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Dalle mascherine monouso all’economia circolare

Riccardo Graziano

L’emergenza sanitaria conseguente all’epidemia Covid-19 ha sconvolto le nostre vite sotto ogni aspetto. Nulla è rimasto come prima a causa del pericolo della trasmissione del contagio. E quasi tutto è cambiato in peggio. Per questo in molti auspicano di tornare al più presto a “come prima”. Ma è necessario che ci ficchiamo in testa una volta per tutte e alla svelta che tornare a “come prima” non sarà possibile e, a ben vedere, nemmeno auspicabile. Perché già prima le cose non andavano granché bene e se cerchiamo di rifare le cose “come prima” non potremo che peggiorare la situazione. Al contrario, sarebbe bene sfruttare questo momento di strappo per ricucire le nostre società su basi diverse, cosa che in parte e per alcuni aspetti abbiamo già iniziato a fare. Ora occorre proseguire su questa strada, abbandonando modelli precedenti che sono ormai obsoleti e che comunque si erano già dimostrati fallimentari.

Per esemplificare il concetto, prendiamo un esempio che è drammaticamente sotto gli occhi di tutti: quello delle “mascherine” monouso, strumento divenuto indispensabile per proteggere noi stessi e gli altri dalla diffusione del virus, un oggetto entrato prepotentemente nella quotidianità di ognuno di noi.
All’inizio dell’epidemia, le mascherine erano diventate praticamente introvabili, le poche disponibili venivano vendute a prezzi esorbitanti. Questo soprattutto perché in Italia non venivano prodotte, per cui per il loro approvvigionamento dipendevamo totalmente dalle importazioni dall’estero, in particolare dai paesi asiatici, Cina in testa. Come molte produzioni considerate “a basso valore aggiunto”, anche quella delle mascherine era stata delocalizzata all’estero, verso quelle economie dove il costo del lavoro è più basso, il che consente di contenere il prezzo finale del prodotto e renderlo “competitivo”, nonostante il ricarico dei costi di trasporto per migliaia di chilometri. È il sistema della globalizzazione neoliberista, basato appunto sulla delocalizzazione delle produzioni verso i paesi con basso costo della manodopera, scarse tutele sindacali, magari anche pochi diritti civili e totale indifferenza verso le norme igienico sanitarie e la tutela ambientale. Al tempo stesso, il modello globalista prevede un caotico turbinio di merci che viaggiano per migliaia di chilometri da e per ogni angolo del mondo, per la quasi totalità trasportate con l’utilizzo di combustibili fossili, quindi con l’emissione di sostanze nocive e gas serra che a loro volta hanno seri impatti sull’ecosistema e sul riscaldamento globale.

Ma di tutto questo al consumatore medio finale non interessa nulla, l’importante è che, al momento dell’acquisto, il prodotto deve “costare poco”. Soltanto che, troppo spesso, confondiamo il “prezzo”  basso con il “costo” reale. Un costo che paghiamo prima di tutto in termini ambientali, come si è detto, ma in genere di questo importa poco al consumatore, attento soprattutto al portafoglio piuttosto che all’inquinamento. Ma ci sono anche altri costi che ricadono sulla pelle di tutti, quelli sociali ed economici. La delocalizzazione selvaggia degli ultimi decenni ha contribuito in misura determinante a creare disoccupazione, desertificazione industriale, perdita di redditività diffusa, aumento della spesa pubblica per misure di sostegno e altro ancora. Quello che risparmiamo all’acquisto lo paghiamo con un peggioramento generalizzato delle nostre condizioni di vita.
Non solo. La dipendenza dai prodotti di importazione crea anche una debolezza strategica, che però in genere non viene percepita. Ma l’improvvisa necessità di quantità industriali di mascherine ha reso drammaticamente evidente a tutti questo vulnus, la fragilità intrinseca di un’economia che dipende in larga parte o totalmente dalle importazioni dall’estero. I paesi produttori di mascherine se le tenevano per soddisfare il loro stesso fabbisogno, mentre noi restavamo senza, esposti al virus.
E la paura del contagio, per lunghe settimane, ha messo a rischio l’intero sistema dei commerci globali, perché si temeva che il virus potesse viaggiare e diffondersi insieme alle merci, prima di capire che in realtà lo faceva esclusivamente o quasi tramite le persone. Le quali tuttavia a loro volta viaggiano tantissimo, sempre in ossequio al modello globalista, che impone trasferte di lavoro transcontinentali. È a causa di questo interscambio continuo se un virus sbucato in una remota provincia cinese, nel giro di poche settimane si è diffuso su tutto il pianeta, prima che ci decidessimo a frenare gli spostamenti.

Tuttavia, sembra che in parte abbiamo capito la lezione. Nel giro di poco tempo, molte aziende nostrane hanno riconvertito le loro filiere per produrre mascherine e, quando si è scoperto che in Gran Bretagna circolava una variante più insidiosa del virus, i collegamenti sono stati immediatamente sospesi a livello cautelativo, nonostante questo abbia creato un enorme caos alle frontiere, con migliaia di camion bloccati e autisti giustamente esasperati. Già, perché la globalizzazione la fa ancora da padrona e le merci continuano a circolare furiosamente, ma forse questa crisi può servire a cambiare le cose.
Per esempio, quanti sarebbero disposti, in presenza di un calo dell’epidemia, a delocalizzare nuovamente all’estero la produzione di mascherine? Per avere un “costo”, o meglio un prezzo più basso di pochi centesimi, saremmo di nuovo disponibili ad accettare il rischio di rimanere senza dispositivi di protezione? Forse no, ora che sappiamo quali sono i costi reali, in termini di aumento delle spese sanitarie e, soprattutto, di perdite di vite umane.

Ma senza arrivare al caso limite di un’epidemia, saremmo disposti a rinunciare alla nostra sovranità alimentare, costruendo un modello che ci renda dipendenti dall’estero per l’approvvigionamento del nostro cibo? No? Bhè, però lo stiamo facendo. A causa della cementificazione costante del territorio, abbiamo perso centinaia di chilometri quadrati di terre fertili. Abbiamo seppellito i nostri campi coltivati sotto il cemento di centri commerciali dove si vendono prodotti coltivati da altri, provenienti da migliaia di chilometri di distanza. E così facendo, siamo passati in pochi anni da una produzione nazionale in grado di soddisfare oltre il 90% del fabbisogno alimentare del Paese a poco più dell’80%. Una tendenza che continua, anche perché, in testa alle “ricette” per far ripartire il Paese, c’è l’immancabile e sempreverde parolina magica, “infrastrutture”. La nostra classe dirigente e buona parte dell’opinione pubblica continuano a pensare che, per far ripartire l’economia, l’unico modo sia buttare altro cemento, altro asfalto, per implementare gli scambi. Ancora oggi, quando ormai dovremmo aver capito i danni, i rischi e le fragilità di questo sistema basato sulla globalizzazione, qualcuno continua a predicare il verbo del commercio globale.

Eppure per molti aspetti abbiamo riscoperto i vantaggi delle filiere locali. Non solo l’utilità di produrre le mascherine a casa nostra, senza dipendere da paesi stranieri per proteggerci dal virus, ma più in generale la rete del commercio di prossimità, delle produzione a chilometro zero, di una comunità coesa e legata al territorio. Non perdiamo questa nuova consapevolezza, questa preziosa opportunità per consegnarci di nuovo nelle mani del modello neoliberista della globalizzazione, che così tanti danni ha creato. Non cediamo alle brame di “cementari” e “sviluppisti” che vorrebbero asfaltare ovunque, o che vaneggiano di linee ad alta velocità per trasportare merci provenienti da chissà dove, piuttosto ricominciamo a produrre qui, che è poi il vero modo per aumentare l’occupazione, specialmente se lo si fa seguendo i principi dell’economia circolare.
Anche in questo caso, è utile rifarsi all’esempio delle mascherine. La necessità di utilizzarle in maniera generalizzata e in modalità monouso, oltre alle esigenze produttive mette in luce le problematiche relative allo smaltimento. Parliamo di 90 milioni di pezzi al mese che devono essere cestinati. L’ Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) valuta che ciò equivalga a una quantità di rifiuti pari a oltre 700 tonnellate al giorno su scala nazionale. Se non vogliamo esse sommersi da una montagna di mascherine usate, dovremo imparare non solo a produrle, ma anche a riciclarle, secondo i principi dell’economia circolare, che portano il rifiuto a diventare nuovamente materia prima. Un approccio in grado di ridurre la quantità di rifiuti e di creare nuove opportunità di lavoro, ma che necessita della creazione di una filiera che vada dalla progettazione di un prodotto interamente riciclabile alla collaborazione con chi si occupa della raccolta rifiuti, passando per l’impegno responsabile dei cittadini che dovranno differenziare e conferire correttamente il materiale da riciclare.

L’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico) ha già messo in campo un progetto in tal senso, che prevede l’utilizzo di mascherine sanabili e riutilizzabili sulle quali inserire filtri monouso di un solo materiale, i quali una volta utilizzati andranno poi raccolti in punti comodi (farmacie, supermercati) per essere riciclati e rimessi nel circolo produttivo. Esiste già un’esperienza pilota in tal senso a Bergamo e Brescia, ma è chiaro che un modello di questo tipo va esteso a tutto il territorio nazionale e replicato per ogni tipo di produzione, dagli scarti organici della filiera alimentare ai residui delle lavorazioni industriali.
È in questo tipo di approccio, basato su produzioni locali a filiera circolare, che deve basarsi una ripresa sostenibile e duratura, piuttosto che inseguire malsane idee di tornare a una economia “come prima”, con tutti i danni che comportava. Solo se sapremo cambiare paradigma potremo uscire da questo cataclisma meglio di come ne siamo entrati e molto meglio di come stiamo ora.

Pets? No Pets!

Giovanni Costa
Presidente di Pro Natura Catania e Ragusa

Una notizia apparsa su vari quotidiani italiani poco prima dello scorso Natale mi ha fornito l’occasione per trattare un argomento che mi sta a cuore da qualche tempo, e che ho avuto modo di discutere con il mio grande (e indimenticato) amico Danilo Mainardi. La notizia riguardava il rinvenimento di un pitone reale in una strada del vecchio centro storico di Catania, incastrato tra le grate di una caditoia per le acque piovane. Il Pyton regius è una specie di origine africana, appartenente a una famiglia di serpenti costrittori e non velenosi, considerata raramente pericolosa per l’uomo per le ridotte dimensioni, che non superano di solito i 150 cm di lunghezza. Si tratta di un animale tutelato dalla Convenzione di Washington del 1973, che ne prevede la possibilità di commercio e detenzione solo alla presenza di apposita certificazione e documentazione. L’esemplare trovato a Catania, lungo circa un metro e venti, probabilmente abbandonato da chi lo deteneva, era riuscito a entrare tra i cunicoli e i canali di scolo della fognatura per alimentarsi, incontrando poi qualche difficoltà a venirne fuori. Esso è stato liberato e consegnato ai rappresentanti del Raggruppamento Carabinieri CITES di Catania dalla nostra brava, sempre pronta e disponibile, Grazia Muscianisi, colonna, assieme al vulcanico ed intramontabile Luigi Lino, di Pro Natura Catania e Ragusa.

