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1959: nasce Pro Natura Italica

Dopo aver celebrato, lo scorso anno, il settantennale della Federazione Nazionale Pro Natura, ci pare opportuno ricordare i 60 anni dalla costituzione di Pro Natura Italica, che fu una sorta di transizione tra il Movimento Italiano per la Protezione della Natura, per l'appunto sorto a Sarre nel 1948, e l’attuale Federazione. Lo facciamo riportando alcuni stralci del volume “La prima isola dell’arcipelago”, di Valter Giuliano, edito da Pro Natura Torino nel 1989.

L’idea veniva da lontano.
Nel 1954 (10 giugno), nel corso dell’adunanza della Commissione per la Protezione della Natura del CNR presieduta da Alessandro Ghigi, lo stesso dà lettura di una lettera copn la quale il professor Bernard, presidente dell’Unione Internazionale per la Protezione della Natura, lo invita a “...esaminare l’opportunità di coordinare e armonizzare i movimenti per la protezione della natura sorti in Italia onde ottenere unità di azione ed accordo, nonché un’effettiva rappresentanza presso l’Unione stessa. Dopo ampia discussione sull’argomento, la Commissione decide all’unanimità di deferire al prof. Ghigi il compito di tentare un’intesa tra le varie Associazioni ed Enti interessati alla protezione della natura, onde coordinare l’azione con unità di intenti” (dal verbale della seduta).
Presenziarono a quella riunione Alessandro Ghigi, Giorgio Anselmi, Michele Gortani, Beniamino Peyronel, Fausto Penati, Cesare Sacchi, Augusto Toschi, Renzo Videsott e Francesco Zorzi.
Il progetto venne rilanciato nell’Assemblea dei soci della Sezione piemontese del Movimento Italiano per la Protezione della Natura, che si tenne a Torino a fine 1957.
Gli anni passano, ma non inutilmente: il progetto matura.
Il 21 dicembre 1958 si tiene a Torino una riunione delle Associazioni ambientaliste italiane, presieduta da Giuseppe Ratti (responsabile della sezione piemontese del MIPN); vi partecipano i torinesi Bruno Peyronel, Vanna Dal Vesco e Ugo Campagna, Francesco Zorzi di Verona, Alessandro Ghigi di Bologna, Carlo Lona di Trieste. L’incontro, informale, tende a mettere a punto la strategia per giungere ad una Federazione Pro Natura.
Il primo passo sarà il “Congresso Nazionale per la protezione della natura  in relazione ai problemi dell’economia montana”,  organizzato dalla Commissione per la Protezione della Natura del CNR e dalla Società Pro Montibus et Silvis di Bologna. Nell’indire tale congresso Alessandro Ghigi scrive tra l’altro “...è giunto anche il momento di tentare la unificazione di tutte le forse nazionali che si interessano alla protezione della natura ed alla conservazione delle risorse naturali,  al fine di dare maggiore efficacia, con la unità di azione, ai vari movimenti che operano in questo settore. Converrà ad esempio insistere perché lo Stato favorisca la costituzione di Comitati Provinciali particolarmente interessati a questo argomento. Si potrà in tal modo dimostrare alla Union International pour la Protection de la Nature, alla quale aderiscono varie nostre istituzioni, che anche in Italia si è costituito un Movimento unitario per raggiungere lo scopo”.
I lavori che si svolsero a Bologna dal 18 al 20 giugno del 1959 lasciarono in realtà ben poco spazio a questo argomento pur previsto dall’ordine del giorno. A Bruno Peyronel, intervenuto in rappresentanza del Presidente della Pro Natura Torino Giuseppe Ratti, rimasero solo quindici minuti per tentare di esporre il progetto di Federazione e la bozza dello Statuto.
Nel pomeriggio del 19 si riunirono i rappresentanti delle Associazioni di Genova, Trento, Vicenza, Trieste, Torino e Verona che concordarono una linea comune di intervento, che prevedeva la presentazione sintetica delle loro attività e la dichiarazione di assenso al progetto e allo statuto in precedenza già visionato.
In realtà la discussione non ci fu, a causa della scarsità di tempo a disposizione, e il Presidente del Convegno, Alessandro Ghigi, proposte di passare immediatamente alla messa ai voti sul punto all’ordine del giorno.
Il Consiglio approvò unanime, ma, scriverà Bruno Peyronel “tra il malcontento di tutti noi fessi lavoratori...”
Nell’occasione Alessandro Ghigi propose che le relazioni della federazione con l’UICN e quelle internazionali in genere fossero svolte tramite la Commissione Protezione della Natura del CNR. La proposta, definita assurda dai rappresentanti delle Associazioni, fu respinta e venne ribadita con fermezza la libertà  e l’autonomia della nascente Federazione. Alla Commissione del CNR venne rivolto l’invito ad aderire alla Federazione, che tuttavia era stata impostata come organismo di base, slegato da poteri politici o accademici, pena l’eccessiva burocratizzazione e in definitiva la quasi sicura inefficienza.
Anche la proposta di incontro, formulata dallo stesso Ghigi per il 23 luglio dello stesso anno a Trento, venne respinta: i delegati confermarono il loro progetto iniziale che comportava una riunione nell’autunno, dopo la discussione dell’argomento con i rispettivi soci e Consigli Direttivi. Così fu e i rappresentanti di Pro Natura Torino, Società Emiliana Pro Montibus et Silvis, Comitato per la Protezione della Natura di Genova, Società Naturalisti Veronesi, Unione Bolognese Naturalisti, Comitato per la Protezione della Flora e della Fauna del Carso si riunirono in Assemblea costituente l’11 ottobre 1959 alle ore 9.30 a Torino, presso la sede di Pro Natura in via Avogadro 20, sotto la presidenza di Ciro Andreatta (delegato da Alessandro Ghigi a rappresentare le due Associazioni bolognesi).
Lo Statuto della Pro Natura Italica venne definitivamente approvato. La bozza era stata predisposta dalla Pro Natura Torino e successivamente modificata secondo le osservazioni emerse dalla riunione preparatoria del 23 luglio a Trento, cui si aggiunsero quelle inviate da Cesare Chiodi. Ai lavori portarono il loro contributo anche i rappresentanti della Commissione per la Protezione della Natura del CNR.
I delegati delle Associazioni fondatrici si costituirono in Giunta Esecutiva provvisoria, dando incarico  ai rappresentanti di Pro Natura Torino di provvedere all’ordinaria amministrazione sino alla costituzione del Consiglio Direttivo, che doveva avvenire non oltre il 31 gennaio 1960: entro il 31 dicembre 1959 gli Enti federati dovevano nominare i rispettivi delegati.
Il periodo di gestione provvisoria torinese durò fino alla fine di gennaio 1960 e vide l’infaticabile opera di Bruno Peyronel che redasse in quel periodo quattro circolari e tesse rapporti per ottenere subito le adesioni di altre Associazioni alla neonata Federazione.
La Giunta Esecutiva provvisoria (costituita dai delegati degli Enti fondatori: Alessabdro Ghigi, Francesco Zorzi, Carlo Lona, Enrico Tortonese e Bruno Peyronel), con sede a Torino presso l’Istituto Botanico dell’Università, deliberò unanime di offrire la Presidenza all’ingegner Cesare Chiodi, Presidente del Touring Club Italiano “in considerazione della competenza e dell’attività svolta personalmente, nonché delle benemerenze del TCI nel campo della conservazione della natura e delle sue risorse in Italia”.
Inoltre, in considerazione del fatto che solo cause contingenti avevano impedito la partecipazione alla riunione costitutiva della Pro Natura Italica di Enti che pure si erano assiduamente adoperati per il raggiungimento dell’obiettivo, propose che venissero considerati fondatori tutti coloro che avessero chiesto l’adesione entro il 31 dicembre 1959. La proposta venne fatta in particolare per consentire l’accoglimento del Comitato di Trento del MIPN, dell’Associazione di Vicenza, del Touring Club e dell’Associazione Diacinto Cestoni di Livorno.
Cesare Chiodi con lettera inviata in data 26 novembre al Presidente Giuseppe Ratti, accettò la Presidenza. Il 30 gennaio si tenne a Milano, presso la sede del TCI di corso Italia 10, la prima riunione del Consiglio Direttivo, che ratificò la nomina di Cesare Chiodi alla Presidenza e di Luigi Carletti alla Segreteria; la sede venne trasferita a Milano, presso lo stesso Touring Club.
L’Assemblea ordinaria della Pro Natura Torino del 31 ottobre 1959 ratificò l’adesione alla Pro Natura Italica ed elesse i suoi rappresentanti nelle persone di Ugo Campagna e Bruno Peyronel. Nel corso del 1960 la Pro Natura Italica venne ammessa a far parte dell’UICN.
Come abbiamo visto gran parte del peso iniziale dell’azione della Pro Natura Italica cadde sulle spalle degli uomini e delle donne di Torino. Ciò nonostante in quegli anni la Sezione torinese viaggiò sul suo binario parallelo, con un’intensa attività che ne radicò la presenza nella vita pubblica cittadina e piemontese.

Venezia e la crescita

Riccardo Graziano

In questi giorni abbiamo assistito e assistiamo con sgomento all’inabissamento di Venezia. Una città unica al mondo, che per giorni e giorni è rimasta ostaggio di quella “acqua alta” che periodicamente la invade, portando devastazione nella quotidianità delle persone e danni irreparabili a un patrimonio artistico senza eguali. Naturalmente, tutti hanno manifestato preoccupazione, solidarietà e la fattiva volontà di porre rimedio a questa situazione. Solo che…
Solo che coloro che propongono le soluzioni sono troppo spesso gli stessi che creano i problemi, peraltro con la “collaborazione” della grande massa che si commuove, si dispera, si indigna, ma non cambia di una virgola le proprie convinzioni e i propri comportamenti. Senza rendersi conto (o senza volersi rendere conto, perché è più comodo) che è il nostro modello di sviluppo, il nostro agire quotidiano, a provocare i disastri climatici che colpiscono un po’ ovunque e che sono perfettamente esemplificati dalla situazione di Venezia.
Sia chiaro: qui non si vogliono creare complessi di colpa, ma semplicemente fare chiarezza.
Le inondazioni periodiche note come “acqua alta” hanno sempre interessato Venezia. Quello che ora sta cambiando è la frequenza e l’intensità degli eventi. Come del resto accade per tutto quello che riguarda i fenomeni atmosferici: siccità prolungate che sfociano in piogge torrenziali, con relativi allagamenti, smottamenti, frane. Venti impetuosi, ondate di calore, grandinate devastanti.
È il cambiamento climatico, bellezza. E a causarlo siamo noi umani, come ci dicono da decenni gli ambientalisti e come conferma da anni la scienza, alla faccia dei – pochi – negazionisti che continuano a negare l’evidenza.
Ormai tutti sanno che i ghiacciai si stanno sciogliendo e che le loro acque, non più congelate, gonfiano i mari o direttamente – come nel caso delle calotte polari, che colano rapidamente negli oceani – o indirettamente, come avviene coi ghiacciai alpini, attraverso il deflusso di torrenti e fiumi che comunque prima o poi sfociano in mare.
Meno noto è il fatto che l’aumento delle temperature medie globali provoca a sua volta l’innalzamento dei mari, perché l’acqua, come qualunque sostanza, tende a dilatarsi man mano che la temperatura sale. Si tratta di un effetto impercettibile su piccola scala, ma che amplificato sull’intera superficie del globo, ricoperto per tre quarti dalle acque, diventa rilevante.
La somma dei due fenomeni determina un innalzamento lento e costante del livello dei mari, già oggi in grado di minacciare l’esistenza delle popolazioni degli atolli del Pacifico e di aumentare la vulnerabilità di città come Venezia o Genova, ma anche New York, Miami e in generale tutte quelle situate sulle coste. È difficile fare previsioni precise, ma le stime calcolano che entro il 2100 il livello delle acque possa salire da un minimo di 50 centimetri a un metro, cioè 0.5-1,2 centimetri all’anno. Può sembrare poco, ma non lo è: provate a immaginare la situazione attuale di Venezia anche solo con altri 10 centimetri di acqua in più e avrete un quadro piuttosto chiaro di cosa possa significare. Ebbene, ai ritmi attuali, quei dieci centimetri in più rischiamo di averli entro il 2026, l’anno delle tanto celebrate Olimpiadi Invernali di Milano - Cortina, quelle per cui la Regione Veneto si è spesa con ogni energia, ben più di quelle impiegate per difendere il suo capoluogo che sprofonda.
Provate a immaginare una sontuosa cerimonia di apertura dei Giochi, mentre a poche decine di chilometri, in laguna, si spala fango e si accatastano macerie. Che impressione farà?
Dovrebbe far riflettere su come spendiamo i fondi pubblici, peraltro sempre più scarsi. Su quali siano le reali priorità del Paese. Su cosa sia lo “sviluppo” e su come creare posti di lavoro. Negli stessi giorni in cui Venezia lottava contro l’invasione del mare, gli “sviluppisti” non cessavano di ripetere le loro ricette per la “crescita”, a base di infrastrutture, cemento e combustibili fossili. Le stesse che stanno provocando gli attuali disastri, con miliardi di euro di danni e purtroppo, non di rado, la perdita di vite umane.
Cosa serve ancora per far capire che è un modello sbagliato, antieconomico, dannoso?
Eppure, anche per Venezia, si insiste per il completamento del MOSE, ennesima “Grande opera” che, nelle parole dei proponenti, doveva salvare la città dalle acque. Qualcuno provò a obiettare sull’utilità dell’opera, ma venne zittito e additato come nemico di Venezia e del progresso. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: dopo 16 anni i lavori sono incompiuti, quello che è già stato costruito presenta problemi di malfunzionamento e manutenzione, varie inchieste hanno scoperchiato il solito sottobosco di appalti truccati, tangenti e malaffare, mentre Venezia continua a subire allagamenti sempre più devastanti.
Cinque miliardi di fondi pubblici buttati letteralmente in mare. Quel mare che, lui sì, è in “crescita”, insieme al numero e all’entità dei disastri ambientali, che ormai non possono più essere definiti eventi “eccezionali”, ma semplicemente la nuova quotidianità con cui saremo costretti a convivere.
Tutto questo in ossequio a un paradigma “sviluppista” che sta mostrando chiaramente i suoi limiti e le sue devastanti conseguenze, ma che la maggioranza continua ad appoggiare incondizionatamente, nella convinzione che non esistano alternative. Mentre coloro che, oggi come allora, si oppongono alle “Grandi opere” continuano a venire definiti utopisti, nemici del progresso, “quelli che dicono di NO a tutto”. Anche se i fatti hanno dato loro mille volte ragione.
Oggi dovrebbe ormai essere chiaro che le soluzioni non possono venire dallo stesso modello che ha causato i problemi. Dire “Sì” al TAP, il gasdotto che ha tranciato chilometri di uliveti pugliesi, vuol dire puntare ancora sulle fonti fossili, ovvero quelle che aumentano l’effetto serra e il riscaldamento globale. Discorso analogo per il TAV, il tunnel fra Torino e Lione, la cui costruzione provoca più emissioni a effetto serra di quelle che promette di far risparmiare, oltre a propugnare le solite tesi di “crescita” degli scambi commerciali ormai obsolete, che non hanno più ragione d’essere.
Perché ormai l’attuale modello economico ci ha portato a sbattere contro il limiti fisici del Pianeta. Quindi è l’economia a dover cambiare, perché la fisica – come la matematica e la chimica – è una scienza esatta, e non può essere deformata a piacimento. L’economia, invece, non è una scienza esatta, a dispetto di quello che credono in molti, a partire dagli stessi economisti. Perché si occupa di qualcosa di inventato dall’uomo, quindi per sua natura mutevole e fallibile. I disastri economici degli ultimi anni sono la prova tangibile dell’inesattezza intrinseca dell’economia.
Dunque, occorre cambiare modello. E alla svelta, prima che la “crescita” sommerga Venezia e tutti noi.

