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Contrasti, rinvii, boicottaggi. Dire no all’Europa per arrivare ultimi

Valter Giuliano

Riprendiamo l’analisi sulle derive di sistema che stanno contraddistinguendo le recenti politiche del nostro Paese e che ne denunciano l’assoluta insensibilità e irresponsabilità nei confronti della transizione ecologica via via più urgente.
L’incapponimento del Governo italiano sui biocarburanti, per procrastinare l’utilizzo dei motori termici, ha ottenuto un rinvio grazie al sostegno di Repubblica Ceca, Bulgaria e Polonia e all’incertezza della Germania. Ci siamo gonfiati il petto per il rinvio imposto all’Unione Europea rispetto alla data del 2035, ma è durato  il lampo di qualche settimana. Poi abbiamo ricevuto una bella sportellata in faccia.
Abbiamo in ogni caso dimostrato di mettercela proprio tutta per essere il fanalino di coda dell’Europa verso la transizione ecologica.
Una battaglia di retroguardia sostenuta con argomentazioni risibili. Le aziende non sono pronte (non lo erano neppure per la rinuncia al piombo nei carburanti); non ci sono le colonnine per le ricariche (in pochi mesi ne sono state installate migliaia in Olanda...).
Dunque vogliamo che i vecchi motori restino, utilizzando i biocarburanti. A dar man forte nel chiedere deroghe e rinvii è anche il mondo delle imprese, mal abituato da questi atteggiamenti dilatori messi in atto abitualmente dai nostri governi.
Accadde pure in occasione del passaggio dai carburanti con piombo alla cosiddetta benzina verde. Scarsa propensione alla flessibilità, insufficienti reinvestimenti in ricerca e innovazione (si preferisce la strada degli investimenti finanziari) e conseguenti ritardi tecnologici fanno sì che le nostre imprese non investano mai sul futuro, riorientandosi nella conservazione del presente e cercando di trarre il massimo dei profitti sfruttando sino all’ultimo impianti tecnologici obsoleti, non più al passo con i tempi e la concorrenza.
Più ragionevole, sia pure con molte riserve, la posizione tedesca, che ha invocato una deroga per i carburanti e-fuel, ottenendola.
Questi ultimi sono prodotti dall’elettrolisi dell’acqua, da cui si ricava ossigeno che, miscelato con l’anidride carbonica dell’aria, fornisce carburante neutro dal punto di vista climatico e adatto a essere utilizzato nei motori a scoppio e distribuibile attraverso l’attuale rete di pompe di benzina. Occorre registrare che i costi di produzione sono, ad oggi, piuttosto alti, stimati in dieci-venti euro al litro; restano inoltre nei tubi di scappamento emissioni di ossidi di azoto. Si prevede inoltre che potranno alimentare, al massimo, 5 milioni di auto su un parco circolante di 290.
I biocarburanti sostenuti dall’Italia per difendere le politiche dell’Eni, che ha investito in ricerca nel settore (nella penisola sono presenti a livello sperimentale, sulla rete Eni, una cinquantina di pompe che erogano diesel da biocarburante), sono derivati dai rifiuti, ma soprattutto da biomasse, in particolare mais, grano, barbabietola, canna da zucchero e oli non commestibili e di palma.
Dal punto di vista delle emissioni di CO2, non sono neutri.
Resta il fatto che, per entrambe le soluzioni, pur in presenza di abbattimenti considerevoli delle emissioni, la combustione nei motori endotermici produce emissioni di particolato e ossidi di azoto del tutto paragonabili a quelli associati dalle benzine fossili.
Il ricorso a questi tipi di carburanti appare al momento più probabile, semmai, a settori come la navigazione o l’aviazione, dove l’introduzione dell’elettrico appare ancora a di là dal venire.
Per il settore automobilistico resta un dubbio.
L’allora amministratore delegato di Fiat Auto, Sergio Marchionne, non esitò a dichiarare che il futuro dell’auto non sarebbe stato l’elettrico. C’era e c’è qualche alternativa che non viene detta?
Al momento l’Italia farebbe comunque bene ad abbandonare atteggiamenti autolesionisti e irresponsabili, lasciando da parte la retorica del “made in Italy” e della tradizione, che appaiono del tutto tramontati dopo che i suoi marchi sono stati assorbiti dalla multinazionale Stellantis a guida francese e nel momento in cui siamo scivolati all’ottavo posto nella classifica dei produttori europei, superati da Germania, Stagna, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Gran Bretagna e Romania.
Non solo, ma della 450 mila auto prodotte sono ormai elettriche 100 mila Panda e altrettante Cinquecento. Dunque, anche per il nostro paese il futuro del sistema industriale va velocemente orientato verso una nuova componentistica legata all’elettrico in sostituzione del termico e nel settore delle batterie, cosa che richiede investimenti in ricerca (batterie al sale?).
Restando in tema energetico, qualche appunto in tema di contrasti tra il dire e il fare, va rivolto anche all’UE che, con la Direttiva “Rinnovabili”, continua a incentivare la produzione di energia elettrica, bruciando il patrimonio forestale. Nonostante gran parte della comunità scientifica abbia segnalato che produrre elettricità in questa maniera, è fortemente climalterante e inquinante.
Alberi e foreste non sono unicamente giacimenti di legname da bruciare per trarne profitti. Sono innanzitutto regolatori essenziali del ciclo dell’acqua, termoregolatori, generatori di ossigeno, assorbitori di anidride carbonica, fertilizzatori del suolo, scrigni di biodiversità.
Oggi i deputati di un partito verde solo nelle camice dei suoi militanti, giungono a proporre centrali da 300 MW da alimentare con il legno. Ben sostenuti da un Testo Unico Forestale generato ai tempi della Presidenza del Consiglio Gentiloni – l’on. Ermete Realacci a capo della Commissione Ambiente – che ha disposto di superare la proprietà privata là dove non si intenda procedere al taglio del proprio bosco giunto a fine turnazione secondo le regole dello sfruttamento forestale.
Biocidi nel nome del bio, del sostenibile, della resilienza, del green, della transizione...
Sono atteggiamenti che stridono rispetto ai comportamenti virtuosi da mettere in atto per  una verosimile transizione energetica.
Perchè continuiamo a sostenere, a suon di soldi pubblici, cioè nostri, il fossile da cui dovremmo uscire al più presto. I dati parlano chiaro.
Cambiando settore eccoci al presunto “fatto in Italia” e ala produzione di carne.
Anche qui è scattata la parola più usata dal nuovo Governo: proibito!
Senza discussione, dibattito, suggerimenti, ricerche scientifiche.
È bastato il sussurro della più potente organizzazione professionale agricola all’orecchio del cognato del presidente del Consiglio per far partire l’anatema.
Ovviamente a difesa dei nostri prodotti tipici: la bresaola della Valtellina fatta con la carne di zebù del Brasile, le varietà di patate, fagioli, pomodori (che arrivano dal Sud America); magari anche dei kiwi, dei cachi, degli avocado...
Qui, se non fossero cose serie, di Governo, scadremmo nel ridicolo e basterebbe una risata per seppellirli.
Non sarà una risata, invece, che rischierà di seppellire il nostro comparto agroalimentare, che fa bene a difendere i prodotti di qualità del territorio, ma deve saper guardare al futuro.
Non si tratta di mettere in discussione la carne di qualità dei nostri allevamenti famigliari, di quelli al pascolo, transumanti e di montagna.
Semmai a essere giustamente in discussione saranno quelle fabbriche di carne che, come catene di montaggio incuranti al benessere animale,  producono intensivamente prodotti di scarsa qualità per mantenere bassi prezzi e consentire ai consumatori di ingurgitare quantità di proteine animali nocive al nostro equilibrio alimentare e dunque alla nostra salute.
Eppure il prode ministro difensore del “fatto in Italia” non consentirà di fare alcuna ricerca e sperimentazione in Italia. Senza spiegazioni che non rientrino nella categoria dei pregiudizi.
In compenso, stende tappeti rossi alle nostre produzioni vinicole e si scandalizza che in etichetta si voglia giustamente segnalare che l’alcol nuoce alla salute, non essendo previsto dal nostro metabolismo alcun meccanismo che, per demolirne la molecola, non produca effetti nocivi.
Dal suo collega, che dovrebbe difendere la salute pubblica, non arriva segnale alcuno.
Non c’è campo, i tweet sull’argomento non partono.
Ma torniamo alla carne coltivata. Il dibattito che si è aperto è stato subito chiuso a livello politico, ma ciò non impedisce, per ora, che se ne parli.
Cellule staminali, prelevate da animale vivo con procedura medico-veterinaria, vengono lasciate crescere in vitro allo stesso modo in cui farebbero nel corpo dell’animale. La carne coltivata evita l’uccisione del vivente e dunque può rappresentare, sul piano etico e ambientale, un momento fondamentale, ponendosi in alternativa agli allevamenti intensivi che sacrificano miliardi di esseri viventi per rispondere al consumismo industriale che si è affermato anche nel comparto agroalimentare e che si giustifica con la necessità di sfamare la popolazione mondiale (cosa che non fa, a causa dell’iniqua distribuzione che spreca quantità intollerabili di cibo e che, in parte, si potrebbe fare con l’apporto di proteine vegetali).
Non solo, ma potrebbe incidere in maniera rilevante sulla salute del pianeta, riducendo i fattori di inquinamento a livello di acqua e di suolo, delle emissioni di metano e anidride carbonica.
È probabile che anche in questo caso non sia oro tutto ciò che luccica e che non si sia di fronte alla panacea. Ma scegliere di uscire dal gioco, non farne parte a priori, non partecipare per ricercare e indagare è davvero una decisione stolta. Anche sotto il profilo economico, giacché si stima che il nuovo settore potrà raggiungere i 450 miliardi di dollari entro il 2040, pari a un quinto del nostro Pil.
La stoltezza propagandistica di oggi potrebbe, dunque, costare cara...
Intanto alla faccia dell’urgente transizione ecologica che passa da quella energetica, come non annotare che, nascosti nelle pieghe della terrificante politica dei bonus, siano stati distribuiti poco meno di 22 miliardi in sussidi nocivi per l’ambiente e in contrasto con le declamate politiche di riconversione?
E ci sarebbe anche da dire sul mercato dei falsi crediti di carbone: mercato ricco mi ci ficco!
Ne riparleremo.

Noi e gli altri…noialtri?