Per quanto esistano restrizioni ed impedimenti di natura legale, il commercio di specie animali esotiche (o anche di loro parti, vedi zanne di elefante, corna di rinoceronte, ossa di tigri di Sumatra, e così via) è uno straordinario business in crescita in tanti paesi del mondo, inferiore solo al traffico di droga e di armi. Si tratta di alcune centinaia di miliardi dollari l’anno (solo in Italia è stato recentemente calcolato un giro d’affari di circa 2 miliardi di euro l’anno). Sono acquistati e tenuti in cattività tanti pesci, anfibi, rettili (soprattutto tartarughe, iguane e serpenti), uccelli (soprattutto pappagalli), mammiferi (fra cui primati non umani, orsi e financo grandi felini), e, perché no, scorpioni e ragni velenosi! La cattura riguarda molto spesso esemplari di giovanissima età, strappati agli adulti che tentano di difenderli e non di rado vengono uccisi (e si tenga conto che in tanti casi si tratta di specie a rischio di estinzione). Gli animali, catturati frequentemente da abitanti locali poveri e ignoranti, vengono tenuti in gabbie non sempre di dimensioni ottimali, talvolta anche in condizioni di sovraffollamento, senza cibo o acqua per giorni in attesa di essere consegnati ai commercianti acquirenti. Questi, a loro volta, spediranno quelle povere bestie stivandole a bordo di navi o aerei. Il risultato è che difficilmente giungeranno vive a destinazione più del 50% di quelle catturate. E quelle sopravvissute dovranno poi affrontare condizioni di vita difficili sia per motivi climatici sia per un’alimentazione spesso non idonea. A parte tutto, non bisogna dimenticare che l’asportazione di animali selvatici costituisce una seria minaccia per la biodiversità, soprattutto per quelle specie che sono ormai al limite della sopravvivenza. Basti considerare il caso delle tigri di Sumatra, di cui non meno di 500 esemplari sono tenuti come “pets” negli Stati Uniti d’America, un numero che supera probabilmente quello degli individui ancora esistenti in natura!

Quello che occorre puntualizzare è che non è possibile trattare da animali domestici, che gli inglesi denominano “pets”, animali che domestici non sono! Si fa sovente una grande confusione tra animali domestici e animali addomesticati. È chiaro che animali domestici sono propriamente quelli che teniamo a casa, come i classici cani o gatti. È chiaro pure che questi animali sono stati addomesticati. Ma sono stati addomesticati anche cavalli, asini, maiali, ecc., che di solito non ospitiamo nella nostra casa! Orbene sono numerosi i casi di persone di tutto il mondo che mantengono nella loro abitazione animali quali pitoni, lemuri, orsi, tigri, leopardi, leoni e tanti altri ancora. Questi animali riescono ad assuefarsi alla presenza umana e a offrire persino prestazioni del tutto innaturali in cambio di cibo o per evitare terribili punizioni, come gli elefanti che devono sostenere il loro peso poggiando solo una zampa o le tigri che devono saltare nel cerchio di fuoco al circo. Essi rimangono pur sempre animali selvatici e non di rado si ribellano producendo rischi e danni, che poi si concludono con la loro “sacrosanta (!)” e inevitabile uccisione.
L’addomesticamento è un processo che ha riguardato un ristretto numero di specie animali e una buona quantità di specie vegetali. Esso è durato migliaia di anni, coinvolgendo un’innumerevole serie di generazioni, con una selezione artificiale che ha progressivamente prodotto notevoli differenze genetiche rispetto al genoma delle popolazioni selvatiche. Il processo è iniziato forse intorno a quindicimila anni fa (se non prima e comunque nel tardo Pleistocene), si ritiene con l’accoglimento e l’allevamento di cuccioli di lupo negli accampamenti umani: quindi più propriamente si dovrebbe parlare dell’addomesticamento del lupo, più che del cane, che è il risultato del processo e non il punto di partenza! I lupi presenti in quel periodo (probabilmente una specie estinta, diversa da quella attuale) si avvicinavano agli insediamenti temporanei degli uomini preistorici alla ricerca di avanzi da mangiare; e il ritrovamento occasionale di qualche cucciolo più intraprendente degli altri potrebbe avere determinato l’inizio di una convivenza risultata vantaggiosa sia per la caccia sia per la difesa. A partire da una fase iniziale dell’Olocene (intorno a dodicimila anni fa), in quello straordinario periodo denominato “Rivoluzione neolitica”, seguì tutta un’altra serie di processi di addomesticamento che hanno riguardato varie specie vegetali, e per quanto riguarda gli animali, in una probabile successione, capre, pecore, buoi, maiali, cavalli, asini, gatti, dromedari, galli, e così via.

Tornando ora all’argomento iniziale, ci si potrebbe domandare per quale motivo una persona decide di ospitare a casa sua un leone, uno scimpanzé, un pitone, e così via. Molti dichiarano di farlo perché amano gli animali. Ma questa motivazione appare assai poco credibile, ove si consideri che anche chi non ha adeguate conoscenze etologiche può onestamente pensare che i bisogni e i comportamenti naturali di un animale selvatico possano essere soddisfatti in una casa, per attrezzata ed accogliente che possa apparire. Tenere un animale, che vivrebbe libero in condizioni naturali, rinchiuso in un ambiente circoscritto necessariamente determina condizioni di sofferenza fisica e mentale. Nell’ambiente naturale ci sono ampi spazi; gli animali di specie territoriali possono scegliere le zone più opportune da acquisire e difendere dagli intrusi; possono realizzare le interazioni sociali tipiche delle specie di appartenenza; predatori e prede possono mettere in atto le loro rispettive strategie comportamentali; raggiunta la maturità sessuale possono essere attuate le fasi riproduttive che la loro specie prevede, dal corteggiamento alle cure parentali; e così via. Tutto ciò non può essere garantito ad un animale selvatico, qualunque sia la specie e chiunque sia il soggetto ospitante.
La conseguenza di ciò è frequentemente un articolato quadro di patologia comportamentale, che nei vari casi può andare da uno stato di noia alla frustrazione, dalle forme di automutilazione dei pappagalli a malattie spesso causate da un’inadeguata alimentazione o insufficienti condizioni igieniche per specie esotiche di qualsiasi gruppo tassonomico, fino alla morte. Non di rado alcuni animali esotici tenuti a casa possono “ribellarsi” e diventare pericolosi per gli stessi proprietari, per la loro famiglia, per gli occasionali visitatori, e persino per gli eventuali effettivi animali domestici: ogni tanto vengono, infatti, pubblicizzate notizie di bambini o di adulti sbranati da tigri, morsi da scimmie o asfissiati da serpenti costrittori. Altri rischi per chi sta in continuo contatto con animali esotici sono connessi con la possibilità di contrarre malattie zoonotiche di tipo virale, come l’Herpes B (trasmissibile all’uomo dai macachi) o il vaiolo delle scimmie (trasmissibile anche da roditori o Primati non umani) o di tipo batterico, come la salmonellosi (trasmissibile da vari Rettili, tartarughe incluse), eccetera.

Non sono pochi i casi di abbandono (illegale) di esemplari, anche acquistati a caro prezzo. E ciò per vari motivi, come, ad esempio, perché il loro mantenimento è risultato troppo costoso in termini di spese per il vitto o delle condizioni climatiche idonee, o anche solo per mancanza del tempo da dedicare a questi ospiti per garantirne uno stato di salute ottimale. Gli animali abbandonati spesso costituiscono una potenziale minaccia per l’incolumità delle persone che ne possono venire in contatto. Questo non è certo il caso del pitone reale, considerato un serpente non pericoloso anche per l’indole poco aggressiva nei riguardi di chi lo maneggia; però quest’animale può trasmettere virus, batteri, nematodi, ecc., all’uomo. E, sempre restando nell’ambito dei pitoni, c’è anche il caso di chi decide di tenere in casa esemplari di Malayopython reticulatus (pitone reticolato), una specie di origine asiatica che può superare la lunghezza di 6 metri e che è riconosciuto capace di ingoiare per intero una persona ! Numerose sono poi le cronache che riportano incidenti, spesso mortali, di animali esotici abbandonati o evasi dalle loro “gabbie dorate”. Per non parlare di un altro rischio per la biodiversità, che si somma a quello causato dal prelievo della fauna selvatica. E cioè quello, sia pure limitato almeno finora a un contenuto numero di casi, di animali esotici che vengono a trovarsi liberi e riescono a sopravvivere in un ambiente diverso da quello loro naturale, incontrando condizioni ambientali ottimali: essi competeranno con le specie native per le risorse locali e, se carnivori, potranno anche predarle, alterando gli equilibri naturali e divenendo nuclei di specie invasive. Questo è già successo, ad esempio, in vari casi in Florida, dove il clima e le caratteristiche topografiche del Parco Nazionale delle Everglades hanno consentito ad alcune specie di acclimatarsi e stabilizzarsi. Fra queste, sempre a proposito di pitoni, è noto il caso della specie birmana Pithon bivittatus, che può raggiungere 5 metri di lunghezza, alcuni esemplari della quale sono riusciti ad evadere da uno zoo a seguito di un uragano. Ebbene, sono stati recentemente censiti nelle Everglades oltre mille individui di questa specie invasiva, mentre sono scomparsi volpi e conigli e fortemente diminuiti procioni, opossum, coyote, e varie altre specie locali.

In conclusione, penso che chi ami veramente gli animali, se vuole incrementare la propria famiglia, e avere “un compagno di vita o di lavoro con cui comunicare”, per dirla alla Mainardi, un fedele amico che si lega morbosamente al suo padrone, potrebbe limitarsi a tenere in casa un cane. O, se si vuole come membro della famiglia un animale più autosufficiente, una “piccola tigre”, ma sempre ben pulita e abitudinaria, un giocherellone atletico ed elegante quanto intelligente, ci si potrebbe accontentare di tenere un gatto. Senza dunque scomodare gli animali selvatici che stanno bene nel loro ambiente. Dove starebbero ancora meglio senza le intrusioni e gli squilibri causati dalla specie umana.