La Via dei Pellegrini - A piedi da Rivoli alla Sacra di San Michele

Pro Natura Torino

Nel corso di una decina di anni Pro Natura Torino, con lavoro totalmente volontario e proseguendo il progetto avviato dall’Associazione Salvaguardia Collina Morenica poi confluita nella stessa Pro Natura, ha realizzato un percorso escursionistico che parte dal Castello Rivoli (città a una decina di chilometri da Torino) e giunge alla Sacra di San Michele, millenaria abbazia simbolo del Piemonte.
La distanza in linea d’aria fra il punto di partenza e quello d’arrivo è di circa 11 chilometri, ma le evoluzioni che il percorso effettua per toccare i vari punti d’interesse, compresa la sommità del Monte Cuneo, determinano una lunghezza di circa 25 chilometri, che è consigliabile effettuare in due tappe.
Tutto il percorso è segnalato con cartelli indicatori con il nome delle successive località e la distanza. Tabelloni posti su bacheche o su pali riproducono la carta geografica con il percorso e descrizioni dei massi erratici, delle emergenze ambientali e di chiese o edifici di valore storico.
L’Anfiteatro Morenico di Rivoli-Avigliana si estende geologicamente dalla Bassa Valle di Susa fino alle porte di Torino ed è compreso tra i fiumi Dora Riparia e Sangone; rappresenta un caratteristico paesaggio geomorfologico creato da un antico e potente ghiacciaio che, scendendo dalle testate delle valli alpine, si spingeva con il suo fronte fino alla pianura torinese.
All’interno di questo raro ambiente geomorfologico i massi erratici costituiscono l'evidenza geologica più significativa, in quanto rappresentano la testimonianza più facilmente riconoscibile dell’antica presenza di un ghiacciaio e della sua straordinaria capacità di trasportare materiale per lunghe distanze. Talora di dimensioni gigantesche, di forma e composizione mineralogica molto variegate e posti sempre assai lontano da formazioni rocciose geologicamente simili, sono da considerarsi veri e propri monumenti naturali.
Rileggendo la storia geologica e culturale di questi imponenti monumenti naturali, è evidente il loro valore ambientale e sociale.
I massi erratici sono veri e propri documenti della storia naturale della Terra sotto vari aspetti: valore scientifico e paesaggistico, memoria storica, fruibilità sportiva e didattica; devono essere tutelati e conservati affinché anche le generazioni future possano usufruirne.
Grazie all’azione di Pro Natura Torino la Regione Piemonte ha approvato nel 2010 una specifica legge per la protezione dei massi erratici, i cui scopi principali sono:
- tutela dei massi attraverso il sostegno della legge regionale, ottenuta anche grazie a pressioni dell’Associazione, e con la sensibilizzazione della popolazione;
- scoperta dei massi come monumenti geologici, paesaggistici e culturali;
- valorizzazione dei massi come risorsa turistica, sportiva ed educativa;
- incentivo a far conoscere il territorio con escursioni a piedi, usufruendo anche della collaborazione di alcuni comuni particolarmente sensibili;
-  manutenzione e aggiornamento della segnaletica, dei tabelloni e della percorribilità dei sentieri.
Il collegamento realizzato in tempi più recenti da Avigliana alla Sacra di San Michele, risistemando percorsi esistenti, consente di ammirare il Lago Piccolo di Avigliana, visitare il Giardino Botanico REA in comune di Trana, la zona di Giaveno e la storica abbazia della Mortera, recentemente restaurata anche con finanziamenti europee a cura del Gruppo Abele.
I comuni interessati a questo per-corso, che attualmente si sviluppa tutto sul versante destro della Dora Riparia, diventeranno diciassette con la prevista estensione e chiusura ad anello del percorso lungo il versante sinistro del fiume: Alpignano, Almese, Avigliana, Bruino, Buttigliera Alta, Caselette, Giaveno, Pianezza, Reano, Rivalta, Rivoli, Rosta, Sangano, Sant’Ambrogio, Trana, Val della Torre e Villarbasse.

Le arche migranti

Pubblichiamo un ulteriore omaggio a Francesco Corbetta, per lunghi anni Segretario e poi Presidente della Federazione Nazionale Pro Natura, recentemente scomparso. Si aggiunge ai ricordi di Valter Giuliano e Giuliano Cervi, pubblicati sullo scorso numero di “Natura e Società”.

LE ARCHE MIGRANTI
Leonardo Badioli

Non ricordo esattamente quando – ma tu neanche c'eri, amico cane – il professor Corbetta, passeggiando con me  ed Elia Tomassetti lungo la spiaggia tra Ciarnin e Marzocca, fu scosso all’improvviso da un violento tremito ed emise un gridolino d’orrore facendo sobbalzare i suoi cento e passa chili di sapienza biologica: “È arrivata anche qui!
“Cosa?”, diciamo noi, allarmati.
“Scafarca” fa lui.
“E cos’è Scafarca”.
Scapharca inaequivalvis. Mollusco venuto dall’oriente attaccato alle navi. La chiamano ‘la giapponese’, ma a quanto pare si è ambientata benissimo in Adriatico”.

Il professore si china con flessuosa agilità e prende su due conchiglie molto simili tra loro; a noi sembrano di quelle che di solito i turisti raccolgono come souvenir, Acanthocardia, ‘Cuore d’acanto’ col nome di Linneo, o più semplicemente ‘Cuore’, sempre scelte per la forma e per i suoi colori.
“Con Acanthocardia non ha molto in comune se non una vaga somiglianza - taglia corto lui - L’orientale è più coriacea; la forma delle valve è squadrata; nel punto della loro congiunzione – fammi dire bene: nella zona ligamentare che separa i due umboni - ha uno spessore nero. Si chiama scafarca perché il guscio è capiente come fosse un’arca, come tutte le Arcidi d’altronde; ‘inequivalve’ per il fatto che la crescita sviluppa le valve in maniera ineguale”. 

Apprendemmo da lui che la nuova venuta era stata classificata da Bruguière nel 1789 (si vede che in quell’anno non tutti i francesi facevano la rivoluzione) e che si tratta di una specie capace di vivere in acque costiere molto povere di ossigeno. Questa sua facilità di adattamento alle condizioni prevalenti del nostro mare opaco e poco ossigenato le permette di sottrarre spazio ad altre specie bivalvi dotate di minore resistenza. Approdata nel porto di Ravenna alla fine degli anni sessanta, aveva allargato la sua area fino ad arrivare qui da noi, con una progressione sufficientemente rapida da sbigottire i più attenti osservatori.

Non negherò che in seguito mi sono fatto bello con gli amici riprendendoli ogni volta che distrattamente raccoglievano un’orientale scambiandola per un’autoctona; l’ho fatto con tanta convinzione che alla fine vedevo scafarche dappertutto. Ricevevo in regalo un sonaglio thailandese con sette elefantini e conchigliette pendule comprato a Canton Art: erano loro. L’ho avvistata addirittura su una pubblicazione che la mia città aveva fatto stampare per propagandare la sua spiaggia e il suo mare pulito: nel lussuoso dépliant, mollemente adagiata sopra un letto di sabbia, era esibito un magnifico esemplare di Scafarca inequivalve.

Vi siete data la zappa sui piedi - ho sghignazzato rivolto ai responsabili - avete fatto pubblicità al degrado dell’ambiente costiero”.
Eh - banalizzava lui - ma chi vuoi che le sappia queste cose”.
I bambini delle elementari”, ho detto io per metterli a sedere; e non era una bugia, perché tutta la mia scienza in materia di conchiglie, oltre al fatto di avere ascoltato il professor Corbetta, proveniva da un libretto per ragazzi edito nell’ottantuno: tra le specie che si trovano nei mari italiani c’era lei, Scafarca, indicata come proveniente dalle coste indopacifiche e localizzata ‘solo lungo le coste veneto-emiliane’, dove era data per ‘molto abbondante’. Dovrebbero aggiornare questo libro man mano che le popolazioni marine si vengono espandendo.

La giornata è di quelle che onorano l’inverno, con un vento tagliente di borino che non porterà neve ma del resto non ci fa mancare niente. L’altro ieri c’è stata burrasca e tutto il lido è segnato dalla linea del trasporto, minutaglia vegetale, merceologia plastica e una galassia di conchiglie di ogni tipo. Mentre tu vai ravanando tra i rifiuti spiaggiati e manifesti la tua predilezione per certe matasse vegetali schifosette e informi, io traccio sulla sabbia un perimetro quadrato (un tocco di sistematicità all’osservazione non è mai da biasimare) per vedere al suo interno che conchiglie trovo, e in quale rapporto quantitativo tra le diverse specie. Intanto per scoprire con sollievo che Acanthocardia – per quanto ormai sappia che non c'è correlazione – è tuttora prevalente su Scapharca. Ce ne sono come al solito di molti colori; tuttavia, diversamente da quanto mi ricordo, stavolta le rosse e le chiare sono in numero minore rispetto alle scure; mi domando allora se il colore non dipenda da un programma genetico che realizzano, così come esistono conigli bianchi, neri, grigi e anche fulvi, o piuttosto dalle varie sostanze che il mollusco utilizza nel luogo in cui si trova; il caso del gran numero di nere attesterebbe una morìa, quando le valve finiscono sepolte sotto la sabbia dove non c’è ossigeno; in quanto alle conchiglie variegate propendo per la seconda spiegazione, che i colori dipendano dal sedimento che quei molluschi assimilano dall’acqua in soluzione.

Perché se no sarebbero così mutevoli secondo tempo e luogo? Acantocardia avrebbe dunque suoi colori locali e temporanei, dialetti cromatici che passano dal bianco al bruno attraverso le gamme dell’arancio e del grigio, con transiti appena percettibili su un verde spento e contrappunti di giallo citrino?

Bisognerà che affronti prima o poi il rischio di dire stupidaggini e mi decida a interrogare qualcuno della biologia marina. Le valve a quanto pare si accrescono dal nucleo primitivo caricando i nuovi cerchi secondo una continuità ritmica che ne determina la trama; il risultato è una testura variegata come quei maglioni che si facevano una volta con la lana d’avanzo, a costine o rasati. Qualcuna a un certo punto della progressione evidenzia un’incertezza, una cesura che farebbe pensare a una crisi momentanea prontamente ripresa con un balzo in avanti della crescita.

Attraverso le sequenze modulari si possono leggere sviluppi temporali e caratteri del luogo in cui si sono formate: la conchiglia è la trama illustrata di un racconto: un paradigma del rapporto tra struttura e processo, diceva il vecchio Bateson; ed è appunto il suo procedere formale che la rende bella.

Lo stesso, vorrei dire, intendeva l’amico Bebo Conti provando nuovi giri alla chitarra. “Che cosa ti piace esattamente - ci teneva a sapere - e perché”; in questi casi tornava molte volte su un passaggio in cui il declinare di una tonalità maggiore in una minore poteva provocare un effetto di struggente meraviglia. Mi è sembrato che l’avere scoperto dove sta l’arcano non dissolva l’effetto; demolisce i mezzucci ma può anche approfondire l’emozione, se la trama tiene. Similmente noi possiamo scomporre le armonie o ordinare le serie biologiche, scandirle, compararle, trasformarle in numeri e comporle in equazioni: la conchiglia marina sarà sempre figlia della pietra e meraviglia per le menti dei bambini, come ai tempi di Alceo. E nel ripetere quelle parole faccio caso che il poeta dice proprio ‘menti’, ‘frenàs’, e non ricettori periferici come gli organi del tatto o della vista.

