Dom Salvatore Frigerio
La comunità monastica di Camaldoli, fin dal suo primo sorgere attorno al 1024, stabilì un rapporto vitale con l’ambiente forestale, fino ad assumerlo a simbolo e custode della vita monastica. Qui troviamo il nodo che collega la tradizione camaldolese a quella biblica.
Nel 1080 Rodolfo, il quarto Priore dell’Eremo, codifica per la prima volta le consuetudini di vita della comunità romualdina (Liber eremiticae regulae aeditae a Rodulpho eximio doctore. Biblioteca della città di Arezzo, cod. 333, sec XI). La sua opera viene ampliata da Rodolfo II all’inizio del XII secolo. In questo nuovo codice camaldolese l’Autore ci offre pagine altamente dimostrative del rapporto tra i monaci e la foresta. In una pagina particolarmente ricca di poesia è raccolta tutta la tensione ascetica dei monaci che vivono in sintonia con l’ambiente, fino a registrare la loro “identificazione” con gli alberi. Il brano (cap. 49) canta i sette alberi elencati nel libro di Isaia quali segno della fertilità della terra rifondata da Dio (Is 41,19) e, contemplandone le proprietà, vi scopre l’indicazione di quelle virtù che ogni monaco deve possedere. Ma va oltre affermando che ogni monaco deve diventare quegli alberi!
“Pianterò, Egli dice, nel deserto, il cedro e il biancospino, il mirto, l’olivo, l’abete, l’olmo e il bosso”. Se dunque desideri di possedere di questi alberi in abbondanza o se brami di essere tra loro annoverato (ut inter eos computari), tu chiunque sii, studiati di entrare nella quiete della solitudine (in solitudine quiescere). Quivi infatti potrai possedere, o diventare tu stesso (aut cedrus fieri) un cedro del Libano che è pianta di frutto nobile, di legno incorruttibile, di odore soave: potrai diventare, cioè, fecondo di opere, insigne per limpidezza di cuore, fragrante per nome e fama; e come cedro che si innalza sul Libano, fiorire di mirabile letizia (mira iocunditate florescas). Potrai essere anche l’utile biancospino, arbusto salutarmene pungente, atto a far siepi, e varrà per te la parola del profeta “sarai chiamato ricostruttore di mura, restauratore di strade sicure”. Con queste spine si cinge la vigna del Signore: “affinché non vendemmi la tua vigna ogni passante e non vi faccia strage il cinghiale del bosco né la devasti l’animale selvatico”. Verdeggerai altresì come mirto, pianta dalle proprietà sedative e moderanti; farai cioè ogni cosa con modestia e discrezione, senza voler apparire né troppo giusto né troppo arrendevole, così che il bene appaia nel moderato decoro delle cose. Meriterai pure di essere olivo, l’albero della pietà e della pace, della gioia e della consolazione. Con l’olio della tua letizia illuminerai il tuo volto e quello del tuo prossimo e con le opere di misericordia consolerai i piangenti di Sion. Così darai frutti soavi e profumati “come olivo verdeggiante nella casa del Signore e come virgulto d’olivo intorno alla sua mensa”. Potrai essere abete slanciato nell’alto, denso di ombre e turgido di fronde, se mediterai le altissime verità, e contemplerai le cose celesti, se penetrerai, con l’alta cima, nella divina bontà: “sapiente delle cose dell’alto”. E neppure ti sembri vile il diventare olmo, perché quantunque questo non sia albero nobile per altezza e per frutto, è tuttavia utile per servire di sostegno: non fruttifica, ma sostiene la vite carica di frutti. Adempirai così quanto sta scritto:”Portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di Cristo”. Finalmente non tralasciare di essere bosso, pianticella che non sale molto in alto ma che non perde il suo verde, così che tu impari a non pretendere d’essere molto sapiente, ma a contenerti nel timore e nell’umiltà e, abbracciato alla terra, mantenerti verde. Dice il profeta:”Non alzate la testa contro il cielo” e Gesù: “chi si umilia sarà esaltato”. Nessuno dunque disprezzi o tenga in poco conto i ministeri esteriori e le opere umili, perché per lo più le cose che esteriormente appaiono più modeste, sono interiormente le più preziose. Tu dunque sarai un Cedro per la nobiltà della tua sincerità e della tua dignità; Biancospino per lo stimolo alla correzione a alla conversione; Mirto per la discreta sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità di opere di letizia, di pace e di misericordia; Abete per elevata meditazione e sapienza; Olmo per le opere di sostegno e pazienza; Bosso perché informato di umiltà e perseveranza.”