Il podio della vergogna

Piero Belletti

L’emergenza sanitaria che stiano tuttora vivendo ha suscitato una enorme quantità di commenti e prese di posizione. Molti di essi sono stati di encomio nei confronti delle categorie che maggiormente si sono distinte e prodigate a favore del prossimo, ad esempio il personale sanitario, le forze dell’ordine, le Associazioni di volontariato e tante altre. Ovviamente ci troviamo d’accordo, anche se, come sempre, non è possibile una generalizzazione al 100% e qualche lazzarone si annida sempre anche negli ambiti più virtuosi. Ma tant’è: ci pare inevitabile.
Sulle categorie che, al contrario, si sono distinte in modo negativo si sono invece spese meno parole, se non per motivi di pura strumentalizzazione politica o per amor di protagonismo, magari favorito dall’anonimato garantito dal Web.
Cerchiamo quindi di bilanciare la situazione, ipotizzando un podio virtuale di chi ha sfruttato la pandemia unicamente per perseguire interessi personali o dare una chiara dimostrazione della propria inadeguatezza, se non addirittura grettezza e immoralità. Si tratta, ovviamente, di considerazioni personali, che potranno anche non essere condivise.
Iniziamo dal gradino più basso del podio, assegnato ai giornalisti. Ovviamente, di nuovo, non possiamo generalizzare, ma semplicemente indicare una tendenza comune a una parte cospicua dei rappresentanti della categoria. Hanno fatto un’enorme confusione, dimostrando di anteporre l’obiettivo del titolone ad effetto a quello di fornire una seria ed equilibrata informazione. O quanto meno di essere totalmente impreparati a scrivere di argomenti sui quali avevano scarse competenze (ma nemmeno hanno ritenuto di colmare la lacuna…). Per mesi abbiamo continuato a ragionare sul numero degli individui risultati positivi ai tamponi, considerando questo dato come l’unico in grado di fornirci precise indicazioni sull’andamento epidemiologico della malattia. Solo dopo sei mesi ci siamo finalmente accorti che la percentuale di positivi non ci dice nulla senza il dato del numero totale di tamponi effettuati. E anche in questo caso ci dice poco. Però nessuno se ne è accorto e si è continuato a fornire numeri del tutto insignificanti se non addirittura fuorvianti. E poi siamo stati invasi da dati spesso contraddittori, distribuiti con troppa leggerezza e che altro risultato non hanno avuto che quello di aumentare nell’opinione pubblica una confusione già di per sé pericolosamente alta. Ma quello che ha maggiormente infastidito è stata l’esasperata ricerca della spettacolarizzazione della notizia: quanto volte abbiamo visto giornalisti (o presunti tali) chiedere ad una persona in lacrime che aveva appena perso un caro “che cosa prova in questo momento?”. Domanda stupida, fuori luogo e soprattutto da non porre in quella particolare circostanza. E che dire poi dei cosiddetti “talk show”, in cui i conduttori fanno di tutto per scatenare risse violente tra i presenti e comunque monopolizzano la discussione, interrompendo di continuo gli ospiti, a volte impedendo di capire cosa volessero dire? Ma tant’è: se gli ascolti poi premiamo, allora buttiamo a mare ogni esitazione e comportiamoci pure in modo così azzardato.
Ma se ai giornalisti possiamo a volte riconoscere almeno la buona fede, lo stesso vale molto meno per chi ha conquistato il secondo gradino del podio: i politici. Qui, l’innocenza può essere tirata in ballo molto più forzatamente. Abbiamo assistito spesso a uno squallido teatrino, nel quale questo o quel politico contestava, a turno, le decisioni prese da qualcun altro al solo scopo di cavalcare il malessere della gente e quindi incrementare il numero di potenziali elettori. Quando il Governo (che pure non è esente da responsabilità sulla gestione della crisi) decideva di applicare norme restrittive, ecco che i vari politici (soprattutto quelli felpati o falso biondi) inneggiavano alla libertà, salvo poi chiedere chiusure più drastiche non appena il Governo approvava qualche concessione. Un teatrino veramente squallido. Così come la decisione di aprire una crisi per motivi indefinibili: magari il ragazzaccio fiorentino avrà anche avuto ragione, però alzi la mano chi è riuscito a capire davvero perché ha voluto far cadere il Governo. Ma il massimo è stato raggiunto dalla petrol-vicepresidente della Regione Lombardia, allorquando ha proposto di distribuire i pochi vaccini disponibili in base al PIL delle varie Regioni. E per fortuna non si è sbilanciata su come procedere poi con le priorità all’interno delle Regioni. Prima i redditi più alti e poi i poveracci? Non contenta di aver dato un contributo essenziale allo sfascio del sistema scolastico e universitario del nostro Paese, questo fulgido esempio di amministratore pubblico ha pensato bene di aggiungere una nuova perla al suo invidiabile curriculum.
Ma veniamo al posto più ambito: il gradino più alto del podio. Se lo sono aggiudicato, e con distacco, i cacciatori. Nonostante la drammatica situazione, il loro unico pensiero è stato quello di poter continuare ad andare in giro a sparare su tutto ciò che si muove. Hanno fatto di tutto per non subire nemmeno la più piccola limitazione alla loro perversa attività, qualunque fosse il “colore” vigente in quel periodo. In questo favoriti da un mondo, quello politico, che è ormai legato alle Associazioni venatorie come mai forse in passato. Hanno addirittura fatto passare la caccia come un’attività “necessaria” per mantenere gli equilibri naturali ed impedire non si capisce bene quali drammatiche conseguenze derivanti dal silenzio delle doppiette. Incredibile: è ormai ampiamente appurato come la caccia sia una delle principali cause degli squilibri ambientali (classico il caso del cinghiale), eppure costoro hanno la faccia tosta di trasformarsi da causa in unica categoria in grado di sistemare le cose… E qui, a differenza delle altre categorie, non abbiamo sentito una voce dissenziente dalle folli pretese della categoria. Quindi la generalizzazione è pienamente giustificata.

Biodiversità in Italia e “next generation…”: più ambiente per il lavoro, più lavoro per l’ambiente!

Longino Contoli Amante

Non è vero che la tutela della Biodiversità in Italia contrasti il lavoro, gli investimenti e l’occupazione! Piuttosto, occorre curarsi della qualità, oltre che della quantità; ciò nell’ambito di un nuovo modello di sviluppo (ben distinto dalla “crescita”!) adeguato al “genius loci” italiano (geografico, geologico, geomorfologico, antropologico, storico e culturale) e rivolto al futuro più prossimo, da studiare anche in rapporto alla compatibilità non tanto competitiva, ma piuttosto cooperativa, tra centro e periferia (anche a livello internazionale: e. g.: cultura europea come fonte espansiva, non come fortezza assediata) e come convivenza positiva Uomo - ambiente.
In Italia, millenni d’antropizzazione hanno convissuto, anche se a fatica, con l’ambiente anantropico; ma, da un paio di secoli, l’impatto si è fatto sempre più acuto ed esteso, soprattutto con la frammentazione della rete ambientale; Riserve e Parchi, pur così essenziali, sono isole in un mare d’antropizzazione urbana, industriale, infrastrutturale sempre più invadente ed inquinante.
Si tratta, ormai, non solo di tutelare quel poco di tessuto ambientale continuo ancora esistente (non siamo a Papua – N. Guinea…), ma pure di ricucire la rete ambientale antropica in modo nuovo, sì da renderla compatibile con una ritrovata continuità ecologica semianantropica.
Ciò, non solo a livello infrastrutturale, ma pure con nuove tecniche e regole per le attività socioeconomiche.
Ma una convivenza positiva Uomo – ambiente semianantropico richiede oggi molto lavoro, in un approccio culturale non opulento, anche se non certo francescano, ma per lo meno parsimonioso e rivolto alla qualità, più che alla quantità.
Le aree protette si basano sulle funzioni scientifica, didattica, paesistica e ricreativa, ma v’è un’altra importante funzione, sovente più sentita intimamente che razionalmente: quella dell’autolimitazione che previene le crisi incontrollate.
I viventi sono in perenne confronto quasi conflittuale con l’ambiente, secondo le leggi della Termodinamica, come intuirono grandi pensatori del passato e le specie che, a volte, non trovino limiti esterni alla loro espansione possono trovarli al loro interno, anche in forma traumatica e/o conflittuale, od anche, a volte, andando incontro ad impreviste e violente crisi.
In tal senso, l’effetto “tamponante” della convivenza con gli “altri da noi” può non essere l’ultima funzione positiva della tutela della Biodiversità.
Per ottenere ciò, occorre che un “altro da noi” continui ad esistere, nella sua Biodiversità.
Ma, oggi, chi realmente si occupa della Biodiversità dal punto di vista della Biodiversità?
Chi affronta il degrado fisico, chimico, florofaunistico, ecologico delle risorse marine, pensando a mezzi di trasporti meno impattanti, contrastando l’inquinamento termico e chimico, progettando nuove reti da pesca che proteggano le cenosi bentoniche e i grandi e più selezionati riproduttori?
Chi protegge il suolo ed il soprassuolo da biocidi esiziali per l’entomofauna e le sue reti trofiche?
Chi sottrae i popolamenti autoctoni delle acque interne da estemporanee immissioni di taxa esotici, da acritiche captazioni o deviazioni ecc.?
Chi pianifica, progetta, realizza e mantiene opere d’arte delle più varie dimensioni (viadotti, sottopassi, tombini ecc.) atte a garantire la continuità ecologica dei territori attraversati e delle locali popolazioni di specie spesso assai poco vagili e che, se isolate, rischiano una pericolosa consanguineità?
Chi studia, propone e gestisce i necessari ponti biotici fra le aree protette, senza i quali Riserve e Parchi naturali subiranno un inevitabile depauperamento della Biodiversità?
Chi propugna, alfine, in Italia, nella scuola e fuori, una vera cultura naturalistica e scientificamente ambientalista pubblica?

Dunque, in linea generale; non converrà, forse:
1: Dare voce a chi non l’ha, ma può esprimersi solo con gli eventi (la natura anantropica)?
2: Guardare allo ieri, più che all’oggi, per pensare al domani?
3: Studiare il reale, non cullandosi nel sogno consolatorio ed illusorio?
4: Accettare l’”altro da noi”, per non divenire ”altri tra noi”?
5: Fare di più, ma non fare per fare?
6: Investimenti di interfaccia, non di contrasto reciproco?

Di conseguenza:

1.1: Ascoltare i competenti, anche con strutture ad hoc (“Protezione ambientale”) con funzione “setaccio” tra progetti.

2.1: Prevenire alterazioni irreversibili.
2.2: Tutelare antichi modelli di coesistenza “Uomo e <<altro>>”.
2.3: Alla “Protezione civile” aggiungere la “Protezione ecologica”.
2.4: Eliminare criticità locali o globali per promuovere la continuità compatibile antropica ed anantropica.

3.1: Potenziare l’istruzione (Scienze naturali ed ambientali).
3.2: Chiarire termini, definizioni e concetti.
3.3: Ricerca di base.
3.4: Contrastare l’ignoranza, con strumenti conoscitivi e critici permanenti, tempestivi ed istituzionali, a partire dal significato stesso di Biodiversità.

4.1: Scegliere tra l’esasperazione della “crescita” e la moderazione dell’”impronta ecologica”.
4.2: Garantire la continuità ambientale intorno all’antropizzazione acuta.
4.2.1: Modello “colloide” per la coesistenza della continuità ambientale meno antropizzata.
4.2.2: Restituire l’alveo ai corsi d’acqua.

5.1: Non “feste dell’albero” con piantumazioni su aree selvagge.
5.2: Non ripopolamenti venatori od alieutici.
5.3: Non immissione di taxa esotici.
5.4: Privilegiare il “qualitativo” sul ”quantitativo”.
5.5: Evitare gli sprechi.
5.5.1: Limiti a caccia e pesca sportive e “consumistiche”.
5.5.2: Combattere ecologicamente gli incendi rurali e boschivi.
5.6: Più ricerca finalizzata.
5.6.1: Lotta biologica in agricoltura e meno biocidi.
5.6.2: Nuove tecniche alieutiche in mare (e. g: reti più adeguate).
5.6.3: Lotta all’inquinamento dell’aria, delle acque interne, del mare, del suolo, degli ecosistemi.

Occasioni per l’integrazione e compatibilità di quanto precede con capitoli dei fondi del “Recovery fund”.

A: Verso “Digitalizzazione”:
A.1: Meno mobilità superflua e più interconnessione.
A.2: Reciproco adeguamento e controllo tra progetti.

B: Verso “Infrastrutture”:
B.1: Autonomia energetica degli insediamenti.
B.2: Non linearizzare i nuovi insediamenti.
B.3: Evitare l’interruzione territoriale continua; più ponti, viadotti, gallerie, sottopassi; tombini larghi e praticabili.

C: Verso “Istruzione”:
C.1: Evitare equivoci semantici (“Boschi vetusti”; ”Bosco verticale”; “Piantagioni e Colture arboree” sinonimi di ”Boschi o Foreste”).
C.2: Criticare pubblicamente la comunicazione di massa (anche pubblicitaria!) invadente ed ingannevole e gli slogan magniloquenti quanto vuoti, per restituire il tempo alla mente...
C.3: Tutelare e promuovere le basi conoscitive (archivi, biblioteche, collezioni, musei, luoghi e strutture funzionali di ricerca ecc.)

D: Verso “Salute”:
D.1: Igiene e salute v.s risorse bio-ambientali a rischio.

E: Verso “Turismo”:
E.1: Tutela di un patrimonio ambientale da usare senza alterarlo.

F: Verso “Parità di diritti tra sessi”:
F.1: tutelare e valorizzare la sensibilità empatica femminile v.s l’ambiente.

Da ciò, spunti per promuovere rinnovata occupazione ed il relativo lavoro, nella tutela della Biodiversità finché, forse, siamo ancora in tempo...