All’interno del perimetro che ho tracciato si trova una miriade di altri relitti che il mare con ondate successive ha trasportato a riva. Sono gusci di ostriche, Ostrea edulis, suppongo, e di cozze in gran numero, segno che l’onda ha battuto con forza la scogliera dove stavano attaccate e le ha strappate via; ma forse le ha portate già morte e la sua azione era soltanto una ripulitura. A Venezia le chiamano “peoci”, a Senigallia “capuloŋi” e in Ancona “mósciuli”, ma il nome scientifico (il nome del nome, direbbe ancora il vecchio B.) è Mitilus galloprovincialis. Su tutto il quadrato le sue valve, integre o frantumate, riflettono il nero dell’esterno o l’argento perlaceo dell’interno.

Un numero alto di presenze è garantito da Tellina nitida e Tellina tenuis, ovali leggeri e lucenti chiamati “calcinèi”, o “calcidòr” se sono quelli più grossetti dal colore dorato, e più ancora dal minuto Lentidium mediterraneum: dopo una mareggiata se ne trovano a milioni e formano da soli la massa più cospicua del trasporto.

Ci sono poi le vongole, Chamelea gallina, tantissime, forse scombinate dal frugare quotidiano che fanno le turbosoffianti sotto il fondo marino; più rare le vongole veraci, e questa loro rarità mi evita il confronto con un tizio che conosco, originario delle latitudini meridionali del Tirreno, che mi fa una capa tanta sostenendone il primato sulle mie poveracce. La “verace”: come se Chamelea fosse solo una bugiarda mentitrice che si spaccia per quello che non è. Con tutto il rispetto che gli porto, e concedendogli pure che sia l’altra più buona, io sono patriota: nessun Tapes decussatus soppianterà mai la freschezza salina e mattinale delle mie adriatiche.

Deriva dall’infanzia la mia preferenza: ai tempi della grande povertà, mia madre andava a raccoglierle sulla battigia, le metteva sulla piana di ghisa della cucina economica e quelle sfrigolando si aprivano; le mangiavamo appena scottate e sgocciolanti, un sapore così vivo che soltanto un’infanzia protratta dei sensi potrebbe rinnovarlo.

Tanto più preferisco le vongole nostrane se considero poi che le veraci che vendono al mercato non sono affatto tali; dovremmo chiamarle “le mendaci”; il loro nome infatti era in origine Tapes philippinarum, altra specie migrante, succedanea o addirittura sostituta della vera verace, Tapes decussatus; per confondere le idee dei compratori, le cambiarono nome: la chiamarono Tapes pseudodecussatus. Approfittando del sonno di Linneo.

Sul mucchio di conchiglie gocciolanti che abbiamo isolato affiorano anche quelle Mactra stultorum belle grosse e forse anche tontolone come dice il nome (una specie di dispensa degli scemi?); e quelle altre di cui pure non ricordo il nome, ancora più grandi, che mi fanno pensare agli unghioni di un gigante trasandato, orlati di nero; con un colpo d’occhio scovo anche un bell’Aequipecten opercularis, il cui nome locale è ‘canestrello rosa’, parente minore della grande capasanta, Pecten Jacobaeus, che vive su un fondale più profondo e contrassegna i pellegrini che ne usavano la valva come conca per bere. ‘Jacobaeus’ è per San Giacomo, Santiago de Compostela, in fondo alla Via Lattea, vicino all’oceano.

Poi ci sono le varie lumachelle, Aporrhais pespelecani, che ad Ancona chiamano ‘crucéte’ e più a nord ‘garagòi’, le cui digitazioni assumerebbero nella tassonomia la forma di una zampa di pellicano; Bolinus brandaris, il murice che localmente è chiamato ‘ragusa’, anche lui carico di storia per il fatto che i romani ne cavavano la porpora. Chissà se ai tempi nostri sarebbe così facile averne a sufficienza, sapendo che ne servivano ottomila per avere un solo grammo del prezioso colorante. Tintorie famose non erano soltanto a Tiro: in Adriatico i murici erano presenti con più varietà, di modo che anche a Rimini la porpora si produceva.

Rinvengo un certo numero di Nassarius vulgatus, ghiottoneria che qua chiamiamo ‘bumbulìŋ’ (sughetto con cipolla, spruzzo di vino bianco, conserva di pomodoro e odori dell’orto), e Nassarius reticulatus, lumachino che i pescatori detestano perché, pur essendo commestibile, non è vendibile, sporca le pescate e li costringe a una cernita piuttosto laboriosa; e ancora due lumachelle molto simili per dimensione, Neverita josephinae, tondeggiante e leggera, di un cipria rosacenere rischiarato da un alone diafano, e Naticarius millepunctatus, la guancia trapunta di marrone il cui nome originario, oggi tornato in uso, è stercusmuscarum. Sarebbe da capire perché mai una chioccioletta così tenera e graziosa si sia meritata nomi derisori come “chiappa-di-culo” e “cacatina-di-mosca” se non per un particolare sprezzamento di chi l’ha battezzata. E poi, naturalmente, c’è Scapharca; anche di questa mi accade di trovare, come del Cuore, non pochi esemplari interamente neri: le descrizioni la danno di un bianco avorio con sfumature ocra negli esemplari adulti e azzurrine in quelli più giovani. Ho sempre guardato con sospetto fin da quando il professore me l’ha fatta scoprire questa intrusa che attesta il decadimento dell’ambiente marino e lo depriva essa stessa attivamente soppiantando altre specie che ci sono familiari. Dev’essere la stessa insofferenza verso i nuovi venuti che contagia chi ha paura della loro prevalenza o di un inarrestabile meticciato; ma ormai la giapponese si è diffusa ugualmente lungo tutta la costa adriatica, e con essa si è diffusa una cattiva fama: chi raccoglie i molluschi sulla riva inorridisce constatando che ‘butta fuori il sangue’, ossia che possiede emoglobina come noi (la chiamano per questo ‘Sanguinella’); i vongolari la vedono come rivale e l’accusano di divorare le stesse Chamelea che loro pescano e che trovano meno abbondanti; per quanto sia difficile che una bivalve diventi predatrice e carnivora come sono, al contrario, diverse varietà di gasteropodi. In ogni caso non è certo colpa sua se le acque costiere dell’Adriatico versano spesso in condizioni di ipossia e lei riesce a cavarsela meglio degli altri.

In realtà molte specie bivalvi – anche questo rammento rovistando nei cassetti della memoria – sopravvivono a lungo in condizioni di scarsa ossigenazione o totale mancanza di ossigeno.  Il fatto stesso che vivono nelle sabbie basse o nelle zone interessate dalle maree le espone a variazioni cadenzate del loro habitat. Qui agiscono diversi fattori che limitano la quantità di ossigeno disciolta nell’acqua: la temperatura più alta, la presenza di sostanze organiche e l’eutrofizzazione algale. A queste condizioni Scafarca risponde trattenendo acqua e sottraendo da essa l’ossigeno residuo; se non basta, apre le valve in modo da favorire lo scambio acqua-aria. Ha anche adattamenti di tipo biochimico: rallenta il metabolismo riducendo l’attività enzimatica a livelli minimi. In altri termini, certi molluschi entrano in una specie di letargo, che per le vongole è piuttosto breve, per le cozze più lungo e per Scafarca così lungo da permetterle di vivere anche un mese in totale assenza di ossigeno. Attenzione però a non confondere Scapharca inaequivalvis con Scapharca demiri, ammoniscono i testi. Sono molto somiglianti, ma la seconda è più piccola e meno panciuta. In qualche caso servirebbe un occhio esperto per distinguere una specie dall’altra, e talvolta perfino i malacologi rimangono indecisi, o incontrano sorprese; non sempre la tassonomia è chiara e non è mai definitiva.

Cercando su internet qualche tempo fa, ho messo il naso sulla corrispondenza che gli aderenti alla Società Italiana di Malacologia intrattengono tra loro. Un giapponese, il signor Ono Yuya, ha comprato uno stock di arche che abitano il Mediterraneo; rispondendo a chi gliele ha inviate dice, certo, che è molto soddisfatto, gli specimen gli sono pervenuti in buono stato, e spiega come il suo interesse per Scapharca derivi dal fatto che it also lives in Japan; tuttavia fa presente che gli esemplari di inaequivalvis che colui gli ha fatto pervenire sono differenti da quelli che nel suo paese chiamano con lo stesso nome: somigliano piuttosto a Scapharca subcrenata. Il che li renderebbe, se vogliamo, anche più interessanti.

Il venditore, Stefano Rufini, che non è certamente un bottegaio e nemmeno uno Scoglionatissimo Ricercatore Eternamente Precario dell’Università (SCREPUN) deciso comunque a fare rendere al meglio i suoi talenti, ma un vero luminare della malacologia, assicura che quegli esemplari, prima di finire in Giappone, erano già appartenuti a una collezione e cartellinati come provenienti da San Benedetto del Tronto.

A prima vista sembravano inaequivalvis, nell’accezione corrente del termine; né mai mi è capitato di avere subcrenata sottomano”. Poi, però, rivolto ai suoi corrispondenti, avanza un dubbio: ma questo giapponese non sarà mica uno che vuole confonderci le idee, come già altri hanno tentato di fare?

“Lascio a quelli che vogliono indagare il Meraviglioso Mondo delle Arche Migranti - conclude amarognolo il professore - il compito di chiarire cosa nasconde questo mistero”.

Il suo messaggio è inviato alle dieci del mattino. Lo raccoglie da Ancona Cristiano Solustri, che alle dieci di sera risponde: “Il giapponese può avere ragione. Un amico russo col quale collaboro mi ha fatto osservare quanto sia differente la scultura della nostra inaequivalvis da quella giapponese e, in misura minore, dalla thailandese. Che non si tratti della stessa specie?

Ma allora crollerebbe l’ipotesi della migrazione, mi scopro a commentare con sgomento. Aspetto inutilmente che il tam-tam malacologico faccia qualcosa per risolvere l’enigma, perché invece se ne è subito scordato, sopraffatto da un annuncio capace di eclissare ogni altra fantasia: ‘Demiri in Adriatico!’ La costa romagnola è, come al solito, la prima ad avvistarla, ma Solustri l’ha trovata poco dopo tra Ancona e Senigallia, proprio dove io e Klaus ci troviamo a camminare. Non solo ha rinvenuto numerosi esemplari, ma valuta che abbiano fino a tre anni di vita. Sembra probabile che la nuova migrante sia arrivata con le casse di vongole che importiamo in estate dalla costa turca, dove già quella specie era presente, seppure non autoctona. “È incredibile con quale leggerezza sono fatti i controlli, e con quanta incoscienza per le conseguenze sulla vita biologica locale”, si sdegna il ricercatore.

Ma rullano i tamburi: demiri è dappertutto, l’hanno vista addirittura a Brindisi. Solo io sono qui da più di un’ora che confronto tutte le scafarche che ho trovato per vedere se in mezzo alle tante inaequivalvis ce ne sia una più piccola e schiacciata, come scrivono che demiri debba essere. Per fortuna o disgrazia questa specie è straordinariamente prolifica e tra poco non avrò difficoltà a riconoscere la nuova ondata di bivalvi extracomunitarie.

Avrei voglia di fare due chiacchiere con questo Cristiano: chissà che nel frattempo non abbia trovato la chiave del mistero. Può succedere a volte che una cosa che prima ti era ignota e ti sarebbe parsa poco interessante, se non addirittura astrusa, diventi in un momento indispensabile. L’incontro però sembra difficile, perché dall’Istituto dove lui lavorava mi rispondono che si è trasferito e che non sanno dove. Ammettiamo che chi lo sostituisce anche lui sia al corrente del mistero: mi verrebbe più difficile chiedere a un altro col rischio che quello mi risponda senza troppo entusiasmo: “Sì, certo. Scultura differente. Sul blog dei malacologi. Ma lei come ha detto che si chiama?

Per questo mi sento di sospendere la soluzione dell’enigma nell’attesa che rintracci il prescelto intenditore di conchiglie di mare. Se non è partito per uno di quei viaggi che a volte i naturalisti si sobbarcano sulla scia di von Humboldt o del Beagle, da qualche parte lo devo pur trovare.

Le problematiche del Commercio on line

di Riccardo Graziano

Gli acquisti effettuati tramite Internet aumentano di anno in anno con una progressione impressionante, tanto da uguagliare o superare, in alcuni casi, quelli effettuati con il commercio tradizionale. Questa tendenza porta una serie di ricadute di cui è ormai indispensabile tenere conto, perché questa evoluzione del commercio (e del consumismo) implica profonde trasformazioni economiche, territoriali e nella logistica, la quale, come sappiamo, a sua volta ha un forte impatto sui consumi energetici e sulle emissioni inquinanti. Viste le dimensioni sempre più ampie e diffuse del fenomeno, una seria riflessione sulle sue conseguenze sociali, economiche e ambientali è ormai strategicamente opportuna e indifferibile.

Per quanto riguarda l’aspetto sociale, facciamo osservare che, se gli acquisti si fanno da casa, digitando sulla tastiera di un computer, in un emporio virtuale, anziché recandosi in un luogo fisico dedicato al commercio, è inevitabile che diminuisca l’interazione fra persone e aumentino isolamento e distanza fra individui, fenomeni già presenti in questa epoca sempre più social, ma sempre meno sociale, dove una percentuale rilevante di “relazioni umane” avviene principalmente o esclusivamente tramite un interfaccia virtuale.

Dal punto di vista economico, invece, l’avvento del commercio on line favorisce evidentemente l’ascesa di colossi sovranazionali, che operano a livello planetario con logiche ancora più estreme di quelle delle multinazionali tradizionali. Infatti, non si tratta di strutture produttive, ma distributive, dunque ramificate e collocate più nell’universo virtuale che in quello fisico. Questa loro natura sovranazionale e in larga parte immateriale ha diverse conseguenze, che vale la pena rimarcare.