Longino Contoli Amante

Un’antica espressione popolare univa, quasi con tenerezza, i termini “noi” e ”altri” nella locuzione “noialtri”.
Da un po’, sembra di nuovo di moda confrontare in modo antitetico “noi” agli ”altri”; ma siamo sicuri di sapere chi siamo noi e chi sono gli altri?
Intanto, almeno dopo che la globalizzazione ha contagiato, con i nostri guai da “primo mondo”, anche gli altri “mondi”, sembriamo sempre più vecchi, soli, depressi, egoisti, avari, terrorizzati di perdere quel poco che ci resta… come tanti “Pantalon de’ bisognosi”…
Sospettosi di ogni interazione imprevista, quasi paranoici, siamo, forse, coinvolti da un invecchiamento globale, a varia scala?
Dall’entropia crescente dell’universo al sistema solare, ai viventi…
… da un ipotetico (che Dante mi perdoni!) “primo parente”; forse, non un LUCA, ma una MARE, Marine Archaic Relational Entity, prima della distinzione biologica tra specie…
… fino a dopo il “Darwinian threshold” intuito dal grande Woese; con un crescente arroccamento e isolamento a difesa delle basi genetiche di adattamenti evolutivi sempre più complessi, precari e tesaurizzati…
… dai Macro-taxa (Domini, Regni, Phyla, Classi e chi più ne ha più ne metta) alle specie biologiche, sempre più isolate e, perciò, restie a evolvere grandi novità assortative (che siano stati, i Licheni, tra le più recenti?)…
E noi, Homo sapiens? In un quadro piuttosto oscuro, per i viventi e per lo stesso universo; dopo esserci rassegnati a non essere corporalmente immortali (con qualche, crescente dubbio anche circa l’anima…); a che casa nostra non sia il centro dell’universo; ad essere una specie animale; a contemplare la leopardiana “…infinita vanità del tutto…”, non riusciamo ancora a provare e coltivare un’umile, empatica compassione verso noi stessi e gli altri, tutti gli altri, dai conspecifici agli animali, ai viventi, all’intera biosfera.
Fummo, a lungo, una specie vagile ed eurifaga, costituita in sostanza da una grande meta-popolazione articolata in sub-popolazioni che si diffusero su tutta la Terra, parte positiva degli ecosistemi (ebbene, sì: non c’è maggiore amico evolutivo per una preda che il suo predatore quando, assieme, costituiscano un resiliente feed-back negativo)…
… passammo, però, poi, nel rapporto “Uomo - ambiente”, dall’inserimento diversificante (dai raccoglitori ecc., ai coltivatori e allevatori) allo sfruttamento intensivo de-diversificante d’oggi… dall’esplosione giovanile, tumultuosa, espansiva all’arroccamento senile; vanificando (con l’evoluzione culturale) quel duro ma vitale feed-back, a favore dell’egoismo individuale.
A furia di mortificare ed eliminare tanti “altri da noi”, visti senz’appello come nemici (ed eravamo parenti!), abbiamo cominciato a divenire nemici di noi stessi…
…mentre l’accezione di “altro” passava dalle specie alle etnie, pur sempre umane; ai popoli; alle famiglie; ai singoli…
Per un po’, i popoli mediterranei parvero mitigare tale deriva obbedendo alle particolari esigenze dei loro minuti e frammentari insediamenti nelle isole e penisole, in particolare nell’Italia di allora, quasi arcipelago di approdi, soprattutto dal mare; punto cruciale e vitale d’incontro-scontro fra le sub-popolazioni umane d’Africa ed Eurasia…
…ma, anche qui, sembra si passi irresistibilmente dall’ospitalità feconda e… anti-consanguinea degli antichi miti omerici (l’episodio commovente di Glauco!) all’isolazionismo egoista dell’oggi…
… ciò mentre, verso i popoli italici, ormai isteriliti (dimentichi di derivare da un antichissimo melting pot ante litteram le cui radici affondano nei quattro angoli del Mediterraneo e delle terre contermini), qualcuno, “per amore per l’Italia e gli italiani”, sbraita di “sostituzione etnica” e tali radici si affanna a tagliare, condannando, cos’, la patria e i suoi figli all’alienazione, al declino…
… eppure, quanto di ciò che ci rende tuttora orgogliosi deriva da tali radici culturali che, di certo, venivano per lo più da ciò che oggi si definisce la clandestinità!
Altro che “tutela etnica”! L’Italia è sempre stata patria di vitale integrazione etnica e sempre lo sarà fino alla fine del lato culturale della biodiversità, spesso citata, per usarla, a sproposito.
Se, poi, ci si preoccupa degli aspetti numerici dell’immigrazione, non converrebbe rendersi conto di quanto, agli occhi dei paesi dai quali l’immigrazione tuttora proviene, sembriamo più ricchi, opulenti e felici? E se cominciassimo a non presentarci acriticamente e illusoriamente tali, con una pubblicità sbraitante, sghignazzante, falsa e ingannevole, quale quella che, dai mezzi di comunicazione, ci rappresenta come il paese del bengodi, a stranieri poveri e disperati, quanti di meno ne attireremmo in Italia?
E, adesso, siamo arrivati a promuovere quasi una nuova “campagna demografica” di buona (o pessima…) memoria, quale mezzo per assicurarci le pensioni… eppure, ci fu un tempo che, senza bisogno di pensione, i vecchi erano accolti dall’empatia familiare, in comunità pluri-generazionali, oggi troppo spesso disprezzate!
I figli non più, come per i nostri vecchi, amati quale scopo della vita futura, ma strumentalizzati come mezzo per il nostro egoistico e decadente declino… anche i figli, come altro da noi?
Invece di accettare chi dà segno di speranza (rabbiosa, disperata, illusoria quanto si vuole) di vivere e di dare alla nuova e vecchia patria i figli che il nostro esausto taedium vitae non genera né accetta più, se non quasi come “pets” umani, per il nostro esausto e narcisistico “status symbol” salottiero…
L’oggi egoista contro il nostro stesso domani?
Se siamo già così, abbiamo già perso l’Italia e gli italiani: la “Patria”, bella, grande ma fragile parola, spesso sfruttata e umiliata, a scopi perversi.
Così, si rinunzia all’”altro”… o a noi stessi? O si rinunzia a noialtri?!

CENNO BIBLIOGRAFICO
• Battisti C., Contoli L., 2011. Diversity indices as “magic” tools in landscape planning: a cautionary note on their uncritical use. Landscape Research, 36: 111-117.
• Contoli Amante L., Luiselli L., 2015. Contributions to a Biodiversity Theory: the Importance of Formal Rigour. Web Ecol., 15: 33-37
• Contoli Amante L., 2017. Se LUCA va al MARE…Grifone, a. XXVI, 1, (136): 1-4.
• Contoli Amante L., 2018. Is biodiversity aging? Questions on the taxonomic diversity in the Phanerozoic. Biodiversity Journal, 9 (2): 149-166.

Roma, IV 2023

La gestione dei bacini degli invasi

Andrea Dignani
(geologo – www.geostudiodignani.it)

Con il cambiamento climatico, la tendenza futura porterà ad accentuare le crisi idriche. Questo trend  si  inserisce in un contesto ambientale gravemente provato da una gestione del territorio che per decenni ha perseguito uno sviluppo economico senza tener conto dei vincoli ecologici. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Negli ultimi 50 anni abbiamo alterato gravemente più dell’80% degli habitat fluviali  e distrutto più del 50% delle aree umide.
Nell’attuale dibattito sull’accumulo idrico soprattutto per il settore agricolo, si inseriscono tre soluzioni con diverse problematiche scientifiche e sociali.
- Stoccare l’acqua in falda. La ricarica controllata della falda determina vantaggi per prevenire la subsidenza indotta dall’abbassamento della falda; inoltre, le falde più elevate rilasciano lentamente acqua nel reticolo idrografico sostenendo le portate di magra. I sistemi di ricarica controllata consumano meno il territorio, per essi è più facile trovare siti idonei. Condizioni fondamentale per queste pratiche sono le opportune condizioni geologiche ed idrogeologiche.
- Laghetti collinari. I laghetti collinari possono essere considerati serbatoi di piena ad uso multiplo. Questo tipo di opere sfrutta la morfologia collinare all'interno della quale sono individuati molteplici sistemi di bacini imbriferi: un impluvio sbarrato da una piccola diga in terra trasforma parte di un letto torrentizio in un laghetto artificiale, il quale può avere, a seconda dei casi, le capacità d'invaso più varie. I laghetti sono tipici dell’ambiente appenninico. La morfologia offre innumerevoli possibilità di collocazione degli invasi e presenta le condizioni idrogeologiche ideali in quanto generalmente i terreni che costituiscono i rilievi sono caratterizzati da permeabilità molto basse. Per contro, queste zone collinari sono spesso caratterizzate da diffusi fenomeni di instabilità a causa delle caratteristiche geotecniche dei terreni. È fondamentale quindi uno studio geologico e geomorfologico attento dell'area destinata ad accogliere l'invaso.
- Dighe. Una diga è uno sbarramento artificiale permanente realizzato per creare un lago artificiale. Quando una diga produce un invaso superiore al milione di metri cubi, o è alta più di 15 m, prende il nome di "grande diga" e il suo controllo spetta direttamente allo Stato. Quando supera i 10 m di altezza o i centomila metri cubi risulta essere sotto il controllo delle Regioni. Per dimensioni inferiori, il suo controllo spetta al gestore che può essere anche privato. Un esempio di diga per l’accumulo idrico è l’invaso di Cingoli (detto anche di Castreccioni) con la sua funzione idrica ed irrigua. Situato in provincia di Macerata, nel bacino del fiume Musone, sarà analizzato più avanti per i suoi aspetti territoriali. Gli invasi di questo tipo possono stoccare ingenti quantità di acqua e possono quindi rifornire un intero comparto agricolo posto generalmente a valle dello stesso invaso. La gestione risulta complessa, come la manutenzione dell’invaso che inevitabilmente tende ad interrarsi. La realizzazione di queste opere risulta costosa, complessa ed occorrono molti anni (anche dieci o più anni) per la realizzazione. Sono iniziative che creano un impatto sul territorio e generano conflitti sociali tra sostenitori e scettici sulla necessità realizzativa.

Principali problemi ambientali delle dighe
Le dighe perdono molta acqua per evaporazione, soprattutto nel sud Italia. Negli invasi più piccoli l’acqua può avere temperature elevate, con formazioni di condizioni anossiche, fioriture algali e sviluppo di cianotossine che potrebbero compromettere il successivo utilizzo delle stesse acque.
Per mitigare  il riscaldamento dello specchio d’acqua occorre operare attraverso la rinaturalizzazione delle sponde con una diversificazione morfologica longitudinale e trasversale per attivare, soprattutto in estate, la circolazione termica verticale. La differenza di temperature tra le zone di sponda, quelle centrali e quelle profonde, con il gradiente termico dell’aria che innesca locali venti, opera un rimescolamento delle acque più superficiali (più calde e quindi meno dense) con quelle immediatamente sottostanti (più fredde e quindi più dense), contribuendo così alla distribuzione del calore dagli strati più superficiali a quelli via via più profondi. Il fenomeno del surriscaldamento e dell’evaporazione viene così efficacemente ridotto.
Un ulteriore problema è rappresentato dall’accumulo di terreno eroso all’interno dell’invaso con la conseguente perdita di volume di acqua accumulato. In questo caso si agisce per mezzo di sghiaiatori sul fondo della diga, una pratica che produce l’interruzione dell’accumulo di acqua ma solo per un determinato periodo.  Notevole, poi, l’impatto ecologico per la quantità di sedimento riversato sul corso d’acqua a valle dell’invaso.
Un ulteriore problema nasce dalla eventuale contaminazione del sedimento accumulato per via di scarichi urbani e produttivi che possono rendere necessarie operazioni di bonifica o conferimento in discarica.

Il bacino della diga di Cingoli
Come esempio approccio metodologico per le problematiche da considerare nella gestione di un bacino,  si prende come esempio l’invaso di Cingoli (detto anche di Castreccioni), un bacino che ben rappresenta le tipiche condizioni territoriali delle regioni appenniniche.
La diga è stata realizzata negli anni Ottanta. Si tratta di un invaso della profondità massima di 55 metri, uno specchio d’acqua di 2.25 kmq, un bacino idrografico interessato di circa 75 Kmq. (Fig. 1- Elaborazione digitale)
La morfologia del bacino presenta una zona collinare centrale mentre le zone a nord-est e sud-ovest presentano caratteri fisici tipici dei rilievi appenninici (Fig. 2 – Elaborazione digitale)
La geologia e la struttura tettonica  (Fig. 3- Carta Geologia Regione Marche) del bacino trova corrispondenza con la morfologia rilevata:  la zona centrale collinare con litologie arenaceo-pelitiche in struttura sinclinatica, rilievi appenninici con litologie calcaree e struttura anticlinalica.
Come ulteriore risultato della geologia e della tettonica è anche il dato delle pendenze: le aree collinari con pendenze moderate mentre i rilievi di montagna con pendenze alte (Fig. 4 – Elaborazione digitale).
L’uso del suolo (Fig. 5 – Corine Land Cover 2018) è rappresentato da aree agricole nella zona centrale collinare, nei rilievi abbiamo boschi.
In queste rappresentazioni cartografiche-digitali sono presenti i principali elementi di studio per la gestione delle erosioni in un bacino di invaso.

Non produrre sedimenti dalle erosioni a monte
In Italia i due terzi dei suoli presentano erosioni che risultano più accentuati laddove è maggiore l’attività antropica, non solo di tipo agricolo ma anche derivante da una pianificazione urbanistica del territorio (aree urbane ed industriali con relative infrastrutture) che spesso non ha tenuto conto dell’impatto ambientale prodotto soprattutto sul suolo, con conseguente innesco di fenomeni degradativi, nella maggior parte dei casi molto evidenti.
Il processo di degradazione più evidente è l’erosione che consiste nel distacco e nell’allontanamento di particelle solide dalla superficie del suolo dovuta principalmente al ruscellamento.
La velocità e l’intensità del processo di erosione idrica dipendono non solo dall’acqua ma anche dalla geologia, dal reticolo idrografico, dal suolo, dalla pendenza e dall’uso del suolo.
Per la gestione del bacino occorre una quantificazione del materiale eroso trasportato dai corsi d’acqua verso l’invaso, il confronto tra i metodi di stima dell’erosione, la redazione di “carte del rischio erosivo” con la relativa individuazione di zone critiche e la proposta di interventi di mitigazione del fenomeno.
Le principali cause di erosione del suolo sono la deforestazione, la coltivazione senza l’adozione di misure conservative, l’uso inappropriato del suolo e le piogge intense.
Un importante fattore che limita l’erosione è rappresentato dalla quantità di sostanza organica dei suoli. Questa, infatti, migliora la struttura del terreno, la penetrazione delle radici, la capacità di tenuta dell’acqua e l’infiltrazione.

La gestione del ruscellamento
Altra questione, la gestione del ruscellamento. Si interviene lungo il versante in modo da diminuire l’erosività, oppure mediante un “rallentamento” del deflusso superficiale che causa la deposizione dei sedimenti trasportati.
Ciò può essere realizzato nei seguenti modi:
1. gestendo il reticolo di deflusso attraverso gli interventi di rinaturalizzazione;
2. modificando la pendenza o la direzione del ruscellamento mediante terrazzamenti, canali di accumulo, piccoli bacini o altre opere di sistemazione idraulico-agraria;
3. creando linee di interruzione del versante con vegetazione e canali protetti;
4. aumentando la sostanza organica nei suoli;
5. applicando pratiche agronomiche sostenibili;
6. gestendo le aree boscate preservando la continuità della copertura vegetazionale;
7. favorendo l’infiltrazione per l’accumulo in falda:
8. attuando interventi progettuali antierosivi su zone di alta criticità;
9. realizzando drenaggi urbani sostenibili in aree antropizzate;
10. creando zone umide nel fondovalle degli affluenti

Per la gestione del bacino è opportuno dotarsi di una mappa dell’erodibilità, come sommatoria e prodotto analitico, partendo dalle analisi realizzate nel bacino di Cingoli. Questa cartografia consente di individuare le aree caratterizzate dalla maggiore vulnerabilità all’erosione sulla base delle analisi e problematiche descritte. Dalla mappa dell’erodibilità è possibile trarre indicazioni per la pianificazione di azioni di mitigazione e recupero dei fenomeni erosivi a partire dalla scala di bacino per arrivare ai progetti e pratiche a scala locale.

GLOSSARIO DIGHE
(1) Altezza della diga: è la differenza tra la quota del piano di coronamento e quella del punto più depresso dei paramenti.
(2) Quota di massimo invaso: è la quota massima a cui può giungere il livello dell'acqua dell'invaso ove si verifichi il più gravoso evento di piena previsto, escluso la sopraelevazione da moto ondoso.
(3) Quota massima di regolazione: è la quota del livello d'acqua al quale ha inizio, automaticamente, lo sfioro degli appositi dispositivi.
(4) Altezza di massima ritenuta: è il dislivello tra la quota di massimo invaso e quella del punto più depresso dell'alveo naturale in corrispondenza del parametro di monte.
(5) Franco: Dislivello tra la quota del piano di coronamento e quella di massimo invaso.
(6) Franco netto: dislivello tra la quota del piano di coronamento e quella di massimo invaso, aggiunta a questa la semiampiezza della massima onda prevedibile nel serbatoio.
(7) Volume totale di invaso: capacità del serbatoio compresa tra la quota di massimo invaso e la quota minima di fondazione; per le traverse fluviali è il volume compreso tra il profilo di rigurgito più elevato, indotto dalla traversa, ed il profilo di magra del corso d'acqua sbarrato.
(8) Volume utile di regolazione: quello compreso fra la quota massima di regolazione e la quota minima del livello d'acqua alla quale può essere derivata, per l'utilizzazione prevista, l'acqua invasata.
(9) Volume di laminazione: quello compreso fra la quota di massimo invaso e la quota massima di regolazione ovvero, per i serbatoi specifici per laminazione delle piene, tra la quota di massimo invaso e la quota della soglia inferiore dei dispositivi di scarico.
(10) Volume di invaso: Il volume d'invaso è pari alla capacità del serbatoio compreso tra la quota più elevata delle soglie sfioranti degli scarichi o della sommità delle eventuali paratoie e la quota del punto più depresso del paramento di monte.

I fiumi italiani e le calamità artificiali

Andrea Mandarino
(Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita – Università degli Studi di Genova)

Pensando al modo in cui un corso d’acqua “lavora” in termini geomorfologici, ovvero modella il paesaggio, è evidente come esso possa essere paragonato ad un nastro trasportatore che prende in carico sedimenti e legname dalle aree montane e li trasporta verso valle alle aree di pianura ed infine alla foce, plasmando le forme del rilievo terrestre. Un corso d’acqua principale, i suoi affluenti e gli affluenti degli affluenti, tutti nastri trasportatori che complessivamente definiscono il reticolo idrografico, drenano una regione, ovvero il bacino idrografico, e con il fluire della corrente da monte verso valle connettono porzioni di territorio anche molto distanti tra loro.
La morfologia e la dinamica di un corso d’acqua dipendono da: variabili guida (disponibilità di sedimento e portate liquide) e condizioni al contorno (assetto fisico delle valli, vegetazione perifluviale, caratteristiche sedimentarie). La variazione di questi elementi generalmente innesca risposte idromorfologiche, cioè modifiche della forma dell’alveo e dei processi geomorfologici prevalenti, più o meno intense ed estese in termini spaziali e temporali in funzione dell’entità della variazione stessa.
Le numerose ricerche condotte negli ultimi decenni per analizzare l’evoluzione morfologica storica e recente degli alvei italiani hanno delineato complessivamente due fasi storiche di prevalente restringimento e incisione dell’alveo che si collocano rispettivamente (i) tra gli ultimi decenni del XIX secolo e gli anni Cinquanta del XX secolo e (ii) tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta di quest’ultimo.
La prima è stata interpretata come la risposta morfologica dell’alveo ai cambiamenti antropici dell’uso del suolo a scala di bacino, alle sistemazioni idraulico-forestali in ambiente montano, alla costruzione di dighe e, in alcuni casi, ai cambiamenti climatici successivi alla fine della Piccola Era Glaciale. La seconda invece, caratterizzata da variazioni morfologiche ben più significative, rapide e diffuse della prima, è stata associata alle escavazioni in alveo e alle opere di regimazione (canalizzazioni, rettificazioni), fermi restando i persistenti impatti di quanto ha caratterizzato la fase precedente. Nella seconda metà del XX secolo, lungo i corsi d’acqua italiani sono stati documentati restringimenti dell’alveo in generale superiori al 50%, fino a valori dell’85-90%, e abbassamenti comunemente dell’ordine di 3-4 m e localmente di 10-12 m. A tali processi si è accompagnata spesso una trasformazione dell’alveo che da multicanale è diventato a canale singolo. “Affascinanti ecosistemi viventi” si sono dunque trasformati in “squallide condutture idrauliche” (Sansoni 1995, p. 1), dal momento che quanto rilevato si è tradotto in una generalizzata banalizzazione delle forme e dei processi fluviali con conseguente perdita di habitat e biodiversità, e riduzione dei preziosi servizi ecosistemici che i sistemi fluviali offrono all’uomo. È ormai ampiamente riconosciuto il ruolo determinante degli interventi antropici, escavazioni di materiale litoide in primis, nell’aver determinato le suddette modificazioni, il cui principale fattore causale è stato identificato nella riduzione della disponibilità di sedimento.
Benché molte aste fluviali abbiano una lunghissima storia di canalizzazioni e rettificazioni, è all’incirca dalla metà del XX secolo che questi interventi hanno assunto un carattere sostanzialmente irreversibile sul lungo periodo e una diffusione generalizzata a scala nazionale. Le opere di difesa dall’erosione (difese spondali) e dall’esondazione (argini) hanno causato, in sinergia con altre pressioni antropiche, una progressiva stabilizzazione del tracciato planimetrico dell’alveo, un suo restringimento e una riduzione dello spazio fluviale nel suo complesso. Le pianure, conseguentemente, sono rimaste disconnesse dai sistemi fluviali e le aree di pertinenza fluviale “difese” sono state coltivate o urbanizzate e, successivamente, ulteriormente protette con altre opere di canalizzazione. In molti contesti, inoltre, l’espansione delle aree urbane ha portato non solo alla canalizzazione degli alvei, ma anche alla loro completa copertura; si pensi, per esempio, ai corsi d’acqua tombati sotto l’area metropolitana di Milano, oppure a quelli che attraversano le città costiere della Liguria.
Dal punto di vista della pericolosità geo-idrologica, le variazioni morfologiche che hanno interessato nel XX secolo gli alvei italiani si sono tradotte in una riduzione della capacità di laminazione delle piene, ovvero di attenuazione dell’onda di piena, e in una generalizzata instabilità morfologica degli alvei associata a processi erosivi. In alvei stretti e incisi, infatti, la frequenza di inondazione della pianura alluvionale adiacente diminuisce in conseguenza dell’aumento della portata contenuta dall’alveo stesso. Sebbene questo aspetto sia generalmente percepito dai cittadini come qualcosa di positivo, occorre notare che, a parità di evento meteorico, il minore allagamento delle aree prossime all’alveo provoca un incremento delle portate al colmo a valle associato ad una più rapida propagazione della piena. Le suddette principali caratteristiche geometriche degli alvei, inoltre, a fronte di un aumento della velocità della corrente fluviale e quindi della sua maggiore capacità erosiva, promuovono l’innesco di erosioni di fondo e laterali, le quali, di conseguenza, possono minare la stabilità delle sponde e dei manufatti presenti nell’alveo stesso, come è ampiamente accaduto.
Per quanto riguarda le zone di pianura adiacenti all’alveo, la riduzione delle aree inondabili, generalmente associata alla costruzione di argini, risulta in un incremento dei livelli idrometrici e della velocità della corrente sulle aree allagate, ovvero della capacità di modellamento di tali aree, rispetto alle condizioni precedenti. La progressiva occupazione delle aree di pertinenza fluviale da parte di insediamenti urbani, zone industriali e aree agricole, avvenuta soprattutto nella seconda metà del XX secolo e talvolta ancora in corso, ha inoltre aggravato ulteriormente questo quadro critico essendo all’origine di una considerevole esposizione di elementi vulnerabili quali beni, servizi e persone agli eventi geo-idrologici (inondazioni e dinamica morfologica). Molto spesso sono state realizzate difese per ridurre la probabilità di inondazione di queste aree, oppure, viceversa, alcune aree sono state difese per consentirne l’utilizzo, con l’assunto che le pianure siano esenti dal pericolo di inondazione grazie al sistema difensivo. Le opere di difesa soddisfano le richieste di sicurezza e di sviluppo economico della società, essendo opinione comune che esse possano definitivamente resistere alle inondazioni. Tuttavia, paradossalmente, ad una riduzione della pericolosità si può accompagnare un incremento del rischio connesso alla maggiore esposizione di beni e a maggiori investimenti, ovvero a maggiori danni potenziali in caso di collasso del sistema di difesa.
A livello di bacino, le variazioni di uso del suolo risultanti nell’incremento delle aree edificate hanno influito, anche se realizzate distanti dagli alvei, sull’acuirsi delle problematiche inerenti agli eventi alluvionali. Esse hanno complessivamente causato un incremento della pericolosità associato al fatto che le superfici impermeabilizzate trasformano istantaneamente gli afflussi meteorici in deflussi che vengono convogliati nelle reti di drenaggio confluenti negli alvei. In conseguenza, a parità di precipitazioni, si generano portate al colmo maggiori e in tempi più brevi.
I numerosi eventi alluvionali che si sono verificati negli ultimi anni hanno messo in luce prepotentemente il difficile rapporto che si è instaurato tra i cosiddetti anthropogenic landscapes – gli ambienti antropizzati – e le dinamiche idromorfologiche proprie dei sistemi fluviali. Ad ogni alluvione, quando i corsi d’acqua si riprendono determinati spazi in termini di allagamento o di dinamica d’alveo, non mancano le proteste di cittadini e amministratori locali in riferimento a quanto accaduto, spesso lamentando l’assenza di “pulizia dei fiumi” e la mancata messa in sicurezza del territorio. Occorre considerare che il concetto di messa in sicurezza è fallace e irrealistico; non è infatti possibile mettere in sicurezza il territorio, dal momento che può sempre verificarsi un evento imprevisto che le opere e gli interventi realizzati non sono in grado di fronteggiare adeguatamente, e che è impossibile cristallizzare, ovvero stabilizzare, ciò che per sua natura è dinamico e mutevole. Per ridurre la pericolosità geo-idrologica e per minimizzare il danno che si può verificare conseguentemente ad eventi geo-idrologici, ovvero, nel complesso, per mitigare il rischio, possono essere adottate misure strutturali e non strutturali, purché siano definite alla scala di bacino; in presenza di elementi antropici, tuttavia, vi sarà sempre un certo rischio che non potrà mai essere annullato – il rischio residuo.
La “pulizia dei fiumi” è un falso mito. Con questa locuzione semanticamente errata si intende generalmente la rimozione di sedimenti e materiale legnoso dall’alveo, e la ricalibratura dell’alveo stesso. Questo tipo di intervento ricade tra le misure finalizzate alla riduzione localizzata della pericolosità, ma occorre necessariamente tenere presente che esso squilibra il corso d’acqua, ovvero può innescare processi erosivi e deposizionali anche lungo vaste porzioni dell’asta fluviale stessa. Questo intervento, inoltre, comporta generalmente una velocizzazione del fluire delle acque di piena verso valle, unitamente a conseguenze negative in termini ecologici. Gli effetti negativi della rimozione dei sedimenti sono ampiamente e dettagliatamente documentati nella letteratura scientifica. La diffusa credenza secondo la quale “quando i fiumi si pulivano le alluvioni non si verificavano” è semplicemente smentita considerando (i) che prima della diffusione delle grandi macchine operatrici i prelievi di sedimento avvenivano manualmente e tramite l’uso dei tombarelli quale mezzo di trasporto, il che evidentemente costituiva un forte limite alla movimentazione di ingenti volumi, (ii) che negli anni a cui si fa riferimento, ovvero generalmente la seconda metà del XX secolo in base alla memoria storica delle persone, l’intensa escavazione dei sedimenti dagli alvei veniva effettuata ai fini commerciali e non di riduzione della pericolosità geo-idrologica, (iii) che le conseguenze di tali attività private condotte a scopo di lucro si sono riflesse su beni collettivi, quali i manufatti in alveo ed il sistema fluviale stesso, a danno di tutti, e (iv) che eventi alluvionali di notevole entità si sono verificati anche allora, basti pensare alle alluvioni del Polesine nel 1951, di Firenze nel 1966, di Genova nel 1970, del Basso Piemonte nel 1977 e nel 1994, solo per citarne alcune.
Meritano infine una riflessione le due comuni affermazioni “a memoria d’uomo non è mai successo”, spesso riferita ad alluvioni, frane o fenomeni di migrazione laterale dell’alveo, e “l’abbandono della montagna causa le alluvioni”. La prima, spesso smentita tramite dati d’archivio, mette in luce la miopia della visione antropocentrica dei processi morfologici di evoluzione del rilievo terrestre, posti erroneamente sul piano della memoria umana; la seconda viene smentita dai numerosi studi idrologici effettuati che dimostrano che il bosco, derivante in questo caso dallo spopolamento delle aree montane verificatosi nel corso del XX secolo, attenua gli effetti delle precipitazioni intense, contribuendo a ridurre, o quantomeno a dilazionare nel tempo, la quantità di afflusso meteorico che si trasforma in deflusso. L’abbandono della montagna non causa alluvioni in pianura e, nelle aree montane, in presenza di piogge particolarmente intense l’innesco di processi di instabilità di versante è inevitabile.
Negli ultimi anni, parlando di alluvioni, si fa comunemente riferimento a piogge eccezionali e al cambiamento climatico. Intense precipitazioni si sono verificate anche in passato; un evento eccezionale non necessariamente è nuovo, piuttosto è raro. Qual è quindi la responsabilità del climate change in atto? Il mondo scientifico è concorde nel sostenere che il riscaldamento globale stia incrementando la frequenza di accadimento dei fenomeni estremi, ovvero sono più probabili gli episodi di pioggia intensa. Non è possibile, tuttavia, definire quale sia stato il contributo dei cambiamenti climatici antropogenici ad un certo evento in assenza di accurate valutazioni modellistiche, ovvero senza appropriate analisi di lungo periodo condotte ad una scala spaziale sufficientemente ampia.
Non esiste un criterio unico e sicuro per risolvere le criticità geo-idrologiche di un territorio perché, da un lato, ogni bacino idrografico rappresenta un caso a sé stante e, dall’altro, non è possibile “risolvere” in senso assoluto tali criticità. È prioritario ridare spazio ai corsi d’acqua, fermare il consumo di suolo a livello di bacino, non occupare ulteriormente con insediamenti le aree soggette a pericolosità geo-idrologica, ridurre gli elementi esposti, e creare aree di laminazione diffusa, importanti per la mitigazione del rischio e, nell’ottica della riqualificazione fluviale, per la riconnessione delle pianure agli alvei. Si tratta di attuare “l’uso del suolo come difesa” (Cannata 2007, p. 208), ovvero una efficace delimitazione delle possibilità di uso del suolo in funzione della pericolosità geo-idrologica. Benché siano indirizzi ormai ovvi, ancora oggi vengono disattesi a fronte di scelte politiche recenti dirette ad un ulteriore sfruttamento delle aree prossime agli alvei. Per quanto riguarda la manutenzione delle aste fluviali è necessario considerare che le reti di drenaggio urbano, i reticoli idrografici artificiali in ambiente agricolo, i corsi d’acqua montani, quelli urbani e quelli di pianura sono elementi distinti che necessitano di appropriati e specifici approcci gestionali non generalizzabili e che tengano conto del fatto che tutti questi elementi sono comunque interconnessi tra loro all’interno del bacino idrografico.
Ad oggi vi sono numerose questioni aperte circa la gestione dei corsi d’acqua: la mancanza di studi e di valutazioni quantitative circa il trasporto solido fluviale, elementi fondamentali per implementare efficaci misure di gestione dei sedimenti e dell’ambiente fluviale in genere; la regolamentazione della nuova corsa all’energia idroelettrica che negli ultimi anni ha portato i fiumi italiani verso un’ulteriore frammentazione longitudinale; la nuova politica relativa agli invasi quali strumento di contrasto alla siccità; la mancanza di un catasto delle opere in alveo aggiornato/aggiornabile al fine di effettuare valutazioni complessive a scala di bacino; l’assenza di procedure obbligatorie, robuste e standardizzate per la valutazione dell’impatto di opere e interventi sulla dinamica e sulla morfologia dei corsi d’acqua; l’aggiornamento del catasto, la definizione delle aree demaniali e la proprietà delle aree adiacenti all’alveo; la presenza di contrasti normativi e la sostanziale discrepanza esistente tra i principi generali dettati dalle principali norme di riferimento in materia di gestione fluviale e quanto viene effettivamente concretizzato.
Alla luce di quanto esposto all’inizio del presente contributo circa il continuum di forme e processi che caratterizza i corsi d’acqua associato al concetto di “nastro trasportatore”, è evidente che la scala spaziale appropriata per l’implementazione di adeguate strategie gestionali lungo i corsi d’acqua, ovvero per la significativa valutazione della complessità del sistema, sia quella del bacino idrografico. La legge n. 183 del 18 maggio 1989 ha per prima individuato nel bacino idrografico l’unità di riferimento per la gestione del territorio, considerando “i bacini medesimi come ecosistemi unitari” (L. 183/1989, art. 12) e istituendo per il loro governo le Autorità di Bacino, oggi Autorità di Bacino Distrettuali. Con il passare del tempo, tuttavia, questi enti di area vasta sono stati di fatto progressivamente esautorati, a favore di un approccio gestionale maggiormente legato a specifici territori, nonostante sia ben chiaro che il “nastro trasportatore” non conosce confini amministrativi. L’unitarietà del bacino idrografico costituisce “il fondamento della difesa del suolo perché giustamente stabilisce la prevalenza dei limiti geomorfologici ed idrogeologici su quelli amministrativi. […] Si tratta di una prevalenza essenziale per una adeguata pianificazione e gestione di bacino, soprattutto perché solo in questo modo si supera la tradizionale tendenza a ‘scaricare’ a valle ogni problema” (Mariotti e Iannantuoni 2011, p. 216). Ciononostante, si interviene ancora negli alvei per realizzare opere e interventi in assenza di una visione d’insieme su quelle che sono le dinamiche idromorfologiche del corso d’acqua, in un contesto campanilistico e spesso emergenziale. Benché sovente richiesto da enti locali e cittadini, l’approccio gestionale tradizionale al problema della difesa geo-idrologica del territorio, ovvero associato ad interventi puntuali di estrazione di inerti, taglio di vegetazione e difesa, è in realtà “privo di qualsiasi fondamento scientifico e la logica economica stessa, ovvero il rapporto costi benefici, è discutibile” (Comiti et al. 2011).
La gestione dei fiumi non può consistere solo nella realizzazione di opere; essa deve essere inclusa in un più ampio quadro strategico di sviluppo del territorio e uso del suolo definito sulla base di specifici obiettivi e che mira a ristabilire processi geomorfologici dinamici in grado di perseguire un efficace e sostenibile recupero dell’ambiente fluviale e una mitigazione del rischio geo-idrologico, nell’ottica dell’implementazione delle direttive europee in materia di acque (Direttiva 2000/60/EC) e di alluvioni (Direttiva 2007/60/EC). “Non è scritto da nessuna parte che fare divagare un fiume, quindi renderlo più bello, renda anche più facile il suo governo idraulico e geomorfologico. Non è detto, nella pratica però è quasi sempre così, se non sempre” (Cannata 2007, p. 210).

Riferimenti bibliografici

Cannata P.G. Acque, fiumi, pianificazioni dei bacini idrografici: l’uso del suolo come difesa. In: Ercolini M., a cura di. Fiume, paesaggio, difesa del suolo. Superare le emergenze, cogliere le opportunità. Atti del convegno internazionale, Firenze, 10-11 maggio 2006. Firenze: Firenze University Press; 2007

Comiti F., Da Canal M., Surian N., Mao L., Picco L., Lenzi M.A. Channel adjustments and vegetation cover dynamics in a large gravel bed river over the last 200 years. Geomorphology 2011; 125, 147-59. https://doi.org/10.1016/j.geomorph.2010.09.011

Mariotti E., Iannantuoni M. Il nuovo diritto ambientale. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore; 2011.

Sansoni G. Idee per la difesa dai fiumi e dei fiumi. Il punto di vista ambientalista. Pistoia: Centro Documentazione; 1995.

Per ulteriori approfondimenti si rimanda ai seguenti riferimenti:

Bravard J.-P., Amoros C., Pautou G., Bornette G., Bournaud M., Creuzé des Châtelliers M., Gibert J., Peiry J.-L., Perrin J.-F., Tachet H. River incision in south-east France: morphological phenomena and ecological effects. Regulated Rivers: Research & Management. 1997;13:75-90.

Colombo A., Filippi F. La conoscenza delle forme e dei processi fluviali per la gestione dell’assetto morfologico del fiume Po. Biologia Ambientale 2010;24:331-48.

Kondolf G.M. Hungry water: Effects of dams and gravel mining on river channels. Environmental Management 1997;21:533-51. https://doi.org/10.1007/s002679900048

Surian N., Rinaldi M., Pellegrini L., Audisio C., Maraga F., Teruggi L., Turitto O., Ziliani L. Channel adjustments in northern and central Italy over the last 200 years. In: Allan James L., Rathburn S.L., Whittecar G.R., editors. Management and Restoration of Fluvial Systems with Broad Historical Changes and Human Impacts. Geological Society of America Special Papers. Geological Society of America; 2009b. p. 83-95. https://doi.org/10.1130/2009.2451(05)

http://www.nimbus.it/articoli/2020/200716AttribuzioneEventiEstremi.htm

https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-working-group-ii/

Insetti, che bontà!

Valentino Valentini (Museo Laboratorio della Fauna Minore, Mezzana Salice di San Severino Lucano (Pz)

Lo studio della preistoria e delle antiche civiltà sorte in Eurasia, ma anche nelle Ande e in Mesoamerica, specie per quel che riguarda la gran mole dei reperti fossili, dimostra che per quelle antiche genti i miei amati insetti rientravano ordinariamente nella dieta quotidiana. E’ ampiamente dimostrato che a quei tempi cavallette e locuste, larve di coleotteri e bruchi di farfalle, ma anche formiche e vespe, cicale, termiti e libellule rappresentavano per i nostri antenati un cibo gustoso, nutriente e facile da reperire, e che questi costumi alimentari risalgono all’origine della nostra storia evolutiva. Col progredire, poi, delle tecniche agricole e forestali, molte popolazioni non hanno sentito più la necessità di nutrirsi d’insetti, anche se vi sono comunità in Africa, Asia e America Meridionale che continuano ancor oggi a seguire tale millenaria tradizione.

Tanto per fare un esempio, soprattutto a nord della Tailandia e nelle aree montuose della Cina meridionale, ma il Messico li supera tutti, delle circa 500 specie che si consumano abitualmente in questi paesi ben 300 sono appannaggio delle tavole messicane, compresa una speciale tequila che non è perfetta se non viene preparata immergendovi una larva o bruco di lepidottero, chiamata localmente “cusano” : e questo è il segno più tangibile del forte legame che esiste tra i nostri insetti e la cultura gastronomica messicana. Per non parlare poi del Giappone, dove prelibatezze a base di alcuni tipi di cavallette, larve di imenotteri e persino di tricotteri sono state cibo popolare praticamente sino ad oggi: soprattutto le cavallette si raccoglievano nelle risaie e venivano comunemente consumate specie durante la stagione invernale. Quanto all’Europa, diciamo subito che è alla ricerca di proteine di qualità, a basso costo e a contenuto impatto ambientale ( nell’ambito alimentare, come abbiamo visto, gli insetti rivestono grande interesse ), per un pianeta che nel 2050 avrà più di 9 miliardi di esseri umani, con risorse sempre più scarse e sempre meno terre coltivabili, per non parlare del fenomeno della deforestazione, provocata o meno dal pascolo, inquinamento delle acque e surriscaldamento del clima globale, problemi pesantissimi indubbiamente provocati dalla mentalità “dominatrice” dell’uomo moderno. L’europeo, primo fra tutti, per il quale a quanto sembra, l’idea che questi “insettacci sporchi, brutti e cattivi” possano far parte della dieta quotidiana resta alquanto lontana dal centro decisionale del cervello. Lo dimostrano ignoranza, pregiudizi e “disgusto” di noi europei, che costituiscono una specie di blocco mentale all’adozione degli insetti come fonte di proteine, causato anche dal fatto che noi “moderni” si possa ancora ottenere il paradiso terrestre con l’ausilio della scienza, della tecnologia e dell’industria, sostituendo sistematicamente il mondo naturale, quello che si è sviluppato come risultato di ben 3 miliardi di evoluzione, con un’organizzazione totalmente diversa, dettata dal cosiddetto “sviluppo economico”, identificato poi come il vero “progresso” dell’intera umanità. Ci sta che per molti studiosi di ecologia noi si sia fatto i conti “senza l’oste”, costituito da un’ecosfera sempre più offesa e destabilizzata dai nostri comportamenti. Il vero progresso e la vera ricchezza deriva, al contrario, dal normale funzionamento del mondo naturale, dettato dal clima, favorevole alla vita e di cui peraltro abbiamo goduto per centinaia di milioni di anni, dalle nostre foreste e savane (oggi anch’esse in pericolo), dai fertili terreni agricoli, dai nostri fiumi e ruscelli, dalle sorgenti e dalle falde acquifere (che, se permettete, non abbiamo amato mai abbastanza), dalle nostre più che preziose zone umide, foriere di biodiversità ( oggi sempre più rare e minacciate), dalle più che strepitose barriere coralline ( rese sterili per le temperature sempre più alte), dai nostri mari e oceani ( sempre più offesi da inquinamento e dalla plastica) e da una miriade di forme di vita che, insetti compresi, per nostra buona sorte ancor oggi vi abitano.

Ritornando ai nostri antenati per i quali tutelare la Natura e gli ecosistemi era considerata non solo “un’esigenza scientifica” ma soprattutto un profondo imperativo morale, e riprendendo la controversa questione di questi nostri insetti che diventano così importanti per l’alimentazione umana pur con le dovute cautele igieniche e sanitarie, spero vi piacerà che a questo proposito vi proponga una preghiera dei discepoli del filosofo e “guru” inglese John Bennet, recitata ogni volta prima di mettersi a pranzo, una prece che spero condividerete totalmente con me: “Tutta la vita è una/ E ogni cosa che vive è sacra/ Piante, animali e uomini/ Devono tutti mangiare per vivere e nutrirsi l’un l’altro/ Benediciamo le vite che sono morte per darci del cibo/ Mangiando consapevolmente/ Decisi a pagare col nostro lavoro/ Il debito della nostra esistenza”.

Fondi pubblici per produrre neve artificiale a Pian del Poggio: una scelta poco avveduta

Giuseppe Raggi (Montacuto, AL)

Una notizia su cui è utile riflettere: saranno spesi 128.000 euro (di cui 116.000 a fondo perduto dalla Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese e 12.000 da risorse proprie del Comune,) per un impianto di “parziale innevamento programmato del comprensorio sciistico di Pian del Poggio“, nel comune di Santa Margherita di Staffora.
Lo scorso mese di dicembre il Comune, proprietario della seggiovia esistente nella località appenninica, ha incaricato della realizzazione una società altoatesina. Nella “Relazione tecnica” da noi consultata si legge di un “impianto con generatori di neve a ventola”, comprensivo di “stazione di pompaggio” e di “tubazioni in pressione” e che, ai fini della scelta, sono state considerate “la superficie complessiva da innevare”, “l’ubicazione delle fonti di alimentazione idrica ed elettrica”, “la predeterminazione della quantità d’acqua disponibile”, “le condizioni climatiche ed ambientali”, “le ore disponibili per l’innevamento” senza scendere nello specifico.

La storia del comprensorio turistico di Pian del Poggio comincia negli anni settanta: una iniziativa immobiliare (costruzione di seconde case in condominio, apertura di un bar ristorante e di una discoteca), promossa dall’imprenditore Nunzio Schiavi, che realizza anche la seggiovia fino al monte Chiappo (nel 1976) e un rifugio a 1.700 metri, sulla vetta del monte.
Utile rammentare perché oggi il comune di Santa Margherita di Staffora si ritrova ad essere proprietario della seggiovia: già nel 1990, di fronte agli elevati costi da affrontare per compiere la revisione di legge, Schiavi proponeva senza risultato la costituzione di una finanziaria mista con capitale pubblico e privato. Lo scoglio della revisione veniva comunque superato, nel 1993 la proprietà della seggiovia passava a un’altra compagine sociale che proseguiva la gestione sino a che, nel 2010, si riproponeva la necessaria di un’altra costosa revisione, per la cui realizzazione mancavano i fondi. Nel 2011, quindi, la seggiovia chiudeva temporaneamente. Diversi enti (sollecitati anche dai proprietari degli appartamenti del centro turistico, uniti nell’associazione “Poggio 2000”), cercavano una soluzione: la proprietà dell’impianto passava al comune di Santa Margherita di Staffora e per i lavori necessari venivano stanziati oltre 500.000 euro (200.000 dalla Regione Lombardia, 100.000 dalla Provincia di Pavia, 100.000 dalle fondazioni, 70.000 euro dalla Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese, 30.000 dal Comune di Voghera, 30.000 dal comune di Ferrera Erbognone e 23.000 dal Comune di Santa Margherita di Staffora). Affidata in gestione ad una società privata, la seggiovia ripartiva nel dicembre 2014.

Ora il Comune e la Comunità Montana hanno scelto di affrontare un ulteriore esborso al fine di realizzare l’impianto per la neve artificiale.
L’ipotesi non è affatto nuova: negli anni ottanta sull’Appennino nevicava a quote relativamente basse, eppure, sul settimanale “Il popolo” del 2 febbraio 1986 “l’inventore” di Pian del Poggio, Nunzio Schiavi, già segnalava le criticità del sito: “è risaputo che tutte le stazioni appenniniche come la nostra devono combattere contro lo scirocco, il vento marino che, in poche ore, può trasformare una pista splendida in una al limite della sciabilità.”. Schiavi, rammentando che fin dal 1984 era stata presa in considerazione l’idea di realizzare un impianto di innevamento artificiale, aggiungeva: “le condizioni meteorologiche adatte a sparare la neve sulle nostre piste si possono verificare non più di 5 o 6 volte durante tutta la stagione invernale ... Occorre anche disporre di molta acqua. Quindi, questo progetto non fornisce al momento garanzie sicure di fattibilità, anche se non è da scartare definitivamente”.

Al giorno d’oggi, nel nostro Appennino possono ancora verificarsi intense nevicate, ma la loro frequenza è drasticamente diminuita: sono troppo intermittenti e quasi sempre troppo avanzate nella stagione. E, per effetto dell’innalzamento delle temperature, la permanenza della neve al suolo si sposta a quote sempre più in alte. In siti come Pian del Poggio, le folate dello scirocco complicano ulteriormente il quadro. Certo, dagli anni ottanta la tecnologia per creare neve artificiale si è evoluta, ma si è acutizzata la crisi idrica e i costi dell’energia elettrica sono esplosi. Non sono poi da tralasciare gli effetti che questa tecnologia riverbera sull’ambiente.
Circa poi le prospettive economiche degli investimenti in nuovi impianti di innevamento, una fonte autorevole, lo studio del dicembre 2022 pubblicato in inglese dalla Banca d’Italia, dal titolo “Cambiamento climatico e turismo invernale per l'Italia”, consultabile sul sito dell’istituto di via Nazionale (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2022-0743/QEF_743_22.pdf), afferma: “i risultati del nostro studio confermano quelli di studi precedenti: questa soluzione non sembra essere risolutiva per mantenere i flussi turistici. Inoltre, i costi dell’innevamento artificiale aumenteranno in modo non lineare rispetto all’incremento delle temperature e, se le temperature aumenteranno oltre una certa soglia, l'innevamento artificiale semplicemente non sarà praticabile, soprattutto alle quote più basse, le più colpite dai cambiamenti climatici. Come sottolineato dall'OCSE fin dal 2007, anche se la neve artificiale può ridurre le perdite finanziarie dovute a casi occasionali di inverni carenti di neve, non può proteggere dalle tendenze sistemiche a lungo termine verso inverni più caldi. In questo contesto sono invece cruciali le strategie di adattamento basate sulla diversificazione delle attività e dei ricavi montani”.

Una serie di esperienze pregresse e di considerazioni attuali che gli enti locali avrebbero dovuto tenere ben presenti (poiché, come si leggeva in un’inchiesta sul tema uscita sul quotidiano “Domani” il 16 gennaio (https://www.editorialedomani.it/longform/dove-e-finita-la-neve-italiana-qr3k5bwg), “c'è un confine sottile tra l'adattamento di un settore a nuove condizioni e l'accanimento terapeutico e lo stabilisce solo la realtà climatica e geografica, non l'ostinazione di imprenditori o amministratori”). 
Invece, la Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese, nell’atto di indirizzo con cui ha deliberato il proprio intervento finanziario parla solo di “importante opportunità per incentivare il turismo invernale sul territorio e sviluppare l’economia locale” mentre nella “Relazione tecnica” acquisita dal comune di Santa Margherita di Staffora si legge: “La carenza o la tardiva comparsa della materia prima “neve” compromette la gestione degli impianti di risalita e degli esercizi turistici che richiedono investimenti e costi fissi notevoli. Un impianto di innevamento, oltre a garantire la neve, permette di prolungare la stagione, complementarla e perfezionarla al fine di renderla fruibile e competitiva sul mercato”.
Parliamo di due Enti che hanno che già intrapreso passi importanti per diversificare l’offerta turistica, verso una fruizione multistagionale (con la seggiovia che porta in quota le mountain bike) e lenta (la richiesta di turismo lento è in forte espansione, come testimoniato per esempio dal grande successo dei cammini di lunga percorrenza, quale è la “via del Sale” verso il mar Ligure, che transita proprio sul monte Chiappo), lanciando anche significativi, pur se insufficienti, segnali di attenzione alle peculiarità ambientali del comprensorio: a Pian del Poggio è stato creato un percorso per il “butterfly watching”, un sentiero lungo il quale sono state censite oltre 70 specie di farfalle, anche molto rare. Una bella iniziativa, anche se resta da risolvere il problema della convivenza con i praticanti del “downhill” in mountain bike.
Perciò giudichiamo contradditoria, miope ed irrazionale la scelta di un ulteriore forte impegno finanziario pubblico per supportate un settore, lo sci da discesa nel nostro appennino, che è obiettivamente privo di realistiche prospettive a medio e lungo termine, non solo per il clima mutato, ma anche per l’aumento dei prezzi dell’energia e per la scarsità di acqua.

Prolungamento dell'A31 – valdastico, l'oscuro oggetto del desiderio

Beppo Toffolon (Architetto, consigliere ed ex presidente della sezione trentina d'Italia Nostra)

L'anno scorso, la frusta vicenda del prolungamento della Valdastico (A31) in territorio trentino ha registrato due nuovi eventi: la presentazione di uno studio sull'impatto socio-economico della Valdastico, commissionata dalla Provincia autonoma di Trento alla società PwC, e l'apposita variante del piano urbanistico provinciale (PUP), necessaria premessa per la sua realizzazione. Cominciamo da quest'ultima.

La variante del PUP (Piano urbanistico provinciale)
Il primo passo è fatto: la Provincia ha adottato la specifica variante al suo "Piano urbanistico" (così si chiama il piano territoriale provinciale, in omaggio all'assurda "campagna urbanizzata" teorizzata da Giuseppe Samonà). Un ostacolo in meno, quindi. Eppure, la corposa documentazione prodotta per giustificare l'opera non è certo persuasiva, né il momento sembra propizio: appena dato l'annuncio dell'adozione della variante, al coro dei dissenzienti si sono aggiunti gli industriali di Vicenza, che reputano inutile un prolungamento verso Rovereto, ritenuto invece una ghiotta opportunità dai loro colleghi trentini. Il presidente della Provincia, Maurizio Fugatti, si è affrettato a chiarire che le indicazioni della variante non sono vincolanti e che lo sbocco in Trentino può essere qui o là, a scelta, purché l'autostrada si faccia. Le ragioni di tale incoercibile desiderio autostradale rimangono tuttavia inesplicate.
Sostenere l'insostenibile richiede abilità non comuni: dati falsi o argomenti fallaci prima o poi rivelano la loro inconsistenza. Nella variante, la Provincia si è ben guardata dal tentare di dimostrare l'utilità dell'opera fornendo dati e previsioni. Il goffo tentativo era stato affidato alla PricewaterhouseCoopers Business Services di Londra che, arrampicandosi sugli specchi e a sprezzo del ridicolo, aveva elaborato una relazione possibilista. (Si veda la seconda parte di questo articolo).
Per la variante al piano urbanistico provinciale, invece, si è ritenuto preferibile evitare persino le parole "autostrada", "A31" o "Valdastico". Si dichiara, piuttosto, che l'obiettivo è "valutare l'opportunità di prevedere una ridondanza dei punti di interconnessione tra il Corridoio Est e i Corridoi Scandinavo-Mediterraneo e Mediterraneo". Ridondanza è termine usato qui opportunamente, visto che il collegamento autostradale con il Veneto esiste già.
Ci si affida alla mole dei documenti, come se le decisioni pubbliche si valutassero a peso o in base al numero di pagine. Si può immaginare che produrre diligentemente questa documentazione enciclopedica abbia richiesto un notevole sforzo, e il risultato è certamente interessante per chi voglia approfondire la conoscenza del nostro territorio: l'analisi multicriteria si estende dalle dinamiche demografiche e migratorie all'andamento dei vari settori economici (agricoltura, industria, turismo, servizi). Da questi dati "scelti e pesati dal decisore" si ricava il "fabbisogno di potenziamento della connettività". Scoprendo così, dopo innumerevoli mappe e tabelline, che il Primiero e il Tesino sono le parti peggio collegate del Trentino. Come già si sapeva. Quello che rimane ignoto è il modo in cui il loro indubbio "fabbisogno di potenziamento delle connettività" troverebbe soluzione con il prolungamento dell'A31. Se non, indirettamente e marginalmente, per il presunto minore traffico sulla SS 47; che tuttavia, come ben si sa, è quasi interamente generato dalla Valsugana. Dall'analisi multicriteria si dovrebbe concludere, piuttosto, che è la SS 47 ad avere necessità di qualche opera non ridondante, come il by-pass dei laghi di Caldonazzo e Levico.
Il documento più interessante è la Valutazione ambientale: una relazione di 250 pagine in gran parte dedicate a una descrizione analitica dell'intero territorio provinciale: orografia, idrografia, sismicità, assetto floristico e faunistico (esaminato con straordinario dettaglio), cambiamenti climatici, inquinamento ecc. La parte relativa alla valutazione delle conseguenze dell'opera (non è chiaro in quale tracciato ipotetico) è invece molto sintetica. E s'intuisce la ragione: in primo luogo, perché è impossibile valutare gli effetti di un'opera di cui non esiste una descrizione ma solo l'indicazione di vaghi obiettivi; in secondo luogo, perché entrando nel dettaglio si rischiano brutte figure. Ma si possono collezionare figuracce anche rimanendo sul vago, come quando si afferma: "è del tutto evidente […] che si può considerare integrato nella proposta del PUP l'obiettivo della riduzione delle emissioni climalteranti e di inquinanti in atmosfera". Perché perdere tempo a calcolare quanti anni occorreranno per assorbire la CO2 prodotta per realizzare e tenere in esercizio l'opera a fronte della modesta riduzione del percorso, dell'aumento del dislivello e dello scarso traffico prevedibile, quando l'obiettivo è già "integrato"? Perché perdere tempo a valutare gli effetti ottenibili impiegando quelle risorse economiche in altri scenari della mobilità? È quantomeno dubbio che, in questo caso, l'affermazione "è del tutto evidente" sia scientificamente accettabile. A costo d'essere tacciati di scetticismo pregiudiziale, avremmo gradito una dimostrazione esaustiva.
Sul problema del consumo di suolo la vaghezza è, se possibile, ancora più ineffabile. Si afferma che "non è possibile stimare l’incremento della superficie urbanizzata dovuta all’attuazione del piano, che dovrà essere valutata nelle successive fasi" (come, del resto, ogni altra valutazione); si presume, tuttavia, che la variante "potrà avere anche effetti positivi sulla componente suolo in relazione, ad esempio, a potenziali dinamiche di valorizzazione delle produzioni di particolare qualità e tipicità localizzate lungo il percorso." Difficile immaginare quali benefici attendono la "componente suolo" attraversata da una serie di gallerie.
Di questo passo, oscillando tra l'impossibilità di prevedere l'ignoto e l'ottimistica speranza che tutto andrà comunque per il meglio, il Rapporto ambientale si conclude con un capitolo surreale sulle "Misure di mitigazione e compensazione" dove, in sostanza, si sostiene che le "eventuali infrastrutture", devono essere pensate come "un sistema multimodale, gerarchicamente interconnesso, di infrastrutture e servizi per la mobilità delle persone e il trasporto delle merci, piuttosto che come un semplice collegamento tra i suoi estremi". Si suggerisce "di evitare la creazione di una specializzazione esclusiva e di ricercare, piuttosto, integrazioni reciproche tra le diverse infrastrutture in grado di creare un effetto rete." Tutto il contrario di un susseguirsi per 40 km di tunnel autostradali per collegare l'A4 all'A22. Insomma: lette le "misure di mitigazione e compensazione", che in realtà sono prescrizioni a carattere ipotetico, si dovrebbe concludere che "quest'autostrada non s'ha da fare". Pare che nessuno abbia spiegato alla società bolognese che ha redatto la Valutazione ambientale quali siano le reali intenzioni di Zaia e Fugatti.
Non manca infine una cospicua rassegna del contesto normativo e pianificatorio, dall'ambito locale a quello sovranazionale, né un'articolata disamina delle fasi procedurali passate e future. Tuttavia, le domande fondamentali rimangono senza risposta: a chi e a cosa serve "l'eventuale infrastruttura"? Quali effetti produrrà sui flussi di traffico? Che impatto avrà sulla mobilità generale? Che impatto avrà sull'ambiente e sul paesaggio? Quanto costerà e chi la pagherà, realmente? Forse qualcuno lo sa, di certo nessuno lo dice.

Lo studio socio-economico della società PwC
Come detto poco sopra, la Provincia autonoma di Trento ha commissionato alla società PwC (PricewaterhouseCoopers Business Services) di Londra uno studio sull'impatto socio-economico del prolungamento in Trentino della Valdastico. Dalla relazione presentata nel febbraio del 2022 si ricavano però più interrogativi che risposte. Eccone alcuni.

1. Sostenibilità economica
Che senso ha investire 3300 milioni di euro in un'autostrada da cui si spera di ricavare appena 53 milioni lordi all'anno? Per ammortizzare l'opera – nell'ipotesi assurda che la sua gestione sia a costo zero – non basterebbero 62 anni. La manutenzione (ordinaria e straordinaria) di un'autostrada con queste caratteristiche costa annualmente, in media, circa 1,25 % del costo di costruzione, cioè oltre 41 milioni l'anno. Includendo i costi generali di gestione il profitto prevedibile è nullo o negativo. Dunque: che senso ha un investimento di 3300 milioni di euro in perdita totale?

2. Quanto costa, veramente?
I conti non tornano: l'autostrada è lunga quasi 50 km, il costo per km è stimato in 113 milioni, quindi il costo dell'autostrada dovrebbe essere circa 5600 milioni, non 3300. Che credito si può dare a un'analisi economica che contiene incongruenze così grossolane?

3. Chi paga?
A caval donato non si guarda in bocca? La relazione guarda a questa autostrada come fosse portata dalla Befana o come al dono di un anonimo filantropo, ma i 3300 (o 5600?) milioni non sono risorse prelevate da fondi privati, sono risorse che saranno fornite dai cittadini con il pagamento dei pedaggi sulla rete autostradale gestita dal Concessionario. Quindi, soldi pubblici che non possono essere sprecati in opere di scarsa o nulla utilità.

4. Vantaggi sui tempi
Il risparmio di tempo per il trasporto leggero sarebbe di 20 minuti (un minuto risparmiato ogni 165 milioni). Il vantaggio va però ponderato in relazione alla durata del viaggio: su un viaggio di un'ora, si risparmierebbe un terzo del tempo, un discreto vantaggio. Ma per viaggi di questa durata, la relazione prevede un uso irrilevante dell'autostrada: la maggior parte del traffico è ipotizzata su viaggi di almeno due ore, dove il risparmio di tempo è molto meno incentivante (un sesto o meno), a fronte del disagio di percorrere 40 km di gallerie quasi ininterrotte (alcune estremamente lunghe) e della totale perdita del paesaggio trentino, tanto celebrato. Il vantaggio di tempo sul trasporto pesante (25 minuti) appare ancor meno rilevante, considerati i tempi medi del trasporto delle merci.

5. Vantaggi per la Valsugana
La relazione riporta quanto già noto, e cioè che il traffico sulla SS 47 è in gran prevalenza provinciale. Con il completamento della Valdastico, infatti, nella Valsugana la riduzione prevista per il traffico leggero è un impalpabile 4%, e per il traffico pesante un modestissimo 14 %.  Si sostiene che la riduzione salirebbe a ben il 55 % con l'introduzione di un pedaggio sulla statale della Valsugana. Ammettiamo sia vero: se a essere efficace è il pedaggio – non l'autostrada – tanto vale introdurlo subito, risparmiando 3300 milioni, sette anni di lavori e i danni paesaggistici e ambientali.

6. Occupazione
La tesi che opere varie per 3300 (o 5600?) milioni creeranno molti posti di lavoro merita il Premio La Palice: qualcuno dovrà pur essere impiegato per realizzarle, per quanto inutili e assurde, come il keynesiano scavare buche per poi riempirle. Quindi, qualsiasi infrastruttura di pari valore – anche la più antieconomica e la più dannosa – produrrebbe la stessa occupazione. Ma costruire un'opera che divorerà risorse per tutta la sua esistenza non è ovviamente il modo migliore di creare occupazione stabile. Esistono impieghi certamente più produttivi per quel cospicuo capitale.

7. Incremento turistico
Non si sa da dove scaturisca la stima di un aumento del 20 percento delle presenze turistiche dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia (incremento ipotetico che vale meno del 3 percento delle presenze turistiche complessive) interamente causato dal minor tempo di viaggio.
Ne siamo certi? Per un percorso di tre o quattro ore, venti minuti – il tempo di una sosta in una stazione di servizio – sono un decimo scarso del tempo di viaggio. Oltretutto, per risparmiarli si dovrebbe usare una scorciatoia da incubo (40 km di gallerie). Difficile pensare che sia un'opzione incentivante nella programmazione delle vacanze. Soprattutto considerando che, per chi proviene dal Friuli Venezia Giulia o dal Veneto orientale è già oggi (e rimarrà domani) più conveniente passare per la Valsugana in termini di tempo, chilometri e pedaggi: si risparmiano 16 minuti, 84 km, 19 € (A4 Meolo-Roncade, A22 Trento nord). Il presunto vantaggio di 20 minuti si riduce in realtà a 4, con una spesa aggiuntiva di circa 30 euro tra pedaggi e carburante: da queste zone l'incremento turistico prevedibile è pari a zero.

8. Danni
La relazione non dedica neppure una riga ai costi ambientali e paesaggistici causati dalla sua realizzazione, come non facessero parte dell'impatto socio-economico.

Conclusioni
È ormai evidente: non si sta progettando un'autostrada, si sta architettando uno stratagemma per conservare una lucrosissima concessione facendo finta d'impegnarsi nella costruzione di un'opera totalmente inutile ed economicamente insostenibile. E il governo trentino ha deciso di prestarsi al gioco, sperando di lucrare qualche vantaggio in termini di consenso tra gli strati più ingenui della popolazione.
La relazione si cimenta nel compito impossibile di dimostrare l'indimostrabile, con argomentazioni stravaganti e omissive. Prima di prendere qualsiasi decisione, s'invita il Consiglio provinciale a riesaminare criticamente il suo contenuto e a leggere attentamente l'avvertenza finale della relazione PwC: You should not act upon the information contained in this publication without obtaining specific professional advice. Cioè: non decidere in base alle informazioni contenute in questa pubblicazione senza una specifica consulenza professionale.
Con una frazione dell'enorme capitale che i cittadini sarebbero indirettamente chiamati a fornire, si potrebbe migliorare notevolmente la SS 47, infrastruttura fondamentale per la mobilità trentina, a cominciare dal by-pass in galleria della zona dei laghi di Levico e Caldonazzo, con effetti certamente positivi su turismo, paesaggio e ambiente.
L'ipotizzato pedaggio, oltre a scoraggiare il traffico pesante, potrebbe concorrere al suo finanziamento e a quello delle altre opere di adeguamento e mitigazione che dovrebbero comporsi in un quadro complessivo e definitivo di riqualificazione infrastrutturale, paesaggistica e ambientale della Valsugana. Se la Concessionaria veneta vorrà offrire il suo contributo, sarà la benvenuta.

Aggiornate le liste rosse dell’UICN

La situazione, rispetto alle precedenti valutazioni del 2013, è generalmente peggiorata, anche se non mancano esempi di specie che hanno migliorato la loro presenza sul territorio nazionale

Piero Belletti

Alla fine del 2022 il Comitato Italiano dell’UICN (Unione Internazionale per la Protezione della Natura) ha pubblicato Le “Liste rosse” dei vertebrati. Si tratta di un approfondito esame sulla consistenza della fauna selvatica presente nel nostro Paese, con particolare riferimento ai rischi di estinzione cui le varie specie sono sottoposte.

L’UICN monitora la consistenza e la dinamica delle popolazioni di 700 specie, anche se non tutte sono state valutate in questa “tornata”: 274 di uccelli (limitatamente a quelli che nidificano in Italia), 138 di mammiferi, 59 di rettili, 45 di anfibi, 184 di pesci in senso lato, tra cui 4 di agnati (lamprede e simili), 104 di osteitti (pesci a scheletro osseo) e 76 di condritti (pesci cartilaginei). Si tratta di numeri molto alti, conseguenza del fatto che il nostro Paese, per motivi geografici e orografici, presenta una grande varietà di contesti ambientali. Circa il 10% delle specie presenti in Italia è endemica: non si trova quindi in altre aree. Nonostante circa il 21% del territorio nazionale risulti in qualche modo tutelato (parchi e riserve nazionali o regionali, aree marine protette, siti riconducibili alla Rete Natura 2000), le minacce alla biodiversità nel nostro Paese sono numerose e particolarmente gravi: tra le più importanti l’elevata densità di popolazione, il consumo di suolo e l’alterazione degli ambienti naturali.

La valutazione del rischio di estinzione segue criteri ufficiali adottati a livello internazionale dall’UICN, che si basano in particolare sull’andamento numerico delle popolazioni e sull’areale geografico di distribuzione della specie. Vengono identificate 11 categorie, come dal seguente elenco:

- Specie estinta (EX): anche l’ultimo esemplare vivente in natura è stato eliminato.
- Specie estinte allo stato selvatico (EW): la specie è scomparsa in natura ma esistono alcuni esemplari allo stato di cattività.
- Specie estinta nella Regione (RE): la specie non c’è più nell’ambito territoriale di studio, ma è presente in altre zone (ad esempio in altre nazioni).
- Specie in pericolo critico (CR): specie che corre rischi estremamente elevati di estinzione nel breve-medio periodo.
- Specie minacciata (EN): specie a rischio di estinzione molto elevato.
- Specie vulnerabile (VU): specie ad alto rischio di estinzione.
- Specie a moderato tasso di rischio (NT): la minaccia di estinzione non è imminente, ma possibile nel prossimo futuro.
- Specie a ridotto rischio (LC): la specie al momento non corre rischi significativi di estinzione.
- Specie di cui non si hanno dati sufficienti per stabilire con sufficiente accuratezza la categoria di rischio (DD).
- Specie per le quali non è applicabile la definizione di una categoria (NA), ad esempio perché si tratta di specie alloctone o la cui presenza è del tutto marginale nell’area in esame. In questa categoria rientrano 132 specie delle 700 che l’UICN prende in considerazione.
- Specie non sottoposte a valutazione (NE).

I risultati delle valutazioni sono riassunti nel grafico riportato sotto. Circa metà delle specie esaminate non desta, al momento, particolari preoccupazioni. Tuttavia, ben il 31% delle specie si trova in condizioni di più o meno accentuato rischio.

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Nuovo Ente parco della Gola della Rossa e di Frasassi: quali prospettive?

Elvio Massi

Come è noto, la proposta di legge che modifica la gestione del Parco Naturale Gola della Rossa e Frasassi è stata approvata dall’Assemblea Legislativa della Regione Marche nella nottata tra il 28 e 29 dicembre scorso, dopo essere stata inserita, con procedura d’urgenza, all’odg dell’ultimo Consiglio Regionale, insieme alla legge di bilancio.
L’Unione Montana dell’Esino Frasassi, attuale Ente gestore del Parco Regionale, aveva presentato in modo ufficiale un proprio dossier articolato e preciso su tale proposta di legge ed aveva illustrato le sue posizioni in un’audizione con la 3^ Commissione Consiliare permanente del Consiglio Regionale delle Marche in data 7/4/2022.
Dopo mesi di polemiche e di accese discussioni la legge arriva in Consiglio Regionale inserita all’odg della seduta del 28/12/2022 e la mattina prima della discussione il Presidente dell’Unione Montana ed i Sindaci della stessa motivano il perché la legge sarebbe un errore, ma la maggioranza della Regione Marche tira dritto, ignora tutte le obiezioni e nella tarda notte del 28/12/2022 approva la legge che toglie la gestione del Parco all’Unione Montana per affidarla ad un Ente di nuova istituzione.
C’è da evidenziare che su tale nuova legge regionale si sono raccolti una sfilza di NO, e su di essa hanno espresso ad oggi parere contrario l’Unione Montana Esino Frasassi ed i suoi Comuni, i Presidenti dei Parchi, il CAL, il CREL, l’UPI e l’UNCEM, i Sindacati CGIL, CISL, UIL, le Associazioni Ambientaliste con una presa di posizione di Legambiente a livello nazionale.
In particolare la consigliera di Italia Nostra (F. Tesini) ha evidenziato l’incompatibilità della nuova legge regionale 29/2022 con gli artt.22, 24 e 27 della legge 394/91, evidenziando un’illegittimità costituzionale della legge regionale, che si manifesta in una contrapposizione con l’art.22 in quanto totalmente carente il coinvolgimento degli enti locali nell’iter di formazione della legge; contrapposizione con l’art.24 in quanto lesa l’autonomia statuaria dei parchi nella definizione della propria organizzazione gestionale e con l’art.27 in quanto detto articolo assegna alla Regione un ruolo unicamente di controllo sui parchi regionali, la Consigliera Tesini puntualizza dunque circa l’inopportunità che un organismo di controllo sia anche organismo di gestione.
Evidenzia altresì l’incompatibilità della L.R. medesima con la L.R. 15/94 art.14 sottolineando un’incompatibilità tra leggi regionali ambedue vigenti.
Nonostante tutte queste obiezioni, ora la nuova legge regionale n.29 del 30/12/22 è pubblicata nel BUR ed è vigente e quindi va applicata, ma prima è doveroso fare un’analisi dei contenuti, dei problemi che pone e delle prospettive che apre nel ns. territorio.

I contenuti innovativi della suddetta legge regionale riguardano i seguenti punti:

1) Viene costituito un (nuovo) apposito Ente di diritto pubblico per la gestione del Parco Gola della Rossa e Frasassi, togliendo questa funzione all’Unione Montana dell’Esino Frasassi che l’aveva gestito con i propri organi ed il proprio personale fin dalla sua fondazione, ossia dall’anno 1997.

2) Viene previsto un nuovo organo di gestione del Parco, il Consiglio Direttivo, composto di 10 -11 soggetti, che saranno individuati, così come segue:

  1. Tre rappresentanti della Regione nominati dalla Giunta Regionale;
  2. Un rappresentante per ciascun Comune nel cui territorio insiste il perimetro del Parco (quindi i cinque Sindaci di Arcevia, Cerreto d’Esi, Fabriano, Genga e Serra San Quirico);
  3. Un rappresentante designato dalle Associazioni Ambientaliste maggiormente rappresentative in Regione;
  4. Un rappresentante designato dalle Associazioni Agricole maggiormente rappresentative a livello Regionale.

3) Ai suddetti dieci componenti del Consiglio Direttivo, potrà aggiungersi un ulteriore soggetto (l’undicesimo) ossia il Presidente, che potrà essere scelto anche al di fuori del Consiglio Direttivo, e che sarà nominato dalla Giunta Regionale su proposta del Consiglio medesimo (e così la Giunta Regionale andrà a nominare ben quattro componenti del Consiglio stesso e tra questi il Presidente).

4) Il Presidente di nomina regionale avrà un voto che vale doppio, in quanto nelle votazioni a scrutinio palese, in caso di parità di voti, prevale il voto del suddetto Presidente.

5) Con l’applicazione della nuova legge al Presidente del Parco spetterà un’indennità mensile di carica di circa € 1.280,00, pari al 20 per centro dell’indennità di carica del Consigliere Regionale (mentre attualmente tale indennità di carica nell’Unione Montana non veniva corrisposta).

6) Dall’applicazione della nuova legge non possono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del Bilancio della Regione e questo è il punto più problematico della normativa perché non vi sono le condizioni tecnico-operative perché possa essere rispettata per tutti i motivi che di seguito illustreremo ( e che viene già superata con la suddetta indennità di carica mensile che andrà erogata al nuovo Presidente).

Come è evidente dalla disamina suddetta, l’Amministrazione Regionale si è voluta appropriare di un forte ruolo decisionale all’interno del Consiglio Direttivo del nuovo Ente (nominandone tre componenti più il Presidente) entrando quindi in un ruolo gestionale diretto dell’Ente Parco e non più solo in un ruolo di coordinamento e di controllo, così come era stato esercitato finora.
Inoltre viene spogliata di questa funzione l’Unione Montana già esistente sul territorio che comunque vedeva coinvolti i Sindaci interessati (sia direttamente in Giunta sia indirettamente attraverso il Comitato di Coordinamento del Parco a cui partecipavano anche i Sindaci di Arcevia e di Genga, appartenenti al Parco ma non all’ambito dell’Unione Montana).
La previsione dell’invarianza finanziaria per la Regione dall’applicazione della nuova Legge appare non veritiera e sarà senz’altro una chimera in quanto, mentre finora l’Ente Parco veniva gestito, senza spese aggiuntive, dal personale, dagli organi e dagli Uffici dell’Unione Montana, sfruttando le sinergie derivanti da una gestione collaborativa delle risorse umane presenti all’interno dell’Ente, per il futuro il nuovo Ente Parco avrà bisogno di figure dedicate che andranno retribuite a carico della Regione (necessitano le figure del Direttore, del Ragioniere, degli Amministrativi, dei Tecnici, del Revisore, ecc.) il cui costo annuo è stimato in €225.000.
Pertanto, risulta evidente che, con l’istituzione dell’Ente Parco autonomo, non si riuscirebbe a soddisfare l’INVARIANZA FINANZIARIA prevista dalla legge, al contrario, si osserverà un aumento considerevole dei costi ordinari (quasi del 50%), in quanto si dovrà necessariamente provvedere alle spese per il funzionamento degli organi istituzionali – oggi azzerate – e sarà fondamentale anche considerare la spesa relativa ad almeno quattro figure professionali complessivamente (1 cat. D e 3 cat. C), specificamente dedicate al settore affari generali/gestione del personale e al settore economico-finanziario.
Ma tant’è, ormai la legge è legge e quindi va trovato un modo intelligente di applicarla.
Innanzitutto andrebbe organizzato molto presto un incontro tra la Regione, l’attuale Ente Gestore (Unione Montana) e tutti i Sindaci interessati per concordare insieme un percorso plausibile per il subentro del nuovo Ente Parco all’attuale gestione dell’Unione; difatti va ricordato che l’art.5 della nuova Legge 29/2022 prevede che l’Unione Montana e il nuovo Ente Parco definiscono d’intesa i tempi e le modalità di subentro che deve essere effettuato entro sei mesi (ossia entro il 30 giugno p.v.) e che in caso di mancato accordo entro il termine, provvede direttamente la Giunta Regionale.
Non sarà facile definire il suddetto subentro, sia per quanto riguarda il patrimonio che per quanto riguarda le risorse umane, ma serve mettersi a un tavolo e cominciare a vedere i problemi reali che si pongono con questo passaggio di competenze.
La struttura dell’Unione Montana finora ha funzionato da “service” per il Parco, era un “unicum” che intrecciava funzioni e competenze con vantaggi reciproci e questa gestione “unitaria” non può ora essere svincolata dalla complessiva gestione del territorio che compete all’Unione Montana per varie funzioni correlate (si pensi alla promozione turistica, alla tutela ambientale, alla forestazione, alla mobilità lenta, ecc.).
Si tratta di un’operazione complessa per la quale vanno trovate posizioni conciliative tra l’attuale Ente gestore ed il subentrante, in modo da salvaguardare quell’aggregazione vasta del territorio che finora aveva saputo assicurare in vari campi l’Unione Montana.
Infatti per certe attività serve un ambito più vasto del Parco, va mantenuto un collegamento con tutto il territorio coinvolgendo tutti i Sindaci, va tenuta unita l’area montana, non va disaggregata in Enti che agiscono separati.

Per certe azioni non basta l’intervento di un singolo Ente (si pensi ad esempio alle azioni per far crescere la residenzialità nel nostro territorio, per la quale occorrono anche interventi socio-economici).
Quindi serve dialogo, non chiusura o contrapposizione tra le parti, non si deve distruggere o accantonare quel livello di aggregazione territoriale che l’Unione Montana era riuscita a costruire e ad assicurare, va tenuto unito un territorio vasto, al di là del Parco, con una visione aperta e solidale.
A tal fine sarà determinante la linea strategica che vorranno prendere tutti i Sindaci dei Comuni coinvolti nel Parco insieme ai Sindaci  dell’Unione Montana Esino Frasassi superando polemiche del passato o visioni localistiche e di breve respiro.
Occorre utilizzare gli strumenti di raccordo per tale lavoro comune (che già esistono, si ricordano la Comunità del Parco ed il Comitato di Coordinamento istituzionale) in modo da portare avanti azioni coordinate.
Sul piano più strettamente operativo, si potrà pensare di utilizzare per il Parco anche le risorse umane disponibili, ricorrendo a forme di collaborazione temporanee ed a tempo parziale con dipendenti degli Enti territoriali locali con adeguata professionalità (come già fanno altri Enti Parco della Regione) anche mediante la stipula di accordi convenzionali che consentono utili sinergie ed anche economie di spesa a vantaggio di tutti gli Enti coinvolti.