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Il passaggio da caccia e raccolta ad agricoltura sta avvenendo ora, in mare

Ferdinando Boero
Fondazione Dohrn della Stazione Zoologica Anton Dohrn

Oltre l'etimologia
La parola agricoltura, etimologicamente, significa coltivazione dell'agro, o campo, e si riferisce alle colture vegetali. Ad essa si accompagna l'allevamento del bestiame, come mezzo di produzione di risorse alimentari e non solo. La nostra specie, però, ha iniziato la sua storia ottenendo risorse da popolazioni naturali di piante ed animali, con la caccia e la raccolta. Il passaggio da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori è avvenuto migliaia di anni fa: secondo i libri di storia il passaggio avvenne in un luogo ben preciso, in Mesopotamia, tra il Tigri e l'Eufrate, ma recenti ricerche mostrano che la domesticazione delle piante avvenne diverse volte, in modo indipendente, in varie parti del globo.

Oggi, le regole europee riguardanti la produzione di cibo considerano "agricoltura" anche la pesca e l'acquacoltura, estendendosi oltre le pratiche terrestri.

 

Al supermercato
Ora pensiamo a un supermercato e consideriamo tutte le risorse alimentari che quotidianamente acquisiamo tramite il commercio: quasi nessuna proviene da popolazioni naturali terrestri, tutto proviene da popolazioni artificiali, sia vegetali sia animali. Le eccezioni sono pochissime, ad esempio i funghi porcini raccolti nei boschi.

Se passiamo al banco della pescheria, però, ecco che le popolazioni naturali ancora ci offrono risorse prelevate attraverso la pratica che, in acqua, corrisponde alla caccia a terra: la pesca. L'Italia, con i suoi 8.500 km di coste, dovrebbe avere a disposizione pesce locale in quasi tutto il suo territorio vicino al mare, e le zone interne dovrebbero comunque essere rifornite con pesce mediterraneo. Un tempo era così, oggi non più. I banchi delle pescherie sono obbligati a segnalare la provenienza del pesce secondo le zone FAO. Il Mediterraneo, ad esempio, è la zona 37 e a questo numero se ne accompagnano altri che dividono il bacino nelle sezioni occidentale, centrale e orientale, a loro volta suddivise ulteriormente. Il cartello con l'elenco delle zone è spesso ben nascosto. Se vi capita di trovarlo e di confrontarlo con quanto è scritto accanto ai nomi dei pesci vi accorgerete che in molti casi non sono pesci "nostrani" mentre, fino a qualche decennio fa, tutto quello che si trovava in una pescheria era naturale e veniva dal mare "locale". Oggi, buona parte di quel che è presente sul banco non viene da popolazioni naturali. Spigole, orate, rombi, ombrine e altri pesci "pregiati" provengono da acquacoltura. Le differenze di prezzo tra pesci di mare e pesci allevati è enorme. Alcuni pesci allevati, specialmente se di piccola taglia, arrivano a costare 5 euro al chilo, mentre la stessa specie, se pescata e di buona taglia, ne può costare anche 50. Se i pesci "naturali" sono migliori di quelli allevati e rendono di più a chi li vende, come suggerisce la differenza di prezzo, come mai la produzione di pesce si sta orientando verso l'acquacoltura? Semplice: tutti i mari del globo sono sovrasfruttati e, quindi, le popolazioni naturali non sono sufficienti a soddisfare la richiesta di prodotti della pesca. Il prelievo non viene compensato dal rinnovamento della risorsa attraverso la riproduzione: peschiamo di più di quello che il mare riesce a rigenerare, almeno per quel che riguarda le specie più richieste dai consumatori.

 

Le statistiche di pesca
Raccogliere i dati di pesca è difficilissimo. A seconda dei paesi, infatti, si assiste a sovrastime della produzione ittica a fronte di obiettivi ufficiali che mirano a grandi quantitativi, come in Cina, o a sottostime a fronte di norme che limitano il sovrasfruttamento. Le quote di prelievo per il tonno rosso, ad esempio, si basarono sulle dichiarazioni di resa da parte dell'industria peschereccia e posero proprio le dichiarazioni del passato come limite al prelievo. Il rispetto delle quote ha portato alla ricostituzione delle popolazioni di tonno rosso, a riprova che i quantitativi dichiarati fossero nettamente sottostimati, a causa di dichiarazioni fasulle.

I banchi delle pescherie sono la migliore misura di quanto la pesca industriale stia impoverendo i mari. La rarefazione del prodotto locale indica che le popolazioni sono impoverite, l'importazione di specie da altri mari indica che il sovrasfruttamento viene "esportato" verso aree oceaniche che, ora, stanno subendo quel che è già stato fatto alle popolazioni nostrane. Il passaggio all'acquacoltura è dovuto al fatto che le popolazioni locali e, via via, anche quelle globali sono avviate verso l'estinzione commerciale. Le specie bersaglio sono oramai così rarefatte che lo sforzo per prendere quantitativi sufficienti a soddisfare la domanda non consente di coprire le spese del prelievo. I sussidi alla pesca mirano a mantenere attiva la flotta peschereccia industriale, ma non sono altro che un incentivo a continuare il sovrasfuttamento delle risorse. Se il guadagno riveniente dalla vendita del pescato non compensa la spesa per il prelievo, lo sforzo di pesca diminuisce e le popolazioni si rigenerano, ma se lo sforzo viene compensato con gli incentivi, non si fa che incentivare lo sfruttamento della risorsa.

 

Pesca sostenibile
La pesca artigianale è di solito costiera, si vale di piccole imbarcazioni con pochi pescatori a bordo, e usa attrezzi abbastanza selettivi che mirano a specie bersaglio senza colpire altre specie di scarso valore commerciale. I pescatori operano su un "territorio" a loro familiare che sentono come "proprio" e che hanno interesse a salvaguardare. La pesca industriale, invece, ha un raggio d'azione praticamente globale, si vale di imbarcazioni efficientissime che raccolgono sia specie bersaglio sia specie di scarso valore commerciale. Lo scarto di pesca viene rigettato a mare ed è spesso costituito da specie che formano l'habitat delle specie commerciali. Lo strascico "ara" i fondali e rimuove tutto quello che vi cresce, creando deserti sottomarini. Quando un fondale non è più "produttivo" si passa ad altri fondali che subiscono la stessa sorte. Anche la pesca d'altura, con reti a circuizione, si vale di sistemi di individuazione dei banchi di pesce che non lasciano scampo alle specie bersaglio, portandole sull'orlo dell'estinzione, come stava per avvenire con il tonno rosso in Mediterraneo.

La limitazione dei prelievi di tonno rosso, però, ha portato alla ricostituzione delle popolazioni di questa pregiatissima specie, in pochi anni. Le centinaia di migliaia di uova prodotte dalle femmine di teleostei possono compensare rapidamente un prelievo dissennato, a patto che non si ricominci come prima. La pesca artigianale è più sostenibile della pesca industriale ed è anche necessario orientare i consumatori verso specie più abbondanti, come il pesce azzurro, che non siano carnivori che si nutrono di altri carnivori che, a loro volta si nutrono di altri carnivori, tipo un tonno che mangia uno sgombro, che mangia le sardine che, a loro volta, mangiano crostacei, finalmente erbivori... Mangiare pesce azzurro significa nutrirsi di un carnivoro che mangia erbivori, mentre un tonno o un pesce spada, per non parlare degli squali, sono carnivori di carnivori di carnivori, di carnivori di erbivori. La lunghezza delle catene alimentari marine è molto maggiore rispetto alle catene terrestri dove, di solito, i carnivori si nutrono di erbivori, e i carnivori di carnivori sono rari. Se il pesce di "scarso valore" non fosse trasformato in farine da dare a pesci in gabbia ma fosse consumato da noi, salteremmo diversi anelli delle catene alimentari e il nostro impatto sarebbe minore. Occorre però educare la popolazione a consumi alimentari sostenibili, e il mare offre moltissime opportunità in questo senso, dai bivalvi filtratori ai pesci che sono alla base delle reti trofiche, come il già citato pesce azzurro.

 

La transizione agricola in mare
In mare, il passaggio da cacciatori raccoglitori ad agricoltori, avvenuto a terra decine di migliaia di anni fa, sta avvenendo ora, in questi decenni. A terra la caccia viene esercitata per diletto. Spesso le specie bersaglio sono allevate, poi i cacciatori le liberano per divertirsi a prenderle a fucilate mentre scappano. La caccia industriale non può avere lunga vita, perché porterebbe rapidamente all'estinzione delle specie bersaglio, visto che, a terra, le femmine delle specie cacciate non producono centinaia di migliaia di uova, come avviene invece per i pesci ossei marini. L'ultima caccia industriale fu quella dei cacciatori di bisonti del continente nord americano: in poche stagioni di caccia, con fucili di precisione a lunga gittata, portarono il bisonte americano sull'orlo dell'estinzione. Prima di Buffalo Bill e dei suoi complici, i nativi avevano praticato la caccia artigianale, e i bisonti se la passavano bene. E' evidente che la caccia artigianale è sostenibile, mentre quella industriale non lo è. In mare, come spiegato prima, la pesca artigianale è di solito sostenibile, mentre la pesca industriale di solito non lo è.

La distruzione delle popolazioni di specie bersaglio a seguito di pesca industriale ha portato, quindi, alla necessità di allevarle. Si parla di domesticazione di specie ittiche quando è possibile riprodurre l'intero ciclo biologico in condizioni di cattività: non basta tenere gli adulti in uno spazio ristretto e dar loro da mangiare, come forse facevano i romani con le murene tenute nei murenari. La domesticazione, quindi, prevede che le uova delle femmine siano fecondate in condizioni controllate, che si sviluppino prima in embrioni e poi in larve, e che queste, nutrite opportunamente, diventino stadi giovanili che poi saranno messi all'ingrasso, fino a raggiungere una taglia commerciale che ne permetta la vendita a prezzi congrui.

Il pesce più venduto in Italia, oggi, è il salmone. Non si tratta di un pesce mediterraneo e quel che arriva nelle pescherie è di solito allevato in Norvegia, mentre quello affumicato può essere norvegese, scozzese o irlandese. I salmoni hanno una carne color... salmone, conferito loro da una dieta a base di crostacei, tipo quella che tinge il piumaggio dei fenicotteri. La dieta con farine di pesce rende bianca la loro carne, come quella di spigole e orate. Ma i clienti vogliono che i salmoni siano di color salmone, e così si aggiungono coloranti alle farine di pesce e il gioco è fatto. In più, i pesci ammassati nelle gabbie corrono seri rischi di ammalarsi e quindi sono trattati con antibiotici. Costretti nelle gabbie, le loro muscolature non si sviluppano in modo armonioso e la carne di solito è flaccida.

 

Dobbiamo diventare mitiliani?
Tutt'altro discorso riguarda l'allevamento dei mitili, o cozze. I mitili filtrano l'acqua marina intrappolando sul muco delle loro branchie tutte le piccole cose in sospensione nell'acqua: batteri, virus, particelle organiche in sospensione, alghe unicellulari del fitoplancton e, oggi, anche le microplastiche. Il muco trattiene questi materiali e poi viene convogliato alla bocca, ingerito e digerito, neutralizzando gli organismi patogeni che, però, possono infettarci se le cozze sono mangiate crude, quando hanno i patogeni ancora vivi, sul loro muco. La stabulazione delle cozze prevede la loro permanenza in acque pulite per un certo numero di giorni, in modo che ingeriscano il muco e digeriscano i patogeni, neutralizzandone la patogenicità. Dopo la stabulazione, le cozze possono anche essere consumate crude. La stabulazione, però, non elimina un potenziale accumulo di microplastiche, anche se questo problema è spesso molto amplificato, e la presenza di tossine derivanti dall'ingestione di alghe che producono sostanze chimiche per noi dannose. In generale, però, le cozze sono un alimento tra i più sostenibili: non hanno bisogno di essere nutrite, puliscono l'acqua e... sono ottime. Una dieta vegetariana è più sostenibile di una dieta carnivora, ma per coltivare le piante bisogna eradicare la biodiversità da un appezzamento di terreno, seminare la pianta che ci interessa, aggiungere fertilizzanti, e trattare con pesticidi il terreno. L'agricoltura biologica è meno "invasiva" da un punto di vista chimico, ma comunque "occupa spazio". Le cozze si allevano in acque con alto carico organico e trasformano la "sporcizia" in proteine animali. Chi ha a cuore la sostenibilità deve considerare seriamente di adottare una dieta di animali marini filtratori, prima di tutto molluschi bivalvi. A patto che non siano datteri di mare (Lithophaga lithophaga) perché, per raccoglierli, bisogna spaccare le rocce in cui scavano gallerie e, così facendo, si distrugge tutta la fauna e la flora che cresce sulle rocce marine.

 

Nutrire la popolazione mondiale
Il numero di umani presenti sul pianeta cresce in modo prorompente e il cibo necessario per sfamare tutti va oltre la capacità di produzione di beni alimentari da parte dei sistemi naturali. L'agricoltura è una "forzatura" della natura, per spremere in modo sempre più pervasivo quanto riesce a darci. Si sta cercando di ovviare ai problemi di spazio con capannoni multipiano dedicati alla coltivazione di vegetali, per non parlare dei lager in cui sono tenuti molti animali destinati a soddisfare i nostri bisogni con le loro carni.

I bisogni primari (mangiare, bere, respirare) non si possono soddisfare in modo troppo artificiale o addirittura virtuale. In molti paesi la qualità dell'aria è talmente degradata da causare alte frequenze di malattie respiratorie, e le diete squilibrate causano obesità in molti paesi, soprattutto nella parte più povera della popolazione, abituata a nutrirsi di cibo spazzatura. Stiamo modificando i beni primari (aria e cibo) e questo mette a rischio il nostro benessere.

 

La transizione alimentare
La transizione ecologica prevede un "transito" da sistemi di produzione di energia che alterano la qualità dell'aria e del cibo. Il transito dalla produzione di energia con combustibili fossili a modi più sostenibili di alimentare i nostri sistemi produttivi, prima di tutto con le rinnovabili ha la finalità di migliorare la qualità dell'aria che respiriamo e che determina il clima. L'altra transizione ineludibile è quella alimentare, visto che gli attuali sistemi agricoli consumano troppo spazio e usano troppa chimica, per non parlare del transgenico che, a volte, può essere un valido contributo alla sostenibilità ma altre volte è complice di strategie mostruose, come la generazione di piante resistenti agli erbicidi per impiegare in modo massiccio erbicidi che, oramai, non eliminano le erbacce, diventate resistenti. Per non uccidere le piante coltivate, queste sono ingegnerizzate per resistere ai veleni, il che porta a impieghi sempre più massicci di veleni che, poi, si accumulano nel terreno, nelle falde, e poi arrivano al mare.