La prima, piuttosto lampante, è che il commercio on line contribuisce ad acuire la concentrazione della ricchezza, come dimostra il fatto che i fondatori di questi imperi sono entrati in breve tempo nella ristretta cerchia degli uomini più ricchi del pianeta. La seconda riguarda il rapporto costi-benefici rispetto all’economia locale. Per loro natura, queste aziende spostano merci – e flussi finanziari – su scala planetaria, “atterrando” sui territori solo per la parte logistica terminale. Questo consente loro di avere impatti rilevanti, tipo la cementificazione di vaste aree strappate all’agricoltura per la costruzione di giganteschi poli logistici, pur restando avulse dal contesto in quanto a ricadute positive, sia in termini occupazionali, sia in termini macroeconomici.

Prendendo in considerazione l’aspetto occupazionale, si può rilevare che, a fronte di un’offerta lavorativa quantitativamente esigua e qualitativamente infima sotto il profilo salariale e normativo, il commercio virtuale provoca la cancellazione di un numero imprecisato, ma certamente rilevante, di posti di lavoro nel commercio tradizionale.

Sotto il profilo economico, invece, allargando lo sguardo si può comprendere come l’acquisto on line sia un’arma a doppio taglio per il consumatore, perché a fronte di un risicato risparmio immediato, nasconde insidie non adeguatamente percepite dal cittadino medio. Abbiamo già detto della cementificazione dei suoli e del calo dell’occupazione complessiva, fenomeni in certa misura percepibili direttamente, ma c’è un aspetto indiretto, meno evidente, ma non meno importante, che è quello fiscale. Sfruttando la loro struttura multipolare, queste aziende riescono a dissimulare con relativa facilità i reali flussi di fatturati e ricavi, cosa che rende possibile praticare quella che viene chiamata elusione fiscale, fenomeno più sottile e meno tracciabile della famigerata evasione fiscale.

In questo caso, infatti, non si nascondono in maniera truffaldina i guadagni per evitare di pagarci sopra le tasse, ma con una serie di transazioni finanziarie si fa in modo di spostarli dove è più conveniente dichiararli. In sostanza, sono stati individuati svariati casi – in numero tale da farlo ritenere prassi consolidata – nei quali, a fronte di volumi rilevanti di vendita in vari Paesi, compreso il nostro, i ricavi risultavano in capo a branche aziendali o consociate domiciliate, guarda caso, in paradisi fiscali dove l’imposizione è di gran lunga inferiore a quella dei Paesi dove i prodotti sono stati effettivamente commercializzati.

È chiaro che se colossi del genere, su volumi sempre crescenti, non pagano tasse o lo fanno solo in minima parte nel nostro Paese, automaticamente cala il gettito fiscale, cosa che va a scapito del bilancio complessivo dello Stato. Ovvero, a causa dei mancati introiti provenienti dal commercio, l’Amministrazione ha solo due alternative: aumentare la pressione fiscale sugli altri contribuenti, oppure tagliare le uscite, cioè diminuire i servizi ai cittadini.

Ecco allora che, a fronte del risparmio di pochi (centesimi di) euro, il consumatore si ritrova da un lato a subire continui tagli allo stato sociale, dall’altro a dover pagare più tasse per compensare quella quota di gettito fiscale che prima proveniva dai settori del commercio al dettaglio e all’ingrosso, ma che ora evapora nel mondo virtuale, lo stesso da cui si materializzano i nostri comodi acquisti a domicilio …

Ultimo, ma non per importanza, l’aspetto ambientale. All’inizio, le vendite a distanza erano un fattore di nicchia, riservato a pochi specialisti che operavano su un numero limitato di prodotti e settori. Ma ben presto qualcuno si è accorto delle potenzialità del sistema e ha provveduto a renderlo un fenomeno globale e di massa. Ebbene, finché si restava su piccoli volumi e su determinate tipologie di acquisti, il commercio via Internet era più conveniente, sia economicamente sia ambientalmente, rispetto a quello tradizionale. Un discorso rimasto valido fino a un certo livello di penetrazione di questo sistema, che beneficia di un efficiente controllo informatico in grado di abbattere costi e ottimizzare la logistica, creando economie di scala competitive. Ma oggi, con volumi di vendita cresciuti in modo esponenziale rispetto agli albori dell’e-commerce, la situazione si è ribaltata e cominciano a vedersi effetti collaterali di cui va tenuto conto.

Sono ormai diversi gli studi condotti in maniera indipendente che evidenziano un maggiore impatto ambientale del commercio  on line rispetto a quello tradizionale, a fronte della convenienza economica (piccola) per i consumatori e (gigantesca) per gli operatori del settore.

In particolare nell’ambito urbano, dove peraltro tende sempre più a concentrarsi la maggioranza della popolazione, il commercio virtuale risulta maggiormente inquinante rispetto a quello tradizionale per le piccole quantità ordinate, che comportano una parcellizzazione della distribuzione tale da aumentare sia la quantità di imballaggi necessari, sia il numero e la lunghezza degli spostamenti, entrambi fattori che a loro volta aumentano la quantità di sostanze inquinanti disperse nell’ambiente o in atmosfera.

In effetti, se ci si ragiona un attimo, è intuibile: se attraversiamo tutta la città per andare a comprare un singolo oggetto specifico, allora produce certamente meno impatto ordinarlo via Internet e farcelo portare da un corriere che fa già altre decine di consegne nella nostra zona; ma se ci rechiamo in prima persona, per dire, al supermercato ad acquistare  tutto ciò che  ci occorre,  magari  più o meno  sugli stessi percorsi casa-lavoro-scuola, produciamo sicuramente meno emissioni di una flotta di veicoli che girano come trottole a portare qua e là pochi prodotti per volta.

Non si tratta di una semplice ipotesi: questo modello distributivo sta effettivamente diminuendo l’efficienza logistica, dal momento che i suoi flussi caotici e la differenziazione dei prodotti provocano, banalmente, una riduzione del volume di merce mediamente caricato sui veicoli adibiti alla consegna. E i logisti (ma anche gli ambientalisti, gli economisti o le brave massaie …) sanno bene che un trasporto a mezzo carico conviene molto meno di uno a pieno carico, a prescindere dall’efficienza e dalle minori emissioni del veicolo utilizzato. Discorso a maggior ragione valido per quei Paesi che si affacciano solo ora al benessere commerciale, con relativo aumento della propensione al consumo, ma dove continuano a circolare mezzi altamente inquinanti, che i Paesi più sviluppati stanno gradatamente mettendo al bando.

Ricapitolando, il commercio on line, che attira sempre più consumatori grazie a prezzi competitivi, rapidità e comodità dell’acquisto, presenta molte criticità, destinate a crescere con l’aumentare dei volumi di vendita. Oltre agli aspetti già presi in esame, possiamo aggiungere fra le problematiche ambientali quella di ritrovarsi, in un futuro prossimo, a dover gestire decine di siti di centri commerciali dismessi, rovinati dalla concorrenza delle piattaforme di vendita virtuale. Non si tratta di un’ipotesi peregrina o allarmista, ma di ciò che sta già avvenendo negli Stati Uniti, luogo di nascita e maggior sviluppo dell’e-commerce, quindi un ottimo osservatorio per capire ciò che può succedere anche da noi.

Per ovviare a queste problematiche, o almeno ridurne le conseguenze, qualcuno ha provato a indicare alcuni rimedi: aumentare la quantità media di prodotti di ogni ordine, riducendo in tal modo costi ed emissioni legate alla logistica; evitare di acquistare in questo modo i prodotti alimentari, perché in questo caso il dispendio energetico è superiore in modo sproporzionato rispetto al commercio tradizionale; implementare il numero di “caselle postali”, ovvero punti di consegna disseminati in punti strategici della città dove l’utente potrebbe recarsi per effettuare il ritiro, diminuendo la necessità logistica di coprire il cosiddetto “ultimo miglio” fino al domicilio.

Misure utili, ma non risolutive, se non si interviene a monte, con una decisa regolamentazione del settore del commercio on line. Un’esigenza non rinviabile, viste le dimensioni planetarie assunte da un comparto che oggi incide profondamente sugli aspetti economici, energetici e ambientali di molti Paesi, ma che purtroppo ha dimostrato di non avere sufficiente senso di responsabilità imprenditoriale, avendo come unica bussola di riferimento la massimizzazione dei profitti.

Tuttavia, è chiaro che, proprio a causa delle dimensioni globali del fenomeno, la questione non può essere affrontata dai singoli Stati, ma va gestita a livello sovranazionale, come minimo continentale (leggasi Unione Europea), o meglio ancora mondiale, direttamente dall’ONU e dal WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. Non necessariamente con divieti e chiusure, ma anche solo con un sistema di incentivi o disincentivi in grado di indirizzare le scelte dell’utenza e conseguentemente correggere le storture del sistema. Purtroppo, al momento, le istituzioni internazionali non sembrano particolarmente attive in questo senso.

Resta allora la speranza che a scendere in capo sia un’entità ancora più potente, in grado di mutare rapidamente ed efficacemente i comportamenti di acquisto: i consumatori stessi, i quali, in modo consapevole, potrebbero indirizzare le proprie scelte in base a criteri di interesse generale, rendendole economicamente e ambientalmente sostenibili. Ma purtroppo, anche qui, sembra di vedere che prevale la (piccola) convenienza personale e immediata, rispetto a una visione più ampia e di lungo respiro.

Le proposte di Pro Natura per salvare il fiume Lambro

Proposte avanzate dalla Federazione Nazionale Pro Natura riguardanti l’adozione di misure che è necessario assumere nel bacino del fiume Lambro Settentrionale in ordine alla riduzione del rischio idraulico, alla difesa degli acquiferi profondi e per la riduzione del grado di inquinamento delle acque e dei suoli, inviata nello scorso mese di ottobre alle competenti autorità e ai soggetti che hanno sottoscritto il contratto di fiume per il Lambro

1 – PREMESSA
Le proposte avanzate da questa Federazione sono coerenti:
con i Temi e indirizzi strategici del Progetto di Sottobacino del Fiume Lambro Settentrionale:
    • Rinaturalizzazione dei corsi d’acqua e continuità ecologica ambientale;
    • Gestione sostenibile delle acque meteoriche.
con le minacce individuate nel “Documento di Piano” del “Piano Territoriale Regionale della Lombardia”: “Estesa impermeabilizzazione dei suoli, che diminuisce la capacità di assorbimento delle acque piovane e alimenta in tempi brevi i corsi d’acqua aumentando i pericoli di esondazioni e piene. Fenomeni  di inquinamento ed erosione dei suoli legati ad attività industriali ed agricole intensive con uso eccessivo di fertilizzanti chimici e pesticidi, che contribuiscono anche all’inquinamento della rete idrica superficiale. Siti  contaminati nelle grandi aree di dismissione …”.
Le proposte avanzate dai soggetti partecipanti al Contratto di Fiume appaiono a riguardo delle minacce sopra individuate coerenti e presentano certamente una efficacia puntuale che non può essere in alcun modo sminuita. Tuttavia si ritiene che in questa fase di definizione debbano essere evidenziati anche obiettivi più alti e condivisi in tutto il territorio che individuino alcune maggiori criticità e permettano l’adozione di misure adeguate a correggerle.

2 - LE PROPOSTE

2.1 – RISANARE IL DISSESTO IDROGEOLOGICO DEL NORD MILANO.
TARIFFAZIONE DELLE ACQUE DI PIOGGIA E SGRAVI PER LE UTENZE VIRTUOSE.

2.1/A - LA SITUAZIONE
Il territorio del Nord Milano, così come quello dell’alta Pianura Lombarda a valle delle cerchie moreniche, è privilegiato dalla natura rispetto al pericolo di inondazioni: l’acqua di pioggia, anche nel caso di piogge persistenti e intense, potrebbe agevolmente infiltrarsi nel sottosuolo, raggiungere le falde idriche sotterranee e fluire verso la bassa pianura. Eppure da decenni si registrano frequentemente allagamenti.
Il rimedio finora praticato è stato di tipo idraulico: trasferire l’onda di piena nei bacini idrografici contermini tramite canali con funzione di scolmatori (vedasi il CSNO del fiume Seveso).
Golene e aree di espansione non sono al momento praticabili se non in aree ristrette, a causa dell’edificazione tollerata fino entro le fasce di salvaguardia spondali.
Recentemente è in progetto, per il fiume Seveso, un sistema di bacini di laminazione delle piene. I bacini, oltre ad altre controindicazioni, aggravano tuttavia il problema che dovrebbero risolvere perché, impermeabilizzati sul fondo, riducono la superficie disponibile all’infiltrazione delle acque meteoriche.
Gli allagamenti che si registrano a Milano-Niguarda e dintorni, nel sottobacino del fiume Seveso, anche con precipitazioni relativamente modeste, sono in concomitanza con le piene del Seveso, il corso d’acqua che più direttamente coinvolge Milano, e sono causati dalla sezione obbligata dell’alveo del Seveso in città, ove è tombinato dal confine con Bresso fino a oltre San Donato Milanese (da via Melchiorre Gioia unisce le sue acque con quelle del Naviglio della Martesana e prende il nome di Redefossi); di qui si dirige verso il fiume Lambro, in cui confluisce presso Melegnano.  Per questo si ritiene prioritario che le proposte qui contenute siano da estendere anche all’ambito del Seveso. A questo riguardo si rileva come uno degli interventi necessari per mitigare la situazione critica nel Nord Milano sia il ripristino della portata massima consentita del Redefossi in città: circa 1/3 dell’altezza della galleria è occupato da sedimenti compattati; della rimozione di questi sedimenti, ovviamente non agevole, nessuno fa mai cenno.
La risoluzione del problema delle esondazioni viene indicata nell’evitare la formazione dell’onda di piena mediante il ripristino della capacità filtrante di più vaste e diffuse superfici possibili. Infatti su una superficie pianeggiante quale quella del Nord Milano (con esclusione delle aree interessate dai depositi ferrettizzati della glaciazione Mindel), anche piogge con carattere di rovescio (>10, <30 mm/h) sono interamente assorbite da un suolo naturale integro e non calpestato (prato, bosco).   Il percorso naturale delle acque di pioggia che cadono sulla pianura non sono i torrenti che la solcano, ma la falda idrica sotterranea. Essa controlla le piene dei torrenti e da secoli fornisce ai Milanesi acqua a chilometro zero e costo irrisorio. L’ignoranza della falda idrica sotterranea ha creato grossi problemi negli ultimi decenni e ancor di più ne creerà nel futuro, come è di seguito illustrato (vedi punto 2.2).