Il testo esalta virtù che appartengono indistintamente ai monaci e agli alberi, in un sorprendente reciproco confondersi. In questa pagina è gettato il fondamento di tutta l’attenzione amorosa ed edificatrice che i monaci hanno offerto alla “loro” foresta. Proprio da qui si dipana il lavoro di custodi appassionati, che nel turgore della foresta riflettono il turgore della loro ascesi e che ritrovano le tappe del loro cammino monastico negli alberelli posti a dimora. Per questo non vi sarà più una legislazione successiva, riguardante la vita della comunità monastica, che tralascerà di disciplinare il rapporto monaco-foresta, se non quando questo sarà interrotto dalle soppressioni civili che ne toglieranno ai monaci la cura, nel 1810 (soppressione napoleonica) e nel 1866 (soppressione sabauda tuttora vigente). Si verifica quindi una legislazione forestale del tutto singolare: non viene promulgato un codice a parte, specifico per la gestione forestale, ma questa è parte integrante delle Costituzioni che regolano la vita dei monaci. Si tratta di un caso unico in tutto il monachesimo cristiano. Nel 1520, stampato con i tipi in legno della nuovissima tipografia installata nel monastero, viene pubblicato un libro di grande importanza: la Regola di vita eremitica (Paulus Justiniani, Eremitice vite regula a beato Romualdo Camaldolensibus Eremitis tradita: seu Camal.Eremi Istitutiones, Monasterio Fontis Boni MDXX, p.37 ss.). Si tratta della prima organica legislazione, promulgata dal priore Paolo Giustiniani, dotto umanista veneziano (1476-1528). Quest’opera, che possiamo considerare il primo compendio ben articolato di tutte le precedenti norme stabilite dai Camaldolesi, ci dimostra come il rapporto con la foresta fosse parte integrante della regola di vita di quei monaci. Silvano Razzi, abate del Monastero fiorentino di S. Maria degli Angeli, ci dà, nel 1575, una traduzione della Regola del Giustiniani in lingua toscana (Regola della Vita Eremitica… Le Constituzioni Camaldolesi tradotte dalla lingua latina nella toscana, a cura di Silvano Razzi, Fiorenza MDLXXV, pp. 22-23 e p. 198). Da questa riprendiamo alcuni passi.
“… se saranno gl’Eremiti studiosi veramente della solitudine, bisognerà che habbiano grandissima cura, & diligenza, che i boschi, i quali sono intorno all’Eremo, non siano scemati, ne diminuiti in nium modo, ma piu tosto allargati, & cresciuti. Si possono adunque tagliare Abeti, per edificazione della Chiesa, delle Celle, & dell’altre stanze, & officine dell’Eremo; (…) con la sola licenza, & concessione del Maggiore [il Priore. Ndr]. Quando poi bisogna tagliarne quantità maggiore (…) ciò si faccia, ma con speciale licenza del Capitolo dell’Eremo: ne altri si conceda licenza di tagliare Abeti. (…) Procurino (…) con diligente cura che per ogni modo, si piantino ciascun’anno, in luoghi opportuni, & vicini all’Eremo, quattro, ò cinque mila Abeti. (…) La qual cosa, se per sorte, un anno (che Dio nol voglia) non si facesse, l’anno seguente facciasi per l’uno, & per l’altro. Ne altrimenti si possano tagliare Abeti, se ciò prima non sarà stato fatto” .“Alla cura finalmente de gl’Abeti, si dee deputare uno del numero dei fratelli (…); l’ufficio del quale sia attendere con diligente cura, & sollecitudine, che non siano ne tagliati, ne offesi, ò vero guasti in alcun modo; & procurare, che di nuovo, come si è detto sopra a suo luogo, se ne piantino. & usare ogni diligenza alli piantati, accio che possano crescere; & quando se n‘ha da tagliare, mostrare quali, & dove si possa fare con manco danno della bellezza della selva; & fare in breve con diligenza tutte le cose, che appartengono alla cura, & custodia de gl’Abeti”.
