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Paleo e neo-gretini uniti nella lotta ai cretini

Ferdinando Boero

Quarant'anni fa parlavamo delle generazioni future che avrebbero ereditato da noi il debito ecologico causato dal nostro momentaneo benessere. Una volta udii un'obiezione a questa preoccupazione: perché dovremmo preoccuparci delle generazioni future? Cosa hanno fatto per noi?
Le generazioni future sono arrivate e si sono accorte del debito ereditato, e molti di noi "anziani" stanno reagendo alle loro rimostranze come quel signore che si rifiutava di preoccuparsi per loro. Le obiezioni alle proteste giovanili si concentrano su Greta Thunberg e, in Italia, chi protesta per il clima viene ascritto, con non celato intento derisorio, alla categoria dei gretini. Gli appellativi dedicati ai giovani che protestano sono tutti di decisa denigrazione: eco-ansiosi, eco-terroristi, eco-catastrofisti. Il prefisso eco- è, ovviamente, quello di ecologia, non quello di economia.
Questo livore forse cela un senso di colpa, oppure è solo egoismo. Il bello è che gli "anziani", dal Papa con la sua Enciclica Laudato Si', ai rappresentanti dei paesi di tutto il mondo, sono unanimi nel'ammettere che  la situazione ambientale, a livello planetario, è grave. Hanno iniziato a farlo nel 1992, con la Convenzione di Rio de Janeiro sulla biodiversità, messa a rischio dagli impatti antropici, e hanno continuato con convenzioni ulteriori, con protocolli, con dichiarazioni sempre più allarmate. Il tutto basato sulle risultanze della ricerca scientifica sul clima e sulla biodiversità. Preso atto dei moniti della comunità scientifica, i decisori hanno deciso di accettare di essere preoccupati per lo stato del pianeta.
Le ansie degli ecoansiosi, quindi, si basano sulle risultanze delle ricerche della comunità scientifica, non su loro convinzioni campate in aria. Che ne sanno, loro, di ambiente? Beh, tanto quanto la gente comune che non se ne occupa professionalmente. Ma se i grandi di tutto il mondo sono preoccupati per lo stato del pianeta, è normale che lo siano anche i giovani: dovrebbero esserlo tutti, non solo i giovani!

Fermiamoci un attimo a questo primo atto di questa storia. Chi nega che ci sia un problema dice che non tutta la comunità scientifica è d'accordo, e porta come prova le opinioni di fior di scienziati. In Italia i paladini di questa sdrammatizzazione della situazione sono Franco Prodi e Antonino Zichichi. I due, però, non sono esperti di clima. Prodi ha pubblicato un solo articolo scientifico in cui sostiene che le preoccupazioni siano infondate, ma l'articolo è stato poi ritirato dalla rivista perché... infondato. Zichichi... lasciamo perdere: ha perso la sua reputazione negando la scientificità dell'evoluzione. In fisica sarà un campione, ma in altri campi, dalla biologia all'ecologia, la sua opinione vale quanto quella di un avventore al bar che abbia ecceduto nel consumo di bevande alcoliche. Riformuliamo la posizione della comunità scientifica: gli scienziati che si occupano di clima e di ambiente sono unanimemente convinti che le nostre attività stiano cambiando lo stato del pianeta e che il cambiamento sia a noi sfavorevole. Una parte della comunità scientifica che NON si occupa di clima e di ambiente, è scettica al riguardo. Ma, aggiungo io, non riesce a pubblicare articoli scientifici che possano confutare le posizioni di chi, invece, dice che i problemi ci sono.
In una situazione del genere, a chi dar retta? Beh, i decisori non hanno avuto dubbi, visto che le convenzioni, i protocolli e altri gesti formali sono stati sottoscritti. Le obiezioni degli scettici sono infondate: i motivi per essere ansiosi ci sono tutti.

L'altra obiezione che si oppone ai giovani che protestano è: ma loro, cosa propongono? Non hanno proposte!!!! Anche questa obiezione è infondata. Non sono i giovani a dover fare le proposte, sono gli scienziati e i tecnologi a doverlo fare. Chiedere che siano loro a farle equivale a chiedere a un malato: hai un bel lamentarti per i tuoi malesseri, cosa proponi per eliminarli? Ma il malato può solo dire di star male, non gli si può chiedere di fare quel che dovrebbe fare il medico e magari, visto che non sa come rispondere, dirgli che non ha motivo di lamentarsi!
Questa stupida opinione, inoltre, è confutata dal fatto che molti paesi, e l'Unione Europea per prima, hanno lanciato programmi che si prefiggono la sostenibilità e la decarbonizzazione. L'abbandono dei combustibili fossili e lo sviluppo di metodologie che producano energia da fonti rinnovabili fa parte del programma di molti paesi: vento, sole, geotermia, onde, correnti, fiumi sono fonti di energia che non prevedono la combustione e la produzione sostanze climalteranti, prima di tutto l'anidride carbonica. Volete tornare alle lampade a petrolio, dicono... e invece è esattamente il contrario: il fine di queste proposte è di uscire finalmente dall'era della combustione, mentre chi non vuole farlo è ancorato al passato.
I giovani non propongono proprio niente: chiedono agli anziani che diano seguito alle loro preoccupazioni e che sviluppino il rinnovamento che dicono di voler sviluppare. Le soluzioni sono a portata di mano, e ci sono anche grandi investimenti per migliorarle: il nostro paese ha ricevuto 209 miliardi per realizzare il PNRR che altro non è che la versione italiana del Next Generation EU e dell'European Green Deal. Next Generation vuol dire proprio "prossime generazioni" e, quindi, i "gretini". E il nuovo patto verde significa proprio che si deve cambiare. Il Papa, in Laudato Si', chiede la conversione ecologica, e l'Unione Europea, con il New Green Deal, si prefigge la transizione ecologica. Quell'eco- che viene associato ad ansie, terrorismo e paranoie, è in effetti l'ispiratore delle nuove politiche. Bisogna solo attuarle. Ed è quello che chiedono i giovani.

Altra obiezione: è inutile che lo facciamo noi, ditelo alla Cina e all'India. Noi non possiamo pensare di cambiare le cose in modo unilaterale. Come dire: visto che ci sono Cina e India, e molti altri paesi, che inquinano anche più di noi, è inutile che ci comportiamo virtuosamente. Tanto vale continuare così. Un ragionamento spregevole. Anche perché la Cina, l'India etc. producono in gran parte le merci che compriamo proprio noi. Abbiamo chiuso le fabbriche in occidente e le abbiamo aperte in oriente per due motivi principali: costo bassissimo della manodopera e assenza di leggi che proteggono l'ambiente. Abbiamo ipocritamente trasferito le produzioni inquinanti dove l'inquinamento non è un reato ma, così facendo, abbiamo continuato a contribuire, per procura, al degrado dello stato del pianeta. La globalizzazione dell'economia deve fare i conti con la globalizzazione dei nostri impatti: l'economia globale genera il cambiamento globale. Sono i giovani ad averlo determinato? Loro stanno subendo queste scelte. Hanno tutte le ragioni per protestare. E poi: sono i paesi che più hanno goduto del "miracolo" del benessere a dover fare i primi passi verso la sostenibilità, anche approvando leggi interne che abbiano portata globale. Tipo: in Italia non si importa nulla che sia stato prodotto infrangendo le leggi in vigore in Italia. Se un paese produce beni e servizi con procedure per noi illegali, quei beni e qui servizi non sono esportabili da noi: non compriamo merce prodotta da chi inquina per produrla.
Ci siamo accorti con il Covid quanto dipendiamo da "quei paesi". Dobbiamo innovare tecnologicamente e sviluppare nuovi modi di produrre e di consumare, senza consegnarci con mani e piedi legati a chi controlla la produzione di beni per noi essenziali. Pensavano di sfruttarli e ora sono loro a tenerci in pugno. Chi ha determinato questa situazione merita le riprovazioni dei giovani e deve rimediare ai propri errori.

L'ultima obiezione posta ai "gretini" consiste nell'accusarli di dire no a tutto. Questa è proprio buona. I "gretini" dicono no a cose che, evidentemente, ci hanno portato nella situazione attuale. Dicono sì a tutte le innovazioni che stanno iniziando ad evolvere e che ci permetteranno di mettere in atto la transizione ecologica. Chi accusa i "gretini" di dire no a tutto, in effetti dice no a tutte le innovazioni e vuole restare al lume a petrolio (la combustione).

Conclusioni
Ho 72 anni, ma quel che dicono i giovani adesso lo dicevo anche quando avevo la loro età, e lo sostengono tutte le associazioni ambientaliste da altrettanto tempo, Pro Natura per prima. Non eravamo in molti a dirlo, e la situazione era meno grave di oggi, ma c'erano già tutti gli elementi per capire dove saremmo arrivati. Molti "vecchi" avvertono della gravità della situazione da quando erano "giovani" e , quindi, oggi restano dalla parte dei giovani attuali che, però, proprio come i vecchi, non sono una categoria monolitica. I "gretini" non sono la maggioranza dei giovani (e dei vecchi). Sono, purtroppo, una minoranza. In effetti, comunque, le avanguardie sono sempre minoranze, ma possono fare la differenza.
L'importante non è avere ragione ma riuscire a farla valere. I paleo-gretini (noi vecchi) e i neo-gretini (i giovani) cercano di dar forza alle loro opinioni anche con atti dimostrativi ma la dura realtà insegna che, in Italia, essere a favore dell'ambiente non paga da un punto di vista elettorale. Forse anche perché chi non vuole la conversione e la transizione ecologica (prima di tutto chi basa la sua ricchezza su pratiche produttive inquinanti) ha enormi capitali a disposizione e li usa per generare consenso attraverso i molti media che controlla.
Poco male, per la natura. Non siamo così forti da poterla alterare in modo irreparabile, anche perché dipendiamo dalle condizioni che stiamo alterando, con chiaro intento suicida: quando le avremo alterate oltre i limiti di nostra tolleranza delle nuove condizioni (da noi generate) saremo nei guai e smetteremo di alterarle. La natura troverà altre soluzioni. I gretini, infatti, non chiedono che si salvino delfini, panda e balene, sono preoccupati per il loro futuro di umani. Vogliono un benessere che sanno sarà loro negato a causa dell'egoismo delle generazioni che li hanno preceduti.