E' evidente che la popolazione mondiale non può crescere all'infinito, visto che lo spazio sul pianeta è finito. L'ecologia offre il concetto di capacità portante: il numero massimo di individui di una data specie che un dato ecosistema è in grado di sostenere. Non può essere infinito, ma può cambiare. L'invenzione dell'agricoltura ha spostato l'asticella della capacità portante, permettendo lo sviluppo di popolazioni umane sempre più numerose che, ovviamente, non avrebbero potuto svilupparsi se fossimo rimasti cacciatori-raccoglitori.

Il passaggio all'agricoltura anche in mare è un campanello di allarme che ci deve mettere in guardia: se faremo al mare quel che abbiamo fatto alla terra, poi non resterà più nulla di naturale.

Le agrotecnologie ci devono permettere di produrre buon cibo in modo sostenibile, ma questo non sarà possibile in un mondo sovrappopolato. Parallelamente, quindi, si apre il problema dell'incremento demografico. Forse potremmo ancora sfamare la popolazione mondiale se divideremo meglio le risorse ed eviteremo gli sprechi ma questo non ci permetterà di eliminare il limite della capacità portante. Se non ci fermeremo volontariamente, con una saggia transizione alimentare e demografica, ci fermerà la natura.

Prima di tutto, comunque, dovremo usare in modo più saggio le risorse marine. Se distruggeremo le risorse naturali marine e passeremo in toto all'agricoltura anche negli oceani, significherà che avremo eliminato ogni forma di "natura" su un pianeta oramai totalmente antropizzato che, però, non reggerà per molto in condizioni di scarsa naturalità. Questo non significa l'estinzione della natura: l'evoluzione troverà altre soluzioni che non necessariamente comprenderanno anche il nostro benessere o, addirittura, la nostra stessa esistenza.

La resistibile marcia dei trattori

Franco Rainini

Quando abbiamo pensato ad un numero monografico di Natura e Società dedicato all’agricoltura, l’articolo dedicato alla politica agricola comunitaria era immaginato molto diverso da quello che state leggendo: dopo un anno dall’avvio della nuova PAC le organizzazioni ambientaliste europee e, in Italia, la Coalizione Cambiamo Agricoltura, avevano cominciato a ragionare su quale dovesse essere la prossima evoluzione della PAC, producendo anche un interessante documento, condiviso da EEB, Bird Life e WWF Europe, nel quale si prospettava una evoluzione verso il modello prospettato dalle grandi strategie europee, la Farm to Fork e la EUbiodiversity, con obiettivi definiti “ambiziosi”, secondo il brutto lessico dei documenti UE, tra cui la riduzione del 50%dei pesticidi pericolosi, la stessa percentuale di riduzione delle perdite di nutrienti minerali delle piante (azoto e fosforo, derivati dalle concimazioni minerali ed organiche sui suoli agrari), la destinazione del 10% della superfice delle singole aziende agricole a usi compatibili con il mantenimento della biodiversità (siepi, filari, superfici a maggese, coltivazioni senza input dalla chimica di sintesi in grado di rigenerare il suolo, ed altre forme di destinazione “ecologica” delle superfici agrarie, misure che secondo le citate strategie avrebbero dovuto avere piena attuazione dal 2030.

Le manifestazioni messe in atto dagli agricoltori in vari paesi europei, e alla fine anche in Italia, hanno stravolto il dibattito, inserendo quale principale motivo di attenzione la sostenibilità economica delle aziende agrarie rispetto alle norme ambientali della politica agricola comunitaria (PAC), adottata l’anno scorso e timidamente orientata agli obiettivi delle strategie.

La risposta delle Istituzioni Europee è stata quasi immediata e orientata a rimuovere alcune delle principali norme ambientali. In particolare l’attenzione è stata orientata al BCAA 8, l’acronimo significa buone condizioni agronomiche e ambientali (appare spesso con la formulazione inglese GAEC, contribuendo ancor più a rendere il linguaggio dei documenti sulla politica agraria europea ostico e insopportabilmente criptico), il numero otto indica la misura che prevedeva l’adozione della destinazione del 4% della superficie aziendale ad usi favorevoli al mantenimento della biodiversità. Un cedimento alle richieste degli agricoltori e una rimessa in discussione degli obiettivi del Green New Deal.

Siamo rimasti tutti abbastanza sorpresi dalla rapidità delle decisioni prese in sede comunitaria e nazionale a seguito di manifestazioni partecipate, ma non sempre imponenti, caratterizzate soprattutto dal disagio del traffico causato da trattori (quasi tutti di elevata mole e potenza), in alcuni casi, specialmente in Italia, risoltesi con insuccessi.

Anche dopo la chiusura pressoché definita delle manifestazioni, nella seconda metà di febbraio l’attività di revisione delle misure agroambientali non si è fermata, anzi. In un comunicato stampa emesso il 22 febbraio di quest’anno con la titolazione “La Commissione europea presenta opzioni di semplificazione per ridurre l'onere per gli agricoltori dell'UE”, la Commissione UE a guida Von Der Leyen comunica che saranno liquidate o rese meno stringenti altre norme BCAA, in particolare la n. 1, sulla conservazione dei prati, mentre i governi di alcuni stati membri puntano anche sulla riduzione degli impegni per altri BCAA, che riguardano l’obbligo di mantenere una copertura dei Suoli (BCAA 6) sul quale la Commissione è già orientata favorevolmente (https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_24_781), i BCAA 7 sulla rotazione delle colture e BCAA 8 sulla protezione di torbiere e zone umide. Un bel massacro. Prospettato e in parte già realizzato (https://www.arc2020.eu/simply-slashing-the-cap-commission-proposes-rollback-on-rules/).

Sorprendente il silenzio e la scarsa attenzione ad altre ragioni delle proteste, che sono via via emerse come più rilevanti e impattanti sul settore agricolo. In particolare la denuncia dell’erosione dei margini di reddito a causa della tendente stagnazione dei prezzi di acquisto dei prodotti agricoli in termini di moneta corrente sul lungo periodo. Per intenderci: chi scrive ricorda molti decenni fa il prezzi di latte alla stalla intorno alle 600 lire, tale prezzo, con qualche fluttuazione, si ritrovava ancora nelle settimane della grande siccità in Nord Italia, con prezzi delle materie prime esplosi a causa della cattiva congiuntura metereologica e per i timori (rivelatisi ingiustificati per l’acquisto di materie prime per mangime – mais – dall’Ucraina).

L’altro fenomeno, anch’esso esiziale per molte aziende agricole, è la volatilità dei prezzi, soggetti a repentini cambiamenti anche a causa di fenomeni di mercato che hanno luogo in altre parti del mondo. Questo vale per i cereali, ma anche per la carne, come ad esempio le conseguenze sul mercato di episodi epidemici a carico di avicoli come l’epidemia di influenza aviaria (a rischio si spillover sull’uomo e considerata conseguenza delle grandi concentrazioni di allevamenti intensivi (https://monthlyreview.org/product/big_farms_make_big_flu/) e soprattutto per la lunga e complessa vicenda della peste suina africana. Partita in Cina (primo produttore mondiale di questa merce) provocò una esplosione dei prezzi che trovò gli allevatori italiani impreparati a sostenere il volume di produzione richiesto, il successivo ridimensionamento del valore dei suini e le difficoltà derivate dall’ingresso della peste prima in Europa poi in Italia hanno provocato difficoltà rilevanti agli allevatori di suini, favorendo il fenomeno della soccida, ovvero la dipendenza dell’allevatore dalle grandi aziende proprietarie di animali (con il controllo genetico dei riproduttori), del mangime e del know how gestionale, che corrispondono un dato prezzo di ritiro degli animali allevati da soggetti che sono meri esecutori, con il ridotto vantaggio di conoscere a priori il valore finale degli animali allevati. Si tratta di una perdita di autonomia imprenditoriale che interessa la generalità degli allevamenti avicoli e sempre più riguarda gli allevatori di suini.

Speriamo questa lunga digressione sia servita a fornire un’idea di quali sono le reali difficoltà del settore agricolo, difficoltà per le quali potrebbero essere richiamati altri esempi, come il peso della intermediazione per i produttori di frutta e verdura, specialmente quelli che producono nel Sud e che debbono anche confrontarsi con l’aggressività di altri produttori dell’area mediterranea, che, grazie alla grande superficie territoriale, un più favorevole sistema di proprietà fondiaria e una migliore organizzazione delle strutture di distribuzione internazionale hanno occupato una parte considerevole del mercato centro europeo, penetrando anche in Italia. Si ricordi che l’importazione di prodotti agricoli dalla Spagna era oggetto degli strali degli agricoltori francesi in protesta e lassù si sono verificati anche mezzi di protesta poco commendevoli, come lo sversamento di letame sulle strade e davanti a palazzi istituzionali, con una reazione insolitamente blanda della polizia francese, solitamente molto spiccia nei modi di repressione.

A recriminazioni diverse da quelle contro le misure agroambientali non sono state date risposte concrete, al netto della retorica solidarietà lavoratori della terra espressa da ogni giornale e da ogni gruppo politico e dalla esenzione dall’IRPEG per le aziende con gettito inferiore a € 10.000, per quest’anno, poi si vedrà.

In realtà le misure di revisione della PAC uscita alla fine del 2022 erano già da tempo in discussione dalla Commissione, che, specialmente dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina, aveva provveduto a temperare le misure agroambientali, con una raffica di provvedimenti a favore delle produzioni di cereali, che, come vedremo si basavano sull’ipotesi di un blocco delle importazioni di cereali dai paesi in conflitto, mai verificatesi. Anzi le misure di sostegno dell’esportazione di mais dell’Ucraina hanno sollevato proteste da parte di agricoltori di alcuni paesi dell’Est Europa, che hanno trovato immediata sponda politica e che costituiscono parte della cosiddetta stanchezza della guerra da parte dei paesi che non la combattono. Potenza dell’economia!

A riguardo è opportuno rilevare che le proteste contro i prezzi bassi e le importazioni dall’estero di produzioni effettuate in condizioni considerate di dumping sociale o ambientale militano a favore di norme che innalzino tali standard, piuttosto che la loro rimozione. Quando le misure a favore della “economia agraria di guerra” furono avanzate questi furono tra gli argomenti avanzati dagli ambientalisti, in Italia dalla Coalizione Cambiamo Agricoltura, che così si espresse “Fermare la transizione ecologica non aiuta a risolvere la crisi dei prezzi e delle materie prime in agricoltura in parte causata dalla guerra Ucraina Russia serve anzi una sua accelerazione … Modificare le poche norme della nuova PAC favorevoli all'ambiente sarebbe un grave errore rinviando la soluzione di problemi globali come la crisi climatica, la perdita di biodiversità … La forte dipendenza della nostra agricoltura dalle energie fossili e materie prime importate dipende da una insostenibile zootecnia che sottrae terra alla produzione di cibo per le persone”. Ovviamente le richieste degli ambientalisti non furono ascoltate, anzi da quei giorni si è inanellata una progressiva tendenza ad indebolire le misure agroambientali che sembravano fino ad allora il fiore all’occhiello della Commissione Von Der Leyen. Devono essere in particolare ricordati il congelamento della Direttiva SUR riguardante la riduzione dell’uso dei pesticidi e la proroga all’uso del glifosato, il diserbante più utilizzato al mondo, per il quale vi sono forti indizi di cancerogenicità e per il quale è stato concesso l’uso per altri dieci anni, con una delle scelte più contestate A questo riguardo si cita la richiesta inviata alla Federazione Nazionale Pro Natura alla Commissione UE: “… è difficile comprendere perché a fronte di tali evidente carenze conoscitive e alle ricerche in corso il principio di precauzione non venga applicato nel caso del glifosato e il suo uso sia interrotto, almeno fino a che studi indipendenti dimostrino in modo convincente la reale assenza di tossicità del prodotto sia sull’uomo che sui componenti biotici dell’ecosistema”.

Sfortunatamente la precauzione sembra venir applicata, sia a Bruxelles che a Roma, più sulle conseguenze elettorali delle scelte politiche che su quelle sanitarie ed ambientali, così addio al SUR e al bando del glifosato, mentre consistenti aperture vengono fatte alle nuove biotecnologie, per le quali si è anche prospettato di non rendere obbligatorio in etichetta la loro presenza. Si rimanda per i particolari all’articolo dedicato su questo numero.

Nel frattempo, non le misure ambientali, ma il tritacarne del mercato libero e della progressiva riduzione dei margini di guadagno, sta erodendo il tessuto produttivo della nostra agricoltura, portando alla progressiva espulsione di aziende agricole medio piccole ed aumentando il livello di meccanizzazione, cioè di capitale investito, quindi di intensità produttiva. Il primo dato che vale la pena valutare è il numero di aziende agricole. Secondo i dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura, riportando la stessa descrizione del fenomeno fatta da ISTAT a commento della rilevazione: “A ottobre 2020 risultano attive in Italia 1.133.023 aziende agricole (Prospetto 1). Nell’arco dei 38 anni intercorsi dal 1982 – anno di riferimento del 3° Censimento dell’agricoltura, i cui dati sono comparabili con quelli del 2020 – sono scomparse quasi due aziende agricole su tre. Nel dettaglio, il numero indice del numero di aziende agricole (con base 1982 = 100), pari a 36,2, indica una flessione del 63,8%. La riduzione è stata più accentuata negli ultimi vent’anni: il numero di aziende agricole si è infatti più che dimezzato rispetto al 2000, quando era pari a quasi 2,4 milioni”. Per dare la dimensione di quanto questo fenomeno non investa soltanto aziende piccolissime si ricorda la comunicazione effettuata nel corso della fiera agrozootecnica di Codogno (LO), riguardo l’evoluzione della dimensione media degli allevamenti da latte in provincia, passata nel giro di una decina di anni da 100 a duecento capi, con un numero complessivo di capi rimasto costante. Forse quando si parla di disagio degli agricoltori questo dovrebbe essere il primo dato che deve essere riferito. È un cambiamento enorme che ha riguardato nel giro di quarant’anni un milione e mezzo, o più, di famiglie italiane, che hanno trovato non più conveniente proseguire l’attività agricola. Se per una parte del paese e per un periodo di tempo limitato questo abbia potuto significare l’avviamento a condizioni di vita migliori, non può essere questa considerata per tutti una scelta libera, ma in qualche modo costretta dal mutare delle condizioni economiche.

Secondo l’economia classica la riduzione della redditività dell’agricoltura si basa sulla scarsa elasticità dei prezzi dei prodotti agricoli; banalizzando, se uno si trova a veder migliorate le proprie condizioni economiche e di benessere (il che, secondo tale modello di pensiero, si verifica all’aumentare del reddito procapite, come ripartizione dell’accresciuta ricchezza della nazione) tende a spendere per i beni essenziali, come il cibo, una quota molto ridotto dei nuovi introiti, essendo i bisogni essenziali soddisfatti necessariamente anche a fronte di redditi più bassi. Per questo i beni voluttuari hanno la tendenza a reagire prontamente agli incrementi di reddito, mentre i beni primari ne sono penalizzati. Ne consegue che la relativa quota di ricchezza che va agli agricoltori è sempre più ridotta con la crescita economica, provocando il fenomeno della fuga dalle campagne che ha caratterizzato la storia del nostro paese dal dopoguerra.