2.1/B – PROPOSTA 1
La Regione, con L.R. 15 marzo 2016, ha prescritto, per le aree di nuova urbanizzazione, i principi della invarianza idraulica e idrologica, che rispondono alle istanze di cui sopra (“…portate e volumi di deflusso meteorico scaricati dalle aree di nuova urbanizzazione… non possono essere maggiori di quelli preesistenti all’urbanizzazione…”): per gli anni a venire, in tali contesti, le acque meteoriche non saranno riversate in fognatura, ma impiegate sul posto o lasciate infiltrare nel sottosuolo. Purtroppo la legge nulla dispone per le situazioni pregresse (in alcuni Comuni la superficie impermeabilizzata copre l’80% del territorio)  ratificando in effetti una situazione tanto insostenibile da rendere impraticabili obiettivi di sostenibilità ambientale quali quelli contenuti nel Contratto di Sottobacino del Fiume Lambro Settentrionale e nel Piano Regionale Territoriale della Lombardia,  sopra riportati.
Questa emergenza deve essere tuttavia inquadrata nel quadro dei vantaggi privati e dei disagi pubblici che la caratterizzano: l’acqua che piove sul tetto di una proprietà privata o su un piazzale cittadino e viene avviata in fognatura, e non al suolo, comporta un aggravio di spesa per la sua gestione.
Per quanto sopra, in continuità con la proposta già presentata dal Gruppo Naturalistico della Brianza (federata di “Pro Natura”) in data 22 agosto 2015, alla D.G. Difesa del Suolo della Regione Lombardia, Questa Federazione Nazionale Pro Natura propone sulla base di conseguenti esigenze di equità, derivanti dall’individuazione dei costi esternalizzati e non sostenuti da imprese e privati, derivanti dall’immissione -diretta o attraverso il sistema fognario- nel reticolo idrografico superficiale delle acque meteoriche, un riconoscimento da parte della pubblica Amministrazione, comportante:
- premio (alleggerimento di alcune tariffe di esazione comunale o consortile: acquedotto-rifiuti-depurazione) per le proprietà fondiarie che consentano infiltrazione naturale delle acque di pioggia su una porzione di superficie superiore ad un minimo prefissato (ad esempio, 75% della superficie del lotto);
- tariffazione delle acque di pioggia riversate nei collettori comunali o consortili per le proprietà che consentano infiltrazione naturale delle acque di pioggia solo per una superficie inferiore a detto minimo (75%) e non siano dotate di vasche volano di raccolta e restituzione controllata o reimpiego delle acque di pioggia.
Sgravi e tariffe saranno rispettivamente proporzionate alle superfici filtranti ed impermeabilizzate dei singoli lotti e calcolate in modo da compensare i costi di costruzione e gestione delle strutture collettive di mitigazione delle piene (bacini e vasche superficiali e sotterranee, aree golenali...), i premi per le utenze virtuose, il risarcimento danni agli esondati, ecc., e non comportino aggravio per le casse pubbliche.
È opportuno rilevare come la presente proposta non possa essere configurata come una nuova tassazione, ma semplicemente come il riconoscimento dei costi, e del rischio, derivante dall’esercizio di una pratica oggettivamente inidonea al perseguimento dei comuni obiettivi alla base della convivenza civile su questo territorio, come tali riconosciuti dalla comunità scientifica e inclusi nella normativa vigente.
La rilevazione delle condizioni di applicazioni degli incentivi e delle tariffe dovrebbe essere gestita attraverso la collaborazione tra le Amministrazioni Comunali e gli enti gestori del sistema integrato delle acque. Nella vigente situazione, in attesa di una definizione normativa, è opportuno l’avvio di un sistema informativo che permetta di individuare da subito quali sono i soggetti a cui devono essere imputati i costi e quelli a cui deve essere riconosciuto un incentivo per il comportamento virtuoso già adottato. È altresì evidente che questo schema di proposta non può essere inteso come mezzo di tassazione aggiuntiva, ma auspica una situazione nella quale ogni soggetto è, anche economicamente, responsabile dell’impatto sui beni altrui e comuni.

2.2 – CORRETTA GESTIONE DELL’ACQUIFERO PROFONDO

2.2/A - LA SITUAZIONE
Le acque nel sottosuolo dell’area che dalle colline moreniche della Brianza degrada fino ai quartieri meridionali di Milano sono contenute in strati più o meno continui di ghiaia e sabbia alternati con livelli di limi e argille. Gli acquedotti della città metropolitana di Milano e della provincia di Monza Brianza prelevavano, fino ad una ventina di anni fa, quasi esclusivamente da quello che alcuni definiscono Secondo Acquifero (o Gruppo Acquifero B), per distinguerlo dal Primo Acquifero (o Gruppo Acquifero A), più superficiale.
I due acquiferi costituiscono insieme l’Acquifero Tradizionale, e sono fra di loro in collegamento idraulico, malgrado l’interposizione di straterelli limoso-argillosi (lentiformi e discontinui) che determinano una differenziazione sia nella qualità delle acque, sia nei livelli piezometrici. Infatti il Primo Acquifero è maggiormente vulnerabile da eventuali sversamenti dalla superficie; utilizzato fino ai primi decenni del secolo scorso anche per uso potabile, ne è stato escluso successivamente, per presenza di sostanze tossiche e nocive in concentrazione superiore ai valori limite consentiti. Anche il Secondo Acquifero, che si spinge fino a profondità dell’ordine dei 120 m dal piano campagna, presenta inquinamento in atto, anche se non in misura tale da pregiudicarne la potabilità.
L’Acquifero Profondo (o Gruppo Acquifero C) ad acqua dolce sta alla base del precedente: nel Nord Milano non supera i 200 m di profondità; più a sud, nella bassa pianura, mostra un andamento generale legato, oltre che alle variazioni di livello del mare e all’ubicazione degli antichi scaricatori glaciali, anche ai movimenti tettonici del Pleistocene (Quaternario antico).
Fin dalla fine del secolo scorso i livelli permeabili facenti parte dell’Acquifero Profondo sono stati oggetto di studio. Particolarmente interessante ne risultava la elevata protezione rispetto all’inquinamento antropico dalla superficie: si tratta di falde che gli autori precedenti definivano “confinate”, in grado di fornire acqua di “ottima” qualità.
Gli stessi Autori però ammonivano che: “l’utilizzazione di falde sempre più profonde non può costituire la soluzione definitiva per tutti i problemi qualitativi dell’approvvigionamento idrico. Infatti a lungo andare, approfondendo semplicemente le zone di captazione, si finirebbe con il richiamare gli inquinamenti in profondità, sia attraverso i pozzi difettosamente eseguiti, sia, attraverso i medesimi orizzonti argilloso- limosi che avrebbero pur sempre una certa permeabilità, seppure molto bassa”, soprattutto nell’estrema fascia nord della pianura.
Le acque dell’Acquifero Profondo attualmente estratte vi si sono infiltrate in condizioni geomorfologiche differenti dalle attuali (differente livello del mare, presenza di fenomeni glaciali anche nell’alta pianura, differente reticolo idrologico ecc.) e in assenza di perturbazioni di origine antropica. Esse hanno cessato di fluire al venir meno, nel corso dei millenni, della spinta piezometrica originaria.
Si tratta di acque che non rappresentavano una risorsa (come le acque contenute in un comune “acquifero” attivo come l’Acquifero Tradizionale”, ove le acque, infiltratesi anni - e non secoli o millenni - prima, sono a mano a mano rimpiazzate da acque di composizione simile a quelle prelevate), ma una “riserva” perché l’acqua eventualmente estratta non è più ricaricabile con acqua della stessa qualità.
Ovviamente l’emungimento di acqua dal sottosuolo richiama necessariamente  acqua dall’intorno.
Questo è stato verificato ad esempio a Cusano Milanino, in un pozzo perforato nel 1993 e dotato di filtri nel solo Acquifero Profondo: la concentrazione in nitrati è passata da circa 6 mg/l, nell’anno di perforazione, a circa 16 mg/l nel 2017 (Guzzi U ,2019. L’Acquifero Profondo nel Nord Milano - Raccomandazioni per un uso responsabile. L’ACQUA, 1/2019, Roma, pp.56-62). Il lento, progressivo incremento nella concentrazione dei nitrati e della salinità induce l’autore testé citato a stimare che, proseguendo il prelievo ai ritmi attuali, entro il 2050 (o prima, incrementando, come sta accadendo, il numero dei pozzi) anche l’Acquifero Profondo sarà a “rischio nitrati”, né vi saranno ulteriori risorse alternative.
Se l’acqua dell’Acquifero Profondo s’è conservata integra per migliaia d’anni per motivi stratigrafici e fisici, essa ci garantisce rispetto a gravi contaminazioni che possano avvenire in futuro in superficie, e che determinerebbero invece immediate conseguenze sull’acqua dell’Acquifero Tradizionale.
Quest’ultima considerazione toglie ogni dubbio: si tratta di un riserva. Risulta pertanto singolare che non solo questa riserva, che a ragione può essere definita “strategica”, sia stata intaccata negli anni passati, ma lo sia con rinnovata intensità negli anni in corso, ed utilizzata nelle nostre abitazioni, negli edifici pubblici e industriali, nei giardini pubblici e privati, prevalentemente (98-99 %) per uso non alimentare.
Si dilapida in tal modo un patrimonio naturale non rinnovabile, per lasciare ai nostri figli una situazione definitivamente compromessa, dove solo grossi e costosi impianti consentiranno di produrre acqua con standard di qualità comunque inferiori rispetto a quella che attualmente stiamo sperperando.

2.2/B – PROPOSTA 2
Nell’ambito e nei limiti del Contratto di Fiume del sottobacino Lambro Settentrionale, si ritiene necessario attivare tutti gli sforzi a protezione della risorsa strategica rappresentata dall’Acquifero Profondo.
In primo luogo si ritiene indispensabile e urgente evitare gli abusi e gli usi non espressamente ed esclusivamente a scopo alimentare di acqua di qualità particolarmente elevata quale è quella ancora immagazzinata nell’Acquifero Profondo.
Si deve segnalare l’assoluta carenza di attenzione relativa alla messa a disposizione degli utenti di risorse idriche alternative, di qualità meno pregiata e adatte a uso non alimentare;
Le Case dell’Acqua, ormai diffuse su tutto il territorio, alimentate esclusivamente dall’acqua dell’Acquifero Profondo, ed un Acquifero Profondo sfruttato solo per alimentazione delle Case dell’Acqua, sarebbero la risoluzione più agevole ed economica per un impiego razionale della risorsa, e garantirebbero la possibilità di rifornimento idropotabile alla popolazione in caso di superamento delle concentrazioni limite per la potabilità in qualsiasi circostanza.
Una rete parallela destinata a usi non alimentari è indispensabile in molti settori e quindi il Contratto di Fiume deve promuovere la mobilizzazione di studi e risorse in tal senso.