La disobbedienza di Ultima Generazione per chiedere giustizia climatica e sociale

Giordano Stefano Cavini Casalini

Negli ultimi anni spesso viene osservato come ci sia una sempre crescente attenzione ed attivazione cittadina, specialmente da parte della fascia più giovane, verso le tematiche ambientali; la nascita di movimenti e campagne quali Friday for Future, Extinction Rebellion e Ultima Generazione ne sono un’emblematica prova.
In realtà tale osservazione, seppur vera, si rivela troppo semplicistica e quindi incapace di fornire un esauriente analisi. Storicamente, nel nostro Paese, così come negli altri, le tematiche climatiche sono sempre state al centro delle lotte territoriali, strettamente connesse e spesso di fatto inscindibili da tematiche sociali.
Tutela del suolo, salvaguardia dell’ambiente e della biodiversità, prevenzione del rischio idrogeologico, accesso all’acqua potabile ed al cibo, diritto alla terra e di accesso alle risorse naturali, sono solo alcune delle tematiche facenti capo più o meno indirettamente all’ambiente. All’interno di questo corollario di voci possiamo allora inserire molte campagne storiche, di lotta e rivendicazione dei diritti promosse dai popoli aborigeni (tra cui il movimento Zapatista), la cui nascita è ben antecedente agli anni 2000. Da osservare come anche organizzazioni, internazionali e non, molto conosciute e di stampo dichiaratamente ambientale (WWF, Legambiente, Greenpeace) siano tutte nate tra gli anni 60 ed 80 del secolo scorso; aggiungiamo pure che la fondazione dell’IPCC (Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico) è avvenuta nel 1988.
Insomma, sembra che l’attenzione per il clima ci sia sempre stata se prendiamo in analisi i fatti storici, ricordiamoci come il primo rapporto scientifico effettivo sui limiti e le future criticità dell’attuale modello di sviluppo capitalista risalga ad inizio anni 70 (The Limits to Growth).

Oggi osserviamo solamente e semplicemente il continuo dello scontro, avviato ormai oltre 50 anni fa, tra la volontà cittadina e l'inazione istituzionale. Trascinare un conflitto per così lunghi anni porta inevitabilmente alla sua esacerbazione e comporta quindi la naturale nascita di movimenti sempre più dirompenti e disposti ad utilizzare modalità di manifestazione estrema, come Ultima Generazione.
Contemporaneamente il temporeggiare delle istituzioni ha reso i danni derivanti dal collasso climatico (siccità, ondate di calore, fenomeni meteorologici estremi, ecc...) ineludibili, frequenti e pericolosi per tutti noi ed in particolar modo per le fasce di popolazione più giovani, rendendole di conseguenza anche le più interessate, attive e radicalizzate nell'affrontare il problema.
Ancora in tv, in radio ed in politica si continua troppo spesso a parlare di maltempo ed eventi imprevedibili, riguardo ad inondazioni, incendi, trombe d'aria, grandinate con chicchi di ghiaccio grossi come palline da tennis e temperature estreme sopra i 50 gradi, tutti eventi catastrofici e mortiferi. La realtà però è diversa, la verità è che i nostri rappresentanti e governanti hanno scelto deliberatamente questo scenario, con la consapevolezza di renderlo ancor più grave in futuro, hanno deciso di esporre tutti noi ad un pericolo ben noto ed evitabile.
Di fronte alla scelleratezza della nostra classe dirigente, il dialogo ed il confronto attraverso le modalità legittimamente previste dalla legge, come manifestazioni, petizioni e referendum, già tutte largamente tentate, si è rivelato inefficace alla risoluzione del problema. In realtà non dovremmo esserne stupiti, quanti di noi non hanno mai ritenuto che dietro a determinate scelte politiche si celassero interessi economici? Chi di noi è pienamente convinto che l'unico obiettivo dei nostri rappresentanti sia quello di adempiere alla volontà popolare? Molti tentennerebbero di fronte a queste domande, ma per qualche strano bias cognitivo, si è comunque portati a ritenere necessario, da parte dei cittadini, un comportamento corretto ed aperto al dialogo verso le istituzioni... Un po' come dire che all'interno di una partita a carte truccata, non è lecito ribaltare il tavolo di gioco, ma solo provare comunque a vincere seguendo le regole.

I cittadini aderenti alla campagna di disobbedienza civile non violenta di Ultima Generazione, stanchi, disillusi e preoccupati per il proprio futuro, non potendo più concordare con questa vaga idea di perbenismo, consci del dissenso che poteva genere la loro azione, con coraggio hanno scelto, letteralmente, di ribaltare il tavolo da gioco. Ovviamente non sono stati i primi, la strada era già ben tracciata da grandi nomi del passato come Mandela, Gandhi ed il movimento delle suffragette, giusto per citarne alcuni; si uniscono a loro, nel presente, lavoratori in sciopero, occupanti degli squat, studenti in rivolta e chiunque abbia scelto di opporsi concretamente ad un sistema iniquo rivalorizzando il significato della parola "lotta"; un termine così ricorrente da essere ormai svalutato, perché il dissenso, non necessitando di permesso, si agisce, così come un diritto, non necessitando di concessione, si conquista.
Ultima Generazione ha fatto proprio un modello d'azione forte ma pacifico, si tratta di una scelta strategica, il giusto compromesso all'interno di un sistema che ancora si descrive democratico e libero. Non abbiamo accuse da esprimere verso chi agisce attraverso altre modalità di contrasto; in fondo del nostro passato amiamo spesso ricordare un grande esempio virtuoso di guerriglia armata (in vero era ben più di questo), sto parlando della lotta partigiana: essa era ben giustificata all'interno del periodo storico in cui è nata, una realtà dittatoriale in cui libertà e diritti erano totalmente cancellati.
Contemporaneamente apprezziamo e riconosciamo il ruolo di coloro che investono energie e tempo nell'informazione e sensibilizzazione; far conoscere il problema ed i rischi legati al collasso climatico, così come le possibili soluzioni da adottare, è necessario. Però a chi crede che questa sia la strategia migliore e quindi l'unica realmente valida per raggiungere un cambiamento, chiedo di riflettere su quanto tempo ci resta per invertire la rotta (il climate clock, nel momento in cui scrivo, ci ricorda che sono al massimo 5 anni e 330 giorni) e quanto, obiettivamente, credono di doverne ancora impiegare per raggiungere il numero minimo di persone informate necessario ad operarlo. Siamo così certi di riuscire da soli?

Ottenere giustizia climatica richiede un radicale cambio di sistema, culturale, economico e politico; passa da un nuovo modello di ridistribuzione del potere e necessita di un vero ottenimento di equità sociale. È indubbiamente la sfida più grande e complessa mai incontrata dalla nostra specie, le strategie da mettere in campo per la sua realizzazione sono innumerevoli e complesse, abbracciano tutto il possibile, dalla vita individuale all'organizzazione collettiva, dalla gestione dell'orto di casa a quella del territorio nazionale, e si snodano attraverso un sapere interdisciplinare. Appare quindi ovvio come, al pari delle soluzioni da adottare, anche gli strumenti con cui intervenire siano molteplici; non è possibile pensare di raccogliere tutto in un'unica visione o modo d'azione. La disobbedienza dei cittadini di Ultima Generazione per raggiungere l'obiettivo ha bisogno del supporto di chi informa, di chi lotta e di chi ha scelto di vivere in campagna.
Disobbedienza civile non è infrangere la legge, disobbediente è chi agisce contro ed a contrasto di un modello sbagliato, minandone e mettendone in discussione leggi, meccaniche, valori e costumi.

Noi tutti vogliamo creare un modello diverso, alla base di ogni struttura vi sono determinati valori e principi; il mondo nuovo che desideriamo e di cui necessitiamo dovrà essere, sopra ogni altra cosa, solidale. Diamo quindi valore a questo elemento cardine iniziando a metterlo in pratica in prima persona, sostenendo chi agisce per il bene comune, anche se non nello stesso modo impeccabile, perfetto, inoppugnabile di come lo facciamo o faremmo noi.

Che noia questi ragazzi... Protestino con più garbo!

Valter Giuliano

Interprete dell’insofferenza verso i flash mob della nuova generazione ecologista, Giovanni Orsina è intervenuto sulle pagine del quotidiano La Stampa (22 maggio). Offrendo uno spunto per riflettere...

Prologo
- Che noia Signora questi profeti di sventura! Questi giovani che non sanno più divertirsi e si preoccupano del futuro del Pianeta. Che per questo si incatenato, imbrattano opera d’arte, monumenti, fontane! Pensi, addirittura il Palazzo del Senato!
Cribbio, sono persino riusciti a infastidire Chicco Mentana! E a irritare il vignettista Osho!
Una guardia giurata è addirittura dovuta intervenire estraendo la pistola, e a Firenze meno male che c’era “Rambo” Nardella...
Questi ragazzotti, “profeti di sventura” non si rendono conto che non li sta più a sentire nessuno?
E poi, che diamine, sono davvero ecovandali, vanno messi in gattabuia. Per fortuna ho sentito che hanno deciso pene più severe.
Imparino a protestare con un po’ più di garbo, senza dare troppo fastidio.
Cambiamenti climatici... è sempre capitato: un giorno c’è il sole, l’altro piove, poi c’è caldo e poi c’è freddo, che sarà mai? I ghiacciai si sono sempre sciolti, lo dice la Storia geologica, e poi, zac!, è arrivata un’altra glaciazione... Le alluvioni? Bisognava pensarci prima, scavare i fiumi dalla ghiaia, rafforzare gli argini, magari farli in cemento che resistono meglio.
Sa cosa diceva, giustamente, Margaret Mead (come non sa chi è? Si informi...): «Il profeta che non riesce a presentare un’alternativa sopportabile e ciò nonostante annuncia l’Apocalisse è parte della trappola di cui postula l’esistenza».

- Peccato Signore, ha incontrato la Signora sbagliata, che non è affatto in sintonia con lei e non vuole affatto condividere la sua ignoranza....
Sa che hanno ragione loro?
Abbiamo sin qui imbrattato il mondo, inquinato le acque, coperto di smog i monumenti, umiliato il Senato – dentro – con frequentatori indecenti.
Il fatto, poi, è che alternative il profeta le annuncia da tempo insieme ai pericoli. Ma prima ancora che venissero a noia, costretti a ripetersi perché inascoltati, chiedevano con insistenza di cambiare radicalmente il progetto di futuro. Perchè oggi, senza una drastica riconversione, stiamo procedendo dritti dritti verso la fine dell’Antropocene.
Come diceva il profeta Guido Ceronetti, corriamo veloci verso Eschede. Che non è solo la sede dal recente campionato europeo di calcio, ma il luogo in cui deragliò tragicamente, il 3 giugno 1998, un nuovo convoglio ad alta velocità partito da Monaco per Amburgo. L’alta velocità, l’ultimo grido della tecnica più avanzata d’Europa, procurò 101 morti e 88 feriti gravi.
Noi siamo un po’ tutti sulla stessa linea. Ad Amburgo è difficile che ci arriviamo.
Anche noi rischiamo di fermarci a Eschede. (cfr V.Giuliano, G.Caresio, In un mondo che corre verso Eschede. Amichevole colloquio con Guido Ceronetti, Parchi n.60 / 2011).
E poi vede, a proposito di alluvioni e dissesto idrogeologico, ad esempio, i “profeti” – capaci di guardare lontano a differenza della miope classe dirigente imprenditoriale e politica – le soluzioni le hanno delineate e suggerite da tempo.
Per restare in Italia, già Antonio Cederna – uno dei profeti inascoltati insieme ad Aurelio Peccei, Girgio Nebbia, Giorgio Bassani, e tanti altri – mise sull’avviso e indicò le misure suggerite dalla Commissione Intergovernativa De Marchi. Qualcuno diede loro ascolto? È così che abbiamo contato centinaia di morti e lasciato l’insicurezza del territorio senza rimedio alcuno. Anche oggi il ministro Fitto stralcia dal PNRR tutto il capitolo della difesa idrogeologica, quasi non fosse il maggior investimento di cui il fragile territorio della penisola avrebbe bisogno...