Fin qui nulla di nuovo, solo si deve forse rilevare la differenza tra l’abbandono delle campagne nel dopoguerra, fenomeno che ha comunque generato nel nostro paese enormi scompensi sociali, economici, politici ed anche ambientali, al fallimento di imprese che hanno fatto negli anni ingenti investimenti, in parte sostenuti dalla mano pubblica, con un mercato del lavoro non facilmente pervio a persone avanti negli anni. Questo può servire a reindirizzare la ricerca del malessere degli agricoltori.

Ma l’agricoltura è tutt’altro che un fenomeno monolitico e diversi modelli, diverse agricolture, sono presenti. Anche su questa pluralità di modelli ha cercato di agire la Commissione Europea, inserendo nella strategia Farm to Fork l’obiettivo di raggiungere il 25% della superficie destinata appunto alla agricoltura biologica. Ovviamente l’agricoltura biologica ha anche un effetto positivo sull’economia delle aziende che lo adottano, l’effetto di compressione dei prezzi delle derrate agricole (l’anelasticità, assenza di elasticità dei prezzi rispetto alle variazioni del reddito percepito, di cui si è fatto cenno sopra) è molto meno marcato per i prodotti considerati di più elevato valore, fenomeno che è evidente per i prodotti tipici ed in modo più marcato per i prodotti biologici. Certamente ciò ha effetto anche sul prezzo finale al consumatore, per questo è necessario che in qualsiasi idea o progetto di un nuovo modello agroalimentare venga considerato il ruolo cruciale dei consumatori e l’importanza dell’organizzazione degli stessi come soggetti acquirenti e promotori di una migliore educazione per un consumo consapevole rispetto all’impatto dell’alimentazione e in generale dell’agricoltura sulla salute, la società e l’ambiente.

La Coalizione Cambiamo Agricoltura riconosce il ruolo dell’agricoltura biologica come esempio di applicazione efficace e di grande successo dei principi dell’agroecologia contiene al suo interno le principali associazioni di agricoltura biologica e la stessa Associazione Italiana di Agroecologia (AIDA https://www.agroecologia.eu/).

Dentro questo contesto deve essere rilevato come comunque la PAC non aiuti a le piccole aziende sul mercato. Come più volte denunciato dalla Coalizione Cambiamo Agricoltura la distribuzione delle risorse PAC (quindi dei soldi che tutti noi, attraverso le nostre tasse, versiamo per garantire un sistema agricolo efficiente, sano e rispettoso dell’ambiente) vanno per l’80% a solo il 20% delle aziende, lasciando le briciole alle altre.

In parte questa distribuzione è dovuta al principio di distribuzione per ettaro, principio più volte contestato, ad esempio dall’European Coordination Via Campesina, che fa riferimento al movimento mondiale Via Campesina, che si batte per la difesa di un’agricoltura rispettosa dei diritti dei piccoli agricoltori, delle comunità indigene e dell’ambiente, per una agricoltura basata sui principi dell’agroecologia.

L’approccio di questo movimento, rappresentato in Italia dall’Associazione Rurale Italiana, è molto diverso da quello delle altre organizzazioni dell’agricoltura tradizionale e per alcuni versi anche da quelli dell’agricoltura biologica. L’enfasi non è posta sulla necessità della produzione per il mercato, ma piuttosto la produzione è vista come elemento necessario al soddisfacimento dei bisogni della famiglia contadina, ed il ricorso al mercato è concepito in funzione di tale obiettivo. Può sembrare un approccio poco funzionale alle necessità della società attuale, con la tendenza consolidata a livello mondiale di un aumento della popolazione mondiale inurbata; ma certo nei paesi del Sud globale, stante l’attuale diseguaglianza delle supply chains, per cui il valore del lavoro di un africano vale mediamente decine, se non centinaia di volte meno di quello di un europeo, tale approccio ha certamente senso (cfr https://monthlyreview.org/2019/07/01/labor-value-commodity-chains/), ovvero: meglio un contadino autosufficiente che un contadino sradicato che alimenta il mercato della disperazione nelle favela del Sud. In Europa l’approccio de La Via Campesina è certamente meno compreso, ma comunque non privo di senso, anche da noi il bisogno di un legame più diretto con la natura si combina con la necessità di rivitalizzare i territori interni abbandonati e lasciati al degrado e a cervellotici progetti di valorizzazione turistica o magari energetica. Un esempio viene dal territorio delle Quattro Province (Alessandria, Genova, Pavia, Piacenza), dove pure è presente un movimento di protesta contro gli usi impropri, rappresentati dal turismo motociclistico sui sentieri, dalla realizzazione di improbabili impianti sciistici a basse quote, dall’installazione di impianti eolici in aree naturalisticamente sensibili, in un contesto di scomparsa del settore primario sia agricolo che selvicolturale. Contro questo modello, che potremmo definire di sottosviluppo, opera da alcuni anni conduce il coordinamento Sentieri Vivi delle quattro province – a cui partecipa la Federazione Nazionale Pro Natura – promuovendo la rivitalizzazione dei territori dell’estrema propaggine settentrionale degli Appennini.

L’esigenza è quella di liberare i territori marginali, “le terre alte”, dalla sudditanza di un modello, non solo agricolo, centrato sugli interessi delle aree forti, una volta espressione dell’economia industriale ed oggi espressione del settore terziario, quella che nelle nostre economie cosiddette avanzate rappresenta la gran parte della ricchezza prodotto: dal rapporto annuale dell’Associazione Manager Italia: “Il Terziario contribuisce in maniera preponderante all’economia di tutte le macro-regioni, come avviene in misure diverse nei paesi avanzati. I servizi producono oltre il 72% del VA totale nel Nord-Ovest e quasi l’80% nel Centro e nel Meridione” (https://www.manageritalia.it/wp-content/uploads/2024/01/osservatorio-terziario-manageritalia-report-trimestrale-febbraio-2022.pdf). 

Nelle nostra società dove si stima poco quanto non è valutabile in termini monetari le affermazioni contenute nel manifesto della branca italiana di La Via Campesina sono il segno di una diversa idea di sviluppo e di valore:

L’Associazione Rurale Italiana è a favore di politiche agricole che sostengano ed incoraggino uno sviluppo equo e solidale, secondo forme adatte ad ogni diverso ambiente rurale italiano e attraverso:

  • prezzi dei prodotti agricoli che permettano una vita dignitosa ai contadini;
  • aziende agricole centrate sul lavoro, diversificate, creatrici di impiego locale, facilmente trasmissibili;
  • difesa della terra da consumo di suolo e cementificazione;
  • accesso alla terra per chi la vuole coltivare ed in particolare per i giovani;
  • protezione e conservazione della biodiversità agricola;
  • protezione dei corsi d’acqua, delle falde di acqua sotterranea, dei boschi e dei paesaggi;
  • trasformazione e distribuzione dei prodotti aziendali in forma diretta o a mezzo di piccole imprese a carattere locale, regionale o specializzato;
  • tassazione dei fattori di produzione che causano costi sociali ed ambientali, fra cui l’uso dell’energia e di input chimici.

Idee che crediamo condivisibili dal movimento ambientalista e che suggeriscono un approccio diverso, e più accettabile, all’uso del territorio, all’alimentazione e a quella che potremmo definire come ecologia umana, non escluse le esigenze psicologiche che ognuno ha di rapportarsi in modo diretto ed armonico con i propri simili, i propri bisogni e la natura.

Tornando brevemente al tema del cambio di fronte della politica agricola comunitaria, che abbiamo visto evolvere nel corso degli ultimi anni, ben prima dell’arrivo dei trattori in strada, dobbiamo riconoscere che la prima avvisaglia del cambio di umore è stato l’avvio della guerra in Ucraina e del conseguente timore della perdita di approvvigionamento di frumento (Russia) e mais (Ucraina). In questo contesto la lettura che è stata fatta è stata del tipo: finora abbiamo potuto contare sull’arrivo di commodities dall’Est e quindi abbiamo potuto immaginare un modello di agricoltura sostenibile nei nostri paesi, fidando sulle commodities importate dall’estero, ora è evidente a tutti che dobbiamo produrci noi i nostri cereali, necessari ad evitare la fame nei nostri paesi, e questo è incompatibile con i nostri obiettivi di sostenibilità agroalimentare come immaginati nelle strategie Farm To Fork ed EUbiodiversity.

Questo modo di pensare che abbiamo visto espresso più volte negli ultimi due anni poggia su alcune premesse non scontate, che vengono accettate senza ulteriore discussione, che pure sarebbe necessario sviluppare.

La prima è che i nostri paesi corrano veramente un rischio di carestia. In realtà non è così. La produzione di cereali e alimenti destinabili direttamente all’uomo è assolutamente abbondante in Europa e permette una alimentazione abbondante.

Ecco la tabella con i dati della produzione mondiale ed UE di frumento e mais e con la variazione rispetto alle previsioni di novembre 2023 (Mt) (dal Dipartimento Usa dell’Agricoltura):

 

2022/23

2023/24

Produzione mondiale (Mt)

 

 

 

 

Frumento

789,7

0,2

783

1,0

Mais

1.157,2

0,1

1.222,1

1,3

Produzione europea (Mt)

 

 

 

 

Frumento

149,7

0,0

148,6

0,0

Mais

52,4

0,1

60,1

0,3

 

Difficile parlare di possibile carestia a fronte di produzioni così forti, specialmente se si considera che una parte consistente di questa produzione (insieme al flusso di cereali che continuano ad arrivare dai paesi in guerra ed anche da altrove) è destinata agli animali domestici, che un tempo usufruivano delle risorse residue dell’azienda agricola, provenienti dagli scarti o da colture specificamente destinate (anche e soprattutto per ragioni agronomiche) non utilizzabili per l’alimentazione dell’uomo, ed oggi competitori diretti dell’uomo nel consumo di cereali e legumi (soia). Secondo Greenpeace il 62% dei cereali coltivati in Europa sono destinati agli allevamenti e solo il 22% all’alimentazione umana, la parte restante va ad altri usi, tra cui quelli energetici.

Se consideriamo il ruolo pesantissimo degli sprechi alimentari, a cui è dedicato un articolo su questa rivista dobbiamo riconoscere che la carestia è moltissimo nel pessimo uso che facciamo del suolo e per nulla alle misure agro ambientali, solo immaginate.

La seconda premessa implicita nella descrizione che giustifica l’affossamento della PAC 2023-2027 è il ruolo centrale a livello globale dell’agricoltura basata sull’agromeccanica e l’agrochimica, svolta su grandi superfici e con forti input di capitale. Non è così.

Una recente e fortemente contestata valutazione della FAO sul ruolo dell’agricoltura contadina (family farms and small farm) rispetto all’agribusiness, riduce il ruolo svolto dalle piccole aziende rispetto all’agribusiness, tuttavia le considerazioni svolte sono interessanti, dall’abstract: “numerosi tentativi sono stati fatti per stimare la quota degli alimenti prodotti da aziende agricoli familiari di differenti dimensioni. Lo studio aggiorna le stime del numero mondiale di aziende, la loro distribuzione …. Risulta che nel mondo ci sono 608 milioni di aziende agricole, più del 90% sono a conduzione familiare e occupano il 70/80% del suolo agricolo, producendo all’incirca l’80% del cibo espresso in termini di valore … Le piccole aziende [quelle con meno di 2 ettari] operano solo sul 12% della terra agricola, ma danno conto del 35% del cibo prodotto al mondo (ben al di sotto dell’80% prodotto dalle aziende familiari). (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0305750X2100067X).

Al netto delle polemiche sollevate per il disconoscimento del ruolo delle piccole aziende, ammesso e non concesso che la distribuzione per classi di superfici sia la più adeguata per dar conto del fenomeno studiato (vedi https://rewriters.it/fao-agricoltura-contadina-o-agrobusiness-2-studi-in-contraddizione/) emerge comunque che il ruolo delle piccole aziende in termini di produzione di cibo è assai più rilevante dell’area e delle risorse utilizzate, questo può suggerire che in un’epoca di incertezza degli approvvigionamenti alimentari ci possiamo fidare proporzionalmente più dei piccoli coltivatori ad alta intensità di lavoro che dell’agribusiness ad alta intensità di capitale. Il fenomeno ricorda il famoso adagio di Richard Levins, secondo cui l’agricoltura produce burro di arachidi dal petrolio, mentre coltivare è ottenere le arachidi da quelle che abbiamo seminato.

L’esempio è particolarmente calzante alla situazione che si era creata nell’estate del 2022, durante la campagna maidicola in pianura padana, la prevalente preoccupazione degli allevatori era rivolta al costo del mais, la principale fonte energetica per gli animali stabulati, mentre i coltivatori di mais erano affranti per il costo dei concimi a base di azoto, in particolare l’urea. Prodotta a partire da fonti fossili attraverso il sistema Haber Bosch, aveva un prezzo collegato a quello del metano (che raggiunse € 110/q, 440/ha mais, inoltre le principali aziende di produzione si trovavano in Russia, per evitare il trasferimento del gas e limitarlo al solo prodotto finito) il risultato è stato per alcune aziende pesantissimo, anche per il destino disastroso del raccolto di quell’anno, colpito dalla siccità, guarda a caso attribuibile anch’essa all’abuso di combustibili fossili e all’eccessivo sviluppo di allevamenti intensivi.

La morale dovrebbe essere ovvia, ma naturalmente è stata completamente ribaltata da una retorica, rispetto alla quale non vi è stata alcuna possibilità di interlocuzione.

Per concludere il percorso avviato con la domanda: perché l’Unione Europea è stata così pronta ad accedere ad alcune richieste di alcuni agricoltori, certo ben motorizzati, ma neppure troppo numerosi, mentre si è mantenuta sorda rispetto ad altre richieste, in primo luogo quelle che riguardavano il sostegno dei prezzi agricoli, crediamo sia opportuno dare un’occhiata allo schema che illustra i nove obiettivi della politica agricola europea.

Evidentemente noi abbiamo nostalgia del mito della tavola rotonda e i nove obiettivi sono stati messi in circolo, a suggerire nessuna scelta di priorità, ma evidentemente le priorità ci sono e i risultati sono evidenti. Consideriamo la scarsa considerazione che ha avuto la tutela dell’ambiente e le azioni per il cambiamento climatico, letteralmente valutate meno di un carro di letame sparso per strada a Parigi o Bruxelles. Ma considerazione non molto maggiore ha riguardato il destino del reddito degli agricoltori, che nel corso degli anni hanno lasciato le campagne, per un futuro non sempre certo e migliore: alcuni agricoltori con cui ho avuto modo di confrontarmi sostengono di continuare a lavorare con nessuna remunerazione degli investimenti e redditi non molto elevati perché le prospettive esterne non sono buone, altri si sono rassegnati alla conduzione part time delle loro aziende anche a fronte di superfici ben superiori ai due ettari indicati come “small farm” dallo studio commissionato dalla FAO e sopra citato. Su altri obiettivi come la difesa del paesaggio è meglio sorvolare per carità di Patria e di UE.

