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I fiumi italiani e le calamità artificiali

Andrea Mandarino
(Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita – Università degli Studi di Genova)

Pensando al modo in cui un corso d’acqua “lavora” in termini geomorfologici, ovvero modella il paesaggio, è evidente come esso possa essere paragonato ad un nastro trasportatore che prende in carico sedimenti e legname dalle aree montane e li trasporta verso valle alle aree di pianura ed infine alla foce, plasmando le forme del rilievo terrestre. Un corso d’acqua principale, i suoi affluenti e gli affluenti degli affluenti, tutti nastri trasportatori che complessivamente definiscono il reticolo idrografico, drenano una regione, ovvero il bacino idrografico, e con il fluire della corrente da monte verso valle connettono porzioni di territorio anche molto distanti tra loro.
La morfologia e la dinamica di un corso d’acqua dipendono da: variabili guida (disponibilità di sedimento e portate liquide) e condizioni al contorno (assetto fisico delle valli, vegetazione perifluviale, caratteristiche sedimentarie). La variazione di questi elementi generalmente innesca risposte idromorfologiche, cioè modifiche della forma dell’alveo e dei processi geomorfologici prevalenti, più o meno intense ed estese in termini spaziali e temporali in funzione dell’entità della variazione stessa.
Le numerose ricerche condotte negli ultimi decenni per analizzare l’evoluzione morfologica storica e recente degli alvei italiani hanno delineato complessivamente due fasi storiche di prevalente restringimento e incisione dell’alveo che si collocano rispettivamente (i) tra gli ultimi decenni del XIX secolo e gli anni Cinquanta del XX secolo e (ii) tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta di quest’ultimo.
La prima è stata interpretata come la risposta morfologica dell’alveo ai cambiamenti antropici dell’uso del suolo a scala di bacino, alle sistemazioni idraulico-forestali in ambiente montano, alla costruzione di dighe e, in alcuni casi, ai cambiamenti climatici successivi alla fine della Piccola Era Glaciale. La seconda invece, caratterizzata da variazioni morfologiche ben più significative, rapide e diffuse della prima, è stata associata alle escavazioni in alveo e alle opere di regimazione (canalizzazioni, rettificazioni), fermi restando i persistenti impatti di quanto ha caratterizzato la fase precedente. Nella seconda metà del XX secolo, lungo i corsi d’acqua italiani sono stati documentati restringimenti dell’alveo in generale superiori al 50%, fino a valori dell’85-90%, e abbassamenti comunemente dell’ordine di 3-4 m e localmente di 10-12 m. A tali processi si è accompagnata spesso una trasformazione dell’alveo che da multicanale è diventato a canale singolo. “Affascinanti ecosistemi viventi” si sono dunque trasformati in “squallide condutture idrauliche” (Sansoni 1995, p. 1), dal momento che quanto rilevato si è tradotto in una generalizzata banalizzazione delle forme e dei processi fluviali con conseguente perdita di habitat e biodiversità, e riduzione dei preziosi servizi ecosistemici che i sistemi fluviali offrono all’uomo. È ormai ampiamente riconosciuto il ruolo determinante degli interventi antropici, escavazioni di materiale litoide in primis, nell’aver determinato le suddette modificazioni, il cui principale fattore causale è stato identificato nella riduzione della disponibilità di sedimento.
Benché molte aste fluviali abbiano una lunghissima storia di canalizzazioni e rettificazioni, è all’incirca dalla metà del XX secolo che questi interventi hanno assunto un carattere sostanzialmente irreversibile sul lungo periodo e una diffusione generalizzata a scala nazionale. Le opere di difesa dall’erosione (difese spondali) e dall’esondazione (argini) hanno causato, in sinergia con altre pressioni antropiche, una progressiva stabilizzazione del tracciato planimetrico dell’alveo, un suo restringimento e una riduzione dello spazio fluviale nel suo complesso. Le pianure, conseguentemente, sono rimaste disconnesse dai sistemi fluviali e le aree di pertinenza fluviale “difese” sono state coltivate o urbanizzate e, successivamente, ulteriormente protette con altre opere di canalizzazione. In molti contesti, inoltre, l’espansione delle aree urbane ha portato non solo alla canalizzazione degli alvei, ma anche alla loro completa copertura; si pensi, per esempio, ai corsi d’acqua tombati sotto l’area metropolitana di Milano, oppure a quelli che attraversano le città costiere della Liguria.
Dal punto di vista della pericolosità geo-idrologica, le variazioni morfologiche che hanno interessato nel XX secolo gli alvei italiani si sono tradotte in una riduzione della capacità di laminazione delle piene, ovvero di attenuazione dell’onda di piena, e in una generalizzata instabilità morfologica degli alvei associata a processi erosivi. In alvei stretti e incisi, infatti, la frequenza di inondazione della pianura alluvionale adiacente diminuisce in conseguenza dell’aumento della portata contenuta dall’alveo stesso. Sebbene questo aspetto sia generalmente percepito dai cittadini come qualcosa di positivo, occorre notare che, a parità di evento meteorico, il minore allagamento delle aree prossime all’alveo provoca un incremento delle portate al colmo a valle associato ad una più rapida propagazione della piena. Le suddette principali caratteristiche geometriche degli alvei, inoltre, a fronte di un aumento della velocità della corrente fluviale e quindi della sua maggiore capacità erosiva, promuovono l’innesco di erosioni di fondo e laterali, le quali, di conseguenza, possono minare la stabilità delle sponde e dei manufatti presenti nell’alveo stesso, come è ampiamente accaduto.
Per quanto riguarda le zone di pianura adiacenti all’alveo, la riduzione delle aree inondabili, generalmente associata alla costruzione di argini, risulta in un incremento dei livelli idrometrici e della velocità della corrente sulle aree allagate, ovvero della capacità di modellamento di tali aree, rispetto alle condizioni precedenti. La progressiva occupazione delle aree di pertinenza fluviale da parte di insediamenti urbani, zone industriali e aree agricole, avvenuta soprattutto nella seconda metà del XX secolo e talvolta ancora in corso, ha inoltre aggravato ulteriormente questo quadro critico essendo all’origine di una considerevole esposizione di elementi vulnerabili quali beni, servizi e persone agli eventi geo-idrologici (inondazioni e dinamica morfologica). Molto spesso sono state realizzate difese per ridurre la probabilità di inondazione di queste aree, oppure, viceversa, alcune aree sono state difese per consentirne l’utilizzo, con l’assunto che le pianure siano esenti dal pericolo di inondazione grazie al sistema difensivo. Le opere di difesa soddisfano le richieste di sicurezza e di sviluppo economico della società, essendo opinione comune che esse possano definitivamente resistere alle inondazioni. Tuttavia, paradossalmente, ad una riduzione della pericolosità si può accompagnare un incremento del rischio connesso alla maggiore esposizione di beni e a maggiori investimenti, ovvero a maggiori danni potenziali in caso di collasso del sistema di difesa.
A livello di bacino, le variazioni di uso del suolo risultanti nell’incremento delle aree edificate hanno influito, anche se realizzate distanti dagli alvei, sull’acuirsi delle problematiche inerenti agli eventi alluvionali. Esse hanno complessivamente causato un incremento della pericolosità associato al fatto che le superfici impermeabilizzate trasformano istantaneamente gli afflussi meteorici in deflussi che vengono convogliati nelle reti di drenaggio confluenti negli alvei. In conseguenza, a parità di precipitazioni, si generano portate al colmo maggiori e in tempi più brevi.
I numerosi eventi alluvionali che si sono verificati negli ultimi anni hanno messo in luce prepotentemente il difficile rapporto che si è instaurato tra i cosiddetti anthropogenic landscapes – gli ambienti antropizzati – e le dinamiche idromorfologiche proprie dei sistemi fluviali. Ad ogni alluvione, quando i corsi d’acqua si riprendono determinati spazi in termini di allagamento o di dinamica d’alveo, non mancano le proteste di cittadini e amministratori locali in riferimento a quanto accaduto, spesso lamentando l’assenza di “pulizia dei fiumi” e la mancata messa in sicurezza del territorio. Occorre considerare che il concetto di messa in sicurezza è fallace e irrealistico; non è infatti possibile mettere in sicurezza il territorio, dal momento che può sempre verificarsi un evento imprevisto che le opere e gli interventi realizzati non sono in grado di fronteggiare adeguatamente, e che è impossibile cristallizzare, ovvero stabilizzare, ciò che per sua natura è dinamico e mutevole. Per ridurre la pericolosità geo-idrologica e per minimizzare il danno che si può verificare conseguentemente ad eventi geo-idrologici, ovvero, nel complesso, per mitigare il rischio, possono essere adottate misure strutturali e non strutturali, purché siano definite alla scala di bacino; in presenza di elementi antropici, tuttavia, vi sarà sempre un certo rischio che non potrà mai essere annullato – il rischio residuo.
La “pulizia dei fiumi” è un falso mito. Con questa locuzione semanticamente errata si intende generalmente la rimozione di sedimenti e materiale legnoso dall’alveo, e la ricalibratura dell’alveo stesso. Questo tipo di intervento ricade tra le misure finalizzate alla riduzione localizzata della pericolosità, ma occorre necessariamente tenere presente che esso squilibra il corso d’acqua, ovvero può innescare processi erosivi e deposizionali anche lungo vaste porzioni dell’asta fluviale stessa. Questo intervento, inoltre, comporta generalmente una velocizzazione del fluire delle acque di piena verso valle, unitamente a conseguenze negative in termini ecologici. Gli effetti negativi della rimozione dei sedimenti sono ampiamente e dettagliatamente documentati nella letteratura scientifica. La diffusa credenza secondo la quale “quando i fiumi si pulivano le alluvioni non si verificavano” è semplicemente smentita considerando (i) che prima della diffusione delle grandi macchine operatrici i prelievi di sedimento avvenivano manualmente e tramite l’uso dei tombarelli quale mezzo di trasporto, il che evidentemente costituiva un forte limite alla movimentazione di ingenti volumi, (ii) che negli anni a cui si fa riferimento, ovvero generalmente la seconda metà del XX secolo in base alla memoria storica delle persone, l’intensa escavazione dei sedimenti dagli alvei veniva effettuata ai fini commerciali e non di riduzione della pericolosità geo-idrologica, (iii) che le conseguenze di tali attività private condotte a scopo di lucro si sono riflesse su beni collettivi, quali i manufatti in alveo ed il sistema fluviale stesso, a danno di tutti, e (iv) che eventi alluvionali di notevole entità si sono verificati anche allora, basti pensare alle alluvioni del Polesine nel 1951, di Firenze nel 1966, di Genova nel 1970, del Basso Piemonte nel 1977 e nel 1994, solo per citarne alcune.
Meritano infine una riflessione le due comuni affermazioni “a memoria d’uomo non è mai successo”, spesso riferita ad alluvioni, frane o fenomeni di migrazione laterale dell’alveo, e “l’abbandono della montagna causa le alluvioni”. La prima, spesso smentita tramite dati d’archivio, mette in luce la miopia della visione antropocentrica dei processi morfologici di evoluzione del rilievo terrestre, posti erroneamente sul piano della memoria umana; la seconda viene smentita dai numerosi studi idrologici effettuati che dimostrano che il bosco, derivante in questo caso dallo spopolamento delle aree montane verificatosi nel corso del XX secolo, attenua gli effetti delle precipitazioni intense, contribuendo a ridurre, o quantomeno a dilazionare nel tempo, la quantità di afflusso meteorico che si trasforma in deflusso. L’abbandono della montagna non causa alluvioni in pianura e, nelle aree montane, in presenza di piogge particolarmente intense l’innesco di processi di instabilità di versante è inevitabile.
Negli ultimi anni, parlando di alluvioni, si fa comunemente riferimento a piogge eccezionali e al cambiamento climatico. Intense precipitazioni si sono verificate anche in passato; un evento eccezionale non necessariamente è nuovo, piuttosto è raro. Qual è quindi la responsabilità del climate change in atto? Il mondo scientifico è concorde nel sostenere che il riscaldamento globale stia incrementando la frequenza di accadimento dei fenomeni estremi, ovvero sono più probabili gli episodi di pioggia intensa. Non è possibile, tuttavia, definire quale sia stato il contributo dei cambiamenti climatici antropogenici ad un certo evento in assenza di accurate valutazioni modellistiche, ovvero senza appropriate analisi di lungo periodo condotte ad una scala spaziale sufficientemente ampia.
Non esiste un criterio unico e sicuro per risolvere le criticità geo-idrologiche di un territorio perché, da un lato, ogni bacino idrografico rappresenta un caso a sé stante e, dall’altro, non è possibile “risolvere” in senso assoluto tali criticità. È prioritario ridare spazio ai corsi d’acqua, fermare il consumo di suolo a livello di bacino, non occupare ulteriormente con insediamenti le aree soggette a pericolosità geo-idrologica, ridurre gli elementi esposti, e creare aree di laminazione diffusa, importanti per la mitigazione del rischio e, nell’ottica della riqualificazione fluviale, per la riconnessione delle pianure agli alvei. Si tratta di attuare “l’uso del suolo come difesa” (Cannata 2007, p. 208), ovvero una efficace delimitazione delle possibilità di uso del suolo in funzione della pericolosità geo-idrologica. Benché siano indirizzi ormai ovvi, ancora oggi vengono disattesi a fronte di scelte politiche recenti dirette ad un ulteriore sfruttamento delle aree prossime agli alvei. Per quanto riguarda la manutenzione delle aste fluviali è necessario considerare che le reti di drenaggio urbano, i reticoli idrografici artificiali in ambiente agricolo, i corsi d’acqua montani, quelli urbani e quelli di pianura sono elementi distinti che necessitano di appropriati e specifici approcci gestionali non generalizzabili e che tengano conto del fatto che tutti questi elementi sono comunque interconnessi tra loro all’interno del bacino idrografico.
Ad oggi vi sono numerose questioni aperte circa la gestione dei corsi d’acqua: la mancanza di studi e di valutazioni quantitative circa il trasporto solido fluviale, elementi fondamentali per implementare efficaci misure di gestione dei sedimenti e dell’ambiente fluviale in genere; la regolamentazione della nuova corsa all’energia idroelettrica che negli ultimi anni ha portato i fiumi italiani verso un’ulteriore frammentazione longitudinale; la nuova politica relativa agli invasi quali strumento di contrasto alla siccità; la mancanza di un catasto delle opere in alveo aggiornato/aggiornabile al fine di effettuare valutazioni complessive a scala di bacino; l’assenza di procedure obbligatorie, robuste e standardizzate per la valutazione dell’impatto di opere e interventi sulla dinamica e sulla morfologia dei corsi d’acqua; l’aggiornamento del catasto, la definizione delle aree demaniali e la proprietà delle aree adiacenti all’alveo; la presenza di contrasti normativi e la sostanziale discrepanza esistente tra i principi generali dettati dalle principali norme di riferimento in materia di gestione fluviale e quanto viene effettivamente concretizzato.
Alla luce di quanto esposto all’inizio del presente contributo circa il continuum di forme e processi che caratterizza i corsi d’acqua associato al concetto di “nastro trasportatore”, è evidente che la scala spaziale appropriata per l’implementazione di adeguate strategie gestionali lungo i corsi d’acqua, ovvero per la significativa valutazione della complessità del sistema, sia quella del bacino idrografico. La legge n. 183 del 18 maggio 1989 ha per prima individuato nel bacino idrografico l’unità di riferimento per la gestione del territorio, considerando “i bacini medesimi come ecosistemi unitari” (L. 183/1989, art. 12) e istituendo per il loro governo le Autorità di Bacino, oggi Autorità di Bacino Distrettuali. Con il passare del tempo, tuttavia, questi enti di area vasta sono stati di fatto progressivamente esautorati, a favore di un approccio gestionale maggiormente legato a specifici territori, nonostante sia ben chiaro che il “nastro trasportatore” non conosce confini amministrativi. L’unitarietà del bacino idrografico costituisce “il fondamento della difesa del suolo perché giustamente stabilisce la prevalenza dei limiti geomorfologici ed idrogeologici su quelli amministrativi. […] Si tratta di una prevalenza essenziale per una adeguata pianificazione e gestione di bacino, soprattutto perché solo in questo modo si supera la tradizionale tendenza a ‘scaricare’ a valle ogni problema” (Mariotti e Iannantuoni 2011, p. 216). Ciononostante, si interviene ancora negli alvei per realizzare opere e interventi in assenza di una visione d’insieme su quelle che sono le dinamiche idromorfologiche del corso d’acqua, in un contesto campanilistico e spesso emergenziale. Benché sovente richiesto da enti locali e cittadini, l’approccio gestionale tradizionale al problema della difesa geo-idrologica del territorio, ovvero associato ad interventi puntuali di estrazione di inerti, taglio di vegetazione e difesa, è in realtà “privo di qualsiasi fondamento scientifico e la logica economica stessa, ovvero il rapporto costi benefici, è discutibile” (Comiti et al. 2011).
La gestione dei fiumi non può consistere solo nella realizzazione di opere; essa deve essere inclusa in un più ampio quadro strategico di sviluppo del territorio e uso del suolo definito sulla base di specifici obiettivi e che mira a ristabilire processi geomorfologici dinamici in grado di perseguire un efficace e sostenibile recupero dell’ambiente fluviale e una mitigazione del rischio geo-idrologico, nell’ottica dell’implementazione delle direttive europee in materia di acque (Direttiva 2000/60/EC) e di alluvioni (Direttiva 2007/60/EC). “Non è scritto da nessuna parte che fare divagare un fiume, quindi renderlo più bello, renda anche più facile il suo governo idraulico e geomorfologico. Non è detto, nella pratica però è quasi sempre così, se non sempre” (Cannata 2007, p. 210).