Lo scenario
Questo è lo scenario che vive l’Italia con improvvidi governanti che si iscrivono, di fatto, alla lista dei negazionisti, a braccetto con tutta la destra europea.
Quella, per intenderci, che difende la distruttiva pratica della pesca a strascico responsabile della desertificazione dei mari, e che fino all’ultimo ha cercato di opporsi, a metà luglio scorso, alla Nature Restoration Law a sostegno del recupero della biodiversità europea, promulgata nel quadro globale sulla biodiversità delle Nazioni Unite di Kunming-Montreal. A favore della nuova Strategia Europea per la Biodiversità, uno dei pilastri fondamentali del Green New Deal Europeo, al Parlamento hanno votato i rappresentanti Socialisti e Democratici,Verdi, Left, i Liberali di Renew e 21 parlamentari Popolari. A supporto della legge si erano espressi oltre 7 mila scienziati e accademici europei, centinaia di associazioni ambientaliste, ed erano state raccolte oltre un milione di firme di cittadini.
La sfida, alle prossime elezioni europee del 2024 sarà proprio tra questi due schieramenti.
Ma la nostra speranza è che anche i Popolari e la destra rinsaviscano sul tema ambientale, prendendo consapevolezza della realtà almeno per quanto riguarda la crisi climatica, che rischia di compromettere il comune futuro.
Altrimenti è inutile andare in TV a piangere lacrime di coccodrillo, come ha fatto il ministro Pichetto Fratin, che non ha altro effetto se non sancire la propria stoltezza e incapacità di affrontare seriamente i rischi per il futuro da consegnare ai giovani che lo reclamano.
Fanno loro da supporto le testate principali e più seguite dell’informazione, appiattite sulla voce del Padrone. Sembrano non essere in grado di guardare oltre il dito dei giovani attivisti imbrattatori per cercare di spiegare cosa indichi. Si indignano per le vernici biodegradabili e il carbone vegetale, e per inesistenti danni al patrimonio artistico, ma nulla fanno contro la situazione delle nostre città, dove crescono le morti per inquinamento e dove le opere d’arte vengono erose, giorno dopo giorno dal cocktail micidiale che entra anche nei nostri polmoni.
Inadeguati, ipocriti, irresponsabili. I primi, che ci governano, come i secondi che dovrebbero aiutarci a comprendere la realtà decodificando le notizie, spesso nascose dal potere.
La noia e il fastidio che i ragazzi del nuovo impegno ambientalista suscitano in alcuni (non in chi scrive, cha a 17 anni era impegnato come loro e stava per temere che la sua battaglia, durata una vita, fosse persa per sempre) non hanno di certo contaminato Papa Francesco. Lui non sembra annoiarsi affatto e avverte sulla necessità di cambiare radicalmente il nostro sistema economico e il modello di sviluppo che su di esso si appoggia. Radicalmente!
Il Vescovo di Roma si erge, tra i pochi leader mondiali, a consapevole testimone «dell’urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune».
Invita i giovani di tutto il mondo a non accontentarsi «di semplici misure palliative o di timidi e ambigui compromessi. Le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro». Bisogna «farsi carico di quello che purtroppo continua a venir rinviato: ossia la necessità di ridefinire ciò che chiamiamo progresso ed evoluzione. In none del progresso si è fatto troppo regresso» .
Parole forti in cui segnala con forza la necessità di un cambiamento delle visione antropologica alla base dell’economia e della politica. Per «ascoltare la sofferenza del pianeta insieme a quella dei poveri».
Sono forse state proprio le parole del Papa a indurre all’appello sei Presidenti del Mediterraneo – Sergio Mattarella, Zoran Milanovic (Croazia), George Vella (Malta), Marcelo Rebelo de Sousa (Portogallo), Natasa Piric Musar (Slovenia) e Katerina Sakellaropoulou (Grecia) – che sottolineando la gravità della crisi climatica invitano l’Unione Europea e gli altri Paesi del Mediterraneo ad attuare da subito politiche concrete per mettervi riparo. senza più perdere tempo e al di là di compromessi per ragioni politiche o economiche.
Ormai non ci sono dubbi e a fianco di Papa Francesco e del Presidente Mattarella ci sono migliaia di scienziati in tutto il mondo, tranne un residuale manipolo di mercanti di dubbi.
O di qualche ministro ignorante che scambia il tempo con il clima. Sul pianeta tutto accade e tutto si modifica, da sempre. Quel che è cambiato è che avviene tutto troppo in fretta, pochi decenni per i ghiacciai in confronto a secoli. E i giovani si preoccupano per i cent’anni che hanno di fronte e che desidererebbero vivere almeno come li abbiamo vissuti noi. Ma per colpa nostra saranno costretti all’emergenza, a cominciare dall’acqua e dal cibo, che a noi non sono mai mancati, e dalla qualità del respirare che a loro rischia di esser compromessa.
Per questo chiedono risposte serie e vere. Per questo si mobilitano. Per questo non si accontentano più di qualche “lavaggio verde” fatto di corsa, per propaganda.
Così la sfida con gli effetti nefasti del riscaldamento globale sarebbe persa in partenza. E la condanna delle future generazioni alla sete, alla fame, alle guerre per le risorse naturali si prospetta come lo scenario più probabile. Che giustamente rifiutano, disposti a tutto.

Epilogo
Non useranno più vernici, non imbratteranno più i monumenti.
In questo scenario in cui ci si illude che tutto possa proseguire come prima, con governanti ignoranti e sistema informativo colluso, i ragazzi attivano l’intelligenza sbeffeggiandoli.
Hanno infatti deciso di imbavagliare i personaggi dei monumenti per denunciare che quei bavagli li vogliono mettere a loro, cui si vorrebbe impedire il diritto alla protesta – sino alla previsione del reato di associazione a delinquere! – contro l’inettitudine di un Governo che non fa nulla per fermare la crisi climatica e predisporre misure per la transizione ecologica, ma anzi si muove all’opposto, continuando a sostenere le fonti fossili climalteranti. Cambieranno forse modalità di intervento, ma per fortuna continueranno a essere loro. Per seguitare a inchiodarci alle nostre responsabilità.
Perché gli ecoterroristi siamo stati noi. Ci indigniamo contro le vernici biodegradabili e il carbone vegetale, ma cosa abbiamo fatto per difendere le nostre città dove crescono le morti per inquinamento? Siamo stati inadeguati, ipocriti, irresponsabili. Non abbiamo chiesto e preteso abbastanza, siamo stati troppo garbati e corretti e non ci hanno ascoltati.
Mio caro Signore la colpa è nostra, è sua.
Lei è libero di continuare, nel suo egoismo, ad annoiarsi.
Io ho deciso di attivarmi per rimediare ai miei sbagli e aiutare il mio nipotino a sperare nel futuro.

Riserva Naturale del Padule di Fucecchio, ieri, oggi e domani. Colloquio con Laura Salaris

A cura di Gabriele Antonacci

Il Padule di Fucecchio è uno dei più importanti sistemi ecologici della Toscana, oggi al centro dell’attenzione per varie criticità inerenti la gestione della Riserva Naturale. Per comprendere gli eventi recenti abbiamo incontrato Laura Salaris, addetta stampa e portavoce dell’associazione “Amici del Padule di Fucecchio per la Biodiversità”, di cui ha fatto anche parte del Consiglio Direttivo. Insegnante di Lingue Straniere in pensione, fin da giovane appassionata di natura e impegnata in movimenti e associazioni ambientaliste, collabora come volontaria con il Centro di Ricerca, Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio nell'accoglienza dei visitatori e in altre forme di volontariato.

IUA: Gentile Laura buonasera. Desideriamo proporre ai lettori della rivista on line “L’Italia, l’Uomo, l’Ambiente” un quadro della storia, della situazione attuale e del futuro della Riserva Naturale del Padule di Fucecchio, e Lei ci può aiutare.

Laura Salaris: Potrei prendere come riferimento per raccontare questa vicenda l'anno d'istituzione della Riserva Naturale, che risale al 1996.  L’istituzione della Riserva Naturale è stata il risultato delle mobilitazioni negli anni precedenti da parte delle varie associazioni ambientaliste, conclusione di un lavoro importante.  Con l'istituzione della Riserva Naturale da parte della Provincia di Pistoia, si andavano a definire due aree sottoposte a tutela, entrambe facenti parte della riserva ma non contigue; due superfici che nel complesso costituiscono un’area di circa 200 ha, soltanto il 10% di tutta l'area palustre.  Negli stessi anni, nella parte fiorentina veniva istituita una seconda riserva naturale, di appena 25 ha di superficie, su terreni privati; essa in pratica è rimasta un'area protetta solo sulla carta. Quando fu istituita la riserva si diceva da parte dalle province e della Regione che questo era "solo un primo passo", in quanto, data la grande importanza del sito, sarebbe stato necessario un livello di tutela ben maggiore.
Il Centro di Ricerca Documentazione e Promozione del Padule di Fucecchio, associazione Onlus, già operativo sul territorio da 6 anni, ebbe fin da subito la gestione della Riserva congiuntamente al Consorzio di Bonifica. I due soggetti avevano ruoli diversi: il Centro svolgeva consulenza tecnica sugli interventi di miglioramento ambientale, gestiva l'educazione ambientale, la promozione e la fruizione pubblica, mentre il Consorzio provvedeva a progettare i lavori e a incaricare le ditte per eseguirli. Del Centro facevano parte realtà varie del territorio: soggetti privati, come associazioni ambientaliste e venatorie, ed enti pubblici, come i comuni e le province di Pistoia e Firenze, l’Università di Firenze ecc.
Il Centro ebbe una convenzione con la Provincia di Pistoia per la gestione della Riserva; aveva a disposizione due dipendenti, ed è stato svolto da allora per i 20 anni successivi un lavoro che noi riteniamo molto importante da tutti i punti di vista. Un lavoro di miglioramento ambientale in quanto è stata attuata un'opera di re-naturalizzazione dell'area, cioè di ripristino dell'area umida, che aveva subito interventi di bonifica, un miglioramento mirato alla conservazione di habitat e di specie. Furono attivati molti progetti, un'attività continua di monitoraggio, di censimento, di ricerca e già nell'arco di pochi anni si cominciarono a vedere risultati nel senso che aumentò in maniera considerevole la presenza di uccelli sia in termini di specie sia in termini di individui. E anche l'estetica di entrambe le aree fu notevolmente migliorata, con notevole impatto sulla promozione di tutta l'area e l'afflusso di visitatori. Fu intrapresa un'ampia attività di divulgazione e di educazione ambientale, con le scuole e anche con gli adulti. Ci sono stati anni in cui sono state coinvolte un gran numero di scuole del circondario, e, oltre ai due dipendenti, erano coinvolte altre figure come guide e collaboratori scientifici. Le attività erano molte ed erano generalmente apprezzate. Era una realtà molto vivace.  Grazie anche al lavoro preparatorio del Centro, avviato già nei primi anni 2000, è giunto anche il riconoscimento della sua rilevanza: il Padule di Fucecchio è entrato nel 2013 a far parte dell'elenco delle aree umide di importanza internazionale ai sensi della Convenzione di Ramsar.  È una convenzione internazionale siglata nel 1971 nell'omonima città iraniana, che rappresenta una pietra miliare nel processo di tutela delle aree umide a livello mondiale. È stato un riconoscimento che ha avuto la sua importanza anche a livello di visibilità, il Padule di Fucecchio è stato più facilmente rintracciabile anche da persone interessate e dagli studiosi.
Tutto questo lavoro si basava su una convenzione con la Provincia di Pistoia C’era una buona collaborazione e quindi le cose per diversi anni sono andate bene.