Nel 1639 le nuove Costituzioni di Camaldoli introducono la Guardia Forestale. Così recita l’articolo 7:
“Molto importa che le selve dei nostri eremi siano ben guardate, e conservate, e però si habbi l’occhio chi sia, e di condizione, il custode di quelle: perciò deve essere giovane, e robusto, che possa una volta, et ancora due bisognando, ogni giorno circondare le selve, et cacciare via gli animali di vicini, et procurare che non si facci danno.” (da G. Cacciamani, L’antica foresta di Camaldoli, Ed. Camaldoli, 1965, p. 31).
Nel 1850 un Regolamento del Priore dell’Eremo documenta la creazione di un Caporale che sovrintende al lavoro dei Taglialegna (Bifolci) e dei Macchiaioli (D.G.B. Casini, Regolamento per i Macchiajoli, 1850, copia ms. Archivio di Camaldoli).
L’ultimo intervento risale al 1866, esattamente due mesi prima della soppressione Sabauda. In via ordinaria era esclusiva competenza del Capitolo di Camaldoli, cioè dell’assemblea della Comunità, prendere tutte le decisioni necessarie per garantire la buona gestione della foresta. In quelle assemblee, i cui Atti Capitolari ci offrono ampia documentazione, spettava al Priore e al Cellerario (economo) dell’Eremo presentare le proposte; dopo la discussione si procedeva alla votazione segreta; decideva solo la maggioranza assoluta (50%+ I). La proposta approvata passava agli Atti Capitolari e neppure il Priore poteva modificarla. Qualora questo si fosse verificato, il responsabile, fosse anche il Priore Generale, incorreva nella ‘scomunica”! E non sembri esagerato il provvedimento, dal momento che la decisione era stata presa dalla Comunità in modo solenne, e dunque, trasgredirla significava “rompere la comunione” con la Comunità stessa. Se, nell’ambito della vita civica, emanare leggi e osservarle è un atto di maturità etica, nella Comunità monastica diviene espressione e testimonianza di condivisione del cammino di fede. Anche questo può diventare monito per tutti noi, cittadini, amministratori e politici! Anche in questo la regola di vita camaldolese può essere richiamo per tutti.
Le maggiori preoccupazioni della suddetta legislazione erano:
I) La custodia della foresta, e in particolare degli abeti, non intesa come “imbalsamazione”: la foresta era “viva” ed era “sacra” e perciò doveva essere “nutrita” con un premuroso avvicendamento che la rinvigorisse. Per il mondo cristiano il sacro non è statico ma dinamico!
2) Da quanto sopra derivava una regolamentazione del taglio degli abeti, controllato da disciplina ferrea.
3) La piantagione degli abeti. I primi documenti al riguardo risalgono al XVI secolo: nella Regola del I520 si disciplinò per la prima volta la messa a dimora dell”Abies Alba”, presente da sempre in quella foresta. Vi fu fissato un numero minimo di 4-5000 abeti l’anno. Anche questo numero andò crescendo, fino ad arrivare ai 30.000 annui del 1801.
4) La vendita degli abeti. La prima documentata risale al 1313, fatta al Fiorentino Guiduccio Tolosini: si trattava di un taglio di 3.000 tronchi, al prezzo complessivo di 2.500 fiorini d’oro. Ciò intensificò il rinnovamento ciclico della foresta che però non fu mai sottoposta a sfruttamento irrazionale. Essa fu sempre difesa, anche quando si prospettò la Soppressione. Proprio in quella occasione nel 1866 i monaci rifiutarono l’offerta di un milione di lire di un ricco mercante di Livorno per un vasto taglio di abeti che avrebbe compromesso l’integrità del patrimonio forestale.