Riferimenti bibliografici

Cannata P.G. Acque, fiumi, pianificazioni dei bacini idrografici: l’uso del suolo come difesa. In: Ercolini M., a cura di. Fiume, paesaggio, difesa del suolo. Superare le emergenze, cogliere le opportunità. Atti del convegno internazionale, Firenze, 10-11 maggio 2006. Firenze: Firenze University Press; 2007

Comiti F., Da Canal M., Surian N., Mao L., Picco L., Lenzi M.A. Channel adjustments and vegetation cover dynamics in a large gravel bed river over the last 200 years. Geomorphology 2011; 125, 147-59. https://doi.org/10.1016/j.geomorph.2010.09.011

Mariotti E., Iannantuoni M. Il nuovo diritto ambientale. Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore; 2011.

Sansoni G. Idee per la difesa dai fiumi e dei fiumi. Il punto di vista ambientalista. Pistoia: Centro Documentazione; 1995.

Per ulteriori approfondimenti si rimanda ai seguenti riferimenti:

Bravard J.-P., Amoros C., Pautou G., Bornette G., Bournaud M., Creuzé des Châtelliers M., Gibert J., Peiry J.-L., Perrin J.-F., Tachet H. River incision in south-east France: morphological phenomena and ecological effects. Regulated Rivers: Research & Management. 1997;13:75-90.

Colombo A., Filippi F. La conoscenza delle forme e dei processi fluviali per la gestione dell’assetto morfologico del fiume Po. Biologia Ambientale 2010;24:331-48.

Kondolf G.M. Hungry water: Effects of dams and gravel mining on river channels. Environmental Management 1997;21:533-51. https://doi.org/10.1007/s002679900048

Surian N., Rinaldi M., Pellegrini L., Audisio C., Maraga F., Teruggi L., Turitto O., Ziliani L. Channel adjustments in northern and central Italy over the last 200 years. In: Allan James L., Rathburn S.L., Whittecar G.R., editors. Management and Restoration of Fluvial Systems with Broad Historical Changes and Human Impacts. Geological Society of America Special Papers. Geological Society of America; 2009b. p. 83-95. https://doi.org/10.1130/2009.2451(05)

http://www.nimbus.it/articoli/2020/200716AttribuzioneEventiEstremi.htm

https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-working-group-ii/

Insetti, che bontà!

Valentino Valentini (Museo Laboratorio della Fauna Minore, Mezzana Salice di San Severino Lucano (Pz)

Lo studio della preistoria e delle antiche civiltà sorte in Eurasia, ma anche nelle Ande e in Mesoamerica, specie per quel che riguarda la gran mole dei reperti fossili, dimostra che per quelle antiche genti i miei amati insetti rientravano ordinariamente nella dieta quotidiana. E’ ampiamente dimostrato che a quei tempi cavallette e locuste, larve di coleotteri e bruchi di farfalle, ma anche formiche e vespe, cicale, termiti e libellule rappresentavano per i nostri antenati un cibo gustoso, nutriente e facile da reperire, e che questi costumi alimentari risalgono all’origine della nostra storia evolutiva. Col progredire, poi, delle tecniche agricole e forestali, molte popolazioni non hanno sentito più la necessità di nutrirsi d’insetti, anche se vi sono comunità in Africa, Asia e America Meridionale che continuano ancor oggi a seguire tale millenaria tradizione.

Tanto per fare un esempio, soprattutto a nord della Tailandia e nelle aree montuose della Cina meridionale, ma il Messico li supera tutti, delle circa 500 specie che si consumano abitualmente in questi paesi ben 300 sono appannaggio delle tavole messicane, compresa una speciale tequila che non è perfetta se non viene preparata immergendovi una larva o bruco di lepidottero, chiamata localmente “cusano” : e questo è il segno più tangibile del forte legame che esiste tra i nostri insetti e la cultura gastronomica messicana. Per non parlare poi del Giappone, dove prelibatezze a base di alcuni tipi di cavallette, larve di imenotteri e persino di tricotteri sono state cibo popolare praticamente sino ad oggi: soprattutto le cavallette si raccoglievano nelle risaie e venivano comunemente consumate specie durante la stagione invernale. Quanto all’Europa, diciamo subito che è alla ricerca di proteine di qualità, a basso costo e a contenuto impatto ambientale ( nell’ambito alimentare, come abbiamo visto, gli insetti rivestono grande interesse ), per un pianeta che nel 2050 avrà più di 9 miliardi di esseri umani, con risorse sempre più scarse e sempre meno terre coltivabili, per non parlare del fenomeno della deforestazione, provocata o meno dal pascolo, inquinamento delle acque e surriscaldamento del clima globale, problemi pesantissimi indubbiamente provocati dalla mentalità “dominatrice” dell’uomo moderno. L’europeo, primo fra tutti, per il quale a quanto sembra, l’idea che questi “insettacci sporchi, brutti e cattivi” possano far parte della dieta quotidiana resta alquanto lontana dal centro decisionale del cervello. Lo dimostrano ignoranza, pregiudizi e “disgusto” di noi europei, che costituiscono una specie di blocco mentale all’adozione degli insetti come fonte di proteine, causato anche dal fatto che noi “moderni” si possa ancora ottenere il paradiso terrestre con l’ausilio della scienza, della tecnologia e dell’industria, sostituendo sistematicamente il mondo naturale, quello che si è sviluppato come risultato di ben 3 miliardi di evoluzione, con un’organizzazione totalmente diversa, dettata dal cosiddetto “sviluppo economico”, identificato poi come il vero “progresso” dell’intera umanità. Ci sta che per molti studiosi di ecologia noi si sia fatto i conti “senza l’oste”, costituito da un’ecosfera sempre più offesa e destabilizzata dai nostri comportamenti. Il vero progresso e la vera ricchezza deriva, al contrario, dal normale funzionamento del mondo naturale, dettato dal clima, favorevole alla vita e di cui peraltro abbiamo goduto per centinaia di milioni di anni, dalle nostre foreste e savane (oggi anch’esse in pericolo), dai fertili terreni agricoli, dai nostri fiumi e ruscelli, dalle sorgenti e dalle falde acquifere (che, se permettete, non abbiamo amato mai abbastanza), dalle nostre più che preziose zone umide, foriere di biodiversità ( oggi sempre più rare e minacciate), dalle più che strepitose barriere coralline ( rese sterili per le temperature sempre più alte), dai nostri mari e oceani ( sempre più offesi da inquinamento e dalla plastica) e da una miriade di forme di vita che, insetti compresi, per nostra buona sorte ancor oggi vi abitano.

Ritornando ai nostri antenati per i quali tutelare la Natura e gli ecosistemi era considerata non solo “un’esigenza scientifica” ma soprattutto un profondo imperativo morale, e riprendendo la controversa questione di questi nostri insetti che diventano così importanti per l’alimentazione umana pur con le dovute cautele igieniche e sanitarie, spero vi piacerà che a questo proposito vi proponga una preghiera dei discepoli del filosofo e “guru” inglese John Bennet, recitata ogni volta prima di mettersi a pranzo, una prece che spero condividerete totalmente con me: “Tutta la vita è una/ E ogni cosa che vive è sacra/ Piante, animali e uomini/ Devono tutti mangiare per vivere e nutrirsi l’un l’altro/ Benediciamo le vite che sono morte per darci del cibo/ Mangiando consapevolmente/ Decisi a pagare col nostro lavoro/ Il debito della nostra esistenza”.

Fondi pubblici per produrre neve artificiale a Pian del Poggio: una scelta poco avveduta

Giuseppe Raggi (Montacuto, AL)

Una notizia su cui è utile riflettere: saranno spesi 128.000 euro (di cui 116.000 a fondo perduto dalla Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese e 12.000 da risorse proprie del Comune,) per un impianto di “parziale innevamento programmato del comprensorio sciistico di Pian del Poggio“, nel comune di Santa Margherita di Staffora.
Lo scorso mese di dicembre il Comune, proprietario della seggiovia esistente nella località appenninica, ha incaricato della realizzazione una società altoatesina. Nella “Relazione tecnica” da noi consultata si legge di un “impianto con generatori di neve a ventola”, comprensivo di “stazione di pompaggio” e di “tubazioni in pressione” e che, ai fini della scelta, sono state considerate “la superficie complessiva da innevare”, “l’ubicazione delle fonti di alimentazione idrica ed elettrica”, “la predeterminazione della quantità d’acqua disponibile”, “le condizioni climatiche ed ambientali”, “le ore disponibili per l’innevamento” senza scendere nello specifico.

La storia del comprensorio turistico di Pian del Poggio comincia negli anni settanta: una iniziativa immobiliare (costruzione di seconde case in condominio, apertura di un bar ristorante e di una discoteca), promossa dall’imprenditore Nunzio Schiavi, che realizza anche la seggiovia fino al monte Chiappo (nel 1976) e un rifugio a 1.700 metri, sulla vetta del monte.
Utile rammentare perché oggi il comune di Santa Margherita di Staffora si ritrova ad essere proprietario della seggiovia: già nel 1990, di fronte agli elevati costi da affrontare per compiere la revisione di legge, Schiavi proponeva senza risultato la costituzione di una finanziaria mista con capitale pubblico e privato. Lo scoglio della revisione veniva comunque superato, nel 1993 la proprietà della seggiovia passava a un’altra compagine sociale che proseguiva la gestione sino a che, nel 2010, si riproponeva la necessaria di un’altra costosa revisione, per la cui realizzazione mancavano i fondi. Nel 2011, quindi, la seggiovia chiudeva temporaneamente. Diversi enti (sollecitati anche dai proprietari degli appartamenti del centro turistico, uniti nell’associazione “Poggio 2000”), cercavano una soluzione: la proprietà dell’impianto passava al comune di Santa Margherita di Staffora e per i lavori necessari venivano stanziati oltre 500.000 euro (200.000 dalla Regione Lombardia, 100.000 dalla Provincia di Pavia, 100.000 dalle fondazioni, 70.000 euro dalla Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese, 30.000 dal Comune di Voghera, 30.000 dal comune di Ferrera Erbognone e 23.000 dal Comune di Santa Margherita di Staffora). Affidata in gestione ad una società privata, la seggiovia ripartiva nel dicembre 2014.