Il dubbio è che l’unico obiettivo veramente perseguito della tavola rotonda sia l’aumento della competitività, ovvero l’aumento delle dimensioni aziendali e l’uso di tecnologie ed input sempre più costosi e alla portata di un numero sempre più ridotto delle aziende. Il sospetto che questo si trasformi in sostegno alle aziende (agromeccaniche e agrochimiche) che vendono input agli agricoltori non sembra di particolare interesse. Il sostegno attraverso la PAC ed il PNRR va per l’acquisto di macchine sempre più potenti che certo assicurano un miglior utilizzo di concimi e fitofarmaci, senza però mettere in discussione l’impianto di un sistema che è evidentemente in crisi.

Basterà? Aldilà di considerazioni sull’ambiente e la salute, qualche dubbio comunque è presente.

Le nuove tecnologie, quelle dell’agricoltura 4.0 basate sull’agricoltura di precisione, l’uso di droni e di informazioni satellitari richiedono superfici aziendali molto più vaste di quelle pure considerevoli presenti nella pianura padana, per non parlare del resto del paese. Vogliamo davvero che l’agricoltura italiana diventi trasformatore di commodities prodotte altrove? Da qualche parte siamo già su questa strada.

I 9 Obiettivi della PAC 

 

La regione più sfortunata: la Lombardia

Un maiale su due viene allevato in Lombardia, un litro di latte di vacca su due viene prodotto in Lombardia, la Lombardia alleva il 18% degli avicoli (contro il 31% del Veneto, mentre tutte le altre regioni vengono dopo).Questa ingente produzione zootecnica, questa enorme massa produttiva, viene svolta su una base territoriale relativamente esigua, meno di 24.000 km2, in parte sottratti all’uso agricolo, o forestale, o alla loro naturale evoluzione dall’ingente consumo di suolo, citando la fonte principale di questi dati: “Secondo i dati elaborati da AVEPA 2021 sui dati ISPRA, in Lombardia il tasso di impermeabilizzazione del suolo è tra i più alti d’Italia. Nel 2021 circa 2.894 km2 di suolo regionale sono stati ricoperti da cemento, che rappresenta il 13,5% del consumo totale di suolo nazionale (21.485,1 km2)”. Da “L”agricoltura nella Lombardia in cifre, 2023 CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria) (https://www.crea.gov.it/documents/68457/0/Lombardia_Cifre_2023_WEB.pdf/81a59f01-044c-f88f-ecbc-75c14f42144d?t=1684924780263).

Bisogna poi considerare che una parte consistente del territorio regionale è costituito da montagne e che oltre alla zootecnia vi sono le aree destinate a colture non collegabili alla zootecnia. Complessivamente, comunque, i risultati economici del sistema agricolo lombardo sono impressionanti, continuando a citare CREA: “Nel 2021 il valore della produzione dell’aggregato Agricoltura, silvicoltura e pesca in Lombardia è pari a 3.852 milioni di euro a prezzi correnti e 3.513 milioni di euro a valori concatenati (anno base 2015). Esso risulta in leggero aumento rispetto all’anno precedente (+1,6%) e rappresenta l’1,1% del totale delle attività economiche regionali. A livello nazionale l’agricoltura regionale ha un peso rilevante, posizionandosi al primo posto nella graduatoria delle regioni italiane, seguita da Sicilia, Emilia-Romagna e Puglia. Il Valore Aggiunto (VA) regionale dell’aggregato in esame rappresenta il 22,6% del totale nazionale”.

Tutto questo accade in una Regione dove vive più del 15% della popolazione nazionale, e che riveste un ruolo preminente anche in campo industriale e dei servizi.

Questa ingente massa di produzione zootecnica viene realizzata solo grazie a imponenti importazioni di cereali, soprattutto mais e soia, destinati rispettivamente a coprire i fabbisogni energetici e proteici degli animali allevati negli allevamenti intensivi.

Già da decenni l’Italia, e in particolare la Lombardia, sono completamente dipendenti dalle importazioni di soia dall’estero, in particolare dal Sud America. I dati dell’Annuario 2023 Assalzoo indicano imponenti quantità di farine di estrazione utilizzabili a scopi energetici importate come tali oppure prodotte da semi importati, all’incirca quattro milioni di tonnellate (https://www.assalzoo.it/pubblicazioni/annuario). quello che è successo negli ultimi anni è stata la progressiva riduzione del tasso di approvvigionamento del mais, un tempo vanto dell’agricoltura lombarda. Ogni anno a gennaio, presso la sede CREA di Stezzano (BG), si svolge la giornata del mais, nel corso della quale vengono presentati i risultati delle prove di produttività eseguite dall’ente pubblico sulle nuove varietà presentate dalle ditte sementiere e il quadro generale del settore. Quest’anno l’evento era particolarmente atteso: si arrivava da una stagione con un andamento climatico non troppo negativo e ci si aspettava un risultato favorevole che ribaltasse gli umori negativi della passata edizione, quella susseguente alla siccità del 2022, “l’annus horribilis”, quando a gennaio non fu possibile presentare i dati delle prove varietali di Stezzano perché l’eccesso di calore aveva ucciso il mais nelle parcelle sperimentali, pure irrigate, come era successo in vaste plaghe della Regione di tutta la pianura padano-veneta. Nonostante la pioggia le cose non sono andate meglio: se le produzioni sono andate bene, non così è stato per le superfici seminate. Il mais quest’anno ha prodotto su meno di 500.000 ha su scala nazionale, di cui solo 116.000 ha in Lombardia, contro i 214.000 ha della media 2012-2014, anche se la resa per ettaro è stata altissima 12,7 t/ha, il risultato è stato insufficiente a superare (qui il dato è ancora nazionale) il 40% del tasso di autoapprovvigionamento (in realtà il dato presentato era lievemente superiore, ma come ha specificato il relatore bisogna tener conto degli usi non mangimistici del mais).

Lo stesso relatore (prof. Dario Frisio Unimi relazione alla giornata del mais 2024 (https://www.crea.gov.it/web/cerealicoltura-e-colture-industriali/pubblicazioni-istituzionali-e-schede-tecniche) ha fornito una sintesi efficace della situazione dell’allevamento intensivo che fidava sulla produzione del mais: nel 2022 (anno solare) l’import mais e soia ha superato quattro miliardi di euro, cioè pari al 138 % del valore dell’export di formaggi e prosciutti salumi DOP/IGP/STG, al 92% dell’intero export di alimenti tipici e al 56% del valore alla produzione prodotti tipici di origine zootecnica.

Le soluzioni proposte a questa situazione, che riguarda certamente tutto il paese, ma è particolarmente grave per la Regione a maggior concentrazione zootecnica, è parsa a chi scrive straordinariamente poco incisiva, ci si è limitati ad auspicare l’intervento delle nuove biotecnologie e un generico invito all’innovazione tecnologica, pur riconoscendo che le innovazioni più pesanti ed efficaci erano improponibili data la ridotta dimensione aziendale delle aziende in Lombardia e tanto più in Italia.

Questo dovrebbe bastare per dubitare della sostenibilità economica del settore, senza una profonda trasformazione che ne modifichi i presupposti, se poi andiamo a considerare l’impatto ambientale si va a sparare sulla croce rossa.

Un giustificato allarme è stato sollevato dalla mobilitazione dei cittadini e dalla stampa locale riguardo la diffusione degli impianti di produzione del biogas e del biodiesel nelle aree della bassa pianura, dove maggiore è la concentrazione di allevamenti suini e bovini da latte e la produzione di mais. Sembra in effetti contraddittorio destinare il mais a usi diversi da quelli necessari al settore strettamente agricolo, vista la situazione sopra descritta e considerato anche l’elevato costo energetico della produzione di mais, pure tale pratica è tanto diffusa da rappresentare alcuni punti percentuali della destinazione delle superfici maidicole. Le proteste riguardano l’aumento del traffico anche all’interno dei paesi e la produzione di particolato sottile.

Del resto il particolato sottile è prodotto anche da attività agricola e zootecnica, tanto che tra le province lombarde con il maggior grado di inquinamento di questa natura vi sono quelle meridionali, in particolare Lodi e Cremona. Ma questo non ha trattenuto il governo Regionale lombardo dal richiedere alla UE una proroga decennale all’adeguamento dei livelli di concentrazione delle polveri sottili ai limiti stabiliti da OCSE, proroga ottenuta. Il Corriere Della Sera scrive di “vittoria” tra virgolette, infatti è una bizzarra vittoria quella che ci permetterà di respirare aria più inquinata per garantire che traffico, industrie, riscaldamento e sistema agrozootecnico continuino a imperversare liberamente.

Certo devono essere riconosciuti progressi nell’evoluzione dell’agricoltura, in particolare di quella lombarda. Sono nato in un paese dove all’inizio del secolo scorso, mentre lungo l’Adda sorgevano gli impianti idroelettrici che illuminavano Milano e davano energia alle prime industrie, i contadini si ammalavano di pellagra perché mangiavano solo polenta e l’indigenza provocava lutti specialmente per le persone più fragili. Entrambi i miei nonni paterni sono rimasti orfani di madre in età infantile. Ma le tristi condizioni del passato non ci possono esimere dal criticare le deplorevoli situazioni del presente. Il sistema agricolo soddisfa certamente gli interessi di gruppi industriali che forniscono input e trasformano i prodotti dell’agricoltura, ma come cittadini dobbiamo esprimere con forza insoddisfazione e richiesta di cambiare un sistema che minaccia la salute e compromette l’ambiente. Ci sono alternative praticabili e solo una preclusione ideologica e retriva impedisce di riconoscerne il valore e l’importanza.  Alimentarsi è certamente la pratica più rischiosa per ogni essere vivente, ma se c’è un futuro nell’umanità è nell’agroecologia.

La salvezza del pianeta e l’umana alimentazione vegana

Roberto Piana

Ho rinunciato alla carne nella mia alimentazione nel lontano 1983 e qualche anno dopo anche ai derivati animali. Sono consapevole che le scelte alimentari di ciascuno non possano essere imposte per legge e che queste afferiscano alla sfera individuale di ciascuno. Siamo tutti imperfetti e soggetti ad errori tuttavia credo che la coerenza nelle scelte individuali sia un valore.

La mia scelta vegana fu motivata essenzialmente da considerazioni etiche. La sofferenza inflitta agli altri animali dalla specie umana negli allevamenti industriali, nei laboratori di ricerca, negli zoo, nei circhi, con la caccia e in generale con lo sfruttamento degli animali costituisce per me una violenza insopportabile ed una negazione di diritti.

L’aggressività umana verso le altre specie viventi e senzienti si accompagna d’altra parte con l’aggressività tra gli stessi esseri umani. L’ingiusta distribuzione delle ricchezze, delle risorse del pianeta, delle opportunità di emancipazione e di affrancamento dalla povertà, le guerre che affliggono molte parti del globo, ne sono evidente testimonianza.

Negli anni successivi ricerche e studi scientifici hanno confermato, anche sul piano scientifico, la giustezza della mia scelta alimentare vegana.

Le scelte di vita di ciascuno e i modelli di sviluppo della nostra società influiscono sull’ambiente naturale. Uno dei fattori maggiormente significativi per quanto riguarda l’impatto ambientale sul pianeta è rappresentato dall’umana alimentazione. I prodotti animali come carne, pesce, uova sono fra le cause maggiori dello spreco di risorse e inquinamento. Gli animali utilizzati per fini alimentari consumano più calorie, ricavate dai mangimi vegetali, di quelle che producono sotto forma di carne o prodotti derivati.

Lo spreco energetico dell’alimentazione con prodotti animali è ormai un dato incontrovertibile, affermato da tutti gli studi scientifici. L’energia acquisita dai vegetali è utilizzata dal consumatore primario (l’erbivoro) per il proprio accrescimento e la propria esistenza e solo una parte è messa a disposizione del consumatore  secondario (il carnivoro). Lo spreco di acqua causata dagli allevamenti, risorsa di cui dovremmo avere gran cura, si accompagna al consumo di suolo e alla produzione di gas serra.  L’impatto degli allevamenti si riverbera anche sulle foreste che vengono abbattute non tanto per ottenere legname, ma soprattutto per ottenere pascoli per bovini e aree coltivabili, in cui produrre alimenti, che poi verranno esportati nei paesi come il nostro, da impiegare negli allevamenti industriali.

Sono molti gli studi scientifici che sostengono il minor impatto ambientale della scelta alimentare vegana rispetto a quella con prodotti di origine animale.

Invito tra questi a leggere  “Il costo nascosto del consumo di carne in Italia: impatti ambientali e sanitari” realizzato da Demetra Società Cooperativa Sociale onlus in collaborazione con la LAV visionabile sul sito https://www.demetra.net/.

Sono, come tanti, sostenitore della “Nature Restoration Law europea, proposta di legge che mira a ripristinare entro il 2030 il 20% delle aree terrestri e marine degradate per fermare la perdita di biodiversità e contrastare la crisi climatica. La legge, ove approvata, imporrebbe obiettivi vincolanti per gli stati membri attraverso un Regolamento comunitario pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE. Questa legge europea sul ripristino degli habitat naturali è sostenuta dalle associazioni ambientaliste di tutta Europa ed incontra l’opposizione delle organizzazioni degli allevatori e degli agricoltori.  C’è da augurarsi che la legge europea per il ripristino della natura possa essere approvata, possibilmente senza le sostanziali attenuazioni che sono state proposte che ne sminuirebbero di molto la portata. Sarebbe un grosso passo avanti. La crescita della diffusione dell’alimentazione vegana nella popolazione europea certamente potrà aiutare questo processo di recupero alla naturalità di immense superfici oggi destinate alla coltivazione di mais e foraggio destinati agli allevamenti industriali.