Un nuovo inizio

Riccardo Graziano

La pandemia da Covid-19 estesa a livello mondiale è un avvenimento epocale. Molti asseriscono che dopo nulla sarà come prima. Ma dipende da noi se sarà meglio o peggio. Dalle decisioni che prenderemo non solo dopo l’emergenza, ma già a partire da oggi.
Come organizzazione ambientalista, ci adopereremo per indirizzare la ripresa verso un modello di sviluppo nuovo, più sostenibile, equo e salutare. Perché vediamo ogni giorno le criticità e i danni di uno sviluppo non più sostenibile, che causa problemi sempre più gravi e ha contribuito anche al sorgere e diffondersi di questo virus. Questa pandemia è un forte campanello d’allarme. Impariamo da questa emergenza.
A seguire, alcune linee guida per un modello di sviluppo che rispetti l’ambiente e, dal punto di vista economico, metta al centro le persone anziché il profitto. Per mitigare da un lato gli effetti del cambiamento climatico e dall’altro il fenomeno della polarizzazione sociale, che vede un incremento generalizzato della povertà a fronte dell’arricchimento smisurato di pochissimi. Per dimostrare che la tutela dell’ambiente può e deve marciare di pari passo con l’attenzione all’aspetto socio-economico e che le due cose non sono affatto in contrapposizione, come troppo spesso ci vogliono far credere.
Natura & Società declinate insieme, per provare a costruire un futuro migliore.
1. Salute – L’epidemia di Covid-19 ci ha fatto capire l’importanza della Sanità pubblica. Occorre riprendere a investire su strutture, personale, attrezzature, prevenzione e ricerca.
Nello specifico, occorre invertire la politica di tagli dissennati alla Sanità perseguita negli ultimi anni, assumendo personale e riconoscendo un trattamento economico maggiormente adeguato a persone che svolgono un compito molto più simile a una missione che a un semplice mestiere. Occorre inoltre bloccare il processo in corso di dismissione delle strutture sanitarie, anzi provvedere a riattivare almeno una parte di quelle chiuse, per aumentare il presidio del territorio, fattore cruciale non solo per il contenimento di fenomeni epidemici, ma in generale per fornire un migliore servizio agli utenti. Infine, ma non ultimo, occorre promuovere la cultura della prevenzione, fatta di stili di vita sani sotto il profilo alimentare e dell’attività fisica, nonché dall’adozione di pratiche che consentano di ridurre ogni forma di inquinamento, per consentirci di vivere in un ambiente più sano.

2. Lavoro - Dobbiamo fare tesoro dell’esperienza di lavoro da casa che molti sono stati costretti ad adottare e continuare a cogliere questa opportunità per diminuire la domanda di mobilità legata agli spostamenti lavorativi, ovviamente nel rispetto dei lavoratori e delle varie situazioni operative. In generale, occorre orientare il sistema verso i servizi alla persona, piuttosto che sulla produzione di merci, per passare in modo graduale e non traumatico dalla società consumistica a quella del benessere, attraverso una “decrescita” dell’utilizzo di materie prime ed energia, senza che ciò intacchi gli standard di qualità della vita a cui siamo abituati. Tenendo presente che per molti il livello di benessere si è già abbassato di parecchio proprio mentre si inneggiava alla “crescita” continua e si mettevano in atto strategie che avrebbero dovuto garantire lo “sviluppo”, a dimostrazione del fatto che le ricette ostinatamente imposte finora non funzionano.
È necessaria inoltre una decisa riduzione dei tempi di lavoro individuali – a parità di salario! – per poter garantire la tenuta dei livelli di occupazione, in vista di una automazione sempre più spinta nell’era ormai contemporanea dell’intelligenza artificiale, con macchine in grado di svolgere autonomamente una serie di lavori finora appannaggio degli esseri umani.
Piuttosto che insistere con la cementificazione del territorio e con la richiesta di nuove infrastrutture e “Grandi opere” di dubbia utilità, sarebbe meglio dedicarsi alla manutenzione ordinaria dell’esistente, prima di dover subire altre tragedie – spesso annunciate – come quella del ponte di Genova. Anche programmare la messa in sicurezza di un territorio in buona parte soggetto a rischio sismico e sempre più fragile dal punto di vista idrogeologico consentirebbe di evitare catastrofi e lutti che sempre più spesso funestano il nostro paese. E tutte queste attività consentirebbero di impiegare una quantità di manodopera elevata, contribuendo a creare occupazione per migliaia di lavoratori.

3. Istruzione – Abbiamo urgente necessità di riqualificare la quasi totalità dell’edilizia scolastica, formata da strutture obsolete – quando non fatiscenti – sia sotto il profilo della didattica, sia dal punto di vista strutturale, in particolare per quanto riguarda l’efficienza energetica. Occorre ricostruire o riqualificare gli edifici improntandoli ai principi della bioarchitettura e della sostenibilità, senza dimenticare l’estetica e la vivibilità degli spazi interni, per garantire ai nostri ragazzi un ambiente formativo sano e gradevole.
Le tematiche ambientali e sociali – ecologia, analisi dei cambiamenti climatici, educazione civica e studio dei diritti fondamentali dell’Uomo – devono entrare a far parte integrante del ciclo didattico, che a sua volta dovrebbe essere prolungato obbligatoriamente fino ai diciotto anni e ricalibrato nei programmi sulla maggiore durata degli studi.
Sarebbe anche utile puntare su una istruzione a tempo pieno, in grado di garantire maggiori possibilità di apprendimento per gli studenti, più posti di lavoro per i docenti e, non ultimo, una diminuzione di incombenze per i genitori, spesso in difficoltà nel conciliare le attività familiari con quelle lavorative. Per fare questo, le scuole dovrebbero naturalmente attrezzarsi per offrire un servizio mensa di qualità, che utilizzi in prevalenza prodotti stagionali, bio e a chilomretrizero, contribuendo a infondere nei ragazzi una cultura della corretta alimentazione con un cibo buono, sano, nutriente e sostenibile dal punto di vista ambientale.

4. Cibo – La produzione di cibo deve abbandonare le logiche industriali attualmente in uso, tornando a pratiche rispettose di terreni, acque e cicli naturali. In questo senso, va rivista la PAC, la Politica Agricola Comune dell’Unione Europea, i cui sussidi sono ancora in larga parte indirizzati verso le grandi aziende, a discapito dei piccoli produttori. Ma occorre anche un cambio di sensibilità da parte dei consumatori sotto vari aspetti, innanzitutto per diminuire il consumo di carne, la cui produzione su vasta scala diventa sempre più insostenibile a livello globale, come nel caso della deforestazione dell’Amazzonia, che viene progressivamente rasa al suolo per ricavarne allevamenti o coltivazioni di foraggio, in gran parte per prodotti destinati all’esportazione verso i nostri mercati.
È imperativo ridurre gli sprechi – a ogni livello, dalla produzione al supermercato fino alla nostra dispensa – e privilegiare le filiere corte, le produzioni locali e la qualità del cibo, piuttosto che la quantità a basso prezzo.

5. Energia – Il chilowattora più sostenibile è quello risparmiato. Quindi mettere in atto strategie di riduzione dei consumi, a partire dalla riqualificazione energetica degli edifici, pratica che può garantire migliaia di posti di lavoro nel settore dell’edilizia, senza intaccare un metro di suolo con nuove costruzioni.
Incentivare una decisa svolta verso le fonti rinnovabili e sostenibili, dismettendo progressivamente quelle fossili, a partire dal carbone, in assoluto il combustibile più inquinante. Azzerare velocemente i troppi sussidi ancora concessi all’economia fossile, anzi disincentivarne l’uso con una tassazione mirata sulle emissioni nocive. Assolutamente insufficiente, da questo punto di vista, la SEN – Strategia Energetica Nazionale, portata avanti dall’esecutivo, che non punta decisamente verso la transizione energetica e che, secondo la denuncia di alcune associazioni ambientaliste, per alcuni aspetti sembra “dettata da ENI”, l’ente petrolifero nazionale che ancora non si decide a cambiare radicalmente le proprie strategie industriali, nonostante ci tempesti di campagne pubblicitarie apparentemente “green”.
Importante anche puntare sulla generazione energetica diffusa, attuando politiche volte a favorire chi può prodursi autonomamente la corrente elettrica e favorendo la diffusione delle comunità energetiche – al momento poche esperienze pilota – dove l’energia viene prodotta e scambiata localmente, senza disconnettersi dalla rete nazionale, ma con livelli maggiori di efficienza e risparmio.

6. Mobilità – Il chilometro più sostenibile è quello che non viene percorso. Quindi agire in primo luogo per diminuire le esigenze di mobilità delle persone (teleconferenze, lavoro da casa, ecc.) e delle merci (comprare prodotti locali, cosiddetti a Km 0).
Implementare l’offerta di trasporto pubblico, in particolare quello su rotaia (tram, metro, ferrovie locali), in assoluto il più efficiente in termini di capienza e costi di esercizio in rapporto al numero di persone trasportate. In quest’ottica, meglio potenziare i treni locali a beneficio dei pendolari, piuttosto che continuare a sperperare ingenti risorse sull’Alta Velocità, destinata a una ristretta nicchia di viaggiatori.
A livello urbano, favorire la mobilità attiva con percorsi protetti e parcheggi dedicati a bici e monopattini, favorendo anche la fruizione intermodale. Per intenderci, è necessario che all’interno delle stazioni ferroviarie siano previsti spazi coperti e sicuri per il ricovero di questi mezzi, in modo che i passeggeri possano utilizzarli in alternativa all’auto. Discorso analogo può essere fatto per le stazioni di autobus o per i capolinea di mezzi suburbani o linee principali del trasporto pubblico.
Accompagnare la transizione ormai avviata alla mobilità elettrica, più efficiente e meno impattante, puntando sull’elettrificazione delle flotte del trasporto pubblico e proseguendo nelle politiche di incentivi per la sostituzione dei veicoli privati più inquinanti, mettendo parallelamente in campo una politica industriale che garantisca la tenuta dei livelli occupazionali grazie a nuove filiere produttive, in grado di riassorbire la manodopera del comparto automobilistico tradizionale, già oggi in fase di contrazione. Esemplare in questo senso lo sviluppo congiunto da parte di Cobat (Consorzio nazionale per il recupero delle batterie) e CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) di un nuovo processo per il riciclo e il recupero dei materiali delle batterie delle auto elettriche dismesse, problematica che tanto preoccupa una parte del mondo ecologista quanto i costruttori di veicoli termici tradizionali.

7. Consumi – Indirizzare la società verso un sistema meno consumistico, riducendo il superfluo, gli sprechi, il monouso. Contrastare lo sviluppo ipertrofico della logistica mondiale, imposto dalle strategie della globalizzazione, basata su scambi commerciali planetari di enormi quantitativi di merci prodotte a grande distanza dai luoghi di consumo. In alternativa, ricostruire aziende e filiere locali che avvicinino domanda e offerta, ricostruendo in modo sostenibile quel tessuto produttivo smantellato dalla deindustrializzazione degli ultimi decenni, invertendo in tal modo le dinamiche che hanno portato alla crescita della disoccupazione. Educare i consumatori a scegliere i prodotti locali e a privilegiare la qualità del prodotto piuttosto che il basso presso di vendita, troppo spesso ottenuto con costi elevati sia dal punto di vista ambientale (inquinamento), sia sotto il profilo sociale, con lo sfruttamento dei lavoratori e il mancato riconoscimento dei loro diritti.

8. Rifiuti – Puntare sulla strategia delle “R”, partendo dalla Riduzione alla fonte, perché si sa che il rifiuto più gestibile è quello che non viene prodotto. Privilegiare la Riparazione e il Riuso degli oggetti piuttosto che la loro sostituzione con nuovi prodotti. Attuare la Raccolta differenziata, che dev’essere abbinata a una corretta filiera del Riciclo, in grado di recuperare i materiali donando loro nuova vita. La pratica dell’incenerimento per la produzione energetica deve diventare residuale, il conferimento in discarica deve essere azzerato. Occorre riconvertire tutti i cicli produttivi secondo i principi dell’Economia circolare, dove ogni prodotto è già progettato in modo da garantire  che, una volta giunto a fine vita, possa essere disassemblato per recuperare i materiali e trasformarli in materie prime seconde, senza andare a intaccare nuove risorse naturali.

9. Ambiente – Necessità assoluta di salvaguardare i sempre più numerosi habitat in declino, per garantire una riserva di biodiversità in grado di allontanare lo spettro di una Sesta estinzione di massa, che peraltro in parte stiamo già vivendo in questa era geologica chiamata Antropocene, dove i cambiamenti che interessano la Terra sono sostanzialmente provocati dall’Uomo. Anche perché, se non agiamo in fretta e con decisione, fra le tante specie destinate all’estinzione ci sarà anche la nostra.