2.3 – RIDUZIONE DELL’INQUINAMENTO DA NITRATI
E FOSFATI DI ORIGINE AGRO-ZOOTECNICA

2.3/A - LA SITUAZIONE
Il comparto agro-zootecnico lombardo si configura come fortemente dipendente dall’importazione di mangimi, soprattutto proteici, provenienti da aree esterne al sistema. Ne consegue un apporto netto di nutrienti (particolarmente azoto e fosforo) superiore alle asportazioni; da questo dato di realtà consegue la sussistenza del problema dell’inquinamento idrico di origine agricola.
La questione è di interesse strategico per l’intero comparto agroalimentare italiano, per il quale le esportazioni dalla Lombardia di prodotti di origine animale (in particolare prodotti di carne suina e formaggi – in estrema sintesi prosciutto crudo “Parma” e formaggi tipo grana - costituiscono elemento fortemente attivo nella bilancia commerciale. Il problema si pone anche all’interno dell’area del sottobacino del Lambro, anche se non raggiunge il parossismo registrato nella bassa pianura centro orientale (province fi BG, CR BS e MN). Tuttavia elementi di preoccupazione sono rilevati a carico dei valori di azoto e di fosforo, come segnalato in sede di assemblea del Contratto di Sottobacino Lambro settentrionale dal dottor Gianni Tartari.
In merito ai nitrati si ritiene opportuno definire il quadro normativo e procedurale che caratterizza l’attuale fase: il Programma d’Azione Regionale Nitrati per la tutela e il risanamento delle acque dall’inquinamento causato da nitrati di origine agricola per le aziende localizzate in Zone Vulnerabili, prevede una procedura di VAS (Valutazione Ambientale Strategica). Per il triennio 2016-2019 la prima Conferenza di Valutazione con presentazione del documento di “Scoping” si è tenuta il 19 giugno 2015.  L’obiettivo dei criteri e delle norme tecniche per l’utilizzazione agronomica degli e.a. (effluenti agricoli) definiti dal PdA è quello di contribuire a realizzare la maggior protezione delle acque dall’inquinamento da nitrati, attraverso una più attenta gestione del bilancio dell’azoto.
Nei documenti sottoposti alle osservazioni, oltre agli apporti naturali (legati al ciclo dell’azoto), sono stati presi in considerazione, come attuali ulteriori contributi alla quantità totale di azoto nell’ambiente: apporti zootecnici; apporti da fanghi di depurazione e compost; apporti da fertilizzanti chimici; apporti da fitofarmaci e diserbanti contenenti azoto o azo-composti; apporti puntiformi da insediamenti civili; apporti industriali.
Si rileva che tra le fonti significative di apporto di azoto nell’ambiente proposte non è quantificato l’apporto atmosferico sotto forma di precipitazioni umide e secche. Diversi indizi suggeriscono che tale apporto è tanto significativo da poter modificare la VAS.
I dati che seguono sono stati estrapolati da registrazioni effettuate alla stazione di Brugherio, interna all’area del sottobacino in questione (12 km a NE del centro di Milano).
Considerando, per comodità di calcolo, una piovosità indicativa di 1.000 mm/anno, avremo un volume annuo di precipitazione umida unitaria pari a 1.000 l/mq per anno. Come valore di riferimento è stato scelto il tuttora vigente limite di 170 kgN/ha per anno da e.a. distribuibili sui terreni agricoli in Zona Vulnerabile ai Nitrati. Questo parametro è infatti utilizzato come discriminante nell’Allegato n. 10 (marzo 2006) alla Relazione Generale del PTUA (Programma di Tutela e Uso delle Acque): Definizione delle zone vulnerabili da nitrati di origine agricola e da prodotti fitosanitari. In sintesi risulta che:
  a - l’Azoto Totale Inorganico (TIN) riscontrato nelle sole deposizioni umide a Brugherio è stato misurato in circa 173 μeqN/l (Tagliaferri A., Di Girolamo F., Tartari G., Elli M., 1995. New-type forestry damage and wet deposition in Lombardy. Agr. Med. Special Volume, pp.266-277 ). Questo valore, considerando il peso atomico dell’azoto (14,0067 u = g/mol), equivale a circa 2.423 μgN/l; pertanto, in un anno, dalle sole precipitazioni umide, l’apporto di azoto all’ambiente corrisponde a 2,4 gN/mq (quindi 24 kgN/ha all'anno). Si tratta di un contributo non trascurabile, essendo pari a circa il 14,3% del limite di 170 kgN/ha per anno;
  b - ripetendo il calcolo con dati ottenuti con altre due diverse, modalità di campionamento, che prendono in considerazione sia la precipitazione umida sia quella secca (Tartari G., Consuma A., Balestrini R., Valsecchi S., Camusso M., 1995. Total atmospheric deposition measurements using an innovative dry deposition sampler (Life Chemistry Reports, vol.3, Malaysia, pp. 159-175), si giunge a valori pari a 157 μeqN/l e 285 μeq/l, corrispondenti rispettivamente a 35,6 kgN/ha per anno (pari al 20,9% del limite di riferimento) ed a 56 kgN/ha per anno (con ulteriore incremento al 32,9% del limite di riferimento);
  c – i valori sopra citati non sono rigorosamente omogenei sul territorio, come confermato da altre stazioni di Lombardia e limitrofe;
  d – l’influenza dell’apporto in azoto delle deposizioni umide e secche sulle acque sotterranee è confermata da un’indagine eseguita su sorgenti non interessate da contaminazione antropica in aree naturali di collina e media montagna (Guzzi U., 2003. Nitrati nell'acqua delle sorgenti del Triangolo Lariano (CO) e composti dell'azoto nelle deposizioni atmosferiche. Acque Sotterranee, 85, Segrate, MI. Pp. 9-24). Lo studio evidenzia la diminuzione della concentrazione in nitrati nell'acqua delle sorgenti allontanandosi dall'area origine della contaminazione: Milano e la sua conurbazione.
In sintesi possiamo dire che l'azoto contenuto nelle sole precipitazioni atmosferiche (secche ed umide) apporta al suolo un contributo compreso fra 24 e 56 kgN/ha per anno. È il caso di ricordare ancora una volta che il limite dettato dalla normativa è di 170 kgN/ha per anno, senza dimenticare che Regione Lombardia ha chiesto e ottenuto dalla Commissione Europea di poter derogare a questo limite.
Non si ritiene che alla luce della situazione attuale, in parte minima illustrata e descritta, tale deroga rappresenti un reale vantaggio per gli scopi del Contratto di Sottobacino Lambro Settentrionale e neppure per il settore agricolo che si intende favorire. Per quanto riguarda gli apporti nutritivi di azoto e fosforo si è spesso autorevolmente affermata la convinzione che una migliore gestione dei suoli per ottimizzare le risorse nutritive non può prescindere dalla riduzione dello spargimento di nutrienti oltre il limite di utilizzazione. A questo riguardo giova ricordare che il carico di nutrienti dei suoli lombardi è oggetto di una pubblicazione dell’Unione Europea: “Buone pratiche per ridurre la perdita di sostanze nutritive in Lombardia (https://ec.europa.eu/environment/water/water-nitrates/pdf/leaflets/Leaflet_Lombardy_IT.pdf ).
Le indicazioni contenute in questa in pubblicazione sono in larga misura inapplicate e spesso neppure note agli imprenditori agricoli.

2.3/B – PROPOSTA 3
Il Contratto di bacino del fiume Lambro Settentrionale deve contenere un impegno esplicito da parte dei contraenti a:
- integrare con gli apporti atmosferici quelli provenienti da effluenti di origine zootecnica, fanghi di depurazione, fertilizzanti, fitofarmaci, ecc., pur mantenendo la soglia limite di 170 kgN/ha per anno, con evidente necessità di operare una ulteriore riduzione dei quantitativi concessi agli apporti non naturali;
- rigettare la proroga a derogare oltre il limite di 170 kg/ha di azoto concessa alla Regione Lombardia dalla UE e ratificata con Decreto N. 5403 Del 10/06/2016 della Direzione Generale Agricoltura.
Al contempo il Contratto di bacino s’impegni a sostenere le misure prefigurate dall’Unione Europea nel leaflet citato, in particolare promuovendo:
- il miglioramento delle misure di stoccaggio dei reflui zootecnici;
- lo sviluppo di piani di concimazione per tutti  i terreni agricoli;
- promuovendo (e promuovendo i controlli) modalità di smaltimento appropriate;
- l’utilizzo di colture intercalari di copertura.
Si ritiene inoltre che, come richiesto da alcune associazioni di categoria, la sostenibilità dei nostri sistemi agricoli non possa prescindere dalla reintroduzione nei sistemi colturali  di colture proteiche ora abbandonate (pisello proteico, trifogli, …) che sottraggano la zootecnia dalla dipendenza di fonti alloctone, riequilibrando l’equilibrio tra i terreni coltivati e il carico zootecnico. Dette misure, da sole comunque inadeguate, potrebbero sollecitare una maggiore consapevolezza del problema.

ILVA di taranto: un caso locale e globale

Riccardo Graziano

Il caso dell’Ilva di Taranto è un perfetto paradigma di come troppo spesso il diritto al lavoro e il diritto alla salute vengano artificiosamente contrapposti per privilegiare i profitti. Ovvero di come gli interessi di pochi vengano anteposti al bene comune dei molti, non di rado con la complicità di ampi settori delle istituzioni e del sistema mediatico. Tuttavia, c’è chi si oppone con fermezza agli abusi di un sistema economico deviato e insostenibile, nel quale multinazionali senza scrupoli decidono di sacrificare territori e popolazioni in nome di uno “sviluppo” che ormai non è più tale sotto nessun aspetto, né sociale né economico, anzi impone pesanti costi e ricadute sulla salute delle persone e sull’ambiente.
L’opposizione allo strapotere economico diventa una rete di contatti e di persone che, pur a volte lontanissimi tra loro, scoprono di essere in ugual modo vittime di un sistema produttivo insensato, autoreferenziale, che spesso si regge solo grazie a sovvenzioni pubbliche e interventi legislativi ad hoc, che mirano a tutelare gli interessi del Capitale, mascherandoli con la scusa di salvaguardare posti di lavoro. Ma dopo gli anni ruggenti della globalizzazione incontrollata dell’economia, pian piano sta ora crescendo la globalizzazione della protesta verso le storture e i danni di questo sistema economico. Una protesta, appunto, che mette in contatto persone e comunità distanti fra loro, ma con una lotta comune da portare avanti. In questo modo si creano legami indissolubili e tenaci che, nel caso in questione relativo all’industria siderurgica, possono ben essere definiti “Legami di ferro”, esattamente il titolo del libro di Beatrice Ruscio (edito a cura di PeaceLink e il cui costo di 10 euro va a sostegno della campagna di informazione) che ci racconta i dettagli della vicenda, facendoci scoprire connessioni insospettate e allargando gli orizzonti dal caso specifico alla globalità.

Le vicende del colosso industriale tarantino sono state a lungo sotto i riflettori nel periodo in cui, a causa delle emissioni nocive che rilasciava in atmosfera, la fabbrica è stata posta sotto sequestro dalla Magistratura, per essere immediatamente dissequestrata con decreto urgente del Governo di allora, in quanto ritenuta sito di interesse nazionale strategico. Vale la pena entrare nel dettaglio, perché è quello il momento in cui la vicenda Ilva travalica i confini di Taranto e della Regione Puglia per diventare, appunto, una questione nazionale. Già nel 2008 la Regione aveva vietato il pascolo in un raggio di 20 chilometri dalla fabbrica, a causa della contaminazione da diossine e PCB (entrambi composti persistenti e cancerogeni) di terreni e bestiame. Fin da allora era parsa chiara la responsabilità dello stabilimento Ilva per il pesante inquinamento che interessava l’area di Taranto, sia sulla terraferma che nelle acque prospicienti, in particolare il Mar Piccolo. Ma invece di intervenire con provvedimenti severi che imponessero alla proprietà di sanare la situazione, i vari Governi iniziano a varare misure che consentono allo stabilimento di proseguire le attività nonostante i rischi per la salute.
Si comincia con l’Esecutivo capeggiato da Berlusconi il 4 agosto 2011, quando l’allora ministro dell’Ambiente (sic), Stefania Prestigiacomo, firma il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), sottoscritto anche da Regione ed Enti locali, che consente la prosecuzione delle attività purché vengano messe in atto 462 (!) prescrizioni volte a migliorare la sicurezza ambientale. Ma per carità, senza fretta, diamo pure qualche annetto di tempo, tanto l’inquinamento se lo respirano i tarantini, mica i parlamentari. In pratica, si certifica che l’Ilva può continuare a produrre inquinando, anziché imporre l’immediata messa in sicurezza o meglio ancora la totale riconversione produttiva. L’AIA prevede anche un cronoprogramma degli interventi, che naturalmente non viene rispettato, perché ovviamente la messa in sicurezza è un costo che va a erodere i profitti, che sono l’unica cosa che conta per la proprietà. E poi perché tanto si sa che lo Stato impone dei provvedimenti, ma poi mica si mette a controllarle se vengono attuati davvero.
Però ci pensa la Magistratura, con il Gip di Taranto che nel luglio 2012 pone sotto sequestro gli impianti, a causa dell’inadempienza aziendale rispetto alle prescrizioni stabilite. Ma ecco che il Governo, assopito quando doveva controllare la messa in atto dei provvedimenti, si risveglia efficientissimo quando lo stabilimento viene bloccato e provvede in un lampo a convertire in legge un apposito decreto salva-Ilva, che concede all’azienda altri 3 anni per adempiere all’80% delle prescrizioni iniziali. Inutile dire che anche stavolta le norme vengono sistematicamente violate, tanto c’è sempre pronto un nuovo decreto salva-Ilva, veloce e tempestivo come raramente accade nella legislazione italica.
Qualcuno ne ha contati ormai nove, di questi decreti. Non male, per uno stabilimento che ha appestato le campagne tarantine a tal punto da dover abbattere gli animali da pascolo e distruggere i prodotti dell’industria lattiero-casearia, compromettendo irrimediabilmente questo settore. Analogamente a quanto è accaduto per le colture di mitili e l’attività di pesca nelle acque del Mar Piccolo, a causa delle concentrazioni di sostanze tossiche ben superiori ai limiti di legge rilevate negli organismi marini, a loro volta eliminati perché insalubri per il consumo. Attività lavorative cancellate che evidentemente non sono mai entrate nel computo dei costi e benefici da valutare per decidere se tenere in vita una produzione che a sua volta compromette la vita delle persone.
È imperativo evidenziare, infatti, che gli effetti di questo inquinamento sono ormai ben noti a livello epidemiologico. Diossine e PCB sono composti di sintesi altamente tossici, persistenti e bioaccumulanti. Significa che non vengono distrutti dai processi metabolici, dunque risalgono la catena alimentari accumulandosi nei predatori primari, compreso l’uomo, in quantità assolutamente nocive per la salute, specie in relazione alla massa corporea. Ne consegue che i più esposti sono i bambini, che rischiano di assorbire queste sostanze tossiche fin dai primi giorni, perché sono state individuate anche nel latte materno. Perfino con l’atto più amorevole e naturale, una madre rischia di intossicare il figlio a causa dell’inquinamento ambientale in cui entrambi sono costretti a vivere da interessi economici ingiustificabili.
L’incidenza di queste sostanze tossiche è lampante anche sotto il profilo sanitario, in particolare oncologico, con le evidenze cliniche che denunciano “una mortalità per gli uomini in eccesso per tutte le cause – come evidenziato da uno studio epidemiologico riportato nel libro di Beatrice Ruscio – tutti i tumori (inclusi tumore del polmone e della pleura), le demenze, le malattie del sistema circolatorio […] respiratorio […] digerente […] “. Anche la mortalità infantile a Taranto è superiore alla media regionale e nazionale, in particolare nelle zone limitrofe agli impianti, come l’ormai tristemente famoso quartiere Tamburi e gli insediamenti limitrofi dei quartieri Paolo VI e Statte.
Insomma, è noto senza ombra di dubbio che a Taranto le persone, compresi i più piccoli, si ammalano e muoiono più precocemente che altrove in Italia a causa dell’inalazione delle polveri ferrose e degli altri inquinanti che continuano a provenire dall’Ilva. Ma non si interviene in maniera efficace per scongiurare questo pericolo, neppure ora che la proprietà è passata di mano, manco a dirlo, a un’altra multinazionale, che a sua volta non sembra essere molto sensibile ai danni sanitari e ambientali causati dalle sue produzioni in giro per il mondo.