Siamo quello che mangiamo

Riccardo Graziano

Siamo quello che mangiamo. Un assunto della saggezza popolare che un tempo si riferiva sostanzialmente al nostro fisico e al nostro aspetto, ma che oggi va ben oltre. Perché oggi siamo otto miliardi di individui e produciamo cibo per dodici miliardi di persone, ma lo facciamo con sistemi che impattano sulla salute nostra e del pianeta e, nonostante ciò, lasciamo ancora quasi un miliardo di persone nell’insicurezza alimentare, a volte letteralmente a morire di fame, mentre contemporaneamente sprechiamo più di un terzo del cibo prodotto [come spieghiamo in un altro articolo].
Oggi la produzione di cibo incide su molteplici aspetti sociali, economici, ambientali, persino geostrategici, che sarebbe troppo lungo e complesso analizzare nel dettaglio, ma sui quali occorre fare qualche riflessione. E allora partiamo dall’inizio…

Da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori
Qualche migliaio di anni fa, il genere Homo era composto da tribù di cosiddetti cacciatori-raccoglitori, individui che si limitavano a sfruttare le risorse offerte naturalmente dal pianeta, come qualunque altro animale, solo in modo leggermente più efficiente. Attualmente pochissime comunità sperdute vivono ancora in maniera simile, ma l’incontro (più spesso lo scontro) con la “civiltà” le sta inesorabilmente cancellando. Oggi come allora questi individui sono perfettamente inseriti nel loro habitat e le ricerche ci dicono che, nella preistoria, grazie alla loro dieta, erano persino più sani di noi. Bella forza! Erano sottoposti a una selezione naturale feroce che permetteva la sopravvivenza solo dei più forti, i quali comunque ben di rado arrivavano ai quarant’anni…
Ecco perché, quando i Sapiens iniziarono a capire che i semi dei loro cibi potevano germinare più comodamente nei dintorni del villaggio invece che in mezzo alle foreste e che gli animali era più comodo tenerli in un recinto invece che inseguirli nella savana, ci misero poco a cambiare abitudini e a diventare coltivatori-allevatori.
Da quel momento, l’Uomo inizia a plasmare l’ambiente secondo le sue esigenze e a capire un po’ per volta che non è destinato a subire passivamente le leggi della Natura. Tuttavia, ancora fino agli albori dell’epoca industriale, il rapporto si mantiene relativamente in equilibrio e, per quanto riguarda lo stretto ambito della produzione del cibo, le cose rimangono tali praticamente fino al secondo dopoguerra. Ovvero, mentre in altri ambiti (meccanico, tessile, chimico) i processi industriali soppiantavano le lavorazioni artigianali, in campo agricolo si restava grossomodo legati a quelli che erano i ritmi della terra e delle stagioni, anche se non mancavano grossi interventi quali canalizzazioni o bonifiche. Ma dalla seconda metà del novecento le cose iniziano a cambiare radicalmente, e l’approccio industriale, produttivista, estrattivista e consumista contagia anche l’agricoltura.

L’agricoltura industriale
Oggi, lo stravolgimento è diventato quasi totale. La cosiddetta agricoltura “tradizionale” in realtà non ha più nulla della tradizione conservata pressoché intatta fino all’epoca dei nostri nonni o genitori. Attualmente, abbiamo una situazione dominata dall’agribusiness, un sistema economico e industriale che porta avanti la produzione di cibo con le stesse logiche delle catene di montaggio e della “estrazione di valore” a discapito della classe lavoratrice, in questo caso soprattutto i piccoli agricoltori, stritolati fra l’incudine e il martello, ovvero fra le multinazionali che controllano le forniture di sementi e fitofarmaci e la Grande Distribuzione che impone i prezzi di “mercato”.
È questo il vero problema che affligge i contadini, le cui legittime proteste vengono indirizzate ad arte contro la transizione ecologica, la quale al contrario va attuata il più rapidamente possibile proprio per evitare ulteriori peggioramenti in campo agricolo. I contadini, infatti, sono coloro che per primi e più di altri stanno cominciando a vivere sulla propria pelle i danni dovuti al riscaldamento globale e ai mutamente climatici, quindi più di chiunque altro avrebbero interesse a praticare e sostenere la riconversione ecologica globale, a partire dal loro stesso settore.
L’agricoltura è in effetti parte rilevante del problema, perché il sistema di produzione del cibo nel suo complesso – coltivazione, allevamento, trasformazione, logistica e consumo - èresponsabile del 35% delle emissioni di gas serra e del 15% dei combustibili fossili bruciati, oltre che della dispersione di numerosi inquinanti, a partire dall’ammoniaca prodotta dagli allevamenti intensivi.

L’agroecologia
Ma l’agricoltura è anche parte della soluzione, se si attua una riconversione necessaria, urgente e in prospettiva conveniente anche sotto il profilo economico, purché gli agricoltori vengano adeguatamente supportati nella delicata e non facile fase di transizione dall’attuale modello industriale all’agroecologia, non dissimile dall’approccio tradizionale e rispettoso della natura dei nostri avi, ma supportato dalla moderna tecnologia, in grado di alleviare non poco il peso di un mestiere comunque impegnativo.
Soprattutto, però, l’agroecologia è molto più di un insieme di pratiche agricole maggiormente ecocompatibili: è una visione olistica del rapporto con la Terra che include e integra giustizia climatica e sociale, mettendo sullo stesso piano la produzione di cibo con la sfida al cambiamento climatico, con la sicurezza alimentare, con la salvaguardia della biodiversità e con la tutela della salute dell’Uomo e dell’ambiente.
Non a caso, questo approccio è sostenuto dalla FAO, l’emanazione dell’ONU che si occupa di agricoltura, e dall’IPCC, l’ente delle Nazioni Unite che monitora i cambiamenti climatici e che considera l’agroecologia come una delle soluzioni da applicare per mitigare le conseguenze dei mutamenti climatici in atto.
In pratica, si tratta di tornare a coltivare la terra con sistemi più rispettosi della natura, eliminando l’eccesso di chimica che avvelena e impoverisce i suoli, ripristinando la loro naturale fertilità con periodi di riposo o coltivazioni mirate, lasciando anche spazi destinati alla rinaturalizzazione spontanea, oasi destinate a salvaguardare una biodiversità a sua volta utile e necessaria per l’agricoltura, a cominciare dagli insetti impollinatori, tanto fondamentali per la riproduzione dei vegetali, quanto in pericolo per l’abuso di pesticidi.
Per realizzare questo cambio di paradigma, occorrono fondamentalmente tre cose: suolo libero, sostegno economico e consumo consapevole. Senza entrare troppo nel dettaglio, perché sarebbe troppo lungo e complesso, analizziamo brevemente questi tre aspetti.

Suolo libero
Può sembrare banale ricordarlo, ma per coltivare occorre avere del suolo a disposizione. Qualcosa di apparentemente scontato, ma che sembriamo aver dimenticato. Infatti, negli ultimi anni il consumo di suolo è proseguito senza sosta, con migliaia di ettari di terreno fertile seppelliti da colate di cemento e asfalto. Secondo i dati dell’ISPRA, nel 2022 la cementificazione è avanzata al ritmo insostenibile di 2,4 metri quadrati al secondo, divorando 77 km2 di territorio, oltre il 10% in più rispetto al 2021. La cancellazione di spazi verdi rende le città progressivamente più calde e invivibili, mentre si continua a costruire anche nelle zone a rischio idrogeologico, dove sono stati impermeabilizzati 900 ettari in aree considerate a pericolosità idraulica media. Nello specifico delle aree agricole, sono stati cancellati 4.500 ettari, che sarebbero stati in grado di assorbire 2 milioni di tonnellate di anidride carbonica e di produrre 400.000 tonnellate di cibo che ora dovremo importare, alla faccia della “sovranità alimentare”. In termini di servizi ecosistemici, la cancellazione di una tale superficie significa una perdita di 9 miliardi di euro ogni anno, cifre che andrebbero tenute in conto quando si prende in esame il rapporto costi/benefici delle nuove edificazioni, ma che tuttavia non vengono mai conteggiate in nessuna analisi finanziaria.
Occorre sottolineare che un suolo impermeabilizzato è perso per sempre, perché anche se un domani si decidesse di rimuovere cemento e asfalto, passerebbero comunque secoli prima che possa tornare fertile.
Se a questo aggiungiamo il problema della desertificazione, il quadro diventa doppiamente allarmante. A fianco di una desertificazione “naturale” provocata da fenomeni sempre più frequenti di siccità prolungata, effetto dei cambiamenti climatici, abbiamo quella che viene definita “desertificazione da agricoltura industriale”. È il fenomeno dell’impoverimento dei terreni sovrasfruttati dalle monocolture intensive, che richiedono quantità crescenti di fertilizzanti e pesticidi chimici. La somma di questi fattori comporta che, ad oggi, il 70% dei suoli coltivabili europei venga considerato compromesso in termini di fertilità e produttività.

Sostegno economico
I numeri ci dicono che l’agricoltura europea gode di finanziamenti rilevanti. Ma le semplici cifre non dicono che l’80% di questi finanziamenti finisce al 20% dei produttori, quelli più grandi e che applicano alle loro produzioni un approccio industriale, sia nell’agricoltura, sia nell’allevamento. Ai “piccoli” arrivano le briciole di questa pioggia di milioni di euro, il che non consente loro di pianificare con serenità la transizione verso l’agricoltura biologica. Per ovviare a questa sperequazione occorrerebbe riformare la PAC, la politica agricola comunitaria, indirizzando i sussidi verso i piccoli produttori, le produzioni biologiche e la riconversione ecologica, smettendo di finanziare monocolture e allevamenti intensivi. In questa prospettiva, diventano cruciali le prossime elezioni europee, tramite le quali il Parlamento dell’UE potrebbe essere ridisegnato in modo da virare decisamente verso la transizione, oppure all’opposto ripiombare nel negazionismo climatico, nell’economia fossile e nel sostegno incondizionato all’attuale sistema agroindustriale dominato dalle multinazionali della chimica e della grande distribuzione.
Una scelta nelle mani degli elettori. Ma c‘è anche un altro modo con il quale i cittadini possono indirizzare i destini dell’agricoltura.

Consumo consapevole
I cittadini sono anche consumatori. E a seconda di come indirizzano i propri consumi, possono orientare il “mercato”, anche quello ortofrutticolo. E di conseguenza possono influire sulle strategie di produzione del cibo che, come si è detto, hanno un peso rilevante sul riscaldamento globale e sui cambiamenti climatici. Su questo, la politica è purtroppo sostanzialmente assente, visto che le strategie alimentari rientrano nei piani climatici solo del 30% dei Paesi. In attesa che i governi si sveglino, possiamo cominciare a decidere noi, spostando i nostri consumi sulle produzioni locali, biologiche e di qualità. Magari cercando – per quanto possibile - di accorciare la filiera, andando a comprare direttamente dai piccoli  produttori. Oppure diminuendo il consumo di carne e scegliendo quella di qualità, certificata da allevatori attenti al benessere animale ed evitando – sempre per quanto possibile – i prodotti provenienti da allevamenti intensivi. Piccoli accorgimenti, limitate variazioni delle nostre abitudini, possono influire più di quanto pensiamo sulla macchina della produzione e distribuzione del cibo indirizzandola verso l'agroecologia. Secondo Barbara Nappini, presidente di Slow Food Italia «Questo non solo proteggerebbe il pianeta, ma aiuterebbe anche ad affrontare le radici della fame, a creare posti di lavoro, a migliorare la salute e a proteggere la biodiversità, in definitiva a costruire una prospettiva futura di pace e bellezza». Mentre l'Ipcc afferma che l'agroecologia può migliorare la resilienza agli effetti del cambiamento climatico e che il passaggio a diete equilibrate e sostenibili può aiutare a combattere il cambiamento climatico stesso. In pratica, se scegliamo di mangiare in maniera sana, tuteliamo allo stesso tempo la nostra salute e quella del pianeta. Dipende solo da noi.
Siamo quello che mangiamo, appunto.

La vigilanza volontaria ambientale e zoofila

Roberto Piana

Occupandomi da molti anni della vigilanza volontaria, mi vengono spesso richieste informazioni relative a questo argomento da parte di cittadini interessati a impegnarsi in prima persona per tutelare questo o quell’oggetto meritevole di maggiori cure. All’origine dell’interesse vi è, quasi sempre, quel profondo senso della legalità che non trova nella vita quotidiana la piena applicazione. A volte le leggi e le regole ci sono, ma le pubbliche istituzioni non riescono a farle rispettare, con grande rabbia da parte di chi vorrebbe credere nello Stato. Il legislatore italiano produce una gran quantità di norme spesso tra loro contrastanti, di dubbia interpretazione o di difficile applicazione. Sono convinto sia meglio non approvare una legge per la quale lo Stato non preveda adeguati strumenti applicativi. Gli esempi di leggi inapplicate sono innumerevoli. Dal 2 febbraio 2016 la legge n. 221/2015, il cosiddetto “Collegato ambientale”, ha vietato di buttare a terra rifiuti di piccola taglia con sanzione prevista da 30,00 a 150,00 euro, con la possibilità del pagamento in misura ridotta di 50,00 euro entro 60 giorni. La stessa legge prevede inoltre che per i mozziconi di sigaretta la sanzione sia fino al doppio (fino a 300,00 euro), ma il pagamento in misura ridotta non sia possibile. L’agente accertatore dovrà limitarsi ad accertare la violazione demandando poi all’amministrazione competente (la provincia o la città metropolitana) la determinazione dell’importo della sanzione con l’aggravio dell’emissione dell’ordinanza-ingiunzione da notificare al trasgressore. Il complicato iter di applicazione della norma ha scoraggiato l’accertamento e non ha nemmeno inciso sui comportamenti dei fumatori. Il desiderio del volontario di “sostituirsi” o di “affiancare” il soggetto pubblico preposto a fare rispettare le norme di legge spesso si scontra con la “malaburocrazia” e non poche volte anche contro le pubbliche amministrazioni ostili alla vigilanza volontaria.

Vi sono poi coloro che percorrono la lunga strada di formazione per diventare un vigilantevolontario” solo per “sentirsi qualcuno”, indossando una divisa da portare a spasso o una pistola da esibire al fianco per “sentirsi forti”. Una categoria questa dalla quale ho sempre preso le distanze. Il servizio di vigilanza volontaria di un’associazione nulla ha (o dovrebbe avere) di retaggio o imitazione del servizio militare. Per fortuna le prefetture rilasciano sempre meno porti d’arma alle guardie volontarie e la maggior parte delle associazioni vieta nei propri regolamenti il porto dell’arma durante i servizi di vigilanza. La nomina a guardia volontaria prevede corsi di formazione impegnativi e, soprattutto, doti di equilibrio e capacità di rapporto con i cittadini che non sono da tutti. Il controllo dell’emotività, oltre alle conoscenze specifiche, è requisito essenziale. Contestare a qualcuno un comportamento illecito richiede, sotto il profilo etico e professionale, il personale coscienzioso rispetto delle norme che si vorrebbero vedere rispettate dagli altri. Le figure e gli ambiti di intervento della vigilanza volontaria sono diversi, a volte tra loro sovrapponibili, e i poteri attribuiti non sempre incontrano unanime giurisprudenza e riconoscimento. Trattandosi di vigilanza volontaria non può essere prevista alcuna forma di retribuzione. Le associazioni possono fornire strumenti, mezzi o rimborsi per le spese sostenute, tuttavia molto dipende dalle disponibilità economiche dell’associazione che li gestisce. Nella gran parte dei casi le guardie volontarie, oltre a dedicarsi a questa attività nel tempo libero, si fanno interamente carico delle spese che sostengono. Il panorama della vigilanza volontaria è molto ampio. Riportiamo a seguire le figure più note e diffuse. L’art. 138 del R.D. n. 773/1931 – Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (T.U.L.P.S.) – fissa i requisiti che devono avere tutte le guardie giurate:

1) essere cittadino italiano o di uno Stato membro dell’Unione europea;

2) avere raggiunto la maggiore età e avere adempiuto agli obblighi di leva;

3) sapere leggere e scrivere;

4) non avere riportato condanna per delitto;

5) essere persona di buona condotta morale;

6) essere munito della carta di identità;

7) essere iscritto alla cassa nazionale delle assicurazioni sociali e a quella degli infortuni sul lavoro.