Occorre ridurre drasticamente l’utilizzo di combustibili fossili per rallentare il riscaldamento globale e approntare strategie di resilienza ai cambiamenti climatici ormai in atto. È necessario ridurre tutte le fonti di inquinamento, a partire dalla plastica, materiale virtualmente indistruttibile che sta letteralmente invadendo ogni angolo del pianeta, inclusi gli organismi viventi.

10. Solidarietà – La pandemia dovrebbe averci insegnato che “Nessuno si salva da solo”. Occorre aiutare i più deboli, gli ultimi, chi non ce la fa. Occorre una società più equilibrata basata su giustizia sociale, solidarietà, sussidiarietà. Servono maggiori investimenti nello stato sociale, da finanziare con tagli a spese militari e grandi opere. Una società più coesa ed equilibrata è fondamentale per combattere paure, odio, intolleranza e tutti i sentimenti negativi che stanno avvelenando le nostre esistenze. Cerchiamo di costruire una società e persino una civiltà più equa e sostenibile, per far sì che l’auspicabile uscita dall’emergenza sanitaria non ci faccia “tornare come stavamo prima”, ma possibilmente un po’ meglio.

I 50 anni della Riserva Naturale Montagna di Torricchio

Franco Pedrotti

Il 14 ottobre sono ricorsi 50 anni dell'istituzione della Riserva Naturale “Montagna di Torricchio” ad opera dell'Università di Camerino. La Montagna di Torricchio è stata un feudo del granduca Giovanni Maria Varano fino al 1527, anno della sua morte. Quando nel 1545 il ducato di Camerino è stato annesso definitivamente allo Stato Pontificio, la Montagna di Torricchio venne assegnata al Vicariato di Camerino. Nel 1819 veniva acquistata da Antonio Conforti di Camerino e successivamente passò alle famiglie Piscini e Lucchetti e nel 1940 al Marchese Mario
Incisa della Rocchetta. Il Marchese usava la Montagna di Torricchio per il pascolo estivo delle pecore, che vi risalivano dalla campagna romana. Nel 1959, durante il Congresso nazionale sulla protezione della natura, organizzato a Bologna dal Prof. Alessandro Ghigi, l'Avv. Antonelli espresse il desiderio del Marchese di “esaminare la possibilità di dare sviluppo in senso faunistico alla Montagna di Torricchio, che presenta qualche nucleo residuo di alto fusto, abbondanza di acqua, praterie meravigliose”.

Nel 1968 ho visitato per la prima volta la Montagna di Torricchio, accompagnato dal Geom. Raniero Paganelli di Camerino, che era l'amministratore del Marchese; era il mese di luglio, a Torricchio c'era il gregge delle pecore e al Casale Piscini si producevano formaggio e ricotta. Abbiamo visitato anche la faggeta sulle pendici del Monte Fema, in parte di alto fusto, e ormai pronta per il taglio, come mi disse Paganelli; egli mi accennò anche al desiderio del Marchese di fare di Torricchio “una riserva per la protezione della natura”.
Poco tempo dopo ho avuto occasione di incontrare il Marchese a Roma, nella sede dell'Associazione italiana del W.W.F. di cui era presidente. Abbiamo parlato anche di Torricchio e così egli prese la decisione di fare una donazione della sua proprietà all'Università di Camerino, allo scopo di destinarla ad area protetta. L'atto di donazione è stato firmato il 27 aprile 1970, la registrazione dell'atto di donazione il 14 ottobre 1970, giorno nel quale L'Università ne è diventata proprietaria. Il 1970, fra l'altro, era stato dichiarato “anno europeo della conservazione della natura” mentre gli Stati Uniti proclamavano, il 22 aprile 1970, la “giornata della Terra”.
A partire dal 14 ottobre 1970, l'Istituto di Botanica dell'Università di Camerino, al quale era stata demandata la gestione della proprietà appena acquisita, ha applicato a Torricchio le seguenti norme di carattere protezionistico: divieto di pascolo, divieto di taglio del bosco, divieto di transito escluso lungo le strade vicinali. Fin dal 1970 l'Università di Camerino ha assunto un guardiano per la sorveglianza. Il divieto di caccia è stato applicato nel 1971 con l'istituzione dell'oasi faunistica. Il vincolo paesaggistico è stato applicato nel 1972.
La riserva è stata formalmente istituita con il Decreto Rettorale del 26 febbraio 1973 e quindi con il Decreto del Ministero Agricoltura e Foreste del 7 aprile 1977. Nel 1979 è stata inclusa nella rete europea di riserve biogenetiche. Nel 1984 la Regione Marche ha riconosciuto la Riserva Naturale Montagna di Torricchio di interesse regionale. Nel 1994 è stata inserita nell'elenco ufficiale delle aree naturali protette dell'Italia, a cura del Ministero dell'Ambiente.
La Montagna di Torricchio gode, dunque, di un regime di tutela che risale esattamente a 50 anni fa. Molti sono stati i visitatori illustri della riserva; fra di essi ricordo il Prof. Jean-Paul Harroy (Università di Bruxelles), nella sua veste di Presidente della Commissione internazionale per i parchi nazionali dell'Union Internationale pour la Conservation de la Nature, il Senatore Giovanni Spagnolli, quando era Presidente del Senato della Repubblica, il giornalista Antonio Cederna, Fulco Pratesi, Presidente dell'Associazione italiana per il W.W.F., il Rettore Luigi Labruna con il Direttore amministrativo dr. Scarperia, e moltissimi professori e protezionisti italiani e stranieri.

Cosa ha fatto in questi 50 anni l'Università di Camerino a Torricchio? L'approccio è di due tipi, uno passivo e l'altro attivo.
Quello passivo è consistito nell'abbandonare la Montagna di Torricchio ai processi dell'evoluzione naturale, in modo che il bosco potesse svilupparsi senza mai essere tagliato, gli alberi vecchi potessero cadere sul suolo a causa di colpi di vento e di parassiti e decomporsi in loco, la fauna potesse vivere liberamente all'interno della riserva, le praterie non venissero più sfalciate e pascolate. Quello attivo comprende due aspetti: il primo è consistito in interventi di carattere protettivo, come la costruzione di un recinto lungo i limiti della riserva, l'esecuzione a scopo sperimentale di un impianto di faggi sulle pendici del Monte Cetrognola, il mantenimento del Casale Piscini, la costruzione di una stazione meteorologica nei pressi del Casale, l'installazione di un “sentiero natura” per i visitatori che dalla località Le Porte sale fino al Casale (la visita alla riserva è permessa soltanto lungo la strada vicinale che attraversa tutta la riserva), l'organizzazione di stages a scopo didattico, l'organizzazione di convegni e congressi sul tema delle aree protette e della protezione della natura (tutti hanno avuto luogo a Camerino), la pubblicazione di libri sulla riserva.

Il secondo aspetto è consistito nello svolgere ricerca scientifica nella riserva, luogo ideale per tale scopo, dato che il suo territorio è sottratto a qualsiasi tipo di intervento da parte dell'uomo. Le ricerche eseguite si riferiscono a diversi settori delle Scienze naturali (geologia, geomorfologia, botanica, ecologia vegetale, zoologia, faunistica, ecc.) e sono raccolte nella serie “La Riserva Naturale di Torricchio”, edita dapprima dall'Istituto di Botanica e quindi dal Dipartimento di Botanica ed Ecologia di Camerino, di cui dal 1976 ad oggi hanno visto la luce 13 volumi; ultimamente sono state giustamente privilegiate le grandi riviste internazionali, per cui si può dire che oggi Torricchio è conosciuta in tutto il mondo.

Diritti d'uso civico: tutela paesaggistica, governo del territorio e ricadute in ambito edilizio - urbanistico

Ing. Donato Cancellara
Associazione VAS per il Vulture Alto Bradano
Coordinamento "Salviamo il Paesaggio" per il Vulture Alto Bradano

Gli usi civici rappresentano una materia molto dibattuta, solo in alcuni casi volutamente trascurata, con notevoli ricadute sulla società civile per le inevitabili ripercussioni sulla pianificazione comunale, provinciale, regionale nonché nei trasferimenti dei terreni gravati da diritti d'uso civico e nel loro incauto utilizzo anche per fini edificatori. Gli usi civici, ma in generale i demani collettivi, si rivelano particolarmente ostici per il loro regime caratterizzato dalla inalienabilità, inusucapibilità, indivisibilità e perpetua destinazione agro-silvo-pastorale. Gli usi civici hanno la capacità di coinvolgere, in alcuni casi di sconvolgere, la vita di singoli cittadini, degli amministratori, dei tecnici, degli avvocati, dei commercialisti, dei notai che sempre più di frequente devono approfondire una vasta materia oggetto di pronunce da parte della Consulta su questioni di legittimità costituzionale inerenti disposizioni regionali volte al riordino degli usi civici tramite specifici istituti giuridici che disciplinano i procedimenti amministrativi dell'alienazione, della legittimazione, della liquidazione, dello scorporo, del mutamento di destinazione e della tanto osteggiata sclassificazione quindi estinzione degli usi civici.

1. Gli usi civici: per alcuni un problema nel governo del territorio.
Sempre più spesso singoli Cittadini ed Istituzioni si imbattono nella problematica legata a terreni gravati dai cosiddetti usi civici quali diritti reali "promiscui" costituiti sulla proprietà altrui, pubblica o privata, e spettanti ad una collettività di persone.
Utilizzare il termine "problematica" deriva, molto spesso, dalla conoscenza frastagliata della materia in termini normativi con annesse ripercussioni su aspetti edilizi ed urbanistici in generale.
Si parla volutamente di terre gravate da usi civici (o terre gravate da usi della collettività) con la consapevolezza di non creare confusione con le terre di proprietà di una comunità che a loro volta si distinguono in terre civiche (o terre della cittadinanza) ed in terre collettive (o terre della comunità discendenti dagli antichi originari del luogo). Mentre le terre gravate da usi civici sono terreni di proprietà altrui, sulle quali una pluralità di persone (una collettività) ha il diritto di specifici utilizzi (pascolo, caccia, pesca, ...), le proprietà collettive (terre civiche e terre collettive) appartengono alla comunità e andrebbero inquadrati come beni privati pur essendo assoggettati ad un regime di utilizzo pubblico. Si intravede la complessità dello scenario rispetto alla semplificazione offerta dall'art. 42 della Costituzione che distingue la proprietà, sic et simpliciter, in pubblica e privata.
Occorre fornire immediatamente poche e semplici nozioni che si ritengono essere fondamentali per non perdere l'orientamento della bussola in una materia ostica e per molti aspetti resa poco chiara da parte di chi, probabilmente, non vuole interferenze nel Governo del proprio Territorio e mira a by-passare la questione usi civici tramite leggi regionali che consentono la scalssificazione cioè l'estinzione degli sui civici tramite norme che inevitabilmente si pongono in contrasto con la legislazione statale e con la Costituzione per un mancato rispetto nella ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regione. Sappiamo che "nascondere la polvere sotto il tappeto" o peggio ancora cercare di eludere le norme nazionali vigenti, non è mai stato un modo saggio di affrontare una problematica così come spesso ricordato dalla Corte costituzionale nei giudizi di legittimità in via principale e, soprattutto, in via incidentale.  
La materia ha una importanza rilevante poiché qualunque atto pubblico di trasferimento della presunta proprietà, riguardante un terreno gravato da "usi civici",  è considerato nullo. Da ciò deriva l'importanza di verificare, prima di acquistare un immobile ed in generale prima di un qualunque suo trasferimento (bonario o forzato), la presenza di eventuali usi civici. Infatti, come sintetizzato in modo chiaro ed inequivocabile nella sentenza n. 1369 del 7 febbraio 2013, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I Ter, la presenza di usi civici "necessariamente comporta la nullità di qualsiasi ipotesi di trasferimento che veda coinvolti soggetti privati, e ciò indipendentemente dalla circostanza che la stessa risulti riconosciuta in pronunce emesse da organi giudiziari ordinari. Come ripetutamente affermato in giurisprudenza, i beni aggravati da usi civici debbono essere, infatti, assimilati ai beni demaniali. La particolarità del regime a cui sono sottoposti i beni in esame determina che, al di fuori dei procedimenti di liquidazione dell'uso civico e prima del loro formale completamento, la preminenza del pubblico interesse che ha impresso al bene immobile il vincolo dell'uso civico ne vieta ogni circolazione (cfr., in tal senso, Cass. Civ., Sez. III, 28 settembre 2011, n. 19792; T.R.G.A., 17 ottobre 2005, n. 284) e, pertanto, ogni atto di cessione tra privati di un tale bene - pur se riconosciuto come intervenuto - è affetto da nullità (Cass.Civ., Sez. III, 3 febbraio 2004, n. 1940). In altre parole, in materia di terreni soggetti ad uso civico non possono costituirsi proprietà private senza un titolo proveniente dall'autorità che ha il potere di disporne (principio questo a cui si riconnette, tra l'altro, anche l'irrilevanza di stati di prolungato possesso - Trib. Cassino, 7 aprile 2010; App. Roma, Sez. IV, 8 novembre 2006)".
Secondo quanto enunciato si comprende la necessità di un attento lavoro di riordino in materia di usi civici, da parte di ciascuna Regione tramite la collaborazione di ciascun Comune per il proprio ambito di competenza territoriale. Secondo il parere di chi vi scrive, anche un "semplice" certificato di destinazione urbanistico dovrebbe essere esaustivo ai fini della presenza o meno di usi civici in seguito alle rilevanti ricadute edilizie - urbanistiche che gli stessi determinano. Sarebbe utile seguire l'esempio della Regione Veneto dove è stata accertata l'inesistenza di terreni di uso civico su 268 Comuni, su un totale di 563. Per i rimanenti 295 Comuni la situazione relativa all'accertamento delle terre di uso civico è la seguente: n. 62 Comuni per i quali sono state completate le operazioni di verifica e accertamento ai sensi dell'art. 4 della L.R. 31/94; n. 86 Comuni per i quali sono state attivate le operazioni di verifica o accertamento ai sensi dell'art. 4 della L.R. 31/94; n. 137 Comuni che non hanno ancora promosso le operazioni di verifica o accertamento ai sensi dell'art. 4 della L.R. 31/94; n. 10 Comuni per i quali è stato effettuato un aggiornamento catastale dei terreni elencati in Decreti Commissariali.