Nel 1866 la soppressione sabauda ha interrotto definitivamente l’opera forestale dei Monaci Camaldolesi.
Dicevo, introducendo, come, oltre ai libri, la vita della foresta fosse regolata da una miriade di fogli sparsi lungo i secoli, la cui importanza è determinante per documentare la vivace dinamica della silvicoltura camaldolese.
Si tratta di decreti di priori; atti capitolari; tariffari per il prezzo del legname confrontato con quello di altre segherie; note per il pagamento dei barrocciai che trasportavano il legname fino al porto di Poppi, sull’Arno; tabelle per gli stipendi dei dipendenti; ricevute doganali; contratti di vendita del legname; atti di acquisto di nuovi terreni boschivi; liti per lasciti testamentari o per problemi di vicinato, particolarmente vivaci con le confinanti foreste dell’Opera del Duomo di Firenze; lettere che chiedono consigli tecnici; documenti con i quali il Granduca di Toscana nel 1817 affida ai Camaldolesi le suddette foreste dell’Opera del Duomo; memorie presentate al Parlamento del nuovo Stato Italiano dai Comuni del Casentino per scongiurare la soppressione della comunità monastica e della sua foresta; carte della nuova amministrazione demaniale che si serve della competenza tecnica dei “monaci soppressi” e di uno in particolare che lavora a tempo pieno presso il nuovo ufficio statale
Da questa costellazione di fogli è possibile apprendere, passando a volte di sorpresa in sorpresa:
- le tecniche per la rinnovazione del bosco, artificiali per i vivai e naturali tramite il prelievo dei selvaggioni in bosco;
- i tipi di taglio, pochissimi a raso, fitosanitari con ripuliture del sottobosco, e “a scelta” per assortimenti particolari (alberi maestri per navi);
- le strutturazioni coetanee e pure di abete bianco, con l’adozione dei “ronchi utili” per depurare il terreno dai parassiti, con la rotazione di colture, con la rinnovazione naturale che garantiva la selezione;
- la disposizione per spazi conservati alla silvicoltura spontanea;
- l’uso di marchiare a martellatura le piante destinate al taglio;
- le numerose elemosine in legname per i più diversi destinatari;
- le punizioni per i trasgressori delle norme di taglio;
- lo scavo dei laghetti per l’irrigazione dei vivai;
- l’assistenza gratuita ai dipendenti malati, accolti nell’ospedale del Monastero allestito nel 1046 accanto alla Foresteria o Hospitium di Fontebona e gestito dai monaci fino alla soppressione napoleonica del 1810 (da notare che Spedale e Hospitium erano sostenuti nel loro servizio gratuito dall'utile ricavato dall'amministrazione della foresta);
- le pensioni di vecchiaia per gli stessi dipendenti;
- la provvigione della dote di nozze alle figlie dei dipendenti o alle giovani indigenti del territorio;
- le percentuali sugli utili del legname trasportato via fiume concesse al gestore del porto di Poppi;
- il contratto per la fornitura di 360 travi per la ricostruzione del tetto e della soffittatura della Basilica di S.Paolo in Roma, distrutta dall’incendio del 1832.
Questi “Fogli” preziosi sono conservati nell’Archivio del Monastero di Camaldoli e nell’Archivio di Stato di Firenze e sono ora consultabili grazie al lavoro svolto in tre anni di ricerca che ne ha digitalizzato oltre 45.000 permettendo così la pubblicazione di quattro volumi, come risulta dal Sito www.forestaetica.com.
Vi era poi la coltivazione di un orto botanico dove i monaci “speziali” coltivavano le numerose erbe medicamentose (officinali) che si aggiungevano a quelle che spontaneamente nascevano in foresta, usate per la confezione dei medicinali per lo “Spedale” (da G. Ciocci, Cenni storici del S. Eremo di Camaldoli, Firenze 1864, pp.102-104).