Guardie Venatorie Volontarie (GVV)
Un tempo appannaggio delle sole associazioni venatorie (il controllato che si controlla) le GVV vennero successivamente istituite anche dalle associazioni di protezione ambientale che erano riconosciute con D.P.R. quale ente morale e successivamente, a partire dal 1986, anche da quelle in possesso del riconoscimento del Ministero dell’ambiente.
Oggi è l’art. 27 della L. 157/1992 che regolamenta l’assetto delle GVV, la cui gestione è affidata alle associazioni di protezione ambientale riconosciute dal Ministero dell’ambiente con il coordinamento delle province. Le associazioni possono organizzare corsi di formazione secondo le disposizioni regionali. Alle GVV è affidato in via prioritaria il controllo dell’attività venatoria. Hanno la possibilità di vigilare anche su altre norme a carattere ambientale secondo le disposizioni regionali che possono essere anche molto diverse da regione a regione. Qualora superi l’esame del corso di formazione il volontario, quale guardia giurata, prima di essere messo in servizio, giura fedeltà alla Repubblica davanti al sindaco di residenza. Poiché tra le norme sulla caccia da far rispettare vi sono anche norme che prevedono sanzioni penali, parrebbe implicito che alle GVV siano attribuite le funzioni di polizia giudiziaria (P.G.). La P.G. dipende dall’autorità giudiziaria, è deputata a interrompere i reati, ricercare e assicurare le fonti di prova. La sentenza n. 6454/06 della Corte di cassazione aveva riconosciuto queste funzioni in capo alle GVV. Oggi invece la giurisprudenza tende a non riconoscerle. L’opera delle GVV negli anni ha permesso di far emergere e contrastare il bracconaggio in danno delle specie particolarmente protette, in gran parte uccelli. La cattura illegale dei passeriformi, in gran parte pettirossi (ma anche peppole, fringuelli, verdoni, frosoni), con i famigerati “archetti” diffusi nelle valli bresciane, è stata drasticamente ridotta grazie soprattutto alla dedizione delle guardie volontarie. L’utilizzo dei richiami vivi da parte dei cacciatori d’appostamento, pratica purtroppo ancora oggi legale e diffusa in alcune regioni, impegna non poco i volontari nel controllo degli anelli di riconoscimento degli uccelli da richiamo, spesso manomessi per l’illecita sostituzione di un esemplare deceduto.

Guardie Zoofile Volontarie (GGZZ)
L’origine delle guardie zoofile risale al lontano 1871 quando l’ENPA (ente nazionale protezione animali) era ente di diritto pubblico. Con il D.P.R. 31 marzo 1979 l’ENPA perse la personalità giuridica di diritto pubblico e le GGZZ persero la qualifica di pubblica sicurezza mantenendo, come guardie volontarie, competenze relative alla “prevenzione e repressione delle infrazioni e dei regolamenti generali e locali, relativi alla protezione degli animali e alla difesa del patrimonio zootecnico”. Sono nominate dal prefetto e giurano davanti a un funzionario della prefettura.
Possono ottenere l’istituzione di un servizio di vigilanza zoofila le associazioni riconosciute dal Ministero dell’ambiente o dal Ministero della salute. L’art. 6 della L. 189/2004 riconosce in maniera esplicita alle GGZZ le funzioni di P.G. Purtroppo, a causa di restrittive interpretazioni della L. 189/2004 da parte delle prefetture e dell’autorità giudiziaria, nella gran parte dei casi le loro competenze vengono limitate ai soli animali d’affezione. Esistono anche guardie zoofile nominate in applicazione di leggi regionali dalle regioni che le abbiano previste.

Guardie Ecologiche Volontarie (GEV)
Le GEV traggono la loro origine da leggi regionali e hanno organizzazione diversa da regione a regione. Per la maggior parte dei casi sono “dipendenti onorari” delle regioni piuttosto che delle province o delle città metropolitane. Vengono nominate dopo appositi corsi di formazione e prestano giuramento come guardie giurate in prefettura. La loro attività è regolata e coordinata dall’ente pubblico. Anche le materie di competenza possono essere differenti in realtà diverse.

Guardie Ittiche Volontarie (GIV)
L’istituzione della vigilanza ittica è antica e trae origine dal R.D. n. 1604/1931, tuttora vigente. L’art. 31 recita: “Le Provincie, i Comuni, i consorzi, le associazioni e chiunque vi abbia interesse possono nominare e mantenere, a proprie spese, agenti giurati per concorrere alla sorveglianza sulla pesca tanto nelle acque pubbliche, quanto in quelle private.
Gli agenti debbono possedere i requisiti determinati dall’art. 81 del regolamento 20 agosto 1909, n. 666 (art. 81 abrogato nel 2001 n.d.r.) prestare giuramento davanti al pretore, ed essere singolarmente riconosciuti dal prefetto. Essi, ai fini della sorveglianza sulla pesca, hanno qualità di agenti di polizia giudiziaria.”
Oggi le regioni hanno ulteriormente normato la materia per cui l’organizzazione delle GIV può variare da regione a regione.

Guardie addette al controllo della raccolta dei tartufi
Sono state istituite dalla L. 752/1985, sono nominate dal prefetto.
L’art. 15 recita: “Sono inoltre incaricati di far rispettare la presente legge le guardie venatorie provinciali, gli organi di polizia urbana e rurale, le guardie giurate volontarie designate da cooperative, enti e associazioni che abbiano per fine istituzionale la protezione della natura e la salvaguardia dell’ambiente.”
Prestano giuramento davanti al prefetto. Sono competenti al controllo sulla raccolta dei tartufi.

Tutte queste figure vestono divise, portano segni distintivi differenti, rispondono a regolamenti diversi approvati da soggetti diversi, dispongono di poteri differenti, condividono a volte competenze identiche. Il loro riconoscimento da parte dei cacciatori che hanno frequentato un corso di formazione o dai pescatori è più semplice in quanto entrambi i soggetti conoscono bene l’esistenza dei “guardiacaccia” e dei “guardiapesca”. Per il semplice cittadino invece a volte riesce difficile riconoscere il ruolo assunto da chi effettua un controllo. La mancanza di riconoscibilità è a volte causa di conflitti non voluti. La preparazione dei volontari varia a seconda dei ruoli assunti. La serietà nella preparazione e nella nomina dei volontari è elemento fondamentale in capo soprattutto alle associazioni.

L’attività legislativa ha prodotto negli anni norme mal scritte, non sempre facilmente comprensibili, a volte contradditorie, che hanno amplificato il contenzioso giudiziario. La difficoltà nell’applicazione delle norme ha visto i cittadini come primi soggetti a subire le conseguenze. Gli stessi operatori volontari della vigilanza hanno subito negli anni ostacoli nell’assolvimento dei compiti di istituto che vanno dal disconoscimento delle competenze e dei poteri, attuato da soggetti istituzionali come province, questure, prefetture, ASL, fino ad arrivare a provvedimenti disciplinari o addirittura a denunce penali, poi regolarmente archiviate per la mancanza dell’elemento soggettivo del reato. In più vi è da dire che in questi anni la vigilanza volontaria, invece di essere considerata dalle istituzioni come un valore aggiunto, è stata scoraggiata e demotivata, spesso vista come una fastidiosa interferenza. Nonostante le difficoltà, le guardie volontarie hanno contribuito negli anni, con straordinari risultati, a far rispettare le norme di legge costituendo anche uno stimolo positivo per le istituzioni. L’opera dei volontari è andata ben oltre il semplice accertamento delle violazioni di legge, ma ha costituito un positivo volano di diffusione nella popolazione di conoscenze e di valori. Riuscire a fermare l’illecita distruzione di un ambiente naturale o salvare dalla sofferenza un cane “da guardia” destinato a vivere una intera esistenza legato a 50 centimetri di catena, senza riparo né cure, ripaga il volontario delle difficoltà e dei sacrifici. La salvezza del pianeta e delle creature che lo abitano richiede anche l’impegno personale di ciascuno di noi.

Il futuro dell’energia

Riccardo Graziano

In Italia si sta dibattendo molto sul futuro dell’approvvigionamento energetico e della mobilità elettrica, argomenti strettamente correlati e sui quali le opinioni divergono sensibilmente nelle varie formazioni che compongono il panorama politico.

In particolare, la Destra al Governo frena sulla transizione alle rinnovabili e alla mobilità elettrica, adducendo motivazioni relative a possibili problemi occupazionali per quanto riguarda le aziende impegnate nei settori “tradizionali”. L’attuale esecutivo è addirittura entrato in rotta di collisione con l’Unione europea sullo stop imposto alla produzione di veicoli con motore a scoppio entro il 2035, termine che secondo il nostro Governo andrebbe prorogato perché i tempi – 12 anni, pari a quattro Olimpiadi … - sarebbero troppo ristretti per consentire all’industria automobilistica italiana di convertirsi, cosa che invece non sembra preoccupare la Germania, maggior produttore europeo di veicoli. Naturalmente, la posizione governativa ha riscosso ampi consensi fra imprenditori, lavoratori e cittadini, preoccupati dalla prospettiva di ulteriori  cali occupazionali.

Ma è tempo di evidenziare che su questi argomenti esistono due linee di pensiero, o meglio due realtà parallele: quella prospettata dall’attuale Governo italiano e quella che sta già avvenendo nel resto del mondo. Attenzione, non si tratta di un’affermazione politicizzata, ma della semplice presa d’atto delle tendenze mondiali attualmente in corso, che a loro volta consentono proiezioni piuttosto precise sugli sviluppi a venire nei prossimi sette anni, quelli che ci separano dal fatidico 2030, anno entro il quale l’Unione europea prevede l’obbligo di ridurre le proprie emissioni del 55%.

I dati relativi al procedere della transizione energetica sono stati recentemente pubblicati nel World Energy Outlook (WEO), il rapporto dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (International Energy Agency - IEA) che analizza i dati a livello mondiale. In esso vediamo per esempio che la potenza installata di fotovoltaico ed eolico è più che quadruplicata fra il 2019 e il 2023, arrivando a sfiorare i 5.000 GW. Un risultato superiore alle stesse previsioni delle precedenti edizioni del WEO, dovuto all’aumento del sostegno politico e alla progressiva diminuzione dei costi che contraddistingue tutte le tecnologie man mano che progrediscono e implementano processi industriali ed economie di scala. Tuttavia, l’incremento non è sufficiente per raggiungere i traguardi previsti dall’Accordo di Parigi e che la stessa UE si è imposta, dunque occorre fare ancora di più.

La crescita esponenziale delle rinnovabili appena descritta rientra in uno scenario più ampio che lascia intravedere un rivolgimento profondo dell’intero sistema energetico nei prossimi sette anni, da qui al 2030. Motivo per cui il rapporto WEO quest’anno è stato pubblicato in anticipo, in modo da fornire per tempo elementi utili ai decisori politici impegnati nella COP 28 di Dubai, la conferenza sul clima che dovrebbe portare a decisioni cruciali sulla transizione ecologica, ma che parte già sotto pessimi auspici, visto che quest’anno viene ospitata in uno dei Paesi meno “sostenibili” al mondo, nonché settimo produttore di petrolio a livello globale e che ha già in previsione di aumentare le estrazioni. Tra l’altro, il rapporto esce nel 50* anniversario dalla fondazione dell’IEA, in un momento nel quale, esattamente come allora, il mondo vive una grave crisi legata al mondo mediorientale, all’epoca relativa alla produzione petrolifera, oggi segnata dalla feroce carneficina fra Israele e Palestina, evento destinato a incidere sugli scenari geopolitici ed economici del futuro prossimo. In più, adesso stiamo vivendo gli effetti del cambiamento climatico indotto proprio dal consumo di combustibili fossili e dalle relative emissioni, scenario già previsto all’epoca da alcuni esperti che iniziavano a lanciare i primi allarmi, assolutamente inascoltati.

Tuttavia, mentre i petrolieri ancora oggi proseguono imperterriti sulla propria strada e la politica latita o addirittura rema contro la transizione, come nel caso dell’attuale Governo italiano, una considerevole parte del mondo procede spedita verso la riconversione energetica. Ne è un chiaro esempio quanto sta avvenendo nel settore automobilistico: soltanto due anni fa, si vendeva un’auto elettrica ogni 25 col motore a scoppio, oggi siamo già a una su cinque. Un aumento percentuale di cinque volte in due anni, che porta a prevedere che nel 2030 il rapporto sarà di uno a uno, come già avviene oggi in Norvegia, mentre sul promettente mercato cinese le elettriche sfiorano un terzo delle vendite (in Italia, meno del 4%, fra gli ultimi in Europa).

È evidente che un aumento esponenziale di questo nuovo paradigma della mobilità, dove attualmente l’Italia è fanalino di coda, avrà importanti ripercussioni sull’intero sistema energetico, a sua volta proiettato verso le rinnovabili. I dati ci dicono che 10 anni fa il 70% dell’elettricità era prodotta da fonti fossili, oggi siamo scesi al 60% e le previsioni indicano che nel 2030 si arriverà al 40%, dal momento che l’80% dei nuovi impianti installati funzionerà con energie rinnovabili.

Anche nel settore del riscaldamento domestico, che in Europa incide per il 40% delle emissioni di anidride carbonica, si sta andando verso una rapida riconversione, con la sostituzione delle attuali caldaie a gas con pompe di calore, che nel 2030 saranno già in maggioranza, riducendo quindi la domanda di metano. Naturalmente, anche qui l’Italia resta fanalino di coda, anche grazie al fatto che continuiamo a incentivare gli impianti a gas.

Ma il dato forse più significativo è quello relativo agli investimenti, ormai sempre più orientati verso le rinnovabili nella maggior parte dei Paesi (non in Italia, ovviamente, dove destiniamo milionate di euro per costruire rigassificatori …). Dal 2020, in soli tre anni, gli investimenti in rinnovabili sono aumentati del 40%, raggiungendo la cifra iperbolica di un miliardo di dollari al giorno. La previsione è che entro il 2030 il solo settore dell’eolico offshore, con le pale ancorate in mare aperto, attirerà finanziamenti tripli rispetto alle centrali a gas e carbone.

Tutto questo, solo proiettando in avanti le tendenze già attualmente in corso, senza tenere conto di ulteriori implementazioni eventualmente disposte dai governi impegnati nella transizione. Uno scenario che porta a ipotizzare il raggiungimento a breve termine del cosiddetto “picco” della domanda di combustibili fossili, dopo il quale il consumo inizierà a scendere progressivamente e con esso anche le relative emissioni.