2. Istituti giuridici per far cessare gli usi civici.
Svariati sono usi civici, tra questi vi sono i diritti di uso civico su proprietà di privati ed i diritti di uso civico su proprietà pubbliche. Gli  istituti giuridici che consentono la cessazione degli usi civici solo la legittimazione e l'affrancazione. Chiaramente, la natura giuridica del terreno viene attestata tramite una specifica certificazione rilasciata dall'Ufficio Usi Civici della Regione di competenza territoriale.
La legittimazione è l’istituto in base al quale viene riconosciuto e quindi trasferito il diritto di proprietà nei confronti degli occupanti. La legittimazione è di competenza della Giunta Regionale ai sensi dell’art. 9 della legge n. 1766/1927 e viene formalizzata con provvedimento di legittimazione del Presidente della Giunta regionale. Il rappresentante del Comune normalmente viene delegato per l’atto notarile di legittimazione. Il provvedimento di legittimazione conferisce al destinatario la titolarità di un diritto soggettivo perfetto, di natura reale, e cioè il diritto di proprietà come noi lo conosciamo, costituendone titolo legittimo per la trascrizione a suo favore. Con la legittimazione cessa la qualificazione demaniale del bene, e il diritto acquistato è un diritto di proprietà. Per la legittimazione occorre che ricorrano tre requisisti, previsti dall’art. 9 della legge n.1766/1927 che ripropongono quanto previsto dalla legislazione napoleonica circa l'abolizione del feudalesimo: 1. l’ occupazione ultra decennale dei suoli; 2. la non interruzione dei demani civici; 3. l’apporta al suolo di sostanziali e permanenti migliorie.
L’affrancazione è quell'istituto, differente dalla legittimazione, con la quale il soggetto proprietario viene affrancato dall’obbligo del diritto reale di uso civico. Il procedimento di affrancazione degli usi civici (su proprietà di privati) è del tutto simile a quello esistente per l’affrancazione dei livelli e confluiti nel meccanismo di liquidazione proprio dell’enfiteusi. Occorre sempre una delibera consiliare del Comune di competenza territoriale. L’affrancazione libera dal vincolo il proprietario che diventa così pieno effettivo e totale proprietario di diritto privato del terreno. L’affrancazione è a titolo oneroso occorre pagare un certo numero di annualità pregresse, di solito dieci, cosiddetti canoni di uso civico.

3. Rilevanza costituzionale dei diritti d'uso civico.
I riferimenti normativi, in materia di usi civici, sono rappresentati dalla legge del 16.06.1927, n. 1766 (considerata legge fondamentale sugli usi civici) e dal Regio decreto del 26.02.1928, n. 332  "Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordino degli usi civici nel Regno". Per coloro i quali hanno poca dimestichezza con questioni di diritto, si ritiene utile precisare che non devono affatto meravigliare le parole "regio decreto" poiché, nel nostro ordinamento giuridico, abbiamo svariati Regi decreti quali atti normativi - aventi forza di legge - ed in particolare l'attuale versione del Codice Civile è stata approvata con Regio decreto 16 marzo 1942 - XX, n. 262 e costituisce, insieme alle leggi speciali, una delle fonti del diritto tuttora vigente nel nostro ordinamento giuridico.
In aggiunta alla legge fondamentale n.1766/1927 ed al R.d. n. 332/1928 occorre ricordare che i beni d'uso civico sono sottoposti a vincolo paesaggistico ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. h) del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 "Codice dei beni culturali e del paesaggio" che considera aree tutelate ope legis "le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici", sino all'approvazione del piano paesaggistico così come dettato dall'art. 152 del medesimo decreto. È del tutto evidente che l'aver annoverato gli usi civici tra i beni soggetti a vincolo paesaggistico, ha inequivocabilmente determinato il dover considerare tali beni in un regime di tutela avente rango costituzionale essendo l'art. 9 della Costituzione, in particolare il suo comma 2, uno dei principi costituzionali associati alla tutela del Paesaggio. La ratio legis sarebbe da ricercare in una marcata volontà di assegnare alle aree, gravate da usi civici, un regime di tutela che potremmo definire rafforzato avendo la tutela paesaggistica una previsione costituzionale.
È necessario non confondere la tutela con la valorizzazione paesaggistica essendo la prima materia di competenza esclusiva dello Stato mentre la seconda materia concorrente Stato - Regioni. Secondo il d.lgs. n.42/2004 la "tutela consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantire la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione" mentre la "valorizzazione consiste nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale". In tale ottica si comprende l'ampio raggio d'azione dello Stato in materia di competenza legislativa sugli usi civici ed in particolare l'importante ruolo sulla loro individuazione, lasciando alle Regione competenza in materia di valorizzazione nell'ambito della normativa di dettaglio che deve necessariamente incardinarsi in quella cornice normativa che resta di competenza statale. Ci troviamo evidentemente di fronte all'art. 117 della Costituzione quindi alla ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni. Sono di tutta evidenza le inevitabili ripercussioni degli usi civici in ambito urbanistico quindi nell'ambito di quella materia concorrente Stato-Regioni chiamata: Governo del Territorio. A tal riguardo, ricordiamo che le sentenze n. 303/2003 e 307/ 2003 della Corte Costituzionale hanno chiarito che il termine "urbanistica non compare nel nuovo testo dell'art. 117 della costituzione (n.r. dopo la riforma del Titolo V) non autorizza a ritenere che la relativa materia non sia più ricompresa nell'elenco del terzo comma: essa fa parte del governo del territorio".
Negli ultimi anni si è aggiunta la legge 20 novembre 2017, n. 168 "Norma in materia di domini collettivi" che ha finalmente fornito una netta distinzione tra le terre di originaria proprietà collettiva (lett. a), quelle derivanti dalla liquidazione dei diritti di uso civico (lett. b), quelle derivanti dallo scioglimento delle promiscuità (lett. c) e quelle appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo (lett. e). Svariate fattispecie raggruppate tutte nella dizione "domini collettivi". La legge n. 168/2018 ha per la prima volta sancito, tramite l'art. 1, che la Repubblica riconosce i domini collettivi in attuazione degli articoli 2, 9, 42, secondo comma, e 43 della Costituzione. Ciò significa che non sarà più la giurisprudenza a tutelare la proprietà collettiva, ma una legge dello Stato prevedendo all'art. 2 che "La Repubblica tutela e valorizza i beni di collettivo godimento".

4. Permanenza del vincolo paesaggistico nel solo caso di liquidazione usi civici.
All'art. 3, comma 6, della legge n. 168/2017 si precisa che il vincolo paesaggistico previsto dal d.lgs. n.42/2004, permane sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici. Ciò ha generato in alcune Regioni un po' di confusione poiché non si è compresa la distinzione tra l'istituto della legittimazione delle occupazioni (procedimento amministrativo disciplinato dall’art. 9 della legge n. 1766/27) e l'istituto della liquidazione degli usi civici (procedimento amministrativo disciplinato dell’art. 5 della legge n. 1766/27). Il mantenimento del vincolo paesaggistico è riferito solamente a quest'ultima fattispecie che prevede l'estinzione dei  diritti di uso civico esercitati su terre private, tramite scorporo o corresponsione a favore del Comune di un canone annuo di natura enfiteutica. Di solito la liquidazione avviene tramite l’istituto dello scorporo, sistema in cui il compenso agli aventi diritto per la liquidazione degli usi consiste in una parte del fondo gravato da usi civici da assegnarsi al Comune per l'esercizio dei diritti da parte della collettività. In questo caso è di tutta evidenza che sulla parte di terreno scorporata ed assegnata al Comune, come ricompensa per la liquidazione, continua a permanere il vincolo paesaggistico. Quanto esposto, circa la permanenza del vincolo paesaggistico, non riguarda la legittimazione delle occupazioni tramite l'istituto dell'alienazione che comporta l'estinzione degli usi civici tramite sdemanializzazione del terreno.   

5. L'espropriazione per pubblica utilità e gli usi civici.
Altro tassello fondamentale per comprendere la valenza degli usi civici è rappresentata dalla loro incommerciabilità, non usucapibilità, non espropriabilità quindi dall'impossibilità di qualche trasferimento di proprietà, bonario o forzato, prima dell'esito positivo riguardante la  sdemanializzazione del terreno. Ciò viene confermato, secondo una interpretazione giurisprudenziale maggioritaria, dall'art. 4, comma 1 del D.P.R. n. 327/2001 secondo cui "i beni appartenenti al demanio pubblico non possono essere espropriati fino a quando non ne viene pronunciata la sdemanializzazione". Inoltre, nel caso di terreno gravato da usi civici e nel pieno possesso del Ente comunale con l'intenzione di avviare un'attività edilizia, diviene necessario il ricorso al mutamento di destinazione d'uso così come previsto dall'art. 12 della legge n. 1766/1927.    

6. L'abusivismo edilizio in terreni gravati da usi civici.
Occorre ricordare che i terreni gravati da usi civici sono da ritenersi sempre a vocazione agricola e tale deve essere la loro destinazione urbanistica in un Piano regolatore comunale. Per una definizione più puntuale è opportuno precisare che i terreni gravati da usi civici sono soggetti al vincolo di destinazione agro-silvo-pastorale così come tutti i domini collettivi. Da ciò deriva l'impossibilità di qualunque attività edilizia, in presenza di usi civici, fino a quando gli stessi non vengono dichiarati estinti, tramite specifico procedimento amministrativo ai sensi della legge n. 1766/1928, consentendo quindi il mutamento di destinazione d'uso dei terreni da agricolo ad edificabile. Da ciò deriva che non può essere rilasciato alcun permesso di costruire su un'area gravata da usi civici poiché qualunque opera edilizia si configurerebbe come abusiva.
Nel caso di opere edilizie realizzate nel passato, in presenza di usi civici (quindi abusive), si pone il problema circa una loro possibile sanatoria. La procedura di rilascio della sanatoria edilizia, in caso di edificazione abusiva su aree gravate da usi civici, prevista dal c.d. primo condono (art. 32 della legge n. 47/1985) risulta essere del tutto sovrapponibile con quella prevista dal c.d. secondo condono (art. 39 della legge n. 724/1994). Discorso a parte quanto previsto dal c.d. terzo condono secondo cui le opere realizzate su terreni gravati da usi civici non sono suscettibili di sanatoria ai sensi dall'art. 32, comma 27, lett. g) della legge n. 236/2003 così come modificato dall'art. 4, comma 125 della legge n. 350/2003. Ovviamente, nei vari casi analizzati, resta immutata la necessità di attivare una procedura di sdemanializzazione del terreno e che la stessa si concluda con un esito positivo.