IUA: Per completare questo quadro in questi giorni rileggevo la “Guida del padule di Fucecchio” che avevo comprato al centro di Documentazione: la cosa che mi ha colpito non è soltanto il valore ornitologico dell’area, ma l’importanza delle specie vegetali, dei mammiferi, degli anfibi. È veramente un qualcosa di straordinario.

Laura Salaris: Si, c’era un pool di figure professionali che ci hanno investito molto in termini di studio e in termini di ricerca con passione e con reale interesse.  Questo spiega poi i buoni risultati raggiunti.
Una cosa che ancora non ho detto è il fatto che il Padule di Fucecchio è un luogo tradizionale di caccia. La tradizione della caccia è molto radicata, e inserire un'area protetta in un contesto di questo genere comprensibilmente non era accettabile a tutti, era pur sempre una novità importante. Anche se devo dire che dopo i problemi iniziali col tempo in realtà le relazioni, i rapporti, con i cacciatori da parte del Centro sono andate migliorando. È evidente il fatto che persone che hanno tutto un altro tipo di esperienze fanno difficoltà a comprendere qual è il senso di tutto questo, di una realtà nuova che nasce in una zona che loro avevano sempre considerato loro.  In una realtà come quella il pensiero della conservazione su cui si basa il concetto di area protetta, in qualche modo mettere in atto un tipo di gestione volta non alla caccia bensì alla conservazione degli habitat e delle specie per preservarli per tutelarli, non poteva essere immediatamente comprensibile e accettato dai vecchi padulani, che erano nati e vissuti lì. Avevano a volte difficoltà a comprendere: col tempo loro stessi hanno visto i risultati, e il contrasto non era poi diciamo così forte. Tutto questo è andato in crisi a un certo punto, purtroppo.

IUA: Come mai è nata questa crisi e come si è venuta a creare questa situazione?

Laura Salaris: Le amministrazioni locali facevano parte del Centro. Per tutta la prima fase gli amministratori e i Sindaci della Valdinievole hanno in qualche modo cercato di mantenere un equilibrio tra le istanze diverse, come era nello spirito del Centro, che era un corpo in cui partecipavano vari portatori di interesse. Le amministrazioni diventavano garanti del buon andamento del tutto, in un equilibrio armonico.   A un certo punto si sono verificati dei cambiamenti a livello politico che hanno portato vari amministratori a dare più peso e ascolto alle istanze di alcuni gruppi locali e delle associazioni venatorie, mandando in crisi l’equilibrio precedente.
Alcuni comuni hanno deciso di uscire dal Centro, facendo  mancare in qualche modo la legittimazione alle attività. Di fatto si è preferito compiacere le associazioni venatorie. Quando sono venute a cessare le province nel 2014 è venuta quindi anche a mancare la convenzione con la Provincia di Pistoia: è successo che mentre per gran parte delle altre riserve naturali toscane in qualche modo è stata trovata una soluzione - in quanto la Regione, che aveva acquisito le deleghe dalle provincie,  aveva rinnovato le convenzioni alle realtà che le gestivano – per il Padule questo non si è verificato. In questa dinamica ha senz’altro influito il peso elettorale delle associazioni venatorie.
Lei può capire bene che il Centro, e per chi lo sosteneva come noi, da una realtà che era positiva in tutto e per tutto si è ritrovato in una situazione non del tutto comprensibile.   Si disse che il Centro non aveva i requisiti formali per poter gestire la riserva. Questa argomentazione sembrava un grande pretesto: la Regione ha rinnovato la convenzione ad altre associazioni che in realtà – a nostro avviso - non avevano requisiti assolutamente migliori né diversi perché si diceva che per poter gestire una un'area protetta bisognava essere una realtà associativa a livello nazionale, mentre altre associazioni a cui la convenzione era stata rinnovata non lo erano assolutamente.   Ritengo se ci fosse stata la volontà politica in qualche modo di preservare il Centro una soluzione in tutti i modi si sarebbe trovata.
La perdita di un ruolo e della convenzione ha determinato anche una crisi economica del Centro. Si è cercato comunque di andare avanti, i dipendenti hanno avuto l'orario ridotto pesantemente e  comunque il Centro è riuscito ad andare avanti, svolgendo anche progetti ed interventi commissionati da altre aree protette della Toscana. In questa situazione di crisi si era venuto a creare un gruppo di volontari a vario titolo e di sostenitori che proprio in quella fase (2014-2015) decisero di costituirsi in associazione, con lo scopo in qualche modo di supportare il Centro nelle sue attività. Nacque quindi l'associazione Amici del Padule di Fucecchio per la Biodiversità.
Proprio in quella fase fu creato il nuovo centro visite inaugurato alla fine del 2013. È stato il Centro a intercettare un bando europeo e a predisporre un progetto di massima per partecipare. Nel 2014 il centro visite era appena stato edificato, ma non c'era la possibilità di tenerlo aperto in maniera costante perché le risorse erano state limitate. Fu allora che gli Amici del Padule di Fucecchio  assunsero come impegno principale quello di contribuire a tenere aperto il centro visite e  l’osservatorio delle Morette nei fine settimana, considerato che i dipendenti nei fine settimana erano in genere impegnati in altre attività. Accogliere visitatori, dare informazioni di massima, dare indicazioni era il nostro compito. Questo è durato per molto tempo: dal 2014, ad un mese fa. Siamo andati avanti fino ad ora in tutte queste difficoltà.

IUA: Sono state fatte altre scelte amministrative che hanno determinato la crisi attuale o ci si è limitati a non rinnovare la convenzione con il Centro?

Laura Salaris: Sì, è intervenuto un altro fatto: la scelta della precedente Giunta Regionale di assegnare i beni della riserva ad alcuni comuni e al Consorzio di Bonifica. Questa era una decisione già ipotizzata da tempo, e contro la quale ci eravamo mobilitati. Era stata denominata già allora lo "spezzatino" perché in qualche modo andava a smembrare i beni della Riserva, andando in qualche modo a vanificare una gestione unitaria e coordinata. Noi l'avversammo fin dall'inizio insieme alle altre associazioni ambientaliste. Nel maggio del 2019 organizzammo una marcia dal centro visite di Castelmartini fino alla riserva a cui parteciparono anche le altre associazioni.  Ebbe un notevole riscontro sulla stampa perché fu veramente molto partecipata. All'indomani di tale evento sembrava che potessero aprirsi degli spiragli di dialogo, in quanto fu istituito un tavolo regionale di confronto con le associazioni. Ma a fine mandato l'assessore Fratoni divise i beni della Riserva: il Centro Visite a Larciano e l’osservatorio delle Morette a Ponte Buggianese (l’Area Righetti era già proprietà del consorzio di Bonifica).  La convenzione con i comuni e con il Consorzio si occupò della divisione dei beni della Riserva, ma non specificò chi e come avrebbe dovuto assicurare una gestione complessiva. Questa è stata una demolizione di fatto della Riserva. Il Centro che precedentemente svolgeva un ruolo di gestione e di consulenza tecnico-scientifica è stato messo da parte. Esso ha conservato la sua sede e ha continuato a svolgere visite guidate nell'area protetta, anche se l'area protetta non era più gestita, e nel corso del tempo si è andata deteriorando. La situazione di abbandono attuale è dovuta a questi vari passaggi.
Noi come associazione Amici del Padule ci siamo impegnati finora anche in piccoli lavori di manutenzione e supporto nei censimenti e in altre attività di ricerca. Riparazioni che si sono rese necessarie perché non erano stati fatti lavori importanti.  Abbiamo resistito, abbiamo continuato a impegnarci tutti questi anni anche per mantenere l’attenzione su questa realtà e perché ci dispiaceva che il Centro fosse chiuso nei giorni festivi. Soprattutto i primi anni c'era moltissima gente che arrivava, la situazione era ancora bella.   Prima che si venisse a creare questo deterioramento nei giorni festivi in primavera c'era veramente un afflusso enorme di visitatori e ci dispiace che adesso la situazione sia questa. Però abbiamo deciso di smettere per lanciare un allarme, per dare un segnale forte.  Riteniamo che non soltanto si debba recuperare quello che si è perso, ma che se possibile si debba fare anche un passo avanti: perché un servizio come quello dell'apertura delle strutture di visita in un'area protetta dovrebbe essere finanziato.
Ci aspetteremmo non soltanto un ritorno a una buona gestione, ma un passo in avanti: l'area protetta ricade su appena il 10% dell'area palustre, ed esiste già negli atti programmatici della Regione un documento in cui si prevede l'ampliamento della Riserva. Un documento che risale al 2013, si chiama “Strategia Regionale per la Biodiversità”, dove si prevede l'ampliamento della Riserva.
Sinceramente credo che abbiamo toccato il fondo da cui si deve risalire; speriamo che qualcosa di concreto accada nell'arco di un tempo ragionevole.

IUA: Ammettiamo che tutto vada per il meglio, e la Regione finalmente intervenga, cosa si potrebbe fare?

Laura Salaris: Al di là di quello che sarà il futuro del Centro, che ovviamente conserva delle risorse umane che non dovrebbero andare disperse, è assolutamente fondamentale che la Regione assicuri in modo chiaro una gestione competente dell'area protetta, individuando un soggetto, senza tuttavia escludere gli enti locali.
La riserva andrebbe ampliata, magari con gradualità e con un approccio tecnico, ma senza porre altro tempo in mezzo.
Speriamo che quanto previsto dagli atti di programmazione regionale, che rappresenta anche un obiettivo prioritario dell'agenda 2030, venga messo in atto.

 

Bibliografia

- “PIANO AMBIENTALE ED ENERGETICO REGIONALE”, Obiettivo B.1 Conservare la biodiversità terrestre e marina e promuovere la fruibilità e la gestione sostenibile delle aree protette REGIONE TOSCANA – 2013

- AAVV “Guida del Padule di Fucecchio, natura, storia, tradizioni, itinerari”, Quaderni del Padule di Fucecchio N° 8, 2017.