Purtroppo, ciò non avverrà abbastanza in fretta per rispettare i termini prudenziali del già citato Accordo di Parigi, che punta a contenere l’aumento delle temperature globali a fine secolo al di sotto dei 2°C, meglio ancora se entro 1,5°C, per contenere gli effetti già critici dei mutamenti climatici in corso. Con le tendenze sopra descritte, in sé positive, l’aumento è comunque previsto dell’ordine dei 2,4°C, incremento che ci porterebbe verso uno scenario che da critico rischia di diventare catastrofico.

Per evitare o perlomeno mitigare questa eventualità, la IEA ammonisce che in tempi brevi i decisori politici dovrebbero impegnarsi per raggiungere 5 obiettivi strategici entro il 2030: raddoppiare l’efficienza energetica; triplicare l’apporto delle rinnovabili; ridurre di tre quarti le emissioni di metano; finanziare la transizione dei Paesi poveri e, soprattutto, ridurre drasticamente il consumo di combustibili fossili.

Una serie di impegni al momento disattesi o portati avanti in modo insufficiente, nonostante l’accelerazione descritta in precedenza, con un’Italia che, occorre ribadirlo, si muove addirittura in direzione contraria, con una visione miope e distorta, che penalizza le nostre stesse imprese, a volte all’avanguardia nel campo delle rinnovabili, nonostante tutto. Non si tratta solo di essere ecologisti: la transizione sarebbe vincente anche dal punto di vista economico, con la creazione di un numero di posti di lavoro superiore a quelli destinati a essere cancellati nei settori destinati all’obsolescenza. Investendo nelle rinnovabili, in particolare nel fotovoltaico, potremmo azzerare la nostra dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili, risanando il divario negativo della nostra bilancia economica import/export. Invece, a pochi anni dal raggiungimento del picco della domanda di fonti fossili, con i consumi destinati in prospettiva a calare, sentiamo ancora vaneggiamenti che vorrebbero trasformare l’Italia “nell’hub del gas destinato all’Europa”, col rischio di sperperare cifre faraoniche per cercare di vendere metano a chi presto non saprà più cosa farsene …

Una follia dal punto di vista economico prima ancora che ecologico, che rischia di relegare l’Italia ai margini delle tendenze produttive ed economiche proprio nel momento decisivo per la transizione necessaria e ineludibile che dobbiamo mettere in atto per scongiurare il peggioramento delle conseguenze dei cambiamenti climatici.

Uno scenario che, nonostante i progressi degli ultimi anni, resta ancora il più probabile, con l’aumento dei fenomeni climatici estremi che già oggi provocano vittime e danni ingenti anche nel nostro Paese. Eppure, una parte della politica si ostina a negare l’evidenza. Per questo, tra l’altro, saranno cruciali le prossime elezioni europee del 2024. Se prevarranno le forze reazionarie, le timide politiche intraprese ultimamente dall’UE per la transizione verranno stoppate del tutto, come già successo in Italia, dove l’attuale Governo ha mostrato chiaramente il proprio atteggiamento negazionista nei confronti dei mutamenti climatici. Se anche il futuro Parlamento europeo sarà composto in maggioranza da forze politiche reazionarie e negazioniste, l’UE innesterà una fatale retromarcia verso le fonti fossili, portandoci inesorabilmente verso uno scenario climatico catastrofico. Un rischio più concreto di quanto si possa pensare.

La nostra estinzione prossima ventura. Tra dati certi e accuse di fanatismo ambientalista

Valter Giuliano

Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “open access” Plos One ha indicato in 2.800 le specie a rischio di estinzione in Europa. Sono state esaminate le 14.669 specie del continente incluse nella Lista Rossa dell’Uicn, che rappresentano il 10% di quelle presenti e classificate. Dunque, una su cinque sarebbe a rischio, con percentuali che vanno dal 27% tra i vegetali e il 24% degli invertebrati
Forese bisognerebbe cominciare a pensare di inserire nella Lista rossa anche la nostra specie, avviata incoscientemente verso l’autoestinzione.
«E se fosse proprio così?», si domandano gli attivisti di Extinction Rebellion - una delle sigle più attive sulla scena del nuovo ambientalismo ribelle e radicale - che su questa ipotesi inquietante hanno costruito il loro impegno e la loro mobilitazione.
Quelli che i giornali mainstream e la politica di destra liquidano a male parole, con epiteti insultanti, invocando pene da Stato di polizia e applicando sanzioni, come il foglio di via, sinora adottate solo per delinquenti abituali.
Più facile soffermarsi sulle loro azioni che interrogarsi sui motivi che le muovono.
E se, invece, avessero ragione proprio loro?

La febbre cresce
Attualmente il nostro pianeta è più caldo, rispetto all’epoca preindustriale di fine Ottocento, di 1,1 gradi e le proiezioni dell’Unep indicano temperature medie globali in aumento di 2,5 - 2,9 gradi. Secondo gli esperti dell’Ipcc per fermare la febbre crescente del pianeta, il riscaldamento andrebbe contenuto in non più di 1,5 gradi.
Perché ciò accada le emissioni globali di gas climalteranti devono essere ridotte del 43% rispetto al 2019 entro il 2030 (la realtà cruda dei dati, riferita a oggi, ci dice che sono destinate a salire del 9%), e del 60% entro il 2035 per poi raggiungere l’obiettivo zero nel 2050. Se tutto ciò, da tempo noto, non accadrà, ci troveremo di fronte al crollo dell’ Antropocene, con un conseguente caos ad oggi imprevedibile a partire dal come affrontarlo. È del tutto presumibile, invece, che ne pagherà il salato prezzo la nostra specie. Il futuro dunque potrebbe essere già oggi ipotecato. Ce lo dicono le leggi della fisica. Nel frattempo, la soglia delle 350 parti per milione di anidride carbonica in atmosfera è stata da tempo superata e dalle 340 del 1980 si è saliti alle attuali 420 e oltre. A questo proposito va subito detto che (dati 2019) l’1% più ricco, in termini di reddito, della popolazione mondiale (77 milioni) è responsabile di una quota di emissioni di gas climalteranti (16%) pari a quella attribuibile a 5 miliardi di esseri umani, vale a dire i 2/3 dell’umanità. Tradotto significa che chi appartiene a quell’1% inquina in media in un anno quanto inquinerebbe una persona del restante 99% dell’umanità in 1.500 anni. Se ancora ce ne fosse bisogno, dall’ONU arriva un campanello d’allarme che rischia di trasformarsi ben presto nel rintocco di una campana a morto: le probabilità di raggiungere l’obiettivo fissato alla Cop di Parigi, di fermare il riscaldamento a 1,5 gradi, sono scese al 14%.

Un nuovo allarme e le conseguenze dall’Antartide all’Africa
Il 21 novembre Copernicus (il programma europeo di monitoraggio globale dell’ambiente e della sicurezza) ci ha avvisati che si è verificato il primo giorno sopra la media delle temperature atmosferiche del periodo preindustriale. Un calcolo che il centro di ricerca ha estratto da un insieme di dati e parametri forniti da strumenti sofisticati (a terra e satellitari) che tengono sotto controllo l’intero pianeta, oceani compresi, giorno e notte. La situazione è all’origine di fenomeni mai osservati.  In Antartide è alla deriva un nuovo iceberg di circa 4 mila chilometri quadrati. Segue un distacco verificatosi a gennaio che, a sua volta, ha fatto seguito a quelli del 2019 e del 2021; quest’ultimo. ancor più grande dell’attuale, si è nel frattempo fuso del tutto. Il record spetta in ogni caso ancora alla massa di 11 mila km2 alla deriva nel Duemila Le conseguenze possono essere catastrofiche e vanno ben al di là di qualche centimetro di crescita del livello di oceani e mari. Va persa una grande riserva d’acqua dolce e si possono innescare squilibri dalle conseguenze pesanti sulle correnti marine, a cominciare da quella del Golfo. E di conflitti territoriali geostrategici per il governo delle risorse naturali.
In Africa è già cominciata la preannunciata guerra per l’accesso e la disponibilità dell’acqua. Cambiamento climatico e pressione antropica segnano la progressiva scarsità di una risorsa naturale considerata, a torto, inesauribile. Secondo i dati del recente “State of African Environmental Report”, redatto in collaborazione tra il Centro indiano per la scienza e l’ambiente e l’analoga istituzione keniana, il Lago Ciad - su cui si affacciano e delle cui acque fruiscono Ciad, Nigeria, Camerun e Niger - dagli anni Sessanta ad oggi ha visto ridursi del 90% la sua quantità d’acqua.
In tutte le regioni interessate dal passaggio del Nilo, del Niger e del Congo, principali arterie idriche del continente, nonché sulle sponde del Lago Vittoria, sono aumentati in maniera esponenziale i conflitti tra allevatori e coltivatori per l’accesso all’acqua.
Per salvarci dall’estinzione bisogna investire. L’Unep nel suo recente (novembre) rapporto sugli adattamenti climatici, indica la necessità di una cifra stimata tra i 215 e i 387 miliardi di dollari per far fronte agli impegni di adattamento dei Paesi poveri; constata che ne hanno ricevuti il 10%, pari a 21 milioni. La Cop 26 di Glasgow chiedeva di raggiungere i 40 miliardi l’anno entro il 2025. Nel mentre si apre la Cop 28 di Dubai: chissà se verrà tenuto in debito conto che 1 miliardo di investimenti in prevenzione ne scongiura 14 di danni? Vedremo... È più probabile serva a stipulare nuovi contratti per forniture di gas e petrolio da parte dei Paesi del Golfo, piuttosto che prendere le necessarie e inderogabili decisioni per raggiungere gli obiettivi fissati a Parigi 2015.

Il disinteresse del Mercato
Di fronte a questa situazione che porta l’umanità sulla soglia dell’estinzione, il comparto economico-energetico sembra del tutto indifferente e si continuano a cercare ed estrarre fonti fossili. Complice anche il nostro Governo, con il nuovo via libera alle trivelle in Adriatico. Una notizia ancora peggiore, se è possibile, arriva dal settore del carbone, i cui consumi, nel 2022, sono saliti al record mondiale di 8,3 miliardi di tonnellate (dati Aie - Agenzia internazionale per l’energia) e nel contempo attira nuovi investimenti. La Svizzera Glencore ha rilevato la canadese Teak Resource per nove miliardi di dollari e pare interessata a rilanciare la produzione di elettricità con una nuova centrale a carbone. Nella prima metà di quest’anno la domanda di carbone è scesa del 24% negli USA e del 16% nell’Ue, ma è cresciuta di oltre il 5% tra Cina e India, andando ben oltre la compensazione dei cali occidentali.

L’indifferenza dell’informazione
Eppure, di fronte a questi accadimenti oggettivi che si basano su dati scientifici verificati e conclamati e certamente non di parte, assistiamo ogni giorno al negazionismo ignorante e pervicace di numerosi organi di presunta informazione che, in palese malafede, continuano imperdonabilmente ad ammansirci, scrivendo irresponsabilmente di allarmi ingiustificati e di fanatismo ambientalista. Oltre ciò, omettono informazioni di fonte ufficiale e autorevole come quelle che abbiamo sopra cercato di riassumere.
È constatazione amara quella di dover prendere atto di come il sistema informativo italiano - non a caso nella parte bassa della classifica mondiale - risulti supino e dipendente dai centri di potere delle lobbyes economiche della crescita e del profitto a ogni costo che le finanziano (la maggior parte delle testate private ipocritamente classificate “indipendenti”) oppure della partitocrazia lottizzatrice che, a parte qualche lodevole eccezione, è altrettanto portatrice di colpevole ignavia e di interessi di parte che finiscono col prevalere su quelli collettivi (la cosiddetta “ informazione pubblica”, che sosteniamo con i nostri tributi).

Futuro “No profit”
Di fronte alla registrazione di questi fatti e di questi atteggiamenti la domanda sorge spontanea: c’è ancora tempo per una transizione ecologica graduale? Probabilmente no.
E se no, cosa ci salverà dall’estinzione?
Un sovvertimento globale. Una riconversione in cui il futuro è “No profit” o non è.

Stato di conservazione dei rettili in Italia

Leonardo Vignoli
Dipartimento di Scienze, Università degli studi Roma Tre

Introduzione

I rettili sono stati considerati in passato animali di "minore importanza" e si è ipotizzato che la loro scomparsa "non faccia molta differenza in un senso o nell'altro". Lo stesso Linneo, nel suo Systema Naturae del 1758, descrisse i rettili come "animali disgustosi e ripugnanti... abominevoli a causa del loro corpo freddo... dell'aspetto feroce... e della loro squallida dimora". Fortunatamente, tali sentimenti sono sempre più superati, poiché gli scienziati rivelano il ruolo significativo che i rettili svolgono in molti ecosistemi.

Malgrado i rettili siano tra i vertebrati il gruppo meno studiato e siano ancora spesso trascurati rispetto ad altri organismi, c'è un crescente interesse nella conservazione della loro diversità biologica. La diminuzione delle popolazioni di rettili, che siano poco osservate o abbiano già una documentazione ampia, desta preoccupazione non solo per il ruolo ecologico cruciale che ricoprono in vari habitat, ma anche per le implicazioni sulla salute generale dell'ambiente, analoghe al declino di altre forme di vita. Qualunque siano le ragioni, la volontà di preservare i rettili e di acquisire una comprensione più approfondita della loro ecologia richiede informazioni dettagliate sul loro stato attuale, sulla loro distribuzione e sui fattori che ne influenzano il declino

Come accade per molte altre specie animali, negli ultimi tempi i biologi della conservazione hanno espresso preoccupazione per il declino dei rettili, alcuni dei quali hanno ricevuto notevole attenzione (come nel caso della crisi delle tartarughe asiatiche). Senza dubbio il numero di popolazioni di alcune specie è in diminuzione, specialmente per i serpenti. Tuttavia, la significativa mancanza di dati sullo stato di conservazione della maggior parte delle specie di rettili in molte parti del mondo ha ostacolato una comprensione completa e un'appropriata valutazione della loro situazione attuale e una proiezione attendibile per quella futura. In alcuni casi, le preoccupazioni per il declino si fondano solo su testimonianze aneddotiche o su una crescente percezione della rarefazione di una specie, senza dati quantitativi a sostegno. È evidente che una delle priorità per gli erpetologi e gli studiosi di fauna selvatica dovrebbe essere quella di chiarire la situazione globale e la distribuzione delle varie popolazioni di rettili (Todd et al., 2010).

I rettili hanno avuto una storia evolutiva lunga e complessa, essendo apparsi per la prima volta sulla Terra nel tardo Paleozoico, oltre 250 milioni di anni fa (secondo le stime della filogenesi molecolare e i primi reperti fossili). Sono considerati un gruppo evolutivamente di successo, in grado di adattarsi a una vasta gamma di ambienti, che spaziano da quelli temperati ai tropicali e desertici, occupando habitat terrestri, d’acqua dolce e marini. All'interno dei sistemi naturali, i rettili svolgono ruoli ecologici cruciali come predatori, prede, consumatori di piante, dispersori di semi; in aggiunta, molte specie rappresentano indicatori biologici della salute dell'ambiente.