Ora il Comune e la Comunità Montana hanno scelto di affrontare un ulteriore esborso al fine di realizzare l’impianto per la neve artificiale.
L’ipotesi non è affatto nuova: negli anni ottanta sull’Appennino nevicava a quote relativamente basse, eppure, sul settimanale “Il popolo” del 2 febbraio 1986 “l’inventore” di Pian del Poggio, Nunzio Schiavi, già segnalava le criticità del sito: “è risaputo che tutte le stazioni appenniniche come la nostra devono combattere contro lo scirocco, il vento marino che, in poche ore, può trasformare una pista splendida in una al limite della sciabilità.”. Schiavi, rammentando che fin dal 1984 era stata presa in considerazione l’idea di realizzare un impianto di innevamento artificiale, aggiungeva: “le condizioni meteorologiche adatte a sparare la neve sulle nostre piste si possono verificare non più di 5 o 6 volte durante tutta la stagione invernale ... Occorre anche disporre di molta acqua. Quindi, questo progetto non fornisce al momento garanzie sicure di fattibilità, anche se non è da scartare definitivamente”.

Al giorno d’oggi, nel nostro Appennino possono ancora verificarsi intense nevicate, ma la loro frequenza è drasticamente diminuita: sono troppo intermittenti e quasi sempre troppo avanzate nella stagione. E, per effetto dell’innalzamento delle temperature, la permanenza della neve al suolo si sposta a quote sempre più in alte. In siti come Pian del Poggio, le folate dello scirocco complicano ulteriormente il quadro. Certo, dagli anni ottanta la tecnologia per creare neve artificiale si è evoluta, ma si è acutizzata la crisi idrica e i costi dell’energia elettrica sono esplosi. Non sono poi da tralasciare gli effetti che questa tecnologia riverbera sull’ambiente.
Circa poi le prospettive economiche degli investimenti in nuovi impianti di innevamento, una fonte autorevole, lo studio del dicembre 2022 pubblicato in inglese dalla Banca d’Italia, dal titolo “Cambiamento climatico e turismo invernale per l'Italia”, consultabile sul sito dell’istituto di via Nazionale (https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2022-0743/QEF_743_22.pdf), afferma: “i risultati del nostro studio confermano quelli di studi precedenti: questa soluzione non sembra essere risolutiva per mantenere i flussi turistici. Inoltre, i costi dell’innevamento artificiale aumenteranno in modo non lineare rispetto all’incremento delle temperature e, se le temperature aumenteranno oltre una certa soglia, l'innevamento artificiale semplicemente non sarà praticabile, soprattutto alle quote più basse, le più colpite dai cambiamenti climatici. Come sottolineato dall'OCSE fin dal 2007, anche se la neve artificiale può ridurre le perdite finanziarie dovute a casi occasionali di inverni carenti di neve, non può proteggere dalle tendenze sistemiche a lungo termine verso inverni più caldi. In questo contesto sono invece cruciali le strategie di adattamento basate sulla diversificazione delle attività e dei ricavi montani”.

Una serie di esperienze pregresse e di considerazioni attuali che gli enti locali avrebbero dovuto tenere ben presenti (poiché, come si leggeva in un’inchiesta sul tema uscita sul quotidiano “Domani” il 16 gennaio (https://www.editorialedomani.it/longform/dove-e-finita-la-neve-italiana-qr3k5bwg), “c'è un confine sottile tra l'adattamento di un settore a nuove condizioni e l'accanimento terapeutico e lo stabilisce solo la realtà climatica e geografica, non l'ostinazione di imprenditori o amministratori”). 
Invece, la Comunità Montana dell’Oltrepò Pavese, nell’atto di indirizzo con cui ha deliberato il proprio intervento finanziario parla solo di “importante opportunità per incentivare il turismo invernale sul territorio e sviluppare l’economia locale” mentre nella “Relazione tecnica” acquisita dal comune di Santa Margherita di Staffora si legge: “La carenza o la tardiva comparsa della materia prima “neve” compromette la gestione degli impianti di risalita e degli esercizi turistici che richiedono investimenti e costi fissi notevoli. Un impianto di innevamento, oltre a garantire la neve, permette di prolungare la stagione, complementarla e perfezionarla al fine di renderla fruibile e competitiva sul mercato”.
Parliamo di due Enti che hanno che già intrapreso passi importanti per diversificare l’offerta turistica, verso una fruizione multistagionale (con la seggiovia che porta in quota le mountain bike) e lenta (la richiesta di turismo lento è in forte espansione, come testimoniato per esempio dal grande successo dei cammini di lunga percorrenza, quale è la “via del Sale” verso il mar Ligure, che transita proprio sul monte Chiappo), lanciando anche significativi, pur se insufficienti, segnali di attenzione alle peculiarità ambientali del comprensorio: a Pian del Poggio è stato creato un percorso per il “butterfly watching”, un sentiero lungo il quale sono state censite oltre 70 specie di farfalle, anche molto rare. Una bella iniziativa, anche se resta da risolvere il problema della convivenza con i praticanti del “downhill” in mountain bike.
Perciò giudichiamo contradditoria, miope ed irrazionale la scelta di un ulteriore forte impegno finanziario pubblico per supportate un settore, lo sci da discesa nel nostro appennino, che è obiettivamente privo di realistiche prospettive a medio e lungo termine, non solo per il clima mutato, ma anche per l’aumento dei prezzi dell’energia e per la scarsità di acqua.

Prolungamento dell'A31 – valdastico, l'oscuro oggetto del desiderio

Beppo Toffolon (Architetto, consigliere ed ex presidente della sezione trentina d'Italia Nostra)

L'anno scorso, la frusta vicenda del prolungamento della Valdastico (A31) in territorio trentino ha registrato due nuovi eventi: la presentazione di uno studio sull'impatto socio-economico della Valdastico, commissionata dalla Provincia autonoma di Trento alla società PwC, e l'apposita variante del piano urbanistico provinciale (PUP), necessaria premessa per la sua realizzazione. Cominciamo da quest'ultima.

La variante del PUP (Piano urbanistico provinciale)
Il primo passo è fatto: la Provincia ha adottato la specifica variante al suo "Piano urbanistico" (così si chiama il piano territoriale provinciale, in omaggio all'assurda "campagna urbanizzata" teorizzata da Giuseppe Samonà). Un ostacolo in meno, quindi. Eppure, la corposa documentazione prodotta per giustificare l'opera non è certo persuasiva, né il momento sembra propizio: appena dato l'annuncio dell'adozione della variante, al coro dei dissenzienti si sono aggiunti gli industriali di Vicenza, che reputano inutile un prolungamento verso Rovereto, ritenuto invece una ghiotta opportunità dai loro colleghi trentini. Il presidente della Provincia, Maurizio Fugatti, si è affrettato a chiarire che le indicazioni della variante non sono vincolanti e che lo sbocco in Trentino può essere qui o là, a scelta, purché l'autostrada si faccia. Le ragioni di tale incoercibile desiderio autostradale rimangono tuttavia inesplicate.
Sostenere l'insostenibile richiede abilità non comuni: dati falsi o argomenti fallaci prima o poi rivelano la loro inconsistenza. Nella variante, la Provincia si è ben guardata dal tentare di dimostrare l'utilità dell'opera fornendo dati e previsioni. Il goffo tentativo era stato affidato alla PricewaterhouseCoopers Business Services di Londra che, arrampicandosi sugli specchi e a sprezzo del ridicolo, aveva elaborato una relazione possibilista. (Si veda la seconda parte di questo articolo).
Per la variante al piano urbanistico provinciale, invece, si è ritenuto preferibile evitare persino le parole "autostrada", "A31" o "Valdastico". Si dichiara, piuttosto, che l'obiettivo è "valutare l'opportunità di prevedere una ridondanza dei punti di interconnessione tra il Corridoio Est e i Corridoi Scandinavo-Mediterraneo e Mediterraneo". Ridondanza è termine usato qui opportunamente, visto che il collegamento autostradale con il Veneto esiste già.
Ci si affida alla mole dei documenti, come se le decisioni pubbliche si valutassero a peso o in base al numero di pagine. Si può immaginare che produrre diligentemente questa documentazione enciclopedica abbia richiesto un notevole sforzo, e il risultato è certamente interessante per chi voglia approfondire la conoscenza del nostro territorio: l'analisi multicriteria si estende dalle dinamiche demografiche e migratorie all'andamento dei vari settori economici (agricoltura, industria, turismo, servizi). Da questi dati "scelti e pesati dal decisore" si ricava il "fabbisogno di potenziamento della connettività". Scoprendo così, dopo innumerevoli mappe e tabelline, che il Primiero e il Tesino sono le parti peggio collegate del Trentino. Come già si sapeva. Quello che rimane ignoto è il modo in cui il loro indubbio "fabbisogno di potenziamento delle connettività" troverebbe soluzione con il prolungamento dell'A31. Se non, indirettamente e marginalmente, per il presunto minore traffico sulla SS 47; che tuttavia, come ben si sa, è quasi interamente generato dalla Valsugana. Dall'analisi multicriteria si dovrebbe concludere, piuttosto, che è la SS 47 ad avere necessità di qualche opera non ridondante, come il by-pass dei laghi di Caldonazzo e Levico.
Il documento più interessante è la Valutazione ambientale: una relazione di 250 pagine in gran parte dedicate a una descrizione analitica dell'intero territorio provinciale: orografia, idrografia, sismicità, assetto floristico e faunistico (esaminato con straordinario dettaglio), cambiamenti climatici, inquinamento ecc. La parte relativa alla valutazione delle conseguenze dell'opera (non è chiaro in quale tracciato ipotetico) è invece molto sintetica. E s'intuisce la ragione: in primo luogo, perché è impossibile valutare gli effetti di un'opera di cui non esiste una descrizione ma solo l'indicazione di vaghi obiettivi; in secondo luogo, perché entrando nel dettaglio si rischiano brutte figure. Ma si possono collezionare figuracce anche rimanendo sul vago, come quando si afferma: "è del tutto evidente […] che si può considerare integrato nella proposta del PUP l'obiettivo della riduzione delle emissioni climalteranti e di inquinanti in atmosfera". Perché perdere tempo a calcolare quanti anni occorreranno per assorbire la CO2 prodotta per realizzare e tenere in esercizio l'opera a fronte della modesta riduzione del percorso, dell'aumento del dislivello e dello scarso traffico prevedibile, quando l'obiettivo è già "integrato"? Perché perdere tempo a valutare gli effetti ottenibili impiegando quelle risorse economiche in altri scenari della mobilità? È quantomeno dubbio che, in questo caso, l'affermazione "è del tutto evidente" sia scientificamente accettabile. A costo d'essere tacciati di scetticismo pregiudiziale, avremmo gradito una dimostrazione esaustiva.
Sul problema del consumo di suolo la vaghezza è, se possibile, ancora più ineffabile. Si afferma che "non è possibile stimare l’incremento della superficie urbanizzata dovuta all’attuazione del piano, che dovrà essere valutata nelle successive fasi" (come, del resto, ogni altra valutazione); si presume, tuttavia, che la variante "potrà avere anche effetti positivi sulla componente suolo in relazione, ad esempio, a potenziali dinamiche di valorizzazione delle produzioni di particolare qualità e tipicità localizzate lungo il percorso." Difficile immaginare quali benefici attendono la "componente suolo" attraversata da una serie di gallerie.
Di questo passo, oscillando tra l'impossibilità di prevedere l'ignoto e l'ottimistica speranza che tutto andrà comunque per il meglio, il Rapporto ambientale si conclude con un capitolo surreale sulle "Misure di mitigazione e compensazione" dove, in sostanza, si sostiene che le "eventuali infrastrutture", devono essere pensate come "un sistema multimodale, gerarchicamente interconnesso, di infrastrutture e servizi per la mobilità delle persone e il trasporto delle merci, piuttosto che come un semplice collegamento tra i suoi estremi". Si suggerisce "di evitare la creazione di una specializzazione esclusiva e di ricercare, piuttosto, integrazioni reciproche tra le diverse infrastrutture in grado di creare un effetto rete." Tutto il contrario di un susseguirsi per 40 km di tunnel autostradali per collegare l'A4 all'A22. Insomma: lette le "misure di mitigazione e compensazione", che in realtà sono prescrizioni a carattere ipotetico, si dovrebbe concludere che "quest'autostrada non s'ha da fare". Pare che nessuno abbia spiegato alla società bolognese che ha redatto la Valutazione ambientale quali siano le reali intenzioni di Zaia e Fugatti.
Non manca infine una cospicua rassegna del contesto normativo e pianificatorio, dall'ambito locale a quello sovranazionale, né un'articolata disamina delle fasi procedurali passate e future. Tuttavia, le domande fondamentali rimangono senza risposta: a chi e a cosa serve "l'eventuale infrastruttura"? Quali effetti produrrà sui flussi di traffico? Che impatto avrà sulla mobilità generale? Che impatto avrà sull'ambiente e sul paesaggio? Quanto costerà e chi la pagherà, realmente? Forse qualcuno lo sa, di certo nessuno lo dice.

Lo studio socio-economico della società PwC
Come detto poco sopra, la Provincia autonoma di Trento ha commissionato alla società PwC (PricewaterhouseCoopers Business Services) di Londra uno studio sull'impatto socio-economico del prolungamento in Trentino della Valdastico. Dalla relazione presentata nel febbraio del 2022 si ricavano però più interrogativi che risposte. Eccone alcuni.

1. Sostenibilità economica
Che senso ha investire 3300 milioni di euro in un'autostrada da cui si spera di ricavare appena 53 milioni lordi all'anno? Per ammortizzare l'opera – nell'ipotesi assurda che la sua gestione sia a costo zero – non basterebbero 62 anni. La manutenzione (ordinaria e straordinaria) di un'autostrada con queste caratteristiche costa annualmente, in media, circa 1,25 % del costo di costruzione, cioè oltre 41 milioni l'anno. Includendo i costi generali di gestione il profitto prevedibile è nullo o negativo. Dunque: che senso ha un investimento di 3300 milioni di euro in perdita totale?

