del territorio, “tonnellate” di sostenibilità, indipendenza e libertà che consentono a un’azienda viva dal punto di vista economico di rimanere sul territorio senza necessariamente dover fagocitare altra terra, altre aziende, per diventare di 300, 400, 500 ha per star dietro ai bilanci di cui dicevo all’inizio, ma che può rimanere della sua dimensione e in questo senso consentire anche agli altri di rimanere sul mercato.
Se una azienda rimane della sua dimensione senza doversi ingrandire in modo spropositato per far quadrare i bilanci, e quindi l‘agricoltore vive dignitosamente, c’è spazio per altri che loro volta rimangono e non scappano, con la loro dimensione, sul territorio, lo controllano lo presidiano e lo rendono più gradevole. Anche questo è sviluppo certo visto da angolazioni diverse. Cambiare modello è possibile ed è straordinariamente conveniente.
E’ conveniente in termini di felicità di un agricoltore che con le sue capacità, con strumenti semplici ma ben incardinati, con la conoscenza, con la condivisione con altri agricoltori , riesce ad ottenere una produzione in modo sostenibile. Dico che gli strumenti come la nuova Pac devono credere coraggiosamente in modelli alternativi. E qui veniamo all’annoso problema degli ecoschemi perché sono troppo strategici per essere una misura di aiuto diluita, indifferenziata, di ricaduta indistinta tra coloro che fanno qualcosa di più impegnativo e per coloro che invece si limitano al minimo base indispensabile. Io credo che su questo ci sia molto da fare. Lo dico per un’ultima volta, la conoscenza permette il cambiamento e rende appagato l’agricoltore senza nuovi obblighi o dipendenze tecnologiche, senza costi, senza caricarlo di mutui, senza caricarlo di spese, un agricoltore libero e indipendente, che è quello che ci serve! I risultati confermano una sostenibilità sociale, ambientale, economica e agronomica tangibile, misurabile. Tutto quello che vi ho detto è misurabile e dimostrabile. Io mi aspetto una Pac coraggiosa, fatta per tutti coloro i quali vogliono mettersi in gioco, vogliono mettersi a lavorare facendo quel passo in più, quel salto in più, quel qualcosa che gli permetta di produrre, come dicevo prima, non un prodotto indifferenziato, indistinto, anonimo, ma un prodotto che porta con sé un valore. Un valore che può essere ambientale, paesaggistico, di tutela.
Quindi sono un po’ contrario, nonostante questa mia posizione non sia condivisa da moltissimi miei colleghi, a mettere tanti soldi su operazioni, su temi, che tutto sommato dovrebbero essere la base di partenza per poi poter raggiungere degli obiettivi ben più ambiziosi. So di rappresentare una piccola parte dei miei colleghi agricoltori però, quando c’è un confronto con altri, la cosa che mi viene sempre da dire è: interpretiamo questi nuovi stimoli, vincoli, obiettivi che ci vengono imposti non come un maggior peso, onere, sulle nostre spalle. Utilizziamolo invece come fattore competitivo. Perché poter produrre dicendo “prodotto in un certo modo” è un fattore competitivo rispetto alla concorrenza mondiale. Quindi ben venga una Pac che alza un pochino l’asticella e premia chi vuole fare bene e più dell’impegno base. Io vedo, come ho cercato di spiegare, modelli diversi, modelli di sviluppo dal basso dove agricoltori e allevatori, trovano il modo per uscire da questa crisi.
Da questa crisi si esce trovando delle strategie commerciali, comunicative, trovando delle strategie come strumenti di sostegno messi a disposizione dalla Comunità europea, come strumenti messi a sostegno, forniti dai PSR. Se si utilizzano questi strumenti nel modo corretto forse si può fare a meno di tutte le soccide e di tutti i meccanismi capestro che relegano l’agricoltore ad un mero esecutore di ordini. Però bisogna decidere cosa si vuol fare da grandi e questo lo può decidere una politica lungimirante a livello europeo sicuramente.