L’Assemblea della Federazione Nazionale Pro Natura

Elvio Massi

Nella splendida cornice di “Casa Archilei”, Centro di Educazione Ambientale di Fano, gestito dalla Associazione Naturalistica Argonauta, si è svolta lo scorso 16 aprile, l’annuale Assemblea Ordinaria della Federazione Nazionale Pro Natura, con la presenza dei rappresentanti (in proprio o per delega) di 35 Associazioni aderenti di tutta Italia.
Dopo i saluti del Presidente dell’Argonauta Luciano Poggiani, che ha ricordato il ruolo che da oltre 50 anni porta avanti sul territorio la Associazione con le strutture dalla stessa gestite (Lago Vicini, Stagno Urbani, Casa Archilei), si è passati a trattare l’o.d.g.
L’Assemblea ha preso atto che, a seguito della cessazione delle attività esercitate, vengono estromesse dalla Federazione 14 associazioni locali, che di fatto non esistono più.
Indi il Presidente uscente Mauro Furlani ha presentato la relazione morale sulle attività svolte. Ha ricordato che si è tornati ad una Assemblea in presenza dopo gli anni della pandemia ed ha ringraziato l’Associazione Argonauta per l’ospitalità e tutti i presenti intervenuti. Ha fatto un quadro della situazione generale del paese, richiamando grandi temi quali il persistente consumo di suolo, i lavori impattanti previsti nel PNRR, il risanamento delle periferie degradate, le questioni energetiche irrisolte. Ha ricordato le azioni legali intraprese dalla Federazione Pro Natura contro la costruzione delle piste da sci sul Monte Catria e contro altri scempi ambientali in Italia. Ha evidenziato come spesso il ricorso giudiziario rimanga l’unica arma in mano alle Associazioni e che su questo è necessaria una riflessione dal momento che richiedono grande dispendio di energie, con esiti non sempre positivi. Ha menzionato la partecipazione della Federazione a importanti Comitati di rilievo nazionale in materia ambientale quali:
- il Comitato “Cambiamo l’Agricoltura”;
- il Comitato Olimpiadi Milano-Cortina;
- il Comitato Grandi Eventi;
- i Rappresentanti designati nei Parchi Nazionali e nei Parchi Regionali e nelle Riserve Marine.
Ha fatto notare in proposito che di solito queste nomine vengono fatte d’intesa dal Gruppo interassociativo delle Organizzazioni Ambientaliste, ma che di recente una Associazione Nazionale è uscita dal Gruppo per essere svincolata nelle nomine e poter agire in autonomia.
Ha ricordato inoltre che la Federazione partecipa da tempo a diversi Organismi Internazionali (IUCN, EEB, CIPRA ITALIA).
Sulla questione dei grandi predatori (lupi, orsi, ecc.), che è tornata di grande attualità per le vicende recenti, ha affermato che serve una attenta riflessione sulla materia, con analisi tecniche e culturali adeguate, senza cedere a facili conclusioni, ricordando che dove può la natura si riprende i suoi spazi, gli animali spesso si difendono da invasioni dei loro territori. Comunque – ha affermato – serve una seria stima degli animali presenti nelle varie aree ed una riflessione culturale profonda, basata su documenti scientifici (ha citato ad esempio il documento prodotto dall’Associazione aderente alla Federazione Canislupus).
Passando al ruolo svolto dalla Federazione nel contesto dell’ambientalismo nazionale ha fatto presente che sono insorte difficoltà di confronto negli ultimi anni con altre Associazioni, in quanto sono emerse chiusure: ognuno cerca di difendere i propri contesti (come ad es. sui temi energetici). La Federazione – ha detto –ha cercato di ampliare i propri spazi di azione, ma è difficile, è diventato più complesso negli anni. Ha ricordato che la Federazione ad oggi gestisce cinque Oasi naturalistiche in tutta Italia (tra cui lo Stagno Urbani di Fano) e che di recente si sono aggiunte altre aree, con l’acquisto dell’Oasi di Lago Freddo (Asti) e di altri siti. Ha evidenziato che la Federazione ha ricevuto il Premio Nazionale del paesaggio per il progetto “Dal bosco al paesaggio” (il riconoscimento ufficiale è arrivato con il Decreto del Ministero della Cultura del 14-03-2023). Ha ricordato anche le strutture gestite dalla Federazione, citando ad es. le due case rurali a Scontrone (una dedicata al Museo sulla Casa degli Appennini ed una destinata a Centro di Educazione Ambientale per le scuole) e l’Oasi di Poggio Giudio nella Tuscia, di recente acquisizione, con reperti archeologici.
Passando a trattare i rapporti con le Associazioni aderenti e le Organizzazioni Regionali ha ricordato che i tre anni di pandemia Covid hanno influito (alcune Federate hanno cessato le attività) ma che ora si può riprendere ad avere contatti più diretti e che occorre rendere più visibili le attività delle Federate, attraverso gli strumenti di cui disponiamo: il sito Web e la rivista “Natura e Società” diffusa a tutti i soci.
Lamenta in proposito uno scarso invio di materiali sulle loro attività da parte delle Associazioni Federate e sollecita a dare maggiori comunicazioni in proposito. Ricorda inoltre che serve dar vita –ove possibile- alle Organizzazioni Regionali della Federazione, perché servono e sono utili per interfacciarsi meglio con le Regioni e le Province. Ricorda altresì i numerosi materiali che vengono pubblicati a livello locale: molte pubblicazioni delle Federate (ad es. “Obiettivo Ambiente” di Pro Natura Piemonte) sono di notevole pregio e spesso c’è una ricchezza locale superiore a ciò che si vede.
La rivista nazionale “Natura e Società” ora viene pubblicata solo online, ma ha una capacità di diffusione ampia; gli ultimi numeri sono diventati più corposi e gli articoli più approfonditi grazie al contributo di un pregevole Comitato di Redazione, con nomi di rilievo. La rivista è quindi motivo di soddisfazione e va curata.
Elenca le Organizzazioni regionali della Federazione esistenti che sono quelle di Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Lombardia, Toscana, Abruzzo e Marche. Questi organismi spesso sono riconosciuti ufficialmente dalle stesse Regioni (come ad es: dalle Marche) e consentono di fare le designazioni per i propri rappresentanti negli Enti Parco. A tal proposito auspica vivamente la costituzione di una Pro Natura regionale in Sicilia, una realtà che è ricca di iniziative e attività.
Sui rapporti con le altre Associazioni e movimenti ambientalisti e con il mondo giovanile ha svolto una analisi approfondita. Ha rilevato che ultimamente le Associazioni storiche hanno difficoltà a muoversi a causa dello scarso ricambio generazionale, spesso vengono viste dai giovani come “establishment” e questo è un grosso limite per l’associazionismo. Auspica quindi un maggior spazio alle giovani generazioni ed una rinnovata attenzione alle tematiche care ai giovani.
Sulle attività di vigilanza ambientale ha affermato che il Coordinatore nazionale ha svolto un lavoro egregio, sono state fatte attività importanti, è una interfaccia con le Amministrazioni locali, merita attenzione anche per la delicatezza dei problemi da affrontare.
Ha rinnovato i propri ringraziamenti per le attività svolte alla Segreteria di Torino, al Comitato Scientifico e al Comitato di Redazione. Ha formulato un augurio ai componenti del nuovo Consiglio Direttivo che verrà eletto, di avere una visione prospettica, capacità di azione, spirito di collaborazione ed anche amicizia tra le persone, che è sempre fondamentale trattandosi di volontariato.

Alluvione in Emilia-Romagna: si può parlare di emergenza?

Donato Cancellara
(Ass. VAS per il Vulture Alto Bradano, Coord. SiP - Vulture Alto Bradano)

Quando si verificano disastri di natura idrogeologica in aree "povere" dell'Italia non si perde tempo a puntare il dito contro coloro che ricoprono ruoli di responsabilità nel governo del territorio, mentre quando si verificano analoghi disastri in aree "ricche" dell'Italia si grida al fato, alla eccezionalità dell'evento, alla imprevedibilità, alla sfortuna. Una disparità di trattamento, da parte di molti mezzi di informazione e non solo, alquanto stucchevole ed irritante. Mi riferisco, ovviamente, all'alluvione dell'Emilia-Romagna e penso anche a quella di Ischia del 22 novembre 2022 quando il  Ministro dell'Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, sentì la necessità di affermare "basterebbe mettere in galera il Sindaco e tutti quelli che lasciano fare", perché "i sindaci non devono lasciare costruire". Cosa dice il Ministro sul caso Emilia-Romagna o pensa che nella "ricca" regione non ci siano Sindaci, amministratori o governatori a cui rivolgersi?

Vorrei partire proprio dalle responsabilità di un Sindaco e cosa può fare per evitare situazioni come queste che stiamo vedendo in Emilia-Romagna. 

Penso convenga partire da cos'è il PUG (Piano Urbanistico Generale) facendo esplicito riferimento alla Legge Regionale n. 24 del 2017 dell’Emilia-Romagna che introduce alcuni obiettivi di assoluta novità per uno strumento di pianificazione su scala comunale, almeno sulla carta, tra cui:

1. contenere il consumo del suolo, inteso quale bene comune e risorsa non rinnovabile che svolge, con le infrastrutture verdi, funzioni importanti per l’ambiente urbano e produce i servizi eco-sistemici indispensabili per la prevenzione del dissesto idrogeologico e la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici;

2. favorire la rigenerazione urbana dei territori urbanizzati e il miglioramento della qualità urbana ed edilizia, con particolare riguardo alle condizioni di vivibilità delle aree urbane anche in termini di qualità ambientale ed ecologica. Con la rigenerazione urbana la legge indica chiaramente l’obiettivo di riqualificare la città esistente, di sviluppare i servizi per la vita delle popolazioni e di coinvolgere le comunità locali nelle scelte di trasformazione;

3. tutelare e valorizzare il territorio nelle sue caratteristiche ambientali e paesaggistiche favorevoli al benessere umano e alla conservazione della biodiversità e di habitat naturali.

Ricordiamo che i nuovi PUG, a regime, dovranno prendere il posto degli attuali Piani Strutturali comunali (PSC), Piano operativi Comunali (POC), Regolamenti urbanistici edilizi (RUE) quale strumentazione per il governo delle trasformazioni del territorio comunale introdotta dalla Legge Regionale 20/2000 dell’Emilia-Romagna che a sua volta sostituisce il vecchio Piano regolatore generale (PRG) ed il Regolamento Edilizio.

Con questa premessa mi chiedo: cinque anni fa, nel 2017, si parlava di contenere il consumo del suolo, favorire la rigenerazione urbana, tutelare e valorizzare il territorio, c'è qualcosa di coerente tra gli obiettivi prefissati nella pianificazione urbanistica e le scene che stiamo vedendo? Inoltre, mi chiedo: coloro che hanno responsabilità nel governo del territorio - a livello regionale, provinciale e comunale - non hanno nulla da dire oppure preferiscono gridare, così come stanno facendo, alla imprevedibilità ed alla eccezionalità? L'Autorità di Bacino, gli Uffici di Pianificazione territoriale e Difesa del Suolo ed i Consorzi di Bonifica, non hanno nulla da dichiarare sul loro operato negli ultimi decenni?