2. Quanto costa, veramente?
I conti non tornano: l'autostrada è lunga quasi 50 km, il costo per km è stimato in 113 milioni, quindi il costo dell'autostrada dovrebbe essere circa 5600 milioni, non 3300. Che credito si può dare a un'analisi economica che contiene incongruenze così grossolane?

3. Chi paga?
A caval donato non si guarda in bocca? La relazione guarda a questa autostrada come fosse portata dalla Befana o come al dono di un anonimo filantropo, ma i 3300 (o 5600?) milioni non sono risorse prelevate da fondi privati, sono risorse che saranno fornite dai cittadini con il pagamento dei pedaggi sulla rete autostradale gestita dal Concessionario. Quindi, soldi pubblici che non possono essere sprecati in opere di scarsa o nulla utilità.

4. Vantaggi sui tempi
Il risparmio di tempo per il trasporto leggero sarebbe di 20 minuti (un minuto risparmiato ogni 165 milioni). Il vantaggio va però ponderato in relazione alla durata del viaggio: su un viaggio di un'ora, si risparmierebbe un terzo del tempo, un discreto vantaggio. Ma per viaggi di questa durata, la relazione prevede un uso irrilevante dell'autostrada: la maggior parte del traffico è ipotizzata su viaggi di almeno due ore, dove il risparmio di tempo è molto meno incentivante (un sesto o meno), a fronte del disagio di percorrere 40 km di gallerie quasi ininterrotte (alcune estremamente lunghe) e della totale perdita del paesaggio trentino, tanto celebrato. Il vantaggio di tempo sul trasporto pesante (25 minuti) appare ancor meno rilevante, considerati i tempi medi del trasporto delle merci.

5. Vantaggi per la Valsugana
La relazione riporta quanto già noto, e cioè che il traffico sulla SS 47 è in gran prevalenza provinciale. Con il completamento della Valdastico, infatti, nella Valsugana la riduzione prevista per il traffico leggero è un impalpabile 4%, e per il traffico pesante un modestissimo 14 %.  Si sostiene che la riduzione salirebbe a ben il 55 % con l'introduzione di un pedaggio sulla statale della Valsugana. Ammettiamo sia vero: se a essere efficace è il pedaggio – non l'autostrada – tanto vale introdurlo subito, risparmiando 3300 milioni, sette anni di lavori e i danni paesaggistici e ambientali.

6. Occupazione
La tesi che opere varie per 3300 (o 5600?) milioni creeranno molti posti di lavoro merita il Premio La Palice: qualcuno dovrà pur essere impiegato per realizzarle, per quanto inutili e assurde, come il keynesiano scavare buche per poi riempirle. Quindi, qualsiasi infrastruttura di pari valore – anche la più antieconomica e la più dannosa – produrrebbe la stessa occupazione. Ma costruire un'opera che divorerà risorse per tutta la sua esistenza non è ovviamente il modo migliore di creare occupazione stabile. Esistono impieghi certamente più produttivi per quel cospicuo capitale.

7. Incremento turistico
Non si sa da dove scaturisca la stima di un aumento del 20 percento delle presenze turistiche dal Veneto e dal Friuli Venezia Giulia (incremento ipotetico che vale meno del 3 percento delle presenze turistiche complessive) interamente causato dal minor tempo di viaggio.
Ne siamo certi? Per un percorso di tre o quattro ore, venti minuti – il tempo di una sosta in una stazione di servizio – sono un decimo scarso del tempo di viaggio. Oltretutto, per risparmiarli si dovrebbe usare una scorciatoia da incubo (40 km di gallerie). Difficile pensare che sia un'opzione incentivante nella programmazione delle vacanze. Soprattutto considerando che, per chi proviene dal Friuli Venezia Giulia o dal Veneto orientale è già oggi (e rimarrà domani) più conveniente passare per la Valsugana in termini di tempo, chilometri e pedaggi: si risparmiano 16 minuti, 84 km, 19 € (A4 Meolo-Roncade, A22 Trento nord). Il presunto vantaggio di 20 minuti si riduce in realtà a 4, con una spesa aggiuntiva di circa 30 euro tra pedaggi e carburante: da queste zone l'incremento turistico prevedibile è pari a zero.

8. Danni
La relazione non dedica neppure una riga ai costi ambientali e paesaggistici causati dalla sua realizzazione, come non facessero parte dell'impatto socio-economico.

Conclusioni
È ormai evidente: non si sta progettando un'autostrada, si sta architettando uno stratagemma per conservare una lucrosissima concessione facendo finta d'impegnarsi nella costruzione di un'opera totalmente inutile ed economicamente insostenibile. E il governo trentino ha deciso di prestarsi al gioco, sperando di lucrare qualche vantaggio in termini di consenso tra gli strati più ingenui della popolazione.
La relazione si cimenta nel compito impossibile di dimostrare l'indimostrabile, con argomentazioni stravaganti e omissive. Prima di prendere qualsiasi decisione, s'invita il Consiglio provinciale a riesaminare criticamente il suo contenuto e a leggere attentamente l'avvertenza finale della relazione PwC: You should not act upon the information contained in this publication without obtaining specific professional advice. Cioè: non decidere in base alle informazioni contenute in questa pubblicazione senza una specifica consulenza professionale.
Con una frazione dell'enorme capitale che i cittadini sarebbero indirettamente chiamati a fornire, si potrebbe migliorare notevolmente la SS 47, infrastruttura fondamentale per la mobilità trentina, a cominciare dal by-pass in galleria della zona dei laghi di Levico e Caldonazzo, con effetti certamente positivi su turismo, paesaggio e ambiente.
L'ipotizzato pedaggio, oltre a scoraggiare il traffico pesante, potrebbe concorrere al suo finanziamento e a quello delle altre opere di adeguamento e mitigazione che dovrebbero comporsi in un quadro complessivo e definitivo di riqualificazione infrastrutturale, paesaggistica e ambientale della Valsugana. Se la Concessionaria veneta vorrà offrire il suo contributo, sarà la benvenuta.

Aggiornate le liste rosse dell’UICN

La situazione, rispetto alle precedenti valutazioni del 2013, è generalmente peggiorata, anche se non mancano esempi di specie che hanno migliorato la loro presenza sul territorio nazionale

Piero Belletti

Alla fine del 2022 il Comitato Italiano dell’UICN (Unione Internazionale per la Protezione della Natura) ha pubblicato Le “Liste rosse” dei vertebrati. Si tratta di un approfondito esame sulla consistenza della fauna selvatica presente nel nostro Paese, con particolare riferimento ai rischi di estinzione cui le varie specie sono sottoposte.

L’UICN monitora la consistenza e la dinamica delle popolazioni di 700 specie, anche se non tutte sono state valutate in questa “tornata”: 274 di uccelli (limitatamente a quelli che nidificano in Italia), 138 di mammiferi, 59 di rettili, 45 di anfibi, 184 di pesci in senso lato, tra cui 4 di agnati (lamprede e simili), 104 di osteitti (pesci a scheletro osseo) e 76 di condritti (pesci cartilaginei). Si tratta di numeri molto alti, conseguenza del fatto che il nostro Paese, per motivi geografici e orografici, presenta una grande varietà di contesti ambientali. Circa il 10% delle specie presenti in Italia è endemica: non si trova quindi in altre aree. Nonostante circa il 21% del territorio nazionale risulti in qualche modo tutelato (parchi e riserve nazionali o regionali, aree marine protette, siti riconducibili alla Rete Natura 2000), le minacce alla biodiversità nel nostro Paese sono numerose e particolarmente gravi: tra le più importanti l’elevata densità di popolazione, il consumo di suolo e l’alterazione degli ambienti naturali.

La valutazione del rischio di estinzione segue criteri ufficiali adottati a livello internazionale dall’UICN, che si basano in particolare sull’andamento numerico delle popolazioni e sull’areale geografico di distribuzione della specie. Vengono identificate 11 categorie, come dal seguente elenco:

- Specie estinta (EX): anche l’ultimo esemplare vivente in natura è stato eliminato.
- Specie estinte allo stato selvatico (EW): la specie è scomparsa in natura ma esistono alcuni esemplari allo stato di cattività.
- Specie estinta nella Regione (RE): la specie non c’è più nell’ambito territoriale di studio, ma è presente in altre zone (ad esempio in altre nazioni).
- Specie in pericolo critico (CR): specie che corre rischi estremamente elevati di estinzione nel breve-medio periodo.
- Specie minacciata (EN): specie a rischio di estinzione molto elevato.
- Specie vulnerabile (VU): specie ad alto rischio di estinzione.
- Specie a moderato tasso di rischio (NT): la minaccia di estinzione non è imminente, ma possibile nel prossimo futuro.
- Specie a ridotto rischio (LC): la specie al momento non corre rischi significativi di estinzione.
- Specie di cui non si hanno dati sufficienti per stabilire con sufficiente accuratezza la categoria di rischio (DD).
- Specie per le quali non è applicabile la definizione di una categoria (NA), ad esempio perché si tratta di specie alloctone o la cui presenza è del tutto marginale nell’area in esame. In questa categoria rientrano 132 specie delle 700 che l’UICN prende in considerazione.
- Specie non sottoposte a valutazione (NE).

I risultati delle valutazioni sono riassunti nel grafico riportato sotto. Circa metà delle specie esaminate non desta, al momento, particolari preoccupazioni. Tuttavia, ben il 31% delle specie si trova in condizioni di più o meno accentuato rischio.

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Nuovo Ente parco della Gola della Rossa e di Frasassi: quali prospettive?

Elvio Massi

Come è noto, la proposta di legge che modifica la gestione del Parco Naturale Gola della Rossa e Frasassi è stata approvata dall’Assemblea Legislativa della Regione Marche nella nottata tra il 28 e 29 dicembre scorso, dopo essere stata inserita, con procedura d’urgenza, all’odg dell’ultimo Consiglio Regionale, insieme alla legge di bilancio.
L’Unione Montana dell’Esino Frasassi, attuale Ente gestore del Parco Regionale, aveva presentato in modo ufficiale un proprio dossier articolato e preciso su tale proposta di legge ed aveva illustrato le sue posizioni in un’audizione con la 3^ Commissione Consiliare permanente del Consiglio Regionale delle Marche in data 7/4/2022.
Dopo mesi di polemiche e di accese discussioni la legge arriva in Consiglio Regionale inserita all’odg della seduta del 28/12/2022 e la mattina prima della discussione il Presidente dell’Unione Montana ed i Sindaci della stessa motivano il perché la legge sarebbe un errore, ma la maggioranza della Regione Marche tira dritto, ignora tutte le obiezioni e nella tarda notte del 28/12/2022 approva la legge che toglie la gestione del Parco all’Unione Montana per affidarla ad un Ente di nuova istituzione.
C’è da evidenziare che su tale nuova legge regionale si sono raccolti una sfilza di NO, e su di essa hanno espresso ad oggi parere contrario l’Unione Montana Esino Frasassi ed i suoi Comuni, i Presidenti dei Parchi, il CAL, il CREL, l’UPI e l’UNCEM, i Sindacati CGIL, CISL, UIL, le Associazioni Ambientaliste con una presa di posizione di Legambiente a livello nazionale.
In particolare la consigliera di Italia Nostra (F. Tesini) ha evidenziato l’incompatibilità della nuova legge regionale 29/2022 con gli artt.22, 24 e 27 della legge 394/91, evidenziando un’illegittimità costituzionale della legge regionale, che si manifesta in una contrapposizione con l’art.22 in quanto totalmente carente il coinvolgimento degli enti locali nell’iter di formazione della legge; contrapposizione con l’art.24 in quanto lesa l’autonomia statuaria dei parchi nella definizione della propria organizzazione gestionale e con l’art.27 in quanto detto articolo assegna alla Regione un ruolo unicamente di controllo sui parchi regionali, la Consigliera Tesini puntualizza dunque circa l’inopportunità che un organismo di controllo sia anche organismo di gestione.
Evidenzia altresì l’incompatibilità della L.R. medesima con la L.R. 15/94 art.14 sottolineando un’incompatibilità tra leggi regionali ambedue vigenti.
Nonostante tutte queste obiezioni, ora la nuova legge regionale n.29 del 30/12/22 è pubblicata nel BUR ed è vigente e quindi va applicata, ma prima è doveroso fare un’analisi dei contenuti, dei problemi che pone e delle prospettive che apre nel ns. territorio.

I contenuti innovativi della suddetta legge regionale riguardano i seguenti punti:

1) Viene costituito un (nuovo) apposito Ente di diritto pubblico per la gestione del Parco Gola della Rossa e Frasassi, togliendo questa funzione all’Unione Montana dell’Esino Frasassi che l’aveva gestito con i propri organi ed il proprio personale fin dalla sua fondazione, ossia dall’anno 1997.

2) Viene previsto un nuovo organo di gestione del Parco, il Consiglio Direttivo, composto di 10 -11 soggetti, che saranno individuati, così come segue:

  1. Tre rappresentanti della Regione nominati dalla Giunta Regionale;
  2. Un rappresentante per ciascun Comune nel cui territorio insiste il perimetro del Parco (quindi i cinque Sindaci di Arcevia, Cerreto d’Esi, Fabriano, Genga e Serra San Quirico);
  3. Un rappresentante designato dalle Associazioni Ambientaliste maggiormente rappresentative in Regione;
  4. Un rappresentante designato dalle Associazioni Agricole maggiormente rappresentative a livello Regionale.

3) Ai suddetti dieci componenti del Consiglio Direttivo, potrà aggiungersi un ulteriore soggetto (l’undicesimo) ossia il Presidente, che potrà essere scelto anche al di fuori del Consiglio Direttivo, e che sarà nominato dalla Giunta Regionale su proposta del Consiglio medesimo (e così la Giunta Regionale andrà a nominare ben quattro componenti del Consiglio stesso e tra questi il Presidente).