Io credo fortemente nella libertà dell’imprenditore, nella libertà dell’agricoltore. Se l’agricoltore torna a capire che diventa forte, libero e indipendente rimettendo l’agroecologia al primo posto della sua strategia di sviluppo allora credo che ci possa essere un’agricoltura virtuosa per tutti, per chi la fa, per chi se la mangia, per chi la vive andandoci a fare le passeggiate la domenica. Un’agricoltura dove tutti hanno il loro tornaconto.
Se devo guardare alla mia esperienza penso innanzitutto che bisogna aver la fortuna di trovarsi nella condizione di poter condividere, cioè di trovare persone che ti raccontano come hanno trovato il modo di risolvere problemi in un’area diversa dalla tua ma tutto sommato simili ai tuoi. Da questo confronto nascono nella testa delle nuove idee/soluzioni. La grande fortuna che noi abbiamo avuto, quando dico noi intendo questo gruppo di aziende che si è messo a fare ricerca partecipata, è stata quella di avere messo insieme un certo numero di aziende che avessero un certo tipo di obiettivo, ciascuna con le proprie specificità, con le sue particolarità organizzative, con la propria dimensione aziendale, con la propria storia famigliare, di macchine, di manodopera, di posizionamento geografico. Ognuna diversa dalle altre ma tutte con l’obiettivo di fare quel salto in più.
Seconda fortuna quella di trovare una parte di ricerca che è stata disposta a relazionarsi alla pari. Cioè il ricercatore innovativo, come l’agricoltore, è una persona che con estrema umiltà si siede al tavolo, ascolta e propone, ma prima ascolta. Allo stesso modo l’agricoltore che vuole risolvere i problemi prima ascolta i suoi colleghi che li hanno visti magari con delle sfumature per poterli risolvere, ma prima ascolta. Attraverso questo meccanismo di partecipazione alla pari si possono veramente trovare delle soluzioni. Ormai abbiamo sviluppato, ricercato l’impossibile, siamo in esubero di tecnologie. Forse è veramente il caso di iniziare a mettere le idee, le esperienze a frutto e attraverso la condivisione trovare le soluzioni.
Probabilmente la nostra è un’esperienza fortunata. L’idea della partecipazione, del territorio, del coinvolgimento, questa è la prima chiave. La seconda sicuramente è la conoscenza. Io ho la fortuna di insegnare in un Istituto superiore Agrario, ai miei ragazzi cerco sempre di spiegare una cosa fondamentale che per fare l’agricoltore oggi come minimo ci vuole una laurea. Per aprirsi a quella che è la guerra della globalizzazione come minimo ci vuole una laurea. Quindi la conoscenza è un fattore fondamentale per poter interpretare la sfida dell’agricoltura a testa alta con la possibilità di risolvere i problemi e di avere una prospettiva rosea. Io vedo quelli meno preparati ad affrontare una transizione verso l’agricoltura biologica come massimo obiettivo ma anche obiettivi meno impegnativi come l’agricoltura integrata, vedo coloro che si approcciano a questa tematica con più inesperienza e forse in modo meno convinto, vedo farlo consigliando semplicemente la sostituzione di prodotti. Cioè se il prodotto che hai fin qui usato è tanto inquinante e vuoi fare agricoltura integrata usi il prodotto ammesso in agricoltura integrata, così stai facendo agricoltura integrata. Vuoi fare agricoltura biologica? Usi il prodotto, anch’esso registrato, per l’agricoltura biologica per risolverti quel problema e così stai facendo agricoltura biologica. NO! Quella è pigrizia. Purtroppo bisogna fare qualcosina in più: reinvertare il modello. Quello che ho cercato di descrivere prima. Risolvere i problemi in modo integrato, agroecologico vuol dire attuare una strategia aziendale di coltivazione e di difesa, di governo del suolo, della salute del suolo, del suo nutrimento e di tutta una serie di variabili che prescindono dall’utilizzo del prodotto. Il prodotto da impiegare deve essere l’ultimo dei problemi. Se davvero si attua una strategia agroecologica questa conta per il 95% e poi per il 5%, o anche meno, tutto il resto. Se si ha ben chiara questa proporzione allora si può puntare ad un modello sostenibile, altrimenti si tratta semplicemente di usare dei prodotti con un’etichetta diversa da quello che si è abituati a comprare.