7. I Piani paesaggistici ed il recepimento degli usi civici.
I Piani paesaggistici regionali vengono adottati ed approvati da parte dell'Ente Regione. Trattasi dell'art. 143, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004 a precisare che le Regioni, il Ministero ed il Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (M.A.T.T.M.) possono stipulare intese per la definizione delle modalità di elaborazione congiunta dei piani paesaggistici in regime di copianificazione quindi di collaborazione congiunta tra Stato e Regione. Il Piano è oggetto di apposito accordo fra pubbliche amministrazioni ed approvato con provvedimento regionale entro il termine fissato nell'accordo.
L'elaborazione del piano paesaggistico prevede la ricognizione, quindi individuazione, delle aree di cui al comma 1 dell'articolo 142 del d.lgs. n. 42/2004, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d'uso. Tra le aree rientrano, alla lettera h), quelle assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici.
Il Piano paesaggistico rappresenta uno strumento di primaria importanza nel Governo del territorio e come tale da coordinare con altri strumenti di pianificazione così come previsto dall'art. 145 del d.lgs. n. 42/2004. A tal riguardo, l'art. 145 del citato decreto precisa che i piani paesaggistici non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Province, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette. Inoltre, i Comuni, le Città metropolitane, le Province e gli Enti gestori delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici, entro i termini stabiliti dai piani medesimi e comunque non oltre 2 anni dalla loro approvazione.
Quanto esplicitato ha una ricaduta notevole sui Piani Regolatori Generali (P.R.G.) poiché gli stessi devono necessariamente ed obbligatoriamente conformarsi alle disposizioni del Piano paesaggistico regionale. Se il Piano paesaggistico dovesse contenere, come spessissimo accade, disposizioni sugli usi civici - quindi terreni individuati nel piano come beni gravati da usi civici - lo strumento urbanistico comunale deve adeguarsi e recepire tali indicazioni sia nella cartografia sia nelle norme tecniche: i terreni soggetti ad uso civico, così come individuati dal Piano Paesaggistico, sono necessariamente a vocazione agricola (come precisato nel paragrafo precedente) e conseguentemente non possono avere una destinazione d'uso diversa da quella agricola. Qualora il P.R.G. preveda di destinare tali aree ad interventi edilizi, quindi prevede un cambio di destinazione da agricolo ad edificabile, è necessario intervenire preventivamente ai sensi dell'art. 12 della legge n. 1766/1927 che consente il ricorso all'Istituto giuridico dell'alienazione o del mutamento di destinazione d'uso di terreni gravati da usi civici.   

8. La scassificazione: perdita del vincolo demaniale civico.
Più volte la Corte Costituzionale si è pronunciata manifestando il suo dissenso alla sclassificazione quindi sulla sdemanializzazione, da parte dell'Ente Regione, di terreni gravati da usi civici. La sentenza della Corte Costituzionale n.113 del 31.05.2018, riguarda l'illegittimità costituzionale della legge della regione Lazio sulle alienazioni ed in particolare sulla incostituzionalità dell’art.8 delle legge della Regione Lazio 3 gennaio 1986, n. 1 " Norme per l’alienazione di terreni di proprietà collettiva di uso civico edificati o edificabili". I giudici costituzionali evidenziano che la sdemanializzazione dei beni collettivi deriverebbe direttamente dalla legge regionale denunciata mentre, sotto il profilo civilistico, la materia degli usi civici sarebbe disciplinata (in regime di specialità rispetto al codice civile) da norme statali, quali la legge 16 giugno 1927, n. 1766 ed il regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332. Alle Regioni sarebbero state trasferite (d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 e d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616), le sole funzioni amministrative, sicché la Regione Lazio non avrebbe mai potuto invadere la competenza legislativa dello Stato ex art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione ed inoltre, compiere tale invasione in contrasto con la legislazione statale già esistente.
Altrettanto meritevole di attenzione, la sentenza della Corte Costituzionale n. 210 del 18.07.2014 riguardante il giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione autonoma Sardegna 2 agosto 2013, n. 19 "Norme urgenti in materia di usi civici, di pianificazione urbanistica, di beni paesaggistici e di impianti eolici", nella parte in cui non prevede la tempestiva comunicazione del Piano straordinario di accertamento e degli altri atti modificativi dei vincoli di destinazione ai competenti organi statali, affinché lo Stato possa far valere la propria competenza a tutelare il paesaggio con la conservazione dei vincoli esistenti o l’apposizione di diversi vincoli, e affinché, in ogni caso, effetti giuridici modificativi del regime dei relativi beni non si producano prima, e al di fuori, del Piano paesaggistico regionale.
Pienamente condivisibili le considerazioni dell'avvocatura dello Stato secondo cui la norma impugnata, nel delegare i Comuni ad una ricognizione generale degli usi civici esistenti sul proprio territorio e nel prevedere la progressiva sdemanializzazione dei terreni sottoposti ad uso civico, non si limiterebbe a disciplinare la materia degli usi civici sul territorio, ma ne prevederebbe la sostanziale cessazione, interferendo sulla conservazione e sulla tutela dell’ambiente e del paesaggio, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, ai sensi degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost. Inoltre, l’automatismo della sdemanializzazione appare misura eccessiva e sproporzionata rispetto al fine che la legge persegue (il riordino degli usi civici) e si traduce in uno svuotamento del nucleo essenziale della tutela del paesaggio e dell’ambiente imposta dall’art. 9 Cost. e attuata dalle disposizioni del testo unico sui beni culturali ed ambientali. La norma impugnata, dunque, oltre a palesare una illegittimità sostanziale, incorre nel vizio di incompetenza legislativa, atteso che la normativa regionale priva il sistema di tutela del paesaggio e dell’ambiente del presidio costituito dagli usi civici e, in tal modo direttamente incide, invadendola, la competenza esclusiva dello Stato in materia.

9. Recente giudizio di incostituzionale di una disposizione regionale in materia di usi civici.
Emblematico, allo stesso tempo chiarificatore, la recentissima questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'Appello di Roma, sezione specializzata degli usi civici, in merito all'art. 53 della legge della Regione Calabria 29 dicembre 2010, n. 34 secondo cui i diritti d'uso civico, così come previsti da una specifica legge regionale, siano da ritenersi cessati quanto insistono su aree di sviluppo industriale così come individuate da P.R.G.
La Corte d’appello di Roma ha ritenuto evidenziare che la sottrazione e l’affrancamento di terreni gravati da usi civici può avvenire solo con le formalità e nei limiti previsti dalla legge n. 1766 del 1927 e dal Regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332. Conseguentemente, uno strumento urbanistico comunale non può arbitrariamente cancellare la presenza di usi civici su terreni che, senza una preventiva procedura prevista dall'art. 12 della legge fondamentale degli usi civici, non possono avere una destinazione d'uso differente da quella agricola. Infatti, fa notare la Corte d'Appello, con il D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11 (Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici), sarebbero state trasferite dallo Stato alle Regioni le sole funzioni amministrative connesse alle ipotesi di liquidazione degli usi civici, ma non la stessa potestà di emanare norme unilaterali derogatorie di quelle statali, attraverso l’introduzione di nuove ipotesi di cessazione degli usi civici, non previste dalla normativa statale.
In definitiva, viene ribadita la spettanza alla competenza esclusiva statale (sono citate le sentenze della medesima Corte d'Appello di Roma n. 178 e n. 113 del 2018) in materia di “sclassificazione” demaniale dei beni di uso civico, con conseguente illegittimità delle disposizioni che prevedano decisioni unilaterali del legislatore regionale, suscettibili di pregiudicare la pianificazione concertata Stato-Regione in materia paesistico-ambientale.
La Consulta, recependo in toto quanto evidenziato dalla corte d'Appello di Roma, con sentenza n. 71 del 12 febbraio 2020, dichiara l'illegittima costituzionale della norma regionale impugnata considerata in contrasto con l'art. 9 della Costituzione, in materia di tutela paesaggistica, ed invadente la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia dell'ordinamento civile di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

10. Conclusioni.
La materia degli usi civici dovrebbe rivestire un ruolo di primaria importanza nel governo del territorio per tutte le ricadute edilizie ed urbanistiche che essa comporta. Le Regioni ed i singoli Comuni dovrebbero investire maggior tempo e risorse nel riordino degli usi civici al fine di evitare che rimandando lo studio dell'articolata e frastagliata problematica, la stessa diventi sempre più complessa ed ingestibile per le future generazione. Gli usi civici andrebbero affrontati in modo sistematico e con una reciproca collaborazione tra Comuni e Regioni al fine di poter guardare la storia passata, compresa quella delle terre gravate da usi civici e dei domini collettivi in generale, in modo sereno e non come una pesante "palla al piede" che ostacola il nostro futuro.

Giù le mani dal Parco Nazionale del Gargano

Vincenzo Rizzi

Era il 1998 quando salendo per i tornanti che da Manfredonia portano a Monte Sant'Angelo, notai un anziano signore curvo che, lentamente, arrancava sul ciglio della strada, rinchiuso nel suo paltò mentre il vento di tramontana lo sferzava. Il cielo era cupo e foriero di pioggia, mi fermai e gli chiesi se voleva un passaggio per il paese. Lui accettò, e mentre continuavo a guidare verso Monte, mi chiese in dialetto montanaro che ero venuto a fare. Gli risposi vagamente che dovevo andare in Foresta per fare dei rilievi per conto del Parco… Lui mi guardò perplesso, poi dopo un lungo silenzio mi chiese «ma poi sto parco l'hanno fatto?»
Dopo tanti anni, sinceramente, mi viene da rispondere con un grande e deciso NO.
Il parco è rimasto sulla carta, ben pochi sono stati gli interventi finalizzati a incrementare le conoscenze e a tutelare effettivamente il suo immenso patrimonio, ben poco è stato fatto per bloccare il crescente consumo di suolo. La cosa che più di altre attesta questo fallimento è la mancanza di strumenti di pianificazione tesi a proiettare il territorio nel futuro attraverso chiare linee di sviluppo, ecocompatibili e in grado di tutelare e valorizzare le risorse naturali.

Se andiamo ad esaminare con precisione tutte le risorse spese dall'Ente, ci accorgiamo che principalmente queste hanno finanziato interventi legati a eventi e iniziative che rientrano più nella sfera degli Enti di Promozione Turistica e delle Pro Loco. Il tutto in un'ottica priva di respiro.
Un parco di sagre e concerti, eventi di certo non condannabili come tali, ma che lasciano perplessi se rappresentano, insieme ai classici calendari, le principali attività su cui si l’Ente investe le sue residuali risorse, tenuto conto che gran parte del suo budget serve per coprire i costi della pianta organica. Una pianta organica ridondante di alcune figure professionali e completamente sfornita di altre, forse più utili per costruire un anima e un senso di appartenenza all’Ente.
Un Ente che ancor oggi non ha un albo fornitori, per cui incarichi e forniture rispondono a regole arcaiche di difficile lettura per chi non è all'interno di quel sistema.
Di certo la presenza di un tessuto sociale inquinato da una potentissima e diffusa mafia non ha certo agevolato le attività del Parco e le conseguenze di tale oscura presenza, forse le scopriremo negli anni a venire. Sta di fatto che ben tre comuni del Parco sono stati sciolti per mafia e diverse persone di riferimento per il territorio hanno ricevuto l'interdittiva antimafia, tra cui anche alcuni dipendenti dell’Ente.
Insomma, un quadro le cui tinte non fanno presagire l’avvicinarsi della primavera ma piuttosto, prendendo in prestito la frase di una serie televisiva di successo (Il trono di spade): L'inverno sta arrivando.