4) Il Presidente di nomina regionale avrà un voto che vale doppio, in quanto nelle votazioni a scrutinio palese, in caso di parità di voti, prevale il voto del suddetto Presidente.

5) Con l’applicazione della nuova legge al Presidente del Parco spetterà un’indennità mensile di carica di circa € 1.280,00, pari al 20 per centro dell’indennità di carica del Consigliere Regionale (mentre attualmente tale indennità di carica nell’Unione Montana non veniva corrisposta).

6) Dall’applicazione della nuova legge non possono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del Bilancio della Regione e questo è il punto più problematico della normativa perché non vi sono le condizioni tecnico-operative perché possa essere rispettata per tutti i motivi che di seguito illustreremo ( e che viene già superata con la suddetta indennità di carica mensile che andrà erogata al nuovo Presidente).

Come è evidente dalla disamina suddetta, l’Amministrazione Regionale si è voluta appropriare di un forte ruolo decisionale all’interno del Consiglio Direttivo del nuovo Ente (nominandone tre componenti più il Presidente) entrando quindi in un ruolo gestionale diretto dell’Ente Parco e non più solo in un ruolo di coordinamento e di controllo, così come era stato esercitato finora.
Inoltre viene spogliata di questa funzione l’Unione Montana già esistente sul territorio che comunque vedeva coinvolti i Sindaci interessati (sia direttamente in Giunta sia indirettamente attraverso il Comitato di Coordinamento del Parco a cui partecipavano anche i Sindaci di Arcevia e di Genga, appartenenti al Parco ma non all’ambito dell’Unione Montana).
La previsione dell’invarianza finanziaria per la Regione dall’applicazione della nuova Legge appare non veritiera e sarà senz’altro una chimera in quanto, mentre finora l’Ente Parco veniva gestito, senza spese aggiuntive, dal personale, dagli organi e dagli Uffici dell’Unione Montana, sfruttando le sinergie derivanti da una gestione collaborativa delle risorse umane presenti all’interno dell’Ente, per il futuro il nuovo Ente Parco avrà bisogno di figure dedicate che andranno retribuite a carico della Regione (necessitano le figure del Direttore, del Ragioniere, degli Amministrativi, dei Tecnici, del Revisore, ecc.) il cui costo annuo è stimato in €225.000.
Pertanto, risulta evidente che, con l’istituzione dell’Ente Parco autonomo, non si riuscirebbe a soddisfare l’INVARIANZA FINANZIARIA prevista dalla legge, al contrario, si osserverà un aumento considerevole dei costi ordinari (quasi del 50%), in quanto si dovrà necessariamente provvedere alle spese per il funzionamento degli organi istituzionali – oggi azzerate – e sarà fondamentale anche considerare la spesa relativa ad almeno quattro figure professionali complessivamente (1 cat. D e 3 cat. C), specificamente dedicate al settore affari generali/gestione del personale e al settore economico-finanziario.
Ma tant’è, ormai la legge è legge e quindi va trovato un modo intelligente di applicarla.
Innanzitutto andrebbe organizzato molto presto un incontro tra la Regione, l’attuale Ente Gestore (Unione Montana) e tutti i Sindaci interessati per concordare insieme un percorso plausibile per il subentro del nuovo Ente Parco all’attuale gestione dell’Unione; difatti va ricordato che l’art.5 della nuova Legge 29/2022 prevede che l’Unione Montana e il nuovo Ente Parco definiscono d’intesa i tempi e le modalità di subentro che deve essere effettuato entro sei mesi (ossia entro il 30 giugno p.v.) e che in caso di mancato accordo entro il termine, provvede direttamente la Giunta Regionale.
Non sarà facile definire il suddetto subentro, sia per quanto riguarda il patrimonio che per quanto riguarda le risorse umane, ma serve mettersi a un tavolo e cominciare a vedere i problemi reali che si pongono con questo passaggio di competenze.
La struttura dell’Unione Montana finora ha funzionato da “service” per il Parco, era un “unicum” che intrecciava funzioni e competenze con vantaggi reciproci e questa gestione “unitaria” non può ora essere svincolata dalla complessiva gestione del territorio che compete all’Unione Montana per varie funzioni correlate (si pensi alla promozione turistica, alla tutela ambientale, alla forestazione, alla mobilità lenta, ecc.).
Si tratta di un’operazione complessa per la quale vanno trovate posizioni conciliative tra l’attuale Ente gestore ed il subentrante, in modo da salvaguardare quell’aggregazione vasta del territorio che finora aveva saputo assicurare in vari campi l’Unione Montana.
Infatti per certe attività serve un ambito più vasto del Parco, va mantenuto un collegamento con tutto il territorio coinvolgendo tutti i Sindaci, va tenuta unita l’area montana, non va disaggregata in Enti che agiscono separati.

Per certe azioni non basta l’intervento di un singolo Ente (si pensi ad esempio alle azioni per far crescere la residenzialità nel nostro territorio, per la quale occorrono anche interventi socio-economici).
Quindi serve dialogo, non chiusura o contrapposizione tra le parti, non si deve distruggere o accantonare quel livello di aggregazione territoriale che l’Unione Montana era riuscita a costruire e ad assicurare, va tenuto unito un territorio vasto, al di là del Parco, con una visione aperta e solidale.
A tal fine sarà determinante la linea strategica che vorranno prendere tutti i Sindaci dei Comuni coinvolti nel Parco insieme ai Sindaci  dell’Unione Montana Esino Frasassi superando polemiche del passato o visioni localistiche e di breve respiro.
Occorre utilizzare gli strumenti di raccordo per tale lavoro comune (che già esistono, si ricordano la Comunità del Parco ed il Comitato di Coordinamento istituzionale) in modo da portare avanti azioni coordinate.
Sul piano più strettamente operativo, si potrà pensare di utilizzare per il Parco anche le risorse umane disponibili, ricorrendo a forme di collaborazione temporanee ed a tempo parziale con dipendenti degli Enti territoriali locali con adeguata professionalità (come già fanno altri Enti Parco della Regione) anche mediante la stipula di accordi convenzionali che consentono utili sinergie ed anche economie di spesa a vantaggio di tutti gli Enti coinvolti.

Biodiversità ed ecosistemi sono il nucleo fondante della transizione ecologica. O no?

Ferdinando Boero
Stazione Zoologica Anton Dohrn, CNR-IAS

L'oceano copre il 71% della superficie del pianeta ma, a differenza degli spazi emersi, non è una superficie: è un volume. Tra il fondo marino (continuazione sommersa della terraferma) e la superficie dell'oceano ci sono in media 4.000 m di colonna d'acqua, e la vita è presente dalle massime profondità fino alla superficie: più del 90% dello spazio disponibile alla vita è oceano. La vita sulla terraferma dipende dalla disponibilità di acqua. La pioggia scende da nuvole che si formano per evaporazione dell'acqua oceanica. Se si parla di biodiversità e ecosistemi, quindi, si parla principalmente di oceano. Poi c'è l'eccezione terrestre che, comunque, dipende dall'oceano. Un pianeta completamente coperto dall'acqua resterebbe vivo, se l'acqua scomparisse la vita finirebbe.
Da animali terrestri, tendiamo a privilegiare il nostro ambiente di elezione, ma questo ha poco a che vedere con la valenza scientifica del nostro approccio alla natura.
In questo articolo parlerò di biodiversità ed ecosistemi, senza aggiungere l'aggettivo "marini". Di solito quando si parla di ecologia si parla di terra, e poi si aggiunge "marina" se si parla di mare. Dovrebbe essere l'opposto: c'è l'ecologia e poi, in un angolino, c'è l'ecologia terrestre. E lo stesso vale per biodiversità ed ecosistemi. L'Italia, poi, con i suoi 8.500 chilometri di coste, è un paese nettamente marino. Se vivete in un posto dove non si vede il mare, guardate in cielo. Se ci sono nuvole... quello è l'oceano. E quando piove è l'acqua oceanica che vi bagna. L'oceano è la sorgente dei nostri fiumi. L'ecologia è la scienza delle connessioni e la transizione ecologica richiede, prima di tutto, il riconoscimento delle connessioni.

La transizione ecologica: un cambio di paradigma
Con il New Green Deal e il Next Generation EU, l'Unione Europea ha lanciato la cosiddetta transizione ecologica. Se si parla di transizione significa che è necessario "transitare" da una posizione ad un'altra posizione, e la parola "ecologica" significa che il passaggio deve essere da una cultura in cui l'ecologia non trova posto a una cultura che ne riconosce in pieno l'importanza.  Questo è stato recentemente realizzato con l'inclusione di biodiversità ed ecosistemi nell'Art. 9 della Costituzione dove, prima, c'era solo il "paesaggio", associato ad una visione estetica della natura, frutto di una cultura "umanistica" incentrata sul percettore (noi) e non sul percepito (la natura).
Non è un caso che le linee guida dell'Unione Europea dicano che la biodiversità deve essere trasversale a tutte le iniziative intraprese con il New Green Deal e il Next Generation EU, in base ai quali il nostro paese ha ricevuto 209 miliardi di finanziamenti grazie al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Gran parte di questi fondi è destinata alla transizione ecologica.

La transizione richiede conoscenza
Una volta deciso che la biodiversità ha un ruolo centrale, dobbiamo porci due domande: Conosciamo la biodiversità del nostro paese? Possiamo pensare di dare un ruolo centrale a qualcosa che non conosciamo? L'Italia è stata il primo paese al mondo a fare una checklist delle specie animali registrate sul suo territorio, e lo stesso vale per le piante. Ma le liste non bastano. Ogni nome deve corrispondere a un'architettura corporea, a un ciclo biologico, a un ruolo ecologico che, assieme, ci permettano di collegare la biodiversità al funzionamento degli ecosistemi attraverso lo studio delle interazioni tra le specie.
In più, la vita evolve, la composizione in specie cambia nei vari habitat, e questo cambia anche il funzionamento degli ecosistemi. Non basta fare una "fotografia" della situazione in un determinato momento, per comprendere la struttura e la funzione dei sistemi viventi.

La tassonomia
Attualmente abbiamo dato il nome a circa due milioni di specie. Le stime dicono che il pianeta ne ospiti circa otto milioni: conosciamo una piccola parte della biodiversità. E quindi ritorna la domanda: come possiamo gestire e proteggere quel che non conosciamo? La tassonomia è la scienza di base che dà il nome alle specie, esplorando la biodiversità. La prima cosa che facciamo quando scopriamo qualcosa di sconosciuto è di darle un nome. Le specie che non hanno un nome vengono battezzate dai tassonomi che le descrivono, dando loro un'identità.
Se diciamo che la biodiversità è importantissima, e diciamo che la nostra vita dipende da lei (non facciamo che ripeterlo, sin dai tempi della convenzione di Rio de Janeiro nel 1992) allora dovremmo dedicare grandi sforzi allo sviluppo della sua conoscenza. Invece, stranamente, la tassonomia sta scomparendo dalla comunità scientifica. I fondi dedicati allo studio della biodiversità sono consegnati a informatici, a genetisti e biologi molecolari, a biotecnologi e ad esperti di specie carismatiche, di solito vertebrati, e a tante altre categorie di scienziati, ma non ai tassonomi di ampio spettro. Non si pretende che tutte le risorse vadano alla tassonomia, ma che questa scienza sia portata all'estinzione quando tutti decantano l'importanza di quello che studia non può che essere definito stupido. O intellettualmente disonesto.
Decine di articoli scientifici denunciano questo paradosso, ma tutto continua come se niente fosse. Si continua a parlare di biodiversità senza sapere di che si sta parlando.

Anche Papa Francesco, nella sua Enciclica Laudato Si', denuncia l'errore di prendere una parte della biodiversità per il tutto e, nel capitolo 34, dice: “Probabilmente ci turba venire a conoscenza dellestinzione di un mammifero o di un volatile, per la loro maggiore visibilità. Ma per il buon funzionamento degli ecosistemi sono necessari anche i funghi, le alghe, i vermi, i piccoli insetti, i rettili e linnumerevole varietà di microorganismi. Alcune specie poco numerose, che di solito passano inosservate, giocano un ruolo critico fondamentale per stabilizzare lequilibrio di un luogo”.
Ripeto: non ritengo che sia sufficiente la tassonomia per studiare la biodiversità, ma mi sento di dire che sia necessaria. Questa necessità evidentemente non viene riconosciuta, altrimenti la tassonomia non sarebbe in grande disagio, con l'eccezione di quella che riguarda gruppi carismatici o di interesse economico, vista la disponibilità di finanziamenti dedicati alla biodiversità.

Un milione di specie...
Le Nazioni Unite hanno previsto, recentemente, che nei prossimi anni un milione di specie si estinguerà: un'estinzione di massa che sta avendo luogo proprio ora. Non dico che non sia vero, ma se cerco nei documenti un elenco di specie che già si sono estinte... non trovo quasi nulla. Se se ne estinguerà un milione nei prossimi decenni, almeno qualche migliaio dovrebbe essere già estinto. Un politico potrebbe chiedere: OK, un milione si estinguerà presto, ma fatemi vedere quali già si sono estinte. Se si dicesse che morirà un milione di persone per una terribile malattia, si potrebbe chiedere quante già ne siano morte. E se la risposta fosse non lo so, non si sarebbe presi sul serio. Tremo al pensiero che un politico possa fare una domanda del genere. Gli si presenterebbero liste di specie minacciate, estinte commercialmente, e altre amenità, ma la lista delle specie estinte sarebbe veramente corta.
Il problema è che probabilmente quella lista è lunga, ma non abbiamo i dati per dimostrarlo, a parte simulazioni. Un ministro della salute non si accontenterebbe di simulazioni, vorrebbe dati veri a supporto di un allarme drammatico.
Non sappiamo rispondere perché intanto si stanno estinguendo i tassonomi. E se non c'è più chi conosce le specie, come si fa a valutare lo stato della biodiversità? Come si fa a capire se sta cambiando, e come?