Solo pochi giorni fa, Paolo Pileri, Professore ordinario in Pianificazione e Progettazione Urbanistica presso il Politecnico di Milano, evidenziava che secondo i dati  tratti dal rapporto annuale dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) sul "Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici del 2022,  è possibile affermare che tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna è stata la terza Regione italiana per consumo di suolo (658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale), l’Emilia-Romagna èarrivata ad avere una superficie impermeabile dell’8,9% contro una media nazionale del 7,1%, la provincia di Ravenna è stata la seconda provincia regionale per consumo di suolo nel 2020-2021 (più 114 ettari, pari al 17,3% del consumo regionale) con un consumo procapite altissimo (2,95 metri quadrati per abitante all’anno); la provincia di Ravenna è stata quarta per suolo impermeabilizzato procapite (488,6 mq/ab), la città di Ravenna è stato il capoluogo più consumatore di suolo dell’intera Regione nello scorso anno (più 69 ettari); l'Emilia-Romagna è la Regione d’Italia al primo posto per cementificazione in aree alluvionali.

Nonostante i numeri non lasciano ambigue interpretazioni, in Italia piace raccontare mezze verità e nascondersi dietro la parola magica Emergenza. Nel caso dell'Emilia-Romagna si parla continuamente di Emergenza addirittura rievocando, in modo imbarazzante, il terremoto verificatosi nel 2012. Eventi completamente differenti, ma accomunanti da una similare strategia politica.

Le terre di Romagna vengono allagate per la seconda volta, nell'arco temporale di circa un mese, e le Istituzioni gridano all’emergenza? La parola emergenza sottende una circostanza imprevista quindi inaspettata, ma è proprio così? Secondo l'ultimo rapporto dell’Ispra del2021, il 93,9% dei Comuni italiani è a rischio frane, alluvioni e/o erosione costiera che, tradotto in numeri, significa 1,3milioni di abitanti a rischio frane e 6,8 milioni a rischio alluvioni. Il rapporto evidenzia che le regioni più a rischio sono Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria.

Vale la pena evidenziare che l'Ispra classifica le aree allagabili in Italia in base a tre scenari di probabilità: elevata, media e bassa probabilità di alluvioni. Nel primo scenario rientrano le aree allagabili da alluvioni con tempi di ritorno compresi tra i 20 e i 50 anni; nel secondo scenario con tempi di ritorno compresi tra 100 e 200 anni, mentre nel terzo con tempi di ritorno superiore ai 200 anni. L'Emilia-Romagna è la seconda regione d'Italia con la quota più grande di territorio a elevata probabilità di alluvione (11,6%) ed è al primo posto per percentuale di territorio con la probabilità di alluvione media.

Penso che la parola più appropria non sia Emergenza bensì mala gestione del proprio territorio accompagnata da una buona dose di ipocrisia: l'Emilia-Romagna è la Regione d’Italia al primo posto per cementificazione in aree alluvionali ed al primo posto per percentuale di territorio con la probabilità di alluvione media. Le competenze sulla valutazione della pericolosità idraulica, quindi anche sul rischio idraulico,  andrebbero ricercate a livello delle Istituzioni della specifica Regione. Tuttavia, non possiamo non sottolineare che il Sindaco risulta l'Autorità rappresentante tutti i cittadini del Comune che amministra. È ovvio che una pianificazione urbanistica non può acconsentire l'edificazione in aree potenzialmente alluvionali, quindi il Sindaco, per il tramite dell'Ufficio tecnico, non può soprassedere, senza pronunciarsi, su progetti incompatibili con la riduzione del rischio idraulico. Il Sindaco non può esimersi dal sollevare perplessità, tramite l'Ufficio tecnico, sulle incompatibilità tra la mappa di pericolosità idraulica e quelle associate al Piano strutturale comunale oppure al più innovativo Piano urbanistico generale.

Mi chiedo: la colpa di quanto si è verificato in Emilia-Romagna andrebbe ricercata nella imprevedibilità/eccezionalità dell'evento oppure in coloro i quali non hanno saputo rispettare il proprio habitat naturale con la inevitabile conseguenza di far scatenare una natura che si riappropria di quegli spazi violati e stuprati dall'uomo in modo irresponsabile e per il soddisfacimento di una irrefrenabile ingordigia?

Contrasti, rinvii, boicottaggi. Dire no all’Europa per arrivare ultimi

Valter Giuliano

Riprendiamo l’analisi sulle derive di sistema che stanno contraddistinguendo le recenti politiche del nostro Paese e che ne denunciano l’assoluta insensibilità e irresponsabilità nei confronti della transizione ecologica via via più urgente.
L’incapponimento del Governo italiano sui biocarburanti, per procrastinare l’utilizzo dei motori termici, ha ottenuto un rinvio grazie al sostegno di Repubblica Ceca, Bulgaria e Polonia e all’incertezza della Germania. Ci siamo gonfiati il petto per il rinvio imposto all’Unione Europea rispetto alla data del 2035, ma è durato  il lampo di qualche settimana. Poi abbiamo ricevuto una bella sportellata in faccia.
Abbiamo in ogni caso dimostrato di mettercela proprio tutta per essere il fanalino di coda dell’Europa verso la transizione ecologica.
Una battaglia di retroguardia sostenuta con argomentazioni risibili. Le aziende non sono pronte (non lo erano neppure per la rinuncia al piombo nei carburanti); non ci sono le colonnine per le ricariche (in pochi mesi ne sono state installate migliaia in Olanda...).
Dunque vogliamo che i vecchi motori restino, utilizzando i biocarburanti. A dar man forte nel chiedere deroghe e rinvii è anche il mondo delle imprese, mal abituato da questi atteggiamenti dilatori messi in atto abitualmente dai nostri governi.
Accadde pure in occasione del passaggio dai carburanti con piombo alla cosiddetta benzina verde. Scarsa propensione alla flessibilità, insufficienti reinvestimenti in ricerca e innovazione (si preferisce la strada degli investimenti finanziari) e conseguenti ritardi tecnologici fanno sì che le nostre imprese non investano mai sul futuro, riorientandosi nella conservazione del presente e cercando di trarre il massimo dei profitti sfruttando sino all’ultimo impianti tecnologici obsoleti, non più al passo con i tempi e la concorrenza.
Più ragionevole, sia pure con molte riserve, la posizione tedesca, che ha invocato una deroga per i carburanti e-fuel, ottenendola.
Questi ultimi sono prodotti dall’elettrolisi dell’acqua, da cui si ricava ossigeno che, miscelato con l’anidride carbonica dell’aria, fornisce carburante neutro dal punto di vista climatico e adatto a essere utilizzato nei motori a scoppio e distribuibile attraverso l’attuale rete di pompe di benzina. Occorre registrare che i costi di produzione sono, ad oggi, piuttosto alti, stimati in dieci-venti euro al litro; restano inoltre nei tubi di scappamento emissioni di ossidi di azoto. Si prevede inoltre che potranno alimentare, al massimo, 5 milioni di auto su un parco circolante di 290.
I biocarburanti sostenuti dall’Italia per difendere le politiche dell’Eni, che ha investito in ricerca nel settore (nella penisola sono presenti a livello sperimentale, sulla rete Eni, una cinquantina di pompe che erogano diesel da biocarburante), sono derivati dai rifiuti, ma soprattutto da biomasse, in particolare mais, grano, barbabietola, canna da zucchero e oli non commestibili e di palma.
Dal punto di vista delle emissioni di CO2, non sono neutri.
Resta il fatto che, per entrambe le soluzioni, pur in presenza di abbattimenti considerevoli delle emissioni, la combustione nei motori endotermici produce emissioni di particolato e ossidi di azoto del tutto paragonabili a quelli associati dalle benzine fossili.
Il ricorso a questi tipi di carburanti appare al momento più probabile, semmai, a settori come la navigazione o l’aviazione, dove l’introduzione dell’elettrico appare ancora a di là dal venire.
Per il settore automobilistico resta un dubbio.
L’allora amministratore delegato di Fiat Auto, Sergio Marchionne, non esitò a dichiarare che il futuro dell’auto non sarebbe stato l’elettrico. C’era e c’è qualche alternativa che non viene detta?
Al momento l’Italia farebbe comunque bene ad abbandonare atteggiamenti autolesionisti e irresponsabili, lasciando da parte la retorica del “made in Italy” e della tradizione, che appaiono del tutto tramontati dopo che i suoi marchi sono stati assorbiti dalla multinazionale Stellantis a guida francese e nel momento in cui siamo scivolati all’ottavo posto nella classifica dei produttori europei, superati da Germania, Stagna, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Gran Bretagna e Romania.
Non solo, ma della 450 mila auto prodotte sono ormai elettriche 100 mila Panda e altrettante Cinquecento. Dunque, anche per il nostro paese il futuro del sistema industriale va velocemente orientato verso una nuova componentistica legata all’elettrico in sostituzione del termico e nel settore delle batterie, cosa che richiede investimenti in ricerca (batterie al sale?).
Restando in tema energetico, qualche appunto in tema di contrasti tra il dire e il fare, va rivolto anche all’UE che, con la Direttiva “Rinnovabili”, continua a incentivare la produzione di energia elettrica, bruciando il patrimonio forestale. Nonostante gran parte della comunità scientifica abbia segnalato che produrre elettricità in questa maniera, è fortemente climalterante e inquinante.
Alberi e foreste non sono unicamente giacimenti di legname da bruciare per trarne profitti. Sono innanzitutto regolatori essenziali del ciclo dell’acqua, termoregolatori, generatori di ossigeno, assorbitori di anidride carbonica, fertilizzatori del suolo, scrigni di biodiversità.
Oggi i deputati di un partito verde solo nelle camice dei suoi militanti, giungono a proporre centrali da 300 MW da alimentare con il legno. Ben sostenuti da un Testo Unico Forestale generato ai tempi della Presidenza del Consiglio Gentiloni – l’on. Ermete Realacci a capo della Commissione Ambiente – che ha disposto di superare la proprietà privata là dove non si intenda procedere al taglio del proprio bosco giunto a fine turnazione secondo le regole dello sfruttamento forestale.
Biocidi nel nome del bio, del sostenibile, della resilienza, del green, della transizione...
Sono atteggiamenti che stridono rispetto ai comportamenti virtuosi da mettere in atto per  una verosimile transizione energetica.
Perchè continuiamo a sostenere, a suon di soldi pubblici, cioè nostri, il fossile da cui dovremmo uscire al più presto. I dati parlano chiaro.
Cambiando settore eccoci al presunto “fatto in Italia” e ala produzione di carne.
Anche qui è scattata la parola più usata dal nuovo Governo: proibito!
Senza discussione, dibattito, suggerimenti, ricerche scientifiche.
È bastato il sussurro della più potente organizzazione professionale agricola all’orecchio del cognato del presidente del Consiglio per far partire l’anatema.
Ovviamente a difesa dei nostri prodotti tipici: la bresaola della Valtellina fatta con la carne di zebù del Brasile, le varietà di patate, fagioli, pomodori (che arrivano dal Sud America); magari anche dei kiwi, dei cachi, degli avocado...
Qui, se non fossero cose serie, di Governo, scadremmo nel ridicolo e basterebbe una risata per seppellirli.
Non sarà una risata, invece, che rischierà di seppellire il nostro comparto agroalimentare, che fa bene a difendere i prodotti di qualità del territorio, ma deve saper guardare al futuro.
Non si tratta di mettere in discussione la carne di qualità dei nostri allevamenti famigliari, di quelli al pascolo, transumanti e di montagna.
Semmai a essere giustamente in discussione saranno quelle fabbriche di carne che, come catene di montaggio incuranti al benessere animale,  producono intensivamente prodotti di scarsa qualità per mantenere bassi prezzi e consentire ai consumatori di ingurgitare quantità di proteine animali nocive al nostro equilibrio alimentare e dunque alla nostra salute.
Eppure il prode ministro difensore del “fatto in Italia” non consentirà di fare alcuna ricerca e sperimentazione in Italia. Senza spiegazioni che non rientrino nella categoria dei pregiudizi.
In compenso, stende tappeti rossi alle nostre produzioni vinicole e si scandalizza che in etichetta si voglia giustamente segnalare che l’alcol nuoce alla salute, non essendo previsto dal nostro metabolismo alcun meccanismo che, per demolirne la molecola, non produca effetti nocivi.
Dal suo collega, che dovrebbe difendere la salute pubblica, non arriva segnale alcuno.
Non c’è campo, i tweet sull’argomento non partono.
Ma torniamo alla carne coltivata. Il dibattito che si è aperto è stato subito chiuso a livello politico, ma ciò non impedisce, per ora, che se ne parli.
Cellule staminali, prelevate da animale vivo con procedura medico-veterinaria, vengono lasciate crescere in vitro allo stesso modo in cui farebbero nel corpo dell’animale. La carne coltivata evita l’uccisione del vivente e dunque può rappresentare, sul piano etico e ambientale, un momento fondamentale, ponendosi in alternativa agli allevamenti intensivi che sacrificano miliardi di esseri viventi per rispondere al consumismo industriale che si è affermato anche nel comparto agroalimentare e che si giustifica con la necessità di sfamare la popolazione mondiale (cosa che non fa, a causa dell’iniqua distribuzione che spreca quantità intollerabili di cibo e che, in parte, si potrebbe fare con l’apporto di proteine vegetali).
Non solo, ma potrebbe incidere in maniera rilevante sulla salute del pianeta, riducendo i fattori di inquinamento a livello di acqua e di suolo, delle emissioni di metano e anidride carbonica.
È probabile che anche in questo caso non sia oro tutto ciò che luccica e che non si sia di fronte alla panacea. Ma scegliere di uscire dal gioco, non farne parte a priori, non partecipare per ricercare e indagare è davvero una decisione stolta. Anche sotto il profilo economico, giacché si stima che il nuovo settore potrà raggiungere i 450 miliardi di dollari entro il 2040, pari a un quinto del nostro Pil.
La stoltezza propagandistica di oggi potrebbe, dunque, costare cara...
Intanto alla faccia dell’urgente transizione ecologica che passa da quella energetica, come non annotare che, nascosti nelle pieghe della terrificante politica dei bonus, siano stati distribuiti poco meno di 22 miliardi in sussidi nocivi per l’ambiente e in contrasto con le declamate politiche di riconversione?
E ci sarebbe anche da dire sul mercato dei falsi crediti di carbone: mercato ricco mi ci ficco!
Ne riparleremo.