Parte II
Dopo le vicissitudini della proprietà Riva, quando per anni l’Ilva ha prodotto un inquinamento ben superiore ai limiti di legge, nonostante blocchi e commissariamenti, l’acciaieria di Taranto è stata infine acquisita dal gruppo indo-francese ArcelorMittal, dopo una trattativa complessa, nella quale l’abbattimento delle emissioni inquinanti era uno dei punti centrali. Dunque, non è un caso se in questi giorni si è aperta una nuova crisi per l’azienda proprio su questo tema.
Nello specifico, a provocare lo strappo è stata la questione dell’immunità civile e penale che finora veniva garantita alle figure apicali (prima i commissari, oggi i vertici aziendali) per evitare loro di incorrere in reati ambientali nel periodo di transizione necessario ad attuare le prescrizioni anti-inquinamento. Ma l’attuale Esecutivo ha deciso di abolire questo trattamento di favore, probabilmente per evitare che questa garanzia di impunità inducesse a un minor impegno nell’attuare le disposizioni governative. Quindi un modo per “incentivare” i responsabili ad adottare velocemente le misure atte a salvaguardare l’ambiente e la salute dei cittadini, cosa che forse si poteva ottenere anche con uno stretto controllo sull’attuazione del cronoprogramma degli interventi, sanzionando le eventuali inadempienze contrattuali.
È possibile che sulla decisione del Governo abbia pesato negativamente la sistematica violazione dei tempi e delle normative da parte delle gestioni precedenti, fatto sta che i vertici della multinazionale hanno colto l’occasione per decidere il ritiro dall’accordo, ufficialmente proprio per questo strappo sulle tematiche ambientali. Ma potrebbe esserci dell’altro, perché il mercato dell’acciaio è in crisi in tutto il mondo, dunque questa potrebbe essere almeno in parte una scusa per abbandonare uno stabilimento che in realtà avrebbe anche qualche problema di sostenibilità economica. Per valutare correttamente il peso dei due fattori, economico e ambientale, in questa vicenda, occorre però ampliare lo sguardo oltre le ciminiere dello stabilimento pugliese, osservando la questione in un’ottica globale.
Perché purtroppo la storia di Taranto non è un unicum. Nel suo libro-inchiesta “Legami di ferro”, Beatrice Ruscio dedica ampio spazio a ricollegare la vicenda della città jonica con quella di Piquià de Baixo, popoloso insediamento della selva brasiliana originariamente circondato da una vegetazione rigogliosa, oggi colonizzato dall’industria siderurgica e ribattezzato Pequia, acronimo che sta per “Polo Petrol-Quimico de Acailandia”, il petrolchimico della terra dell’acciaio. Il minerale di ferro che pervade aria, strade e polmoni dei cittadini di questo sito (per noi) remoto è lo stesso che viene esportato a Taranto, le lavorazioni sono analoghe, la produzione di sostanze tossiche e l’impatto sulla popolazione e sull’ambiente anche.
Due comunità geograficamente distanti hanno scoperto di essere unite da uno stesso destino atroce, che si ripete in molte, troppe zone del globo: quello di essere scientemente e cinicamente sacrificate da un sistema produttivo che, in nome di uno “sviluppo” assiomatico - che si sovrappone al mero interesse economico - condanna determinati luoghi e popolazioni a pagare i costi di un modello produttivo obsoleto e insostenibile. Un’oscenità immorale sotto il profilo etico, un’ingiustizia sotto quello sociale, un disastro dal punto di vista ambientale e, come se non bastasse, non conveniente sotto l’aspetto economico.

Abbiamo già detto [nella prima parte di questo articolo] come a Taranto la stessa fabbrica che “garantisce” alcuni posti di lavoro nella siderurgia (peraltro sottoponendo i dipendenti a rischi sanitari inaccettabili) ne abbia in realtà cancellati innumerevoli altri nell’agricoltura, nella pastorizia, nel settore ittico e in quello della trasformazione degli alimenti, discorso che vale anche per tutte le altre comunità sparse per il globo che subiscono gli effetti di produzioni inquinanti o più in generale non ambientalmente sostenibili. Ma c’è dell’altro.
Nella prefazione al libro “Legami di ferro”, Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, sottolinea l’insensatezza di un sistema economico che pullula di storture, compreso un settore siderurgico con una capacità produttiva di 1,8 miliardi di tonnellate/anno a fronte di una domanda di sole 1,5 tonnellate. Quindi un settore che è strutturalmente in sovrapproduzione e che conseguentemente sovra sfrutta le risorse e produce ancora più inquinamento di quanto sarebbe “necessario” per soddisfare la domanda ordinaria. Dunque un settore che, analogamente a molti altri, a partire da quello cementiero-edilizio, ha la necessità di implementare artificiosamente la domanda.
Come?
Per esempio sostenendo l’indispensabile e strategica necessità di nuove infrastrutture e “Grandi Opere”. Guarda caso, esattamente la ricetta che ci viene propinata ciclicamente e da tempo immemore da Governi di diverso colore e da gran parte del sistema mediatico che influenza il pensiero della cosiddetta “opinione pubblica”, inducendoci a pensare che non esista alternativa all’attuale sistema economico-produttivo. E che dunque ci si debba rassegnare ai suoi effetti collaterali, anche quando incidono sulla salute delle persone e sulla salvaguardia dell’ambiente, pena la perdita dei posti di lavoro.
È esattamente la forma di ricatto che da sempre viene imposta ai cittadini di Taranto, costretti a scegliere se subire un inquinamento gravemente lesivo per la loro salute, o rischiare di veder chiudere la fabbrica e perdere migliaia di posti di lavoro. Senza mai prendere in considerazione due alternative perfettamente praticabili, anche se non semplicissime. La prima, continuare a produrre utilizzando tutti gli accorgimenti possibili per abbattere l’inquinamento, da porre in essere il prima possibile, anche se ciò dovesse comportare la riduzione o il fermo temporaneo della produzione, cosa che ovviamente inciderebbe sugli utili aziendali, ma la salute delle persone deve avere la precedenza.
La seconda, di pensare di riconvertire completamente la fabbrica, visto anche il surplus produttivo esistente nel mercato dell’acciaio, superiore alla domanda effettiva. Tanto per fare un esempio, un settore in rapida crescita è quello delle batterie per la trazione di auto elettriche, comparto nel quale in Italia (ed Europa) al momento regna un vuoto cosmico. È solo un esempio, naturalmente. Ma occorre anche tenere conto dei posti di lavoro che potenzialmente potrebbero essere recuperati in agricoltura o nel settore ittico, quelli cancellati a causa dell’inquinamento ambientale, ma che potrebbero essere ripresi se si risana il territorio. Purtroppo, nei conteggi di certa politica, imprenditoria e informazione pubblica, gli unici posti di lavoro che vengono presi in considerazione sono quelli della fabbrica. Una visione obsoleta, in un mondo di fatto già post industriale, eppure ancora largamente dominante, così come l’idea che in nome dei posti di lavoro si possa anche inquinare e mettere a rischio la salute delle persone.

Ma nel mondo continua a crescere un movimento, una rete di persone sempre più consapevoli che il diritto al lavoro non deve entrare in conflitto con il diritto alla salute e che non accetta più passivamente vecchie tesi volte a giustificare un modello produttivo insostenibile, difeso a oltranza dalle classi dominanti in nome dei loro guadagni. Persone che hanno compreso l’urgente necessità di ripensare radicalmente l’attuale paradigma economico e produttivo in un’ottica di sostenibilità. La storia di alcune di queste persone e comunità, che non si rassegnano a essere vittime di un sistema produttivo malato e si battono per un nuovo modello di sviluppo, è quella che ci racconta con empatia e partecipazione Beatrice Ruscio nel suo libro, annodando “Legami di ferro” sottili ma tenaci fra Piquià de Baixo e Taranto.

Per approfondimenti e aggiornamenti:
www.peacelink.it
www.legamidiferro.eu
www.beatriceruscio.eu

Tempesta sulla duna di Feniglia

Una delle più belle pinete italiane è stata danneggiata dal tornado del 16 novembre

Gianni Marucelli

Nella notte tra il 16 e il 17 novembre 2019, proprio nelle ore in cui il maltempo determinava una situazione di emergenza a Venezia e in altre zone d'Italia, un vero e proprio tornado si è abbattuto sulla Riserva Naturale della Duna di Feniglia (Orbetello), devastando quella che è considerata da molti una delle più belle pinete del nostro Paese.
Le riprese effettuate da un drone mostrano un triste spettacolo, divenutoci ormai da qualche anno familiare in conseguenza degli eventi estremi provocati dai cambiamenti climatici: grandi alberi divelti dalle radici o stroncati a metà dalla violenza del vento, i cui tronchi giacciono a terra, l'uno sull'altro, in una sorta di gigantesco gioco dello Shangai, che avevamo veduto, in scala assai più ampia, sulle Alpi tridentine e venete colpite dalla tempesta Vaia dell'ottobre 2018, oppure, qualche anno fa ed ancora in Toscana, nella splendida Foresta di Vallombrosa, in cui furono abbattute dal vento decine di migliaia di conifere (douglasie e abeti bianchi, in prevalenza).
Rispetto a questi due disastri, i danni nella pineta di Feniglia sono limitati: un migliaio circa di alberi d'alto fusto divelti o stroncati, più, naturalmente, il relativo sottobosco. Per le limitate dimensioni di questa pineta di pino domestico, però, si tratta di una ferita assai grave, che richiederà decenni per essere sanata.

La Duna di Feniglia è il cordone di terra, o tombolo, che delimita a sud la Laguna di Orbetello, una zona umida di primaria importanza sulle coste della Toscana; l'altro tombolo “gemello”, a nord, è quello della Giannella. Ambedue collegano il promontorio dell'Argentario al litorale tirrenico.
Più di tre secoli fa, su queste spiagge fu trovato, morente, uno dei più grandi interpreti della pittura italiana d'ogni tempo, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, abbandonato dalla barca da pesca che doveva condurlo sulle coste laziali.
Se questo evento è conosciuto da molti, assai meno risaputo è che, in quell'epoca, i due tomboli dovevano essere solo cordoni di sabbia coperti di vegetazione in prevalenza arbustiva, ossia lentisco, erica, fillirea, rosmarino, ginepro e altre specie tipiche della macchia mediterranea, con presenza di lecci, sughere, roverelle e ornielli in varie proporzioni. Per secoli la popolazione locale esercitò su questa zone i diritti collettivi di pascolo, legnatico, caccia e un po' di pesca, finché il Comune, a inizio Ottocento, non la vendette a privati, che la sfruttarono così intensamente da ridurla, in pochi decenni, a una landa spoglia, le cui sabbie minacciavano di interrare l'adiacente laguna.
Il pericolo di mandare in malora la fiorente attività di pesca in laguna, e il diffondersi della malaria, furono avvertiti dall'Amministrazione comunale di Orbetello, che decise di provvedere a consolidare, con il rimboschimento, la duna deserta. Ma l'opera era parecchio costosa, e nell'ultimo decennio del secolo XIX si decise di ricorrere all'autorità dello Stato, che, agli albori del nuovo secolo,emanò un'apposita legge (22.3.1900 n.195), demandando all'Amministrazione forestale il compito di eseguire i lavori; questa stilò un progetto che venne inizialmente finanziato con £ 262.000, un importo più o meno pari a un milione di euro.
Fu necessario, prima, procedere all'esproprio dei terreni privati, e solo nel 1913 fu possibile iniziare il lavoro.
Non fu affatto semplice, né banale, realizzare opere in graticciato per fermare lo smottamento delle sabbie, e poi, utilizzando le stesse, costruire una specie di cordolo a difesa delle superfici interne; nelle quali si sarebbero in seguito realizzate altre graticciate parallele alla prima, ed altre ancora, ad esse ortogonali, così da creare un reticolo fitto entro il quale seminare e far crescere il bosco. Il tutto per un fronte assai vasto, di circa 5 km, e per una profondità variabile da 500 metri a più di un chilometro.
Esistono ancora rare foto, scattate tra il 1912 e il 1928, dove è possibile apprezzare la desolazione del tombolo di allora, sul quale le piante originarie erano quasi del tutto scomparse.
Per il rimboschimento vero e proprio furono necessari circa 28 anni (terminò più o meno all'inizio del secondo conflitto mondiale): molte specie furono impiegate per “fissare” le dune (ginepro, lentisco, tamerice, euforbia, psamma, canna palustre, ecc.), altre per creare il bosco vero e proprio (pino domestico in prevalenza, ma anche pino marittimo, acacia, cipresso, olmo, pioppo canadese). L'impianto ebbe successo, ed al giorno d'oggi le piante sopravvissute al tornado hanno un'età che varia dai 75 ai 100 anni. Il sottobosco è abbondante e vigoroso, e in esso prospera una ricca fauna costituita da ungulati (daini, caprioli, cinghiali), istrici, lepri, scoiattoli, ghiri, svariati tipi di uccelli (quelli palustri, tra cui il cavaliere d'Italia, ovviamente dal lato della laguna).