Gli alieni
Il riscaldamento globale sta alterando le condizioni termiche del pianeta. La Grande Barriera Corallina australiana è in regressione per le temperature elevate. Le specie tropicali si spostano a nord e a sud, nei due emisferi. Il Mediterraneo si sta riscaldando e le specie ad affinità fredda sono in profondo disagio, e soffrono di mortalità massive. Il riscaldamento, però, favorisce le specie tropicali che, arrivate in Mediterraneo, trovano condizioni ottimali per la loro sopravvivenza. Quel che uccide le specie ad affinità fredda è un toccasana per le specie tropicali. La biodiversità del Mediterraneo sta cambiando rapidamente, in risposta a rapidi cambiamenti nei regimi termici. Presi dalla smania di "conservare" tendiamo a considerare gli alieni come responsabili della regressione degli autoctoni, senza considerare che, invece, nuove funzioni ecosistemiche si stanno realizzando grazie alle specie pre-adattate alle nuove condizioni che stanno sostituendo quelle che non riescono a far fronte ai cambiamenti. Gli alieni potrebbero essere "profughi climatici" che fuggono da aree disastrate per cercare riparo altrove. L'arrivo di specie non indigene deve essere individuato, e poi bisogna conoscere il loro ruolo nelle regioni di provenienza, cercando di comprendere quale ruolo potrebbero svolgere una volta arrivate da noi.

Eradicare le formazioni coralline?
Se iniziassero ad arrivare i coralli che formano biocostruzioni alle latitudini tropicali, come ci dovremmo comportare? Li eradichiamo perché sono alieni malvagi che contendono spazio alle specie native, o li salutiamo con entusiasmo perché sono "belli"? I coralli non si spostano facilmente, in compenso arrivano specie tropicali ad essi associate e che si spostano più rapidamente, per esempio i pesci. Alcuni di loro, come i pesci coniglio, mangiano le alghe. Ai tropici svolgono un ruolo importante nel favorire le formazioni coralline. Le alghe sono più efficienti dei coralli nel colonizzare i fondi duri e creano condizioni negative per le formazioni coralline, competendo con i coralli per l'uso dello spazio. I pesci coniglio, e anche diversi echinodermi, mangiano le alghe, rimuovendole. In questo modo favoriscono i coralli che, altrimenti, sarebbero soverchiati dalle alghe.
I pesci coniglio sono arrivati in Mediterraneo e stanno mangiando le foreste di alghe. Se la loro azione favorisse l'instaurarsi di formazioni coralline come valuteremmo il loro ruolo ecologico? Se cercassimo di eradicare sia loro sia le eventuali formazioni coralline che i pesci erbivori potrebbero favorire, non è detto, comunque, che le alghe del passato tornerebbero a formare le stesse foreste algali. Probabilmente arriverebbero alghe tropicali. Nei nostri criteri di valutazione, le formazioni coralline sono "accettabili" mentre altre specie meno carismatiche non lo sono?

Ci sono alieni e alieni...
Se le specie sono in grado di raggiungere con le loro forze determinate zone del pianeta, e di impiantarvi popolazioni funzionali, non ci dovremmo allarmare più di tanto, fa parte del gioco dell'evoluzione delle distribuzioni. Ma a volte siamo noi a "traslocarle" da un posto all'altro, a volte intenzionalmente e a volte no. Le ctenoforo Mnemiopsis leydi è arrivato in Mar Nero con le acque di zavorra delle petroliere provenienti dall'Atlantico e ha dato un colpo fatale alle popolazioni di pesci, cibandosi delle loro larve e delle prede delle loro larve. In altri casi gli alieni sono immessi volontariamente, come la vongola filippina che è stata importata per sostituire la vongola verace. Le introduzioni di origine antropica sono da condannare senza mezzi termini, anche se non sempre è così. Abbiamo importato molte piante ornamentali e, assieme a loro, abbiamo importato anche i loro predatori e parassiti come, ad esempio, il punteruolo rosso, che si nutre di palme. Se non avessimo importato palme "aliene" non avremmo importato i loro predatori.

Conservazione e evoluzione
Non solo le specie evolvono, anche le associazioni tra specie sono soggette a continuo cambiamento, soprattutto in periodi di rapida modificazione delle condizioni ambientali. Non ci sono più dubbi che il cambiamento climatico sia dovuto in parte significativa alle nostre attività e l'unico modo per "conservare" le condizioni precedenti richiede che il nostro impatto cessi. L'inerzia del sistema perturbato, comunque, porterà a cambiamenti dovuti alla perturbazione stessa. Indietro non si torna.
La conservazione si prefigge, spesso, di rendere permanente uno stato dell'ambiente, e si oppone a qualsiasi cambiamento. Nulla di male se l'opposizione consiste nel rimuovere i nostri impatti: anzi, è doveroso. Ma bisogna essere ben consci che, comunque, i sistemi viventi cambiano.
Una buona conservazione deve distinguere tra cambiamenti naturali e cambiamenti derivanti da nostre attività che rendano gli ecosistemi meno diversi e funzionali. Le zone morte che si espandono sempre più negli oceani afflitti, ad esempio, dallo sversamento di pesticidi e fertilizzanti, non sono una risposta "sana" alle nostre attività. Lo stesso vale per la desertificazione che affligge sempre più i sistemi terrestri. Il disboscamento di foreste naturali è assolutamente da evitare. Come sono da evitare pratiche agricole che prevedano l'eradicazione della biodiversità e la sua sostituzione con una sola specie (quella di nostro interesse) che viene mantenuta attraverso l'uso di pesticidi che uccidono predatori e competitori, e fertilizzanti che le forniscono le sostanze di cui ha bisogno. Il problema principale del nostro impatto è dovuto alla sovrappopolazione che, probabilmente, ha già superato la capacità portante del nostro pianeta in termini di disponibilità di risorse per la nostra specie.
La biologia della conservazione, quindi, potrebbe essere considerata un ossimoro perché la storia della vita è una storia di continuo cambiamento: pretendere di "conservare" uno stato desiderato di una realtà in continuo cambiamento non ha senso. Il fine della "conservazione", quindi, dovrebbe essere la rimozione di tutti gli impatti di origine antropica che impediscono in modo significativo la naturale evoluzione dei sistemi bio-ecologici, accettando il cambiamento naturale.

Un caso particolare di conservazione riguarda singole specie minacciate di estinzione, di solito si tratta di specie carismatiche che vengono studiate a fondo in tutti gli aspetti della loro biologia e della loro genetica, per cercare vie di salvezza che ne prevengano l'estinzione. Per quanto lodevoli, questi studi interessano una minima parte della biodiversità. Per comprendere l'evoluzione degli insiemi di specie che coesistono nei vari ambienti, prima di tutto dovremmo esser consci della loro esistenza, e non lo siamo. Poi dovremmo conoscerne a fondo la biologia e l'ecologia, per comprendere i rapporti che le legano con le altre specie. Limitare la conservazione a pochi habitat e specie carismatiche non è risolutivo a livello dello stato della biosfera e delle specie che si dovrebbero estinguere in massa. Come possiamo conservare quel che non conosciamo?

Il modello di Lotka e Volterra
Le equazioni di Lotka e Volterra riguardano i rapporti tra un predatore e la sua preda. Non esistono sistemi ecologici con due sole specie (predatore e preda) che interagiscono, ma possiamo usufruire della "saggezza" di questo modello considerando la nostra specie come un predatore e la natura (tutte le altre specie) come la preda. Il modello dice che se la preda è abbondante e il predatore è scarso, la popolazione del predatore, grazie alla disponibilità di risorse, tende ad aumentare con i fenomeni riproduttivi. Man mano che il predatore aumenta, la preda diminuisce e, a un certo punto, la sua scarsità fa diminuire le possibilità di crescita del predatore. Se il predatore decresce a causa della scarsità di prede, la popolazione della preda tende ad aumentare nuovamente. Nel modello le curve di abbondanza di predatore e preda sono sfasate: quando cresce il predatore diminuisce la preda, e quando questa è insufficiente per soddisfare le necessità di una grande popolazione di predatori, questi diminuiscono a loro volta, permettendo nuova crescita della preda. La nostra specie, però, evolve tecnologicamente e inventa sempre nuovi modi per trarre risorse dalla sua "preda" (la natura). Finiscono le popolazioni naturali delle prede? Passiamo all'allevamento del bestiame. La raccolta di piante le fa diminuire? Le coltiviamo. I pesci diminuiscono? Inventiamo strumenti più sofisticati per catturare gli ultimi rimasti, e poi passiamo all'allevamento anche in mare.

Questa corsa al miglioramento delle attività predatorie porta ad un continuo aumento della popolazione del predatore (la nostra) ma se consumiamo più di quello che la natura produce, alla fine le risorse scompaiono. Non possiamo vivere senza il resto della natura e se distruggiamo la "preda" su cui basiamo la nostra esistenza, creiamo le premesse per il nostro fallimento come "predatori": un predatore senza prede è destinato a morire di fame. Forse non ci estingueremo, ma la diminuzione delle risorse alla fine si tradurrà in carestie, guerre, e malattie.
Il nostro interesse, quindi, consiste nel mantenere in buona salute la nostra "preda" (la natura) perché da lei dipendiamo. Per farlo dobbiamo diminuire la nostra pressione sulla "preda", non solo in termini di numero di individui della nostra specie ma anche in termini di stili di vita.

La conversione ecologica
Francesco, in Laudato Si', chiede la conversione ecologica. Un'autorità religiosa chiede la conversione a una scienza: l'ecologia. La transizione ecologica, in effetti, richiede prima una conversione ecologica che dia all'ambiente il ruolo che merita: un ruolo di assoluta preminenza, visto che la nostra specie non può vivere senza il resto della natura.
Fino ad oggi abbiamo perseguito un modello di sviluppo basato su un solo obiettivo: la crescita del capitale economico. Non ci siamo curati della decrescita del capitale naturale. Il capitale economico è il predatore e il capitale naturale è la preda. Se cresce il capitale economico decresce il capitale naturale, come predetto dal modello di Lotka e Volterra.
Preso atto di questa situazione, la transizione ecologica si deve basare su un "uso" della natura che non eroda le nostre possibilità di sopravvivenza. La crescita demografica si deve arrestare: il pianeta non può sopportare un numero infinito di umani e, quindi, dobbiamo ridimensionare le nostre popolazioni. Inoltre dobbiamo ottimizzare il modo con cui estraiamo le risorse, identificando risorse quanto più "rinnovabili". La sostenibilità si ottiene consumando risorse che si rinnovano, senza sfruttarle tanto intensamente da consumarne più di quante se ne producano. Facile a dirsi, meno facile a realizzarsi. Sappiamo cosa dobbiamo fare, e sappiamo che se non rispetteremo i limiti imposti dalla natura pagheremo care conseguenze.

Dalla scienza alla tecnologia e ritorno
Non ci sono dubbi che la transizione ecologica richieda grandissima innovazione tecnologica. Dobbiamo usare risorse rinnovabili per produrre energia e dobbiamo ottimizzare i nostri consumi. Dobbiamo utilizzare materiali che non richiedano devastazioni per essere estratti e dobbiamo essere in grado di riciclarli. Dieci anni fa pareva che le fonti rinnovabili non potessero darci l'energia di cui abbiamo bisogno, oggi le tecnologie sono molto migliorate e sappiamo che la transizione alle rinnovabili è possibile.
Le tecnologie però non bastano. Ne dobbiamo sviluppare di nuove perché quelle vecchie stanno rovinando la biodiversità e gli ecosistemi. La valutazione dell'efficacia delle nuove tecnologie non può che passare attraverso lo stato della biodiversità e degli ecosistemi. Se le condizioni della biodiversità e degli ecosistemi migliorano, allora le tecnologie sono utili ai fini della conversione ecologica. Se le condizioni non cambiano, allora le tecnologie non sono ancora mature per risolvere i problemi: bisogna inventarne di migliori. Se le condizioni di biodiversità ed ecosistemi peggiorano, allora le tecnologie non vanno bene, e devono essere scartate.
Dovrà essere l'ecologia a definire i problemi, le tecnologie proporranno soluzioni, in collaborazione con l'ecologia, e poi l'ecologia valuterà l'efficacia delle soluzioni tecnologiche.

Il pianeta B?
A fronte dell'evidente degrado delle condizioni ambientali, diversi scienziati, tra cui il compianto Stephen Hawkins, hanno prospettato la possibilità di colonizzare altri pianeti, trasferendo la nostra specie dove esistano condizioni compatibili con la nostra sopravvivenza. Constatato che non esistono pianeti adatti in questo sistema solare, si è iniziato a cercare altri pianeti: gli esopianeti. E intanto si stanno programmando missioni di colonizzazione, prima sulla Luna, poi su Marte, in attesa di trovare il pianeta promesso.
Chi fa queste proposte, ottenendo enormi finanziamenti per perseguirle, ovviamente non ha una cultura in termini di ecologia e di evoluzione. La nostra specie basa la propria esistenza sull'efficienza dei processi ecosistemici messi in atto dalla biodiversità, con cui siamo co-evoluti. Pensare che su un altro pianeta si sia evoluto un ecosistema compatibile con la nostra sopravvivenza è talmente improbabile da non poter essere preso in considerazione. Pensare di trasferire con noi la biodiversità del pianeta (una sorta di arca biblica di un novello Noè) e che questa, una volta sbarcata, riformi gli ecosistemi in modo compatibile con la nostra vita non è scienza ma fantascienza. Il pianeta B non esiste e i nostri sforzi per cercarlo e per raggiungerlo si basano su aspettative che difettano di razionalità.