Noi e gli altri…noialtri?

Longino Contoli Amante

Un’antica espressione popolare univa, quasi con tenerezza, i termini “noi” e ”altri” nella locuzione “noialtri”.
Da un po’, sembra di nuovo di moda confrontare in modo antitetico “noi” agli ”altri”; ma siamo sicuri di sapere chi siamo noi e chi sono gli altri?
Intanto, almeno dopo che la globalizzazione ha contagiato, con i nostri guai da “primo mondo”, anche gli altri “mondi”, sembriamo sempre più vecchi, soli, depressi, egoisti, avari, terrorizzati di perdere quel poco che ci resta… come tanti “Pantalon de’ bisognosi”…
Sospettosi di ogni interazione imprevista, quasi paranoici, siamo, forse, coinvolti da un invecchiamento globale, a varia scala?
Dall’entropia crescente dell’universo al sistema solare, ai viventi…
… da un ipotetico (che Dante mi perdoni!) “primo parente”; forse, non un LUCA, ma una MARE, Marine Archaic Relational Entity, prima della distinzione biologica tra specie…
… fino a dopo il “Darwinian threshold” intuito dal grande Woese; con un crescente arroccamento e isolamento a difesa delle basi genetiche di adattamenti evolutivi sempre più complessi, precari e tesaurizzati…
… dai Macro-taxa (Domini, Regni, Phyla, Classi e chi più ne ha più ne metta) alle specie biologiche, sempre più isolate e, perciò, restie a evolvere grandi novità assortative (che siano stati, i Licheni, tra le più recenti?)…
E noi, Homo sapiens? In un quadro piuttosto oscuro, per i viventi e per lo stesso universo; dopo esserci rassegnati a non essere corporalmente immortali (con qualche, crescente dubbio anche circa l’anima…); a che casa nostra non sia il centro dell’universo; ad essere una specie animale; a contemplare la leopardiana “…infinita vanità del tutto…”, non riusciamo ancora a provare e coltivare un’umile, empatica compassione verso noi stessi e gli altri, tutti gli altri, dai conspecifici agli animali, ai viventi, all’intera biosfera.
Fummo, a lungo, una specie vagile ed eurifaga, costituita in sostanza da una grande meta-popolazione articolata in sub-popolazioni che si diffusero su tutta la Terra, parte positiva degli ecosistemi (ebbene, sì: non c’è maggiore amico evolutivo per una preda che il suo predatore quando, assieme, costituiscano un resiliente feed-back negativo)…
… passammo, però, poi, nel rapporto “Uomo - ambiente”, dall’inserimento diversificante (dai raccoglitori ecc., ai coltivatori e allevatori) allo sfruttamento intensivo de-diversificante d’oggi… dall’esplosione giovanile, tumultuosa, espansiva all’arroccamento senile; vanificando (con l’evoluzione culturale) quel duro ma vitale feed-back, a favore dell’egoismo individuale.
A furia di mortificare ed eliminare tanti “altri da noi”, visti senz’appello come nemici (ed eravamo parenti!), abbiamo cominciato a divenire nemici di noi stessi…
…mentre l’accezione di “altro” passava dalle specie alle etnie, pur sempre umane; ai popoli; alle famiglie; ai singoli…
Per un po’, i popoli mediterranei parvero mitigare tale deriva obbedendo alle particolari esigenze dei loro minuti e frammentari insediamenti nelle isole e penisole, in particolare nell’Italia di allora, quasi arcipelago di approdi, soprattutto dal mare; punto cruciale e vitale d’incontro-scontro fra le sub-popolazioni umane d’Africa ed Eurasia…
…ma, anche qui, sembra si passi irresistibilmente dall’ospitalità feconda e… anti-consanguinea degli antichi miti omerici (l’episodio commovente di Glauco!) all’isolazionismo egoista dell’oggi…
… ciò mentre, verso i popoli italici, ormai isteriliti (dimentichi di derivare da un antichissimo melting pot ante litteram le cui radici affondano nei quattro angoli del Mediterraneo e delle terre contermini), qualcuno, “per amore per l’Italia e gli italiani”, sbraita di “sostituzione etnica” e tali radici si affanna a tagliare, condannando, cos’, la patria e i suoi figli all’alienazione, al declino…
… eppure, quanto di ciò che ci rende tuttora orgogliosi deriva da tali radici culturali che, di certo, venivano per lo più da ciò che oggi si definisce la clandestinità!
Altro che “tutela etnica”! L’Italia è sempre stata patria di vitale integrazione etnica e sempre lo sarà fino alla fine del lato culturale della biodiversità, spesso citata, per usarla, a sproposito.
Se, poi, ci si preoccupa degli aspetti numerici dell’immigrazione, non converrebbe rendersi conto di quanto, agli occhi dei paesi dai quali l’immigrazione tuttora proviene, sembriamo più ricchi, opulenti e felici? E se cominciassimo a non presentarci acriticamente e illusoriamente tali, con una pubblicità sbraitante, sghignazzante, falsa e ingannevole, quale quella che, dai mezzi di comunicazione, ci rappresenta come il paese del bengodi, a stranieri poveri e disperati, quanti di meno ne attireremmo in Italia?
E, adesso, siamo arrivati a promuovere quasi una nuova “campagna demografica” di buona (o pessima…) memoria, quale mezzo per assicurarci le pensioni… eppure, ci fu un tempo che, senza bisogno di pensione, i vecchi erano accolti dall’empatia familiare, in comunità pluri-generazionali, oggi troppo spesso disprezzate!
I figli non più, come per i nostri vecchi, amati quale scopo della vita futura, ma strumentalizzati come mezzo per il nostro egoistico e decadente declino… anche i figli, come altro da noi?
Invece di accettare chi dà segno di speranza (rabbiosa, disperata, illusoria quanto si vuole) di vivere e di dare alla nuova e vecchia patria i figli che il nostro esausto taedium vitae non genera né accetta più, se non quasi come “pets” umani, per il nostro esausto e narcisistico “status symbol” salottiero…
L’oggi egoista contro il nostro stesso domani?
Se siamo già così, abbiamo già perso l’Italia e gli italiani: la “Patria”, bella, grande ma fragile parola, spesso sfruttata e umiliata, a scopi perversi.
Così, si rinunzia all’”altro”… o a noi stessi? O si rinunzia a noialtri?!

CENNO BIBLIOGRAFICO
• Battisti C., Contoli L., 2011. Diversity indices as “magic” tools in landscape planning: a cautionary note on their uncritical use. Landscape Research, 36: 111-117.
• Contoli Amante L., Luiselli L., 2015. Contributions to a Biodiversity Theory: the Importance of Formal Rigour. Web Ecol., 15: 33-37
• Contoli Amante L., 2017. Se LUCA va al MARE…Grifone, a. XXVI, 1, (136): 1-4.
• Contoli Amante L., 2018. Is biodiversity aging? Questions on the taxonomic diversity in the Phanerozoic. Biodiversity Journal, 9 (2): 149-166.