Finora sono state descritte 12.060 specie di rettili (http://www.reptile-database.org/db-info/SpeciesStat.html) e le nuove analisi molecolari continuano a portare alla luce numerose specie criptiche che non erano state individuate in precedenza usando le sole analisi morfologiche.

L'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) è leader a livello mondiale nella valutazione dello stato di conservazione e del rischio di estinzione di moltissime specie vegetali e animali nell'ambito del suo programma di Lista Rossa. Anche se l’IUCN ha valutato in modo esaustivo uccelli, mammiferi e anfibi, la valutazione globale dei rettili è stata avviata solo di recente e attualmente, i rettili rimangono uno dei taxa di vertebrati meno conosciuti il cui stato di conservazione è stato valutato per circa l’84% delle specie descritte.

Tutte le popolazioni animali sperimentano presumibilmente un certo livello di fluttuazione normale nell'abbondanza, che varia a seconda della specie o della popolazione in questione. Le popolazioni di rettili sono sempre più studiate da parte di zoologi ed ecologi, e l’accumulo di informazioni sempre di maggiore dettaglio è fondamentale per riuscire a distinguere tra i declini naturali e quelli antropogenici, per determinare se le fluttuazioni nella distribuzione o nell'abbondanza rappresentino un "declino" reale. Pertanto, il monitoraggio a breve termine, che fornisce istantanee limitate delle dimensioni della popolazione, può rivelare lo stato attuale, ma non può rivelare le tendenze a lungo termine della popolazione o le cause di tali andamenti. Per questo motivo, il valore degli studi a lungo termine e dei dati da essi generati non deve essere sopravvalutato a dispetto delle difficoltà intrinseche della loro conduzione (sforzo di personale ed economico). Tuttavia, anche l'accumulo di dati provenienti da numerosi studi a breve termine può rivelare una traiettoria di declino generalizzato delle popolazioni di una specie e indicare le priorità di conservazione di una determinata specie o popolazione.

Stabilire un nesso causale tra un fattore specifico e il declino delle popolazioni di rettili può essere difficile, ma è di primaria importanza per una conservazione efficace. Sebbene in alcuni casi un solo fattore possa avere un impatto significativo su una popolazione, quasi sempre più fattori interagenti influenzano l'abbondanza e la distribuzione di una specie. Diversi fattori sono stati identificati come minacce per le popolazioni di rettili e sono implicati nel declino di almeno alcune specie, tra cui la perdita e la frammentazione dell'habitat, il prelievo non sostenibile, la contaminazione ambientale antropogenica, i cambiamenti climatici, le specie invasive, le malattie e il parassitismo. Altri due fattori raramente menzionati, ma di grande importanza per la sopravvivenza delle popolazioni di rettili sono l'indifferenza sociale e gli interessi particolari o politici. L'indifferenza sociale può costituire un ostacolo rilevante per la tutela dei rettili, dato che molti di essi sono oggetto di derisione o paura personale, una sfida che necessita di essere superata prima che si possa suscitare un genuino interesse per la loro salvaguardia. Allo stesso modo, le strategie di allocazione di risorse per la conservazione della biodiversità da parte di organizzazioni non governative e dei governi statali, provinciali o nazionali difficilmente sono indirizzate a riconoscere la situazione delle specie in declino e la necessità di uno sforzo di conservazione. L’orientamento di interessi particolari o politici innegabilmente ha un impatto considerevole sulla conservazione di molti rettili.

Quasi una specie di rettili su cinque è minacciata di estinzione, mentre un'altra specie su cinque è classificata come carente di dati. La percentuale di specie di rettili minacciate è più alta negli ambienti d'acqua dolce, nelle regioni tropicali e nelle isole oceaniche, mentre la carenza di dati è più elevata nelle aree tropicali, come l'Africa centrale e il Sud-est asiatico, e tra i rettili fossori. È riconosciuta la necessità di concentrare l'attenzione della ricerca sulle aree tropicali che stanno vivendo i tassi più drammatici di perdita di habitat, sui rettili fossori per i quali c'è una mancanza cronica di dati e su alcuni taxa, come i serpenti, per i quali il rischio di estinzione può attualmente essere sottostimato a causa della mancanza di informazioni sulla demografia delle popolazioni. Le azioni di conservazione devono in particolare mitigare gli effetti della perdita di habitat e del prelievo antropico, che sono le minacce principali per i rettili (Cox et al., 2022).

 

Diversità e stato di conservazione dei rettili in Italia.

Secondo la più recente checklist (Sindaco e Razzetti, 2021), l'erpetofauna italiana è rappresentata da 101 specie (42 anfibi e 59 rettili). Per quanto attiene ai rettili, cinque specie sono tartarughe marine, di cui solo Caretta caretta si riproduce regolarmente sulle spiagge italiane; Dermochelys coriacea e Chelonia mydas sono osservate regolarmente lungo le coste italiane, mentre Lepidochelys kempii ed Eretmochelys imbricata sono presenti nel Mediterraneo solo con individui osservato occasionalmente. Quattro specie sono aliene naturalizzate nell'ultimo secolo (Trachemys scripta, Chamaeleo chamaeleon, Indotyphlops braminus e Eryx jaculus). Più difficile è accertare se alcune specie ben radicate siano realmente autoctone o se la loro presenza sia dovuta ad antiche introduzioni mediate dall'uomo (le cosiddette specie "parautoctone"). Anche se i dati biogeografici e genetici supportano fortemente l'introduzione da parte dell’uomo di alcune specie in tempi antichi (ad esempio Testudo marginata, T. graeca ed Emys orbicularis in Sardegna), per altre (Chalcides chalcides, C. ocellatus, Podarcis siculus, Natrix maura e Hemorrhois hippocrepis in Sardegna, Podarcis filfolensis a Linosa e Lampione, Mediodactylus kotschyi in Puglia e Basilicata) non è ancora chiara l’origine.

Un primo passo fondamentale per la pianificazione della conservazione e la definizione delle priorità è la valutazione dello stato delle specie in base al loro rischio di estinzione. Da oltre quarant'anni l'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) valuta lo stato di minaccia globale delle specie e pubblica i risultati nella Lista Rossa IUCN delle specie minacciate, aggiornata periodicamente. Inoltre, numerosi Paesi hanno pubblicato liste nazionali di specie minacciate, spesso basate sui criteri dell'IUCN e linee guida per l'applicazione dei criteri della Lista Rossa IUCN a livello regionale. I criteri IUCN per la classificazione delle specie minacciate nelle liste rosse sono stati costruiti principalmente per essere applicati su scala globale e l'utilizzo del sistema su scala nazionale può essere problematico. Tuttavia, la maggior parte degli sforzi di conservazione sono condotti a livello nazionale e quindi c'è una grande richiesta di liste rosse a livello nazionale. Il Comitato Nazionale Italiano per l'IUCN è uno dei 49 comitati nazionali riconosciuti dall'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN). Sebbene i comitati nazionali applichino i medesimi criteri per stabilire il rischio di estinzione delle specie, le discrepanze tra le liste rosse nazionali e la Lista Rossa IUCN globale o continentale esistono e possono avere importanti implicazioni per la pianificazione della conservazione. La lista rossa nazionale italiana può ad esempio riflettere non solo il rischio di estinzione, ma anche la rarità locale, l'importanza culturale di alcune specie o popolazioni, il valore di conservazione, il declino della popolazione locale, le priorità di conservazione, o una combinazione di diversi di questi fattori. Ovviamente, la stima di tali parametri misurata per specie il cui areale è solo parzialmente incluso in Italia può differire dalle stime fatte a scala di intero areale/globale. Per i rettili, la lista rossa italiana include le valutazioni di tutte le specie native o possibilmente native in Italia, nonché quelle naturalizzate in Italia in tempi preistorici. Da quando è attivo il Comitato Nazionale Italiano IUCN, ha prodotto una prima lista rossa dei vertebrati in cui sono inclusi i rettili nel 2013 poi aggiornata nel 2022. Facendo riferimento alla lista rossa IUCN europea per le specie di rettili presenti sul territorio italiano, al 2023 risultano 54 specie per le quali è stato stimato lo stato di rischio di estinzione. Di queste, 40 (74,1%) non è considerato minacciato (Least Concern – LC), 7 (13%) è prossimo ad essere minacciato (Near Threatened – NT), 5 (9,3%) sono minacciate o in pericolo critico di estinzione (1 Critically Endangered – CR, 4 Vulnerable- VU), mentre 2 (3,7%) specie sono carenti di dati (Data Deficient – DD) (Figura 1). È utile comparare lo stato di conservazione dei rettili italiano con quello delle specie di rettili a livello mondiale per valutare se la nostra fauna sia a maggiore o minore rischio di estinzione rispetto alla media nei vari paesi del mondo. A livello globale, la percentuale di specie minacciate di estinzione è pari al 18,1%, circa il doppio di quanto si rileva in Italia, mentre le specie non a rischio rappresentano il 61,8% del totale. Oltre alla proporzione delle specie minacciate, un’altra importante discrepanza nella valutazione dello stato di conservazione dei rettili italiani e mondiali è evidenziata dalle specie carenti di dati per le quali non è stimabile il rischio di estinzione che a scala mondiale (14,6%) è pari a circa quattro volte quella in Italia. Quest’ultimo dato riflette ovviamente i diversi livelli di diversità di specie nelle aree tropicali rispetto a quelle temperate e parimenti il differente sforzo di ricerca profuso in tali aree. Ci sono, infatti, ancora delle aree del mondo ad altissimo tasso di endemismo ed elevata biodiversità che sono in larga parte inesplorate (sudest asiatico e parte della regione neotropicale in particolare). Se confrontiamo la stima del rischio di estinzione per i rettili italiani riportato dal Comitato Italiano IUCN nel report del 2022 possiamo osservare che le specie considerate presenti sul territorio italiano sono 48 e quelle valutate a rischio di estinzione 12 pari al 25% del totale. Tale valutazione diverge significativamente dalla categorizzazione fatta dalla IUCN Europa (9,3%) risultando una percentuale quasi tripla. Tale discrepanza è dovuta principalmente alla valutazione di alto rischio di estinzione per sei specie nella lista nazionale e nessuna nella lista IUCN Europa, mentre le specie vulnerabili sono più o meno le stesse come anche l’unica specie in pericolo critico di estinzione, la lucertola delle Eolie, condivisa dalle due liste. È importante ricordare che alcune discrepanze tra queste liste sono attese. Ad esempio, il caso di specie minacciata a livello nazionale/non minacciata a livello globale può essere un disallineamento previsto, a patto che la specie non sia endemica del paese (ad esempio, la categoria più alta a livello nazionale è spesso un riflesso del rischio più elevato di estinzione che una sottopopolazione corre rispetto all'intera popolazione globale). Quindi, supponendo che tutte le valutazioni riguardino le stesse specie e siano condotte con un errore pari a zero, si prevede che le specie minacciate a livello nazionale siano più numerose di quelle a livello globale.

Per valutare lo sforzo di conservazione verso specie di rettili di interesse comunitario, un’analisi dei target dei progetti europei LIFE Natura può essere rappresentativa di quanto interesse tali animali suscitano nella Comunità Europea, uno dei maggiori organi di politiche di conservazione a livello mondiale. Interrogando il portale pubblico dei database LIFE (https://webgate.ec.europa.eu/life/publicWebsite/search/advanced) si può verificare che di 1869 progetti LIFE Natura cofinanziati dall’Unione Europea dal 1992 a oggi, solo il 2% (39) ha come organismo target una o più specie di rettili. Se escludiamo le specie marine, solo l’1% (23) dei progetti LIFE Natura ha come obiettivo la conservazione di specie di rettili terresti o d’acqua dolce dei quali solamente 3 sono svolti esclusivamente in Italia. È evidente quindi come, a dispetto di uno stato di conservazione non ottimale, le specie di rettili non siano attenzionate con strumenti di tutela alla stessa stregua di altri vertebrati. Nel bando LIFE Natura del 2022, delle 122 proposte di progetti LIFE Natura valutate dalla Commissione Europea solo due erano inerenti alla conservazione di specie di anfibi e rettili e solo una di queste è stata finanziata tra le 33 totali. Si tratta di un progetto incentrato sulla conservazione della lucertola delle Eolie, Podarcis raffonei, endemica dell’arcipelago omonimo (Conservation of the Aeolian wall lizard, through translocation, reintroduction, and habitat restoration. LIFE22-NAT-IT-LIFE-EOLIZARD/101114121) che prevede diverse azioni al fine di garantire la tutela e la persistenza a lungo termine per uno dei vertebrati europei a più alto rischio di estinzione.

 

Il caso della lucertola delle Eolie (Podarcis raffonei)

La lucertola delle Eolie, Podarcis raffonei (Mertens, 1952), è considerata tra gli elementi di maggior pregio che caratterizzano la diversità dell’erpetofauna su scala regionale e nazionale.Specie endemica esclusiva delle Isole Eolie, Podarcis raffonei, sopravvive attualmente in sole quattro stazioni relitte e geograficamente isolate tra loro con una consistenza numerica stimata in circa 2000 individui, ed è per questo stata inclusa tra le specie criticamente minacciate di estinzione (CR) nella Lista Rossa dell’IUCN.

Prima dell’arrivo dell’uomo, la lucertola delle Eolie era verosimilmente diffusa su gran parte delle isole dell’arcipelago. Oggi, invece, P. raffonei rimane confinata a Vulcano sul promontorio di Capo Grosso, a Strombolicchio, Scoglio Faraglione e La Canna. In tutte le isola maggiori dell’arcipelago, è presente la lucertola campestre P. siculus con cui P. raffonei si ibridizza e con la quale è in atto un processo di esclusione competitiva che sembra avere relegato P. raffonei in ambienti sub-ottimali (rocce esposte con poca vegetazione) e portato all’estinzione locale della lucertola delle Eolie dalla quasi totalità delle isole principali. Sull’isola di Vulcano, l’ultima ad essere stata colonizzata dall’uomo per via dell’intensa attività vulcanica che si è interrotta solo alla fine del XIX secolo, e l’ultima isola maggiore dove ancora sopravvive P. raffonei, è stato possibile osservare l’interazione tra la lucertola delle Eolie e la lucertola campestre introdotta dall’uomo. Quando negli anni ’80 e ’90 il dr. Massimo Capula descrive la lucertola delle Eolie, riconoscendola come specie distinta dai taxa siciliani, P. raffonei era ancora presente con diverse popolazioni sull’isola di Vulcano. Nell’arco di tre decadi oggi troviamo una singola popolazione di lucertola delle Eolie su un piccolo promontorio, e P. siculus presente e abbondante nel resto dell’isola. Insieme all’ arrivo di P. siculus sul promontorio