Una strada sterrata, su cui è consentito l'accesso solo ai mezzi di servizio, percorre da un capo all'altro la Riserva, fiancheggiata da una serie di sentieri che permettono di andare dal mare alla laguna e viceversa. La spiaggia è libera, vi sono solo un paio di bagni organizzati, così come è libero l'accesso alla Riserva; passeggiare in quest'area boscosa e pianeggiante, col rumore della risacca dal mare e i richiami delle anatre dalla laguna,  per noi rappresenta una delle esperienze più rilassanti che sia dato vivere!
Dopo la tempesta, la priorità è senz'altro quella di rimuovere le piante cadute, per evitare che i tronchi diventino dimora di parassiti che attaccherebbero quelle ancora sane. Si dovrà quindi procedere a ricomporre il tessuto arboreo, ma per quello ci vorrà tempo e pazienza!

Requiem per il ghiacciaio del Lys

Toni Farina

Mi dicono che si vede da Milano, il Monte Rosa. E allora mi chiedo se i milanesi nella loro ansia quotidiana trovano il tempo per uno sguardo, un fuggevole sguardo, a quell’orizzonte di luce.
Tempo che invece trovano quanti passeggiano tranquilli in quel frammento di brughiera fra Romagnano Sesia e Fontaneto d’Agogna. Brughiera denominata Baraggia del Piano Rosa in omaggio a quella stessa montagna che qui fa capolino fra farnie e betulle.
Una montagna che talvolta rosa lo è davvero. Capita in certe albe d’inverno, quando il primo sole esce dalla foschia della pianura. Sale piano sull’orizzonte, laggiù a oriente, furtivo quasi, per non infrangere la notte con troppa violenza. E sulla montagna cala la luce, come un vestito.

Monte Rosa, monte dei ghiacciai
Il Monte Rosa che chiude l’orizzonte a settentrione è un’immagine iconica della pianura piemontese. Il riflesso della montagna nelle vasche di risaia è utilizzato a piene mani come promo turistico delle Terre d’Acqua. “Dal riso al Rosa” è lo slogan. Il valore aggiunto sta nel contrasto cromatico fra il candore “perenne” della montagna e il verde dei campi. Ma, come ben sanno gli esperti e gli abitanti delle sue valli, nel toponimo il cromatismo non c’entra, ma l’origine va cercata nel ghiaccio, nei ghiacciai. (“rosa” dal patois valdostano rouése, che significa ghiacciaio). Monte dei ghiacciai quindi, in omaggio alle estese colate glaciali che ne rivestono i versanti. Grandi plateau in alto, immani cascate di seracchi che precipitano nelle valli del versante italiano.
Uno spettacolo di potenza. Che rischia non avere molti anni di replica. I glaciologi parlano di tempi brevi, qualche decennio. Il tempo di una generazione. Poi di quelle cascate di seracchi rimarrà il ricordo, rinvigorito dalle immagini. Byte nella memoria dei dispositivi digitali.
La previsione si basa sulla rapidità con cui le colate glaciali hanno lasciato i fondovalle per ritirarsi in alto, sui salti che separano dai plateau sommitali. Trent’anni: è questo il tempo che il Ghiacciaio del Lys, nella valle omonima, o Val di Gressoney, ha impiegato ad arretrare di molti chilometri e centinaia di metri di dislivello, lasciando in sua vece due immani morene ed estesi laghi di colore azzurro-ghiaccio.
Trent’anni fa si arrivava comodamente in un’ora e mezza di cammino alla bocca del ghiacciaio dalla quale usciva il torrente. La sorgente del Lys era una passeggiata classica dalla località Staffal di Gressoney.

Requiem per un ghiacciaio
Titolo un po’ macabro ma efficace per una sorta di cerimonia semi-funebre che ha interessato nel week end 27-29 settembre sei località dell’arco alpino, dal Monviso al Montasio, in Friuli. Venerdì 27 è stato il turno del Ghiacciaio del Lys, in Valle di Gressoney, nel massiccio del Monte Rosa.
Scopo dell’iniziativa, sensibilizzare l’opinione pubblica, in Italia piuttosto distratta, su un fenomeno rapido e allo stesso tempo epocale che sta cambiando il volto della montagna. Ma che riguarda direttamente i cittadini della pianura, fruitori del paesaggio alpino ma soprattutto di quel servizio ecosistemico che va sotto il nome di “acqua”. L’iniziativa ha avuto il suo esordio in Islanda, e di lì è passata alle Alpi.
Perché il global warming non risparmia nessun angolo del pianeta. Non solo: le montagne e le calotte polari sono i siti più coinvolti, dove l’impatto è più evidente.
In Italia la manifestazione è stata organizzata da Legambiente in collaborazione con Cinemambiente e Dislivelli. Molte le adesioni e fra queste Mountain Wilderness.
Venerdì 27 in Valle di Gressoney una giornata luminosa ha accompagnato gli oltre 100 partecipanti ai 2400 metri del punto convenuto: la Sorgente del Lys. Per molti di loro si trattava della prima volta al cospetto di quello scenario. Ma molti altri, memori del recente passato, osservavano attoniti il Torrente Lys uscire non più da una grotta glaciale ma da un lago circondato da detriti morenici.

Gli interventi
Apertura d’obbligo per Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi Legambiente, che ha spiegato le ragioni dell’iniziativa. Michel Isabellon, Arpa Aosta, e Michele Freppaz dell’Università di Torino si sono incaricati del supporto scientifico.
Non sono mancati momenti di coinvolgimento emotivo. Le note del corno delle Alpi, suonato da Martin Mayes, una toccante e austera “sinfonia” per il ghiacciaio dolente. Le parole di Davide Camisasca, guida alpina ed eccelso fotografo del Monte Rosa. La sua è stata un’autorevole testimonianza del tempo passato, quando il vigore del ghiacciaio rendeva la montagna più accessibile, meno insidiosa. Il tono delle sue parole tradiva intensa emozione.
Intorno al gruppo si assiepavano i tecnici di emittenti televisive, segno tangibile di un interesse mediatico per l’evento.

I ghiacciai fanno notizia
Un contributo è giunto dalla concomitanza con il possibile crollo del Ghiacciaio di Plampincieux, sul versante italiano delle Grandes Jorasses (la sinergia montagna-sciagura funziona sempre). Ma l’eco mediatica della manifestazione-cerimonia in Val di Gressoney ci sarebbe stato comunque. Segno che il problema è avvertito come tale.
Il rischio “polvere sotto il tappeto” però esiste. Dopo l’ennesima estate da record, con l’avanzare dell’autunno lo zero termico scenderà finalmente di quota. L’inverno poi (si spera) porterà neve, pietoso sudario per i ghiacciai sofferenti. E insieme alla neve calerà anche l’oblio. Sui ghiacciai sofferenti e sul climate change. A Greta, ai “suoi ragazzi” e a tutti noi il compito di tener deste le coscienze. In attesa della prossima estate rovente.
Nelle lunghe serate invernali possiamo esercitaci a pensare un nuovo nome per il Monte Rosa. Senza ghiacciai…

Come Greta ha portato noi giovani a batterci per la giustizia climatica

La nascita del più giovane movimento per l’emergenza climatica e i punti di con-tatto e azione con la più antica associazione per la difesa dell’ambiente in Italia.

Gaia Bottazzi e Pietro Furbatto

Era il 20 agosto del 2018 quando Greta Thunberg, una ragazzina svedese di 15 anni, si è seduta per la prima volta davanti al Parlamento svedese a Stoccolma esibendo il cartello “Skolstrejk för klimatet”, ovvero “sciopero scolastico per il clima”. Da lì il suo attivismo è stato capace di smuovere coscienze in stallo da decenni o che mai prima di quel momento si erano poste il problema del cosiddetto riscaldamento globale, termine al quale gli attivisti preferiscono emergenza climatica o crisi climatica per passare dalla constatazione della situazione all’azione imposta dall’emergenza nella quale viviamo. Si tratta di parole forti che rendono giustizia a un fenomeno globale drammatico e urgente, troppo spesso negato.
Peccato che le conseguenze del fenomeno che i leader mondiali negano e deridono siano già percettibili in modalità che non lasciano spazio a fraintendimenti e a parole morbide e diplomatiche. Per fare due esempi, in Mozambico poco più di due mesi fa è stata quasi rasa al suolo dal ciclone Idai la seconda città più popolosa del paese, Beira, provocando una devastante crisi umanitaria mentre la scorsa estate si è registrato un picco spaventoso nel tasso di incendi in Europa e Stati Uniti. Gli effetti e la concentrazione dei cataclismi degli ultimi anni, che nel 2018 hanno colpito 61,7 milioni di persone anche in Italia, introducono la necessità di interrogarsi e riflettere su una nuova questione, quella della giustizia climatica.
Chi è che paga davvero i danni dell’emergenza climatica? Se è vero che i paesi industrializzati occidentali e non sono i principali responsabili del surriscaldamento globale e della crisi degli ecosistemi,  è ugualmente vero he i paesi che ne pagano le conseguenze sono per la maggior parte i paesi poveri e in via di sviluppo. Questi sono più vulnerabili in quanto non hanno le risorse sufficienti per mitigare e adattarsi sia ai cambiamenti di lungo corso che agli effetti più violenti dell’emergenza climatica: i cataclismi. Allo stesso modo, all’interno di un paese sono le classi sociali più svantaggiate a subire gli effetti dell’inquinamento sulla salute e la qualità della vita.
Sulle orme di Greta, il movimento FFF si sviluppa a partire da una collettiva e graduale presa di coscienza dell’attuale situazione di ingiustizia climatica, unita ad un senso di sdegno verso un sistema di produzione fondato su sfruttamento, maltrattamento, produzione intensiva e sprechi. Rispetto all’associazionismo tradizionale, visto dai giovani come distante dal loro modo di comunicare e agire, l’elemento innovativo del movimento, in cui risiede la chiave del suo successo globale, è costituito dalla sua intrinseca spontaneità: le proteste di Greta hanno innescato una reazione a catena capace di coinvolgere persone provenienti da tutto il mondo unite contro un nemico comune, rappresentato da tutti coloro che negli anni hanno assecondato e incentivato politiche distruttive per l’ambiente, gli ecosistemi e l’uomo. La finalità di FFF è una sola: salvare l’uomo e le specie animali e vegetali. Questo è il punto di contatto tra l’associazionismo tradizionale e il movimento che possono coesistere e darsi forza nelle proprie specificità. Le modalità con cui i giovani si prefiggono il raggiungimento di tale obiettivo sono varie, proprio come vari e disparati sono gli attivisti che si riconoscono nel movimento e operano a suo nome: dalla promozione di abitudini alimentari sostenibili, al bando della plastica, alla nuova tendenza no fly (non prendere aerei per non inquinare), alle semplici ma costanti manifestazioni del venerdì in piazza, davanti alla sede del comune o del Parlamento. Questo essere costantemente presenti tra i giovani riempie un vuoto lasciato dalle associazioni tradizionali (per motivi anagrafici) che possono dar molto in termini di esperienza e conoscenza alla battaglia per la conservazione della natura e la mitigazione del cambiamento climatico in corso. In molte realtà l’FFF, è costituito infatti da un comitato interassociativo a organizzazione orizzontale di associazioni tradizionali che intervengono senza logo e da giovani indipendenti. In molti altri casi l’FFF è costituito solo da giovani indipendenti ed auto-organizzati. La maturazione del FFF sarà nella riuscita della protesta e nella realizzazione delle proposte. Tutte le modalità di protesta riflettono il desiderio di invertire un trend che ci porterà alla distruzione del mondo e, come immediata conseguenza, della nostra specie.
È in quest’ottica e in questo contesto che abbiamo deciso, pochi mesi fa, di lanciare un’iniziativa volta alla riduzione degli imballaggi di plastica nei supermercati: si tratta di una petizione sulla piattaforma change.org che 58800 persone hanno accolto e sostenuto.
a Federazione Nazionale Pro Natura, da noi contattata, ha sostenuto da subito la nostra proposta nella quale chiediamo ai supermercati di introdurre una sezione dedicata allo sfuso, in modo da facilitare i consumatori più responsabili ed invitarne altri a fare lo stesso.
Questa nostra azione nasce da una constatazione: il riciclo della plastica, non è efficace: per ogni chilo di plastica riciclata se ne producono otto, con danni immensi per il pianeta sia nel momento della produzione (per 1 kg di plastica PEC servono 2 kg di petrolio e 17 lt di acqua) che in quello dello smaltimento. I nostri oceani stanno soffocando: mentre nel Pacifico si è creata un'isola di rifiuti grande quanto gli Stati Uniti, 700 kg di plastica finiscono in mare ogni secondo. Isole di plastica e fondali inquinati sono stati recentemente documentati anche nel Mar Tirreno. L’emergenza climatica di cui l’inquinamento è una delle cause principali, è in atto anche da noi. Ancora prima del riciclo quindi, la vera priorità è la riduzione della produzione di materiale plastico. Il principale responsabile della produzione di rifiuti da imballaggio (2/3 del totale) è il settore agroalimentare ed insieme, come consumatori, possiamo fare in modo che la situazione cambi. La petizione propone quindi al legislatore e ai supermercati di cambiare radicalmente il modo in cui facciamo la spesa e introdurre lo sfuso nella nostra vita quotidiana. Esistono già esempi virtuosi ma l’azione richiesta prevede un passaggio di scala imposto dall’alto così come si fece per le sigarette, in cui i prodotti plastic free dominino i prodotti in vendita utilizzando materiali da imballaggio alternativi.
Questa petizione, così come le migliaia di iniziative che compongono l’attività di Fridays for Future nel mondo, è un modo per far sentire la nostra voce e pretendere un mondo più giusto, libero da sfruttamenti e sprechi. Non ci resta che sperare che FfF, con il supporto attivo anche della Federazione Nazionale Pro Natura, continui nel percorso che ha intrapreso e si mostri capace di coinvolgere sempre più persone nella lotta per la vita.

Qui il link della petizione:
https://www.change.org/p/introduciamo-il-reparto-sfuso-nei-supermercati