Roma, IV 2023

La gestione dei bacini degli invasi

Andrea Dignani
(geologo – www.geostudiodignani.it)

Con il cambiamento climatico, la tendenza futura porterà ad accentuare le crisi idriche. Questo trend  si  inserisce in un contesto ambientale gravemente provato da una gestione del territorio che per decenni ha perseguito uno sviluppo economico senza tener conto dei vincoli ecologici. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi 50 anni abbiamo alterato gravemente più dell’80% degli habitat fluviali  e distrutto più del 50% delle aree umide.
Nell’attuale dibattito sull’accumulo idrico soprattutto per il settore agricolo, si inseriscono tre soluzioni con diverse problematiche scientifiche e sociali.
- Stoccare l’acqua in falda. La ricarica controllata della falda determina vantaggi per prevenire la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda; inoltre, le falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra. I sistemi di ricarica controllata consumano meno il territorio, per essi è più facile trovare siti idonei. Condizioni fondamentale per queste pratiche sono le opportune condizioni geologiche ed idrogeologiche.
- Laghetti collinari. I laghetti collinari possono essere considerati serbatoi di piena ad uso multiplo. Questo tipo di opere sfrutta la morfologia collinare all'interno della quale sono individuati molteplici sistemi di bacini imbriferi: un impluvio sbarrato da una piccola diga in terra trasforma parte di un letto torrentizio in un laghetto artificiale, il quale può avere, a seconda dei casi, le capacità d'invaso più varie. I laghetti sono tipici dell’ambiente appenninico. La morfologia offre innumerevoli possibilità di collocazione degli invasi e presenta le condizioni idrogeologiche ideali in quanto generalmente i terreni che costituiscono i rilievi sono caratterizzati da permeabilità molto basse. Per contro, queste zone collinari sono spesso caratterizzate da diffusi fenomeni di instabilità a causa delle caratteristiche geotecniche dei terreni. È fondamentale quindi uno studio geologico e geomorfologico attento dell'area destinata ad accogliere l'invaso.
- Dighe. Una diga è uno sbarramento artificiale permanente realizzato per creare un lago artificiale. Quando una diga produce un invaso superiore al milione di metri cubi, o è alta più di 15 m, prende il nome di "grande diga" e il suo controllo spetta direttamente allo Stato. Quando supera i 10 m di altezza o i centomila metri cubi risulta essere sotto il controllo delle Regioni. Per dimensioni inferiori, il suo controllo spetta al gestore che può essere anche privato. Un esempio di diga per l’accumulo idrico è l’invaso di Cingoli (detto anche di Castreccioni) con la sua funzione idrica ed irrigua. Situato in provincia di Macerata, nel bacino del fiume Musone, sarà analizzato più avanti per i suoi aspetti territoriali. Gli invasi di questo tipo possono stoccare ingenti quantità di acqua e possono quindi rifornire un intero comparto agricolo posto generalmente a valle dello stesso invaso. La gestione risulta complessa, come la manutenzione dell’invaso che inevitabilmente tende ad interrarsi. La realizzazione di queste opere risulta costosa, complessa ed occorrono molti anni (anche dieci o più anni) per la realizzazione. Sono iniziative che creano un impatto sul territorio e generano conflitti sociali tra sostenitori e scettici sulla necessità realizzativa.

Principali problemi ambientali delle dighe
Le dighe perdono molta acqua per evaporazione, soprattutto nel sud Italia. Negli invasi più piccoli l’acqua può avere temperature elevate, con formazioni di condizioni anossiche, fioriture algali e sviluppo di cianotossine che potrebbero compromettere il successivo utilizzo delle stesse acque.
Per mitigare  il riscaldamento dello specchio d’acqua occorre operare attraverso la rinaturalizzazione delle sponde con una diversificazione morfologica longitudinale e trasversale per attivare, soprattutto in estate, la circolazione termica verticale. La differenza di temperature tra le zone di sponda, quelle centrali e quelle profonde, con il gradiente termico dell’aria che innesca locali venti, opera un rimescolamento delle acque più superficiali (più calde e quindi meno dense) con quelle immediatamente sottostanti (più fredde e quindi più dense), contribuendo così alla distribuzione del calore dagli strati più superficiali a quelli via via più profondi. Il fenomeno del surriscaldamento e dell’evaporazione viene così efficacemente ridotto.
Un ulteriore problema è rappresentato dall’accumulo di terreno eroso all’interno dell’invaso con la conseguente perdita di volume di acqua accumulato. In questo caso si agisce per mezzo di sghiaiatori sul fondo della diga, una pratica che produce l’interruzione dell’accumulo di acqua ma solo per un determinato periodo.  Notevole, poi, l’impatto ecologico per la quantità di sedimento riversato sul corso d’acqua a valle dell’invaso.
Un ulteriore problema nasce dalla eventuale contaminazione del sedimento accumulato per via di scarichi urbani e produttivi che possono rendere necessarie operazioni di bonifica o conferimento in discarica.

Il bacino della diga di Cingoli
Come esempio approccio metodologico per le problematiche da considerare nella gestione di un bacino,  si prende come esempio l’invaso di Cingoli (detto anche di Castreccioni), un bacino che ben rappresenta le tipiche condizioni territoriali delle regioni appenniniche.
La diga è stata realizzata negli anni Ottanta. Si tratta di un invaso della profondità massima di 55 metri, uno specchio d’acqua di 2.25 kmq, un bacino idrografico interessato di circa 75 Kmq. (Fig. 1- Elaborazione digitale)
La morfologia del bacino presenta una zona collinare centrale mentre le zone a nord-est e sud-ovest presentano caratteri fisici tipici dei rilievi appenninici (Fig. 2 – Elaborazione digitale)
La geologia e la struttura tettonica  (Fig. 3- Carta Geologia Regione Marche) del bacino trova corrispondenza con la morfologia rilevata:  la zona centrale collinare con litologie arenaceo-pelitiche in struttura sinclinatica, rilievi appenninici con litologie calcaree e struttura anticlinalica.
Come ulteriore risultato della geologia e della tettonica è anche il dato delle pendenze: le aree collinari con pendenze moderate mentre i rilievi di montagna con pendenze alte (Fig. 4 – Elaborazione digitale).
L’uso del suolo (Fig. 5 – Corine Land Cover 2018) è rappresentato da aree agricole nella zona centrale collinare, nei rilievi abbiamo boschi.
In queste rappresentazioni cartografiche-digitali sono presenti i principali elementi di studio per la gestione delle erosioni in un bacino di invaso.

Non produrre sedimenti dalle erosioni a monte
In Italia i due terzi dei suoli presentano erosioni che risultano più accentuati laddove è maggiore l’attività antropica, non solo di tipo agricolo ma anche derivante da una pianificazione urbanistica del territorio (aree urbane ed industriali con relative infrastrutture) che spesso non ha tenuto conto dell’impatto ambientale prodotto soprattutto sul suolo, con conseguente innesco di fenomeni degradativi, nella maggior parte dei casi molto evidenti.
Il processo di degradazione più evidente è l’erosione che consiste nel distacco e nell’allontanamento di particelle solide dalla superficie del suolo dovuta principalmente al ruscellamento.
La velocità e l’intensità del processo di erosione idrica dipendono non solo dall’acqua ma anche dalla geologia, dal reticolo idrografico, dal suolo, dalla pendenza e dall’uso del suolo.
Per la gestione del bacino occorre una quantificazione del materiale eroso trasportato dai corsi d’acqua verso l’invaso, il confronto tra i metodi di stima dell’erosione, la redazione di “carte del rischio erosivo” con la relativa individuazione di zone critiche e la proposta di interventi di mitigazione del fenomeno.
Le principali cause di erosione del suolo sono la deforestazione, la coltivazione senza l’adozione di misure conservative, l’uso inappropriato del suolo e le piogge intense.
Un importante fattore che limita l’erosione è rappresentato dalla quantità di sostanza organica dei suoli. Questa, infatti, migliora la struttura del terreno, la penetrazione delle radici, la capacità di tenuta dell’acqua e l’infiltrazione.

La gestione del ruscellamento
Altra questione, la gestione del ruscellamento. Si interviene lungo il versante in modo da diminuire l’erosività, oppure mediante un “rallentamento” del deflusso superficiale che causa la deposizione dei sedimenti trasportati.
Ciò può essere realizzato nei seguenti modi:
1. gestendo il reticolo di deflusso attraverso gli interventi di rinaturalizzazione;
2. modificando la pendenza o la direzione del ruscellamento mediante terrazzamenti, canali di accumulo, piccoli bacini o altre opere di sistemazione idraulico-agraria;
3. creando linee di interruzione del versante con vegetazione e canali protetti;
4. aumentando la sostanza organica nei suoli;
5. applicando pratiche agronomiche sostenibili;
6. gestendo le aree boscate preservando la continuità della copertura vegetazionale;
7. favorendo l’infiltrazione per l’accumulo in falda:
8. attuando interventi progettuali antierosivi su zone di alta criticità;
9. realizzando drenaggi urbani sostenibili in aree antropizzate;
10. creando zone umide nel fondovalle degli affluenti

Per la gestione del bacino è opportuno dotarsi di una mappa dell’erodibilità, come sommatoria e prodotto analitico, partendo dalle analisi realizzate nel bacino di Cingoli. Questa cartografia consente di individuare le aree caratterizzate dalla maggiore vulnerabilità all’erosione sulla base delle analisi e problematiche descritte. Dalla mappa dell’erodibilità è possibile trarre indicazioni per la pianificazione di azioni di mitigazione e recupero dei fenomeni erosivi a partire dalla scala di bacino per arrivare ai progetti e pratiche a scala locale.

GLOSSARIO DIGHE
(1) Altezza della diga: è la differenza tra la quota del piano di coronamento e quella del punto più depresso dei paramenti.
(2) Quota di massimo invaso: è la quota massima a cui può giungere il livello dell'acqua dell'invaso ove si verifichi il più gravoso evento di piena previsto, escluso la sopraelevazione da moto ondoso.
(3) Quota massima di regolazione: è la quota del livello d'acqua al quale ha inizio, automaticamente, lo sfioro degli appositi dispositivi.
(4) Altezza di massima ritenuta: è il dislivello tra la quota di massimo invaso e quella del punto più depresso dell'alveo naturale in corrispondenza del parametro di monte.
(5) Franco: Dislivello tra la quota del piano di coronamento e quella di massimo invaso.
(6) Franco netto: dislivello tra la quota del piano di coronamento e quella di massimo invaso, aggiunta a questa la semiampiezza della massima onda prevedibile nel serbatoio.
(7) Volume totale di invaso: capacità del serbatoio compresa tra la quota di massimo invaso e la quota minima di fondazione; per le traverse fluviali è il volume compreso tra il profilo di rigurgito più elevato, indotto dalla traversa, ed il profilo di magra del corso d'acqua sbarrato.
(8) Volume utile di regolazione: quello compreso fra la quota massima di regolazione e la quota minima del livello d'acqua alla quale può essere derivata, per l'utilizzazione prevista, l'acqua invasata.
(9) Volume di laminazione: quello compreso fra la quota di massimo invaso e la quota massima di regolazione ovvero, per i serbatoi specifici per laminazione delle piene, tra la quota di massimo invaso e la quota della soglia inferiore dei dispositivi di scarico.
(10) Volume di invaso: Il volume d'invaso è pari alla capacità del serbatoio compreso tra la quota più elevata delle soglie sfioranti degli scarichi o della sommità delle eventuali paratoie e la quota del punto più depresso del paramento di monte.