E poi ancora gli innumerevoli e diversificati interventi sul territorio e oltre, che provvedevano alla costruzione di lazzaretti, ospedali, opifici o addirittura, in Firenze (XIII sec.), all’edificazione del quartiere popolare di San Frediano, primo esempio di architettura popolare realizzato per venire incontro al problema delle masse contadine che dalle campagne ormai insicure si riversavano in città (fenomeno di urbanesimo allora in corso). Dunque un modo di operare che non nasceva da meri progetti di investimento economico ma dalla preoccupazione di edificare un rapporto con gli uomini e l’ambiente secondo il progetto proposto dalla Parola di Dio rivelata nella Scrittura Giudaico-Cristiana.
E ancora lettere di visitatori, illustri e no, che descrivono l’incanto di quei luoghi che testimoniano “quanto possa operar natura, quando non la si maltratta, e quanto essa contraccambi l’amor dell’uomo”, come scrive Halfred Bassermann nel suo commento alla Divina Commedia di Dante Alighieri, riferendosi proprio alla foresta di Camaldoli, descrivendo il Casentino nel XXX Canto dell’Inferno (vv.64-67).
Si tratta dunque di un materiale veramente prezioso nei contenuti e incalcolabile nella quantità.
Materiale testimone di “un mondo che non è solo una riserva di alberi e di animali, ma che, proprio perché è un mondo, è un risultato di vite, di storie, di processi, di testimonianze, di ricerche, di fatiche, di lotte e di successi, di sconfitte e di vittorie, di solitudini e di incontri non riducibili a un mero problema tecnico ed economico; questo solo non si addice certamente a una realtà viva e perciò depositaria di un mistero che solamente la sua storia può far percepire e che nessun tecnico può mutare ma solo ascoltare e servire perché tale mistero sia conservato. (…) Qui tutti, dalla possente e secolare quercia al trepido e armonioso capriolo, sono depositari di una storia che nessun turista, e tanto meno nessun tecnico, ha il diritto di ignorare (…) soprattutto oggi che questi splendidi luoghi (…) possono rischiare di essere trasformati in doloroso oggetto di consumo, destinato a quell’usa e getta a cui ci stiamo tanto abituando, salvo poi a pagarne tutti insieme e singolarmente le dolorose conseguenze.” (Simone Borchi, Foreste Casentinesi, prefazione di Salvatore Frigerio, pagg.8-9, Ediz. DREAM, 1989).
Oltre ottocentocinquanta anni di lavoro complesso e appassionato che attende di essere conosciuto perché molto può offrire alla conoscenza storica del nostro Paese, alla riflessione di chi non vede nella natura un idolo inappellabile ma una realtà che con l’uomo e per mezzo dell’uomo cammina verso il suo compimento armonico; alla competenza tecnica di chi, oggi, lavora affinché il “servizio all’ambiente” sia sempre più un servizio all’uomo riappacificato con se stesso e con tutto il cosmo. Sono convinto che solo questa riappacificazione possa promuovere quella “qualità della vita” che oggi si ripropone come “esigenza nuova” come segno della capacità insita nell’Uomo di “emergere” dalle sue obnubilazioni passate e presenti, capacità che non deve sfuggire a coloro che nella comunità civile, nella ‘polis”, hanno esattamente il compito di “educare” i rapporti, gestendo e individuando tutti gli strumenti atti a sostenere e a dare compimento a questa vocazione dell’Uomo e dell’Ambiente in comunione tra loro.
È dunque altamente significativo il fatto che l’UNESCO abbia posto l’attenzione a questa Etica monastica camaldolese nei confronti del rapporto Uomo/Ambiente, avviando il progetto del suo riconoscimento quale Valore Immateriale Universale in questi nostri giorni tanto bisognosi di attenzione amorosamente operativa nei confronti di tutta questa nostra Madre Terra, di questo Giardino che è stato a noi consegnato perché lo “servissimo” (è il termine esatto di Genesi 2,15 che ha un valore cultuale!) per poterlo coltivare.