Interessante è anche dare uno sguardo alle Associazioni ambientaliste e alle singole figure di intellettuali che sono state gli artefici tra gli anni ’70 e ’90 della nascita del Parco. Un periodo avvincente di lotte che, grazie alla legge 394/91, hanno permesso l'istituzione dell'Ente Parco Nazionale del Gargano. Appare naturale porsi la domanda: ma quale ruolo hanno svolto poi le associazioni nella fase gestionale? Bene, la risposta è che hanno avuto un ruolo marginale, in parte dovuto alle costanti conflittualità interne al movimento, dove le singole Associazioni erano più prese al recupero di risorse economiche per il mantenimento delle proprie strutture sovradimensionate di personale dopo la sbornia di consensi avuti negli anni ’80.

Tutto questo ha permesso alla sempre eterna classe politica locale, ampiamente schierata storicamente con gli anti parco, di appropriarsi e poi rimanere saldamente al governo del Parco.
L’abilità di questi politici è stata ed è la capacità di far credere all'opinione pubblica che i fallimenti veri o presunti del Parco siano opera degli ambientalisti, quando questi in realtà sono stati totalmente esclusi da qualsiasi possibilità di condizionare le decisioni dell’Ente.
Basti pensare, al semplice fatto, purtroppo mai contestato dalle Associazioni ambientaliste, che le nomine che a livello nazionale vengono fatte per la costituzione dei Consigli Direttivi degli Enti Parco, non poche volte non rispondono ai criteri previsti dalla legge, che richiede specifiche competenze da parte dei consiglieri nel campo della conservazione della natura.
Non a caso, uomini politici garganici hanno più volte manifestato la propria avversità alla nomina di un ambientalista ai vertici dell'Ente, quale Presidente o Direttore del Parco.
Questa aspra polemica ha portato fratture profonde nel consiglio direttivo dell'Ente Parco, che da una parte vede i componenti dell'area che chiamerei “tecnico-scientifica” contrapporsi duramente con l'altra anima, quella “politica”.
Il risultato di questa mancanza di dialogo è stato sancito dalla nomina dell'attuale Presidente che, di certo, non si può considerare un ambientalista, e che ha manifestato più volte valutazioni critiche, per esempio sui cambiamenti climatici e sulla giovane Greta Thunberg, che rappresenta la bandiera di una nuova consapevolezza sui rischi che tali cambiamenti comportano per il nostro pianeta. Affermazioni sulle quali mi piacerebbe conoscere l'opinione del Magnifico Rettore dell’Università di Foggia e del Ministro Costa.
Per non parlare delle prese di posizione a favore di strade o la proposta di rivisitazione della norma regionale che vieta, in aree protette, l’abbruciamento dei residui vegetali derivanti da lavorazioni agricole, pratica universalmente ritenuta obsoleta e pericolosa.
L'incapacità del centrosinistra di formalizzare una candidatura competitiva alternativa a quella del prof. Pazienza evidenzia la debolezza culturale di questa componente politica, che, non accettando il dialogo con il mondo ambientalista, non è riuscita con lucidità ad individuare, anche eventualmente nella stessa Università di Foggia, personalità vicine per sensibilità politica e in grado di competere con il curriculum del candidato proposto dall'area politica vicina alla Lega. Eppure, senza ombra di smentita, queste figure sono presenti e hanno un profilo curriculare ben più vicino alle indicazioni date dal Ministro dell’Ambiente.
Forse ancor più deprimente è stato il tentativo di procedere, senza una chiara impostazione meritocratica, alla scelta della terna per il direttore del Parco, il cui esito finale è stato l'allontanamento di questa giovane dottoressa evidentemente non in linea con i desiderata della attuale presidenza.
Per non parlare di come sia stata distrutta dall’Ente Parco l’Oasi Lago Salso, realtà che tanto poteva esprimere in termini di risorsa del territorio e che invece, pur di schiacciare gli odiosi nemici ambientalisti del Centro Studi Naturalistici Onlus – Pro Natura, doveva essere chiusa e rottamata, coprendo questo avventato atto con fumose e inconsistenti proposte di ipotetico rilancio, insomma una trama degna di essere scelta da Ken Loach per un suo film.
Così come la politica ha operato per eliminare Marco Lion, già rappresentante delle Associazioni Ambientaliste nell'ambito del Consiglio del Parco.
Di certo plaudo allo sdegno dei parlamentari che hanno depositato delle interrogazioni sulla questione dell'allontanamento della Direttrice, ma se si fossero interessati prima a quello che stava accadendo, nell’avvilente ragionamento politico con cui è stata costruita la terna dei direttori, per non parlare di quanto stava accadendo all’Oasi lago Salso, forse quest'ultimo atto non si sarebbe consumato.

Probabilmente, c’è ancora tempo per invertire la rotta, ma è necessario che la politica del centro sinistra e del centro destra di Capitanata diventi inclusiva e apra un vero dialogo con le forze culturali residuali ancora presenti sul territorio, a partire dalle Associazione ambientaliste. E anche le stesse Associazioni la smettano di competere in maniera insana, screditandosi e godendo meschinamente delle altrui difficoltà.
Perché anche in questo caso rimane valido il pensiero del pastore Martin Niemölle: «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare».
Ora è necessario intervenire, attraverso un'operazione verità.
Dobbiamo avere il coraggio di scoperchiare questo sepolcro imbiancato e di assumerci anche le nostre responsabilità per i troppi silenzi, chiedendo un commissariamento forte, foriero di una reale rifondazione dell’Ente.
Chiamatemi pure pazzo visionario, visto che ancora credo, malgrado i molteplici fallimenti di questo Ente, nel fatto che potrebbe finalmente diventare il più importante strumento di sviluppo del nostro territorio, in grado di trainare il rilancio della Capitanata attraverso parole chiave come cultura, legalità, tutela, identità, ospitalità, ecc.
C'è tanto da ricostruire sulle macerie ancora fumanti, ma la domanda è: avremo la capacità e la volontà di farlo? Ai posteri l'ardua sentenza.

Sequestro di anidride carbonica

Riccardo Graziano

È noto che l’anidride carbonica (CO2) è il principale gas responsabile dell’effetto serra, causa di quel riscaldamento globale che a sua volta sta provocando mutamenti climatici dalle conseguenze già oggi disastrose e potenzialmente catastrofiche in un futuro drammaticamente vicino. È noto anche che, per evitare tutto ciò, dovremmo abbattere le emissioni di CO2, sostanzialmente riducendo l’utilizzo di combustibili fossili e arrestando la deforestazione che sta distruggendo gli ultimi polmoni verdi e serbatoi di biodiversità del Pianeta. Ma nonostante il fatto di essere perfettamente a conoscenza della situazione, stiamo tuttora viaggiando in direzione contraria a quello che dovremmo fare.
Prima dell’avvento dell’era industriale, a cavallo fra XVIII e XIX secolo, la concentrazione di CO2 in atmosfera era intorno alle 280 parti per milione (ppm). Da allora si è registrato un aumento progressivo che, nell’arco di poco più di due secoli, ha portato a superare la soglia simbolica delle 400 ppm, un valore mai raggiunto negli ultimi 800.000 anni. Una tendenza ancora in corso, che vede un incremento medio annuo di 2,2 ppm e attualmente fa registrare il nuovo record di 415 ppm, senza accennare a fermarsi. L’aumento della concentrazione di anidride carbonica è in linea con l’andamento delle emissioni, che nel 2018 sono state calcolate nell’ordine di 55 miliardi di tonnellate di CO2, con un incremento del 2% rispetto all’anno precedente.
Nel 2020, a causa dello stop forzato imposto dalla pandemia, si prevede una diminuzione delle emissioni di circa il 7%, più o meno in linea con quella che dovrebbe essere la decrescita annuale da qui al 2030 per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e contenere l’incremento della temperatura globale a +1,5°C al 2100. Tuttavia, è chiaro che quell’obbiettivo non può essere perseguito grazie a quarantene provocate dall’epidemia o imponendo chiusure alle attività produttive, perché il danno socio-economico sarebbe devastante. Inoltre, occorre sottolineare che la concentrazione in atmosfera di CO2 ha comunque subito un incremento di 2,48 ppm. Quindi la quantità totale di anidride carbonica presente in atmosfera è di fatto aumentata, anche se in misura minore che negli anni precedenti.
Per tradurla con un’immagine pratica, è come se l’atmosfera fosse una vasca che rischia di traboccare perché il rubinetto è ancora aperto, anche se con una portata minore di prima. Per evitare di tracimare, bisognerebbe chiudere il rubinetto, ovvero azzerare le emissioni di CO2, cioè principalmente rinunciare del tutto ai combustibili fossili. Una strategia al momento inattuabile e che comunque richiede tempi medio-lunghi, vista la nostra attuale dipendenza da tali fonti energetiche.  
Dunque, come fare per ridurre la presenza di CO2 in atmosfera senza incidere pesantemente sui sistemi economici e produttivi?
Per tornare all’esempio della vasca, l’alternativa è… togliere il tappo, che nel caso dell’atmosfera significa mettere in atto le tecniche già oggi disponibili di “sequestro” dell’anidride carbonica in eccesso, cioè sostanzialmente quella di origine antropica, ovvero prodotta dall’uomo con le sue attività alimentate a combustibili fossili.
Il sequestro di CO2, tra l’altro, è coerente con i principi dell’economia circolare, che prevede l’utilizzo degli scarti di produzione come “materia prima seconda” per altri cicli produttivi. Nel caso dell’anidride carbonica, lo “scarto” sono i fumi di scarico, dai quali è già possibile oggi recuperare la CO2 e purificarla grazie a composti chimici o materiali naturali, per poi riutilizzarla per altre produzioni, basti pensare all’industria alimentare, che mette in commercio milioni di confezioni di bevande gasate, le cui “bollicine” sono composte appunto di anidride carbonica.
Attualmente, le tecniche per la cattura della CO2 utilizzano solventi chimici o processi fisici basati su filtri, in grado di restituire l’anidride carbonica a diversi livelli di purezza, a seconda del reimpiego al quale sarà destinata. Per esempio, dal trattamento della frazione organica dei rifiuti (FORSU) si può ricavare, oltre al compost utilizzato come fertilizzante, anche la CO2, nonché metano che può essere immesso in rete o bruciato per produrre energia.
Per quanto riguarda l’anidride carbonica, le prospettive di riutilizzo si concentrano su due indirizzi complementari. Il primo punta a ulteriori ambiti di impiego nel già citato settore alimentare, il secondo prevede di ricombinare chimicamente la CO2 per produrre combustibili o altri materiali, scenari entrambi che dipendono da un’attività di ricerca e sperimentazione tecnologica a più livelli.
Nello specifico, citiamo a titolo di esempio il progetto Engicoin dell’azienda torinese Asja, che sfrutta delle “fabbriche microbiologiche” per inserire l’anidride carbonica in un processo di produzione di bioplastiche di elevato pregio. Sempre Asja è capofila del progetto Saturno, con il quale, in collaborazione con altre aziende piemontesi d’avanguardia, si sta realizzando una bioraffineria per trasformare i prodotti di scarto, tra i quali la stessa CO2, in nuova materia prima, secondo i principi dell’economia circolare.
Progressi tecnologici che aprono prospettive interessanti per gestire l’eccesso di anidride carbonica in atmosfera, ma che non devono farci dimenticare che resta imperativo puntare sulla riduzione delle emissioni di questo gas, perché i soli processi di cattura non possono garantire l’abbassamento della sua concentrazione, né tantomeno del conseguente “effetto serra” responsabile del riscaldamento globale.

Tratto da Agendadomani (www.agendadomani)