Cultura senza natura
Non esistono scorciatoie alla conversione ecologica, prima, e alla transizione ecologica, dopo. Soprattutto nel nostro paese la cultura è eminentemente "umanistica" ed è incentrata sulla nostra specie. Non ci sarebbe nulla di male, se questo generasse la consapevolezza che è interesse della nostra specie mantenere le condizioni del pianeta in uno stato che garantisca il nostro benessere. Non siamo tanto potenti da distruggere la natura: la possiamo modificare, ma le modifiche di solito generano vantaggi a breve termine per la nostra specie, a cui fanno seguito evidenti svantaggi nel lungo termine. Il lungo termine sta arrivando e le conseguenze del nostro agire nella natura si stanno facendo sentire in modo sempre più drammatico, mettendo a repentaglio la nostra specie.
La "naturalizzazione" della cultura deve passare per i sistemi di formazione (la scuola) dove, attualmente, la natura ha un ruolo molto marginale. L'Unione Europea ha introdotto il concetto di "alfabetizzazione marina" (marine literacy) ma si dovrebbe parlare di "alfabetizzazione ecologica". Purtroppo, però, se la natura non è presente nel patrimonio culturale, come può avvenire che gli operatori culturali modifichino le loro gerarchie di priorità andando contro i principi con cui sono stati acculturati?
Chi chiede questo cambiamento, questa conversione, di solito non viene capito. In questa categoria rientra anche Papa Francesco. Chi si dice sensibile alle denunce di Greta Thunberg (basate peraltro sui rapporti scientifici sullo stato del pianeta) viene deriso con il termine di "gretino". Se si decide di intraprendere la transizione ecologica, questa di solito viene affidata a tecnologi e ad economisti: chi ha generato i problemi che rendono necessaria la transizione ecologica viene chiamato a risolvere i problemi che lui (o lei) stesso/a ha generato. Gli ecologi hanno un ruolo marginale.

Perché non riusciamo ad incidere?
I movimenti che operano in favore dell'ambiente hanno da sempre incentrato la loro attenzione su specie ed habitat che abbiano un forte impatto sull'opinione pubblica. La strategia prevede che prima si focalizzi l'attenzione su componenti carismatiche della natura, per arrivare poi a creare consapevolezza sull'importanza dei processi che rendono possibile la vita sul pianeta, inclusa la nostra. L'approccio emotivo, però, non ha portato a questa consapevolezza: Lo scioglimento dei ghiacci polari ci fa preoccupare del destino degli orsi bianchi che vivono al polo nord, ma dopo un momento di commozione si passa ad altro. Dopotutto chi ha davvero a che fare con un orso polare?
Lo scioglimento dei ghiacci polari compromette, però, la dinamica oceanica che i ricercatori chiamano il grande nastro trasportatore oceanico, che connette tutti gli oceani e che dipende proprio dalla formazione di ghiaccio ai poli. Se, invece di formarsi, i ghiacci polari si sciolgono, la dinamica delle correnti oceaniche cambia, e cambia anche la dinamica atmosferica, con estremi climatici caratterizzati da maggiore frequenza di periodi di siccità seguiti da precipitazioni torrenziali. Questi fenomeni impattano sulla nostra vita quotidiana, e sull'economia, molto più del disagio degli orsi polari.
Se ci limitiamo a denunciare il disagio di qualche specie "carina" finiamo per essere percepiti come "mamme dei gatti", da trattare con condiscendenza ma che non possono essere prese davvero sul serio. I problemi importanti sono "altri". E noi non siamo identificati come quelli che potrebbero contribuire a risolverli. Risultato: le competenze sulla transizione ecologica sono riconosciute a tecnologi ed economisti e non agli ecologi.
La responsabilità di questa mancata consapevolezza è nostra. La comunità scientifica che si interessa di esplorazione spaziale riesce a convincere i decisori che valga la pena esplorare lo spazio, anche per colonizzare altri pianeti e cercare forme di vita intelligenti e non. Noi non riusciamo a convincere i decisori che lo studio e la tutela della biodiversità e degli ecosistemi siano una priorità impellente. Se si convincono della priorità, e decidono di intraprendere la transizione ecologica, non chiamano noi.

La conservazione della biodiversità richiede efficaci programmi di monitoraggio

Ettore Randi (Unione bolognese Naturalisti)

Quattro miliardi di anni di evoluzione hanno generato e rigenerato l’incalcolabile numero di organismi viventi, microorganismi, funghi, piante e animali che sono esistiti nel passato, che esistono oggi ed hanno plasmato gli ambienti in cui loro vivono e che noi stessi condividiamo. L’unicità del Pianeta Terra è il prodotto di queste evoluzioni. La biodiversità è una rete di individui, popolazioni, specie ed ecosistemi strettamente interconnessi tramite processi complessi ed in costante evoluzione. Questi equilibri dinamici fra stabilità degli ecosistemi ed evoluzione di nuovi adattamenti determinano, in ultima analisi, i destini di individui e specie, inclusa la nostra (vedi articolo di Ferdinando Boero in questo numero).

Sappiamo che biodiversità e integrità funzionale degli ecosistemi devono essere tutelate e gestite molto accuratamente. Infatti, la grande accelerazione della crescita delle popolazioni umane, sempre più energivore e tecno-dipendenti, ha prodotto nell’ultimo paio di secoli impatti impressionanti su tutta la biosfera, dai cambiamenti climatici ed atmosferici fino nel profondo degli oceani, dalla megafauna alle oscure comunità di microorganismi. La tutela della naturalità sopravvissuta è necessaria, ma non è sufficiente. Occorre ridurre i fattori di rischio globale: gas climalteranti, pesticidi ed altre sostanze inquinanti, dispersione delle plastiche, agricoltura intensiva con grande uso di fertilizzanti e pesticidi, distruzione degli habitat, sovrapesca ecc. Occorre anche ripristinare l’integrità e le funzioni di quel 30% dei terreni, oltre che degli ecosistemi marini e costieri (la stragrande maggioranza dello spazio abitato dalla vita), che sono degradati (FAO; https://www.fao.org/documents/card/en/c/cb7654en). Non esistono isole di biodiversità occupate da ecosistemi che evolvono indipendentemente. Se è vero che la biodiversità è una immensa rete di relazioni funzionali, allora la biodiversità a rischio va tutelata e ripristinata sistematicamente e globalmente. Il lavoro di studio e divulgazione sui cambiamenti climatici e le loro cause, svolto negli ultimi trent’anni dall’IPCC ed altre istituzioni di ricerca, ha finalmente imposto questi problemi all’attenzione delle popolazioni e dei governi (https://www.ipcc.ch/reports/). Ora dovremmo riuscire ad imporre all’attenzione di tutti anche i rischi derivanti dalla distruzione della biodiversità. Questi sono anni di grande attività di ricerca e divulgazione che, però, ancora non ha toccato a fondo le sensibilità dei cittadini. Proviamo a partire dalle conclusioni della recente assemblea generale della Convenzione sulla Biodiversità, per identificare alcune azioni che dovrebbero essere implementate, anche con la partecipazione dei cittadini, per contribuire a migliorare la conservazione della natura e contemporaneamente la consapevolezza in tutti noi.

Le risoluzioni adottate dalla COP15, la quindicesima conferenza dei partner della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità (CBD), che si è tenuta a Montreal dal 7 al 19 dicembre 2022, ribadiscono ripetutamente la necessità di monitorare l’efficacia delle misure di conservazione che gli stati aderenti sono tenuti a implementare tramite l’elaborazione di specifiche strategie nazionali. Fra gli obiettivi generali fissati dalla COP15, quelli che più direttamente riguardano la biodiversità sono:

- lo slogan 30x30, che indica l’obiettivo di arrivare entro il 2030 a garantire la conservazione e la gestione efficace di almeno il 30% delle terre emerse, delle acque interne, delle zone costiere e degli oceani del mondo, con priorità per le aree che includano ecosistemi rappresentativi della biodiversità e che siano connessi tramite reti ecologiche funzionanti, (teniamo conto che le statistiche indicano che attualmente sono ritenuti formalmente protetti rispettivamente il 17% e il 10% delle aree terrestri e marine del mondo, dove formalmente significa: sulla carta; è assai probabile che la protezione effettiva ed efficace in realtà riguardi percentuali molto minori di aree terrestri e marine);

- si richiede che venga completato o che sia in corso di completamento il ripristino di almeno il 30% degli ecosistemi degradati terrestri, delle acque interne, costiere e marine;

- che al 2030 sia prossima allo zero la perdita di aree ad alta biodiversità (hotspot)

- occorre poi prevenire l'introduzione di specie esotiche invasive note, ridurre di almeno la metà l'introduzione e l'insediamento di altre specie esotiche potenzialmente invasive ed eliminare o ridurre la diffusione di specie esotiche invasive sulle isole e in altri siti prioritari.

La COP15 ha lanciato 23 nuovi target, gli obiettivi che dovrebbero essere raggiunti entro la fine di questo decennio (il post-2020 Global Biodiversity Framework; https://www.cbd.int/article/draft-1-global-biodiversity-framework). Fra questi, almeno sei target sono esplicitamente destinati alla protezione della biodiversità negli ambienti marini, costieri, terrestri e nelle acque interne. Da oggi al 2030 deve essere azzerata la perdita di aree ad alta biodiversità, inclusi gli ecosistemi ecologicamente integri (Target 1); devono essere effettivamente restaurate almeno il 30% delle aree degradate (dove “effettivamente” significa che questi ecosistemi devono riprendere a funzionare; Target 2); deve essere effettivamente conservato e gestito almeno il 30% delle aree di particolare importanze per la biodiversità ed il funzionamento degli ecosistemi e per l’erogazione dei servizi ecosistemici (sottolineo “effettivamente”; Target 3); devono essere significativamente ridotti i rischi di estinzione delle specie minacciate, e deve essere mantenuta la diversità genetica delle popolazioni selvatiche o domestiche per preservare intatto il loro potenziale adattativo ed evolutivo (Target 4); il prelievo, l’uso ed il commercio di specie selvatiche deve essere legale e sostenibile (cioè non deve compromettere il potenziale demografico ed evolutivo delle popolazioni; Target 5); occorre eliminare, minimizzare ridurre o mitigare l’impatto delle specie invasive (Target 6).

L’accordo è stato sottoscritto dalla grande maggioranza dei 195 paesi che hanno partecipato alla COP15. Ma il limite principale è che questi accordi non sono vincolanti e lasciano ai singoli paesi gli obblighi, quasi solo morali, di realizzare obiettivi che non sono quasi mai raggiunti. La precedente strategia per la biodiversità 2011-2020 aveva individuato 20 target (https://www.cbd.int/sp/targets/). Come indica il Global Biodiversity Outlook (il rapporto periodico che riassume i dati sullo stato e le tendenze della biodiversità e valuta lo stato di attuazione della CBD; https://www.cbd.int/gbo5), nessuno di questi è stato completamente raggiunto, in parte per inadeguate articolazioni nelle strategie nazionali o per mancanza di volontà. In ogni caso per abissale carenza delle necessarie risorse economiche.

Il tema delle risorse disponibili annualmente ed effettivamente spese per la tutela della biodiversità (escludendo quindi operazioni truffaldine e di greenwashing) è controverso. Per esempio, uno studio stima che le risorse finanziarie spese in media ogni anno dal 2015 al 2017 per la biodiversità sia stato di circa 78-91 miliardi di dollari. Contemporaneamente i governi hanno speso circa 500 miliardi di dollari all’anno per sostenere attività potenzialmente dannose per la biodiversità, una cifra più di sei volte quanto speso per la biodiversità (https://www.oecd.org/environment/resources/biodiversity/report-a-comprehensive-overview-of-global-biodiversity-finance.pdf). Queste stime sembrano piuttosto aleatorie e altri studi indicano cifre differenti. Per esempio, uno studio del Paulson Institute ritiene che il divario tra l'importo attualmente speso per la conservazione della biodiversità e quanto sarebbe necessario sia molto ampio. A partire dal 2019, la spesa attuale per la conservazione della biodiversità sarebbe compresa tra 124 e 143 miliardi di dollari all'anno, contro un fabbisogno totale compreso tra 722 e 967 miliardi di dollari all'anno. Ciò lascia un attuale deficit di finanziamento della biodiversità compreso tra 598 e 824 miliardi di dollari all'anno (https://www.paulsoninstitute.org/conservation/financing-nature-report/).

Comunque sia, la conclusione è la stessa: i finanziamenti disponibili per la biodiversità, ricerca e conservazione, sono ampiamente insufficienti e come minimo dovrebbero venire raddoppiati o triplicati. Tuttavia, il target indicato dalla COP15 si limita, forse più realisticamente, ad indicare che per finanziare l’attuazione delle misure delineate dai target sia necessario reperire almeno 200 miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Non è chiaro chi dovrà reperire questi soldi (governi, privati, ONG). Viene indicato un meccanismo per finanziarne l’attuazione tramite un fondo globale per la biodiversità. Alcuni paesi come il Canada e la Germania hanno già dichiarato che intendono incrementare significativamente le risorse disponibili. La COP15 ha anche raccomandato l’istituzione di un fondo solidarietà internazionale, destinato a compensare i costi sostenuti dai paesi più vulnerabili e più ricchi di biodiversità. Resta da verificare se effettivamente questi fondi verranno raccolti e poi come verranno investiti.

I target individuati dalla COP15 riprendono in modalità più ampia la visione e gli obiettivi di conservazione molto più limitati che sono stati da tempo definiti dalle principali convenzioni internazionali (per esempio, la Convenzione di Washington; CITES; https://cites.org/eng) e comunitarie: le direttive Uccelli e Habitats (https://ec.europa.eu/environment/nature/natura2000/index_en.htm), e la Convenzione di Berna (https://www.coe.int/en/web/bern-convention). Le direttive europee interessano una parte limitatissima della biodiversità. Solo nove habitat marini, tutti bentonici, sono presi in considerazione, ignorando, in questo modo, gli ambienti marini che ospitano la maggior parte della biodiversità ed erogano insostituibili benefici ecosistemici. L’articolo 11 della direttiva Habitats impone agli stati membri di monitorare gli habitat e le specie elencati negli allegati, mentre l'articolo 17 chiede l'invio alla Commissione Europea di un report di valutazione dello stato di conservazione degli habitat e delle specie oggetto della direttiva ogni sei anni. Le valutazioni vengono compilate sulla base delle informazioni sullo stato, tendenze e minacce delle popolazioni, specie o degli habitat, che vengono fornite da enti, gruppi di ricerca, studiosi o esperti. La compilazione dei report è responsabilità dei ministeri competenti (in Italia il Ministero dell’Ambiente; MISE). Le tecniche di indagine ovviamente variano a seconda dei casi (diversi tipi di habitat; stime di distribuzione e di abbondanza adeguate alle caratteristiche delle diverse specie ecc.), secondo logiche che dovrebbero essere adattative, ma che talvolta sono forzatamente opportunistiche, anche per carenza di personale esperto e di risorse finanziarie. Queste informazioni eterogenee confluiscono in valutazioni finali sullo stato di conservazione di habitat o specie che viene definito come “favorevole”, oppure “sfavorevole-inadeguato” oppure “sfavorevole-cattivo”. Sono osservazioni prevalentemente qualitative, comunque di grande importanza per ottenere valutazioni sintetiche sullo stato di habitat e specie, ma che non possono essere considerate veri e propri monitoraggi. Le metodologie utilizzate per arrivare a queste valutazioni potrebbero essere almeno in parte standardizzate per elaborare alcuni indicatori quantitativi. Resta ancora fare molto lavoro di ricerca, soprattutto in quegli ambienti e biomi che finora sono stati sottovalutati e poco studiati. E resta ancora molto lavoro da fare per trasformare i risultati della ricerca in linee guida e procedure dettagliate utilizzabili per piani di monitoraggio quantitativo. Per fare solo un esempio, per quanto riguarda il nostro paese il documento “Linee guida per le regioni e le province autonome in materia di monitoraggio delle specie e degli habitat di interesse comunitario” elaborato dal Ministero dell’Ambiente e da ISPRA fornisce solo indicazioni di carattere generale.

Le Liste Rosse raccolgono e sintetizzano le valutazioni delle minacce e dei rischi di estinzione di parte della flora italiana, nonché  “di tutte le specie di pesci d'acqua dolce, anfibi, rettili, uccelli nidificanti, mammiferi, pesci cartilaginei, libellule, coralli e coleotteri saproxilici, native o possibilmente native in Italia, nonché quelle naturalizzate in Italia in tempi preistorici” (http://www.iucn.it/liste-rosse-italiane.php). Ancora una volta, l’attenzione dei compilatori delle liste è focalizzata principalmente su specie terrestri e di acqua dolce. Restano ancora molto trascurati gli invertebrati e le specie marine. Le valutazioni dei rischi di estinzione sono basate sulle 11 categorie di rischio elaborate dalla IUCN (https://www.iucnredlist.org/), che esprimono sinteticamente le stime fornite dagli esperti dei gruppi tassonomici considerati prioritari. Sia le stime che le categorie di rischio sono essenzialmente qualitative e non sono traducibili in veri e propri piani di monitoraggio. Per es. il rischio può essere classificato come: “elevato”, “molto elevato” o “estremamente elevato”. Il monitoraggio dello stato di conservazione di habitat e specie è essenziale anche per valutare gli esiti delle azioni previste dalle decisioni deliberate dalla COP15. Come sarà possibile valutare la funzionalità delle nuove aree protette e dei corridoi ecologici che verranno istituiti nell’ambito dello schema 30x30? Come valutare se le azioni di ripristino di ecosistemi degradati avranno raggiunto il loro scopo? Come accertare se la perdita di biodiversità verrà effettivamente azzerata quando restano immense regioni e biomi ancora sostanzialmente inesplorati? La diffusione di specie aliene invasive e dannose sarà in effetti bloccata o almeno rallentata? In ognuno di questi casi servono per prima cosa programmi ricerca dedicati ad approfondire la conoscenza della diversità biologica, e poi servono programmi di monitoraggio efficaci e realizzabili, quindi finanziati.

Un programma di monitoraggio consiste essenzialmente nella definizione di almeno un indicatore quantitativo che consenta di misurare con precisione (inclusa la relativa misura di incertezza) uno o più parametri biologici, per esempio l’assorbimento di CO2 in un determinato ecosistema, la numerosità delle popolazioni di una determinata specie e così via. Questo ipotetico indicatore deve restare stabile ed essere applicato regolarmente nel tempo per replicare le misure ed ottenere così un trend per valutare la tendenza temporale delle variabili biologiche sottostanti. Le realizzazioni dei target indicati dalla COP15 e dalle normative comunitarie devono essere misurabili, basate sulle necessarie conoscenze scientifiche. Devono produrre risultati chiaramente comunicabili anche a chi non è del mestiere, per es. politici, amministratori, manager. Ricercatori e gruppi di ricerca conducono continuamente ottimi programmi di ricerca di biologia evoluzionistica, ecologia, sistematica e tassonomia, con risultati teoricamente utilizzabili per la tutela di ecosistemi e specie marine, terrestri e di acque dolci. Tuttavia, questi programmi di solito hanno durata limitata, utilizzano tecniche complesse e costose e non sempre sono in grado di fornire indicazioni che si materializzino in indicatori e programmi di monitoraggio. La ricerca scientifica è essenziale e va intensificata soprattutto in quei biomi e gruppi tassonomici tradizionalmente trascurati. Ma non è sufficiente. Per la tutela della natura nel “mondo reale” (M. E. Soulé. Conservation Biology and the “real world”, pp.1-13 in Conservation Biology. The science of scarcity and diversity. Ed. by M. E. Soulé, 1986, Sinauer) è necessario anche monitorare le azioni intraprese per conservare e ripristinare la biodiversità. Così come i ricercatori devono offrire le necessarie conoscenze scientifiche, i governi devono garantire i necessari investimenti anche in programmi pluriennali di monitoraggio.

In Italia ora abbiamo a disposizione i fondi del PNRR, oltre 220 miliardi il 37% dei quali deve essere investito in misure green, cioè a tutela della biodiversità o perlomeno senza arrecarle ulteriori danni. In attesa di conoscere quali progetti green verranno lanciati e di verificare come questi ingenti fondi verranno effettivamente spesi, almeno un obiettivo è stato realizzato: il centro nazionale per la biodiversità, opportunamente denominato in lingua inglese: National Biodiversity Future Center (NBFC). Un consorzio fra 31 istituti universitari, enti pubblici e privati di ricerca e 48 partner, costituito nel giugno del 2022, coordinato dal CNR e finanziato con oltre 320 milioni di euro per i primi tre anni (2023 - 2025). La mission di NBFC “… is to promote the sustainable management of Italian biodiversity in order to improve the planet’s health and return beneficial effects, essential for all people”. Fra le altre finalità dichiarate dalla Presidenza del CNR all’atto della costituzione del NBFC, leggiamo che: “NBFC è nato con la finalità di aggregare la ricerca scientifica nazionale di eccellenza e le moderne tecnologie per supportare interventi operativi volti a: - monitorare, preservare e ripristinare la biodiversità negli ecosistemi marini, terrestri e urbani della Penisola; - valorizzare la biodiversità e renderla un elemento centrale su cui fondare lo sviluppo sostenibile.  NBFC consentirà di raggiungere i seguenti risultati: - fornire strumenti innovativi ed efficaci ai decisori politici per contrastare l’erosione della biodiversità (conservazione e ripristino), quantificare i servizi ecosistemici e realizzare azioni volti alla conservazione e ripristino della biodiversità in tutto il Mediterraneo …” (https://www.cnr.it/it/intervento-presidente/11208/national-biodiversity-future-centre-firmato-l-atto-costitutivo). Sono dichiarazioni importanti. Vedremo se e come questi interventi verranno realizzati da qui al 2025. Evidentemente non sarà possibile elaborare indicatori quantitativi praticabili e reperire finanziamenti sufficienti per lanciare progetti di monitoraggio per la stragrande maggioranza delle specie di flora e fauna, oltre che per monitorare la funzionalità degli ecosistemi, ma ci aspettiamo che qualcosa di significativo venga realizzato. Decenni di ricerche, ancora in corso, hanno almeno parzialmente individuato parametri e gruppi di specie “sentinella” che possono essere adattati e trasformati in indicatori quantitativi. Il volume di ricerca che resta ancora da fare è moltissimo, ma supponiamo che NBFC abbia risorse, anche umane, sufficienti per svolgerlo almeno in parte.

Oltre allo sviluppo di progetti di monitoraggio realizzabili e finanziabili nel mondo reale della conservazione, proponiamo un ulteriore obiettivo che va nella direzione indicata dalla Presidenza del CNR, e cioè: “creare nella società civile una consapevolezza e partecipazione nei confronti della tutela e valorizzazione della biodiversità.” La società civile e prima di tutto le scuole, studenti e docenti, vanno coinvolte in programmi di educazione, diffusione di conoscenze e di citizen science. Ma serve anche un momento di sintesi, un centro informativo sulla biodiversità nel nostro paese, mari inclusi, che vorremmo chiamare: Atlante della Biodiversità. Già esistono nel web alcuni portali di documentazione della biodiversità: la Carta della Natura (https://sinacloud.isprambiente.it/portal/apps/webappviewer/index.html?id=885b933233e341808d7f629526aa32f6) e l’EcoAtlante (https://ecoatlante.isprambiente.it/); il Network Nazionale Biodiversità (https://www.nnb.isprambiente.it/en/the-network), gestiti da ISPRA per conto del Ministero dell’Ambiente con la collaborazione delle regioni. Questi i portali sono poco user-friendly, forse più utili per le amministrazioni pubbliche, anche se non sappiamo quanto siano realmente utilizzati. Per esempio, sarebbe interessante sapere quante scolaresche o quanti corsi universitari usino queste risorse. Per realizzare un Atlante della Biodiversità serve un approccio molto meno istituzionale, molto attrattivo e stratificato, cioè con livelli di accesso differenziati in relazione agli utenti target (cittadini, studenti, studiosi, tecnici, manager, amministratori, decisori). Dovrebbe ospitare banche dati e link alle altre banche dati della biodiversità disponibili nel web. Ma dovrebbe anche offrire visualizzazioni cartografiche sintetiche e dinamiche delle distribuzioni di habitat e specie, marine, terrestri e di acqua dolce. Poiché cambia il clima e cambiano gli ambienti, soprattutto a causa degli impatti antropici, l’Atlante dovrebbe documentare la biodiversità esistente entro e oltre il sistema delle aree protette. Ma dovrebbe anche sviluppare proiezioni prospettiche per aiutare tutti a comprendere, nei limiti del possibile, come potranno cambiare le distribuzioni e le composizioni di habitat e specie qualora il deterioramento ambientale si inasprisse o, al contrario, dove efficaci misure di conservazione venissero attuate. Già esistono tantissimi studi e pubblicazioni che documentano la presenza e distribuzione di specie, talvolta anche con stime di abbondanza. Queste informazioni, ora disperse in innumerevoli pubblicazioni e siti web, dovrebbero essere in qualche modo validate, sintetizzate e rese pubblicamente disponibili all’interno dell’Atlante. Tanti programmi LIFE e Interreg hanno prodotto negli anni innumerevoli informazioni sullo stato di settori specifici della biodiversità che attualmente sono disperse in altrettanti siti web. Ancora una volta, l’Atlante che qui proponiamo potrebbe sintetizzare queste informazioni e renderle pubblicamente disponibili in forma attraente ed accessibile a tutti. Infine, a vantaggio di una più diffusa cultura ecologica e naturalistica, l’Atlante potrebbe promuovere in modo scientificamente corretto le informazioni su quanto sappiamo della biodiversità nei parchi e nelle aree protette del nostro Paese e su quanto ancora ci resta da scoprire.

Transizione energetica, paesaggio e biodiversità

Mauro Furlani e Paolo Pupillo

Perché cambiare le fonti di energia.
Recita un celebre motto (di spirito) che fare previsioni corrette è sempre difficile, soprattutto prima che l’evento si verifichi. Ma se parliamo di clima e gas serra (greenhouse gases, GHG) le previsioni sono state piuttosto precise fin dagli inizi della storia, che per comodità collochiamo al 1958, quando, per iniziativa di un chimico americano di nome Charles David Keeling, cominciarono i rilevamenti del biossido di carbonio (CO2) atmosferico all’Osservatorio astronomico di Mauna Loa nelle Isole Hawaii. I risultati (fig. 1) furono sorprendenti: la concentrazione di questo GHG in atmosfera andava aumentando di circa il 2% all’anno nonostante una marcata oscillazione annuale, anch’essa dell’ordine del 2%, attribuita all’effetto della fotosintesi algale nell’Oceano Pacifico (ma è stata poi riportata in tutto il mondo, anche al nostro Osservatorio dell’Aeronautica sul Monte Cimone). In questo modo divenne possibile documentare con precisione l’aumento di concentrazione di CO2 atmosferico da 320 ppm (parti per milione) alle attuali 420: un balzo di quasi un terzo in 65 anni; mentre sappiamo che almeno nell’ultimo mezzo milione di anni e fino alla rivoluzione industriale il livello di CO2 non aveva mai superato 280 ppm. Le misure geochimiche isotopiche, inoltre, confermano che c’è sempre stata una stretta correlazione fra le temperature medie e le concentrazioni dei GHG durante le grandi glaciazioni dell’ultimo milione di anni. Ma l’ipotesi di una relazione fra temperatura e gas atmosferici per “effetto serra” era stata già proposta dal premio Nobel Svante Arrhenius (1859-1927), a spiegazione delle condizioni climatiche eccezionalmente favorevoli del nostro Pianeta; con il corollario delle possibili conseguenze di un aumento (antropogeno) dei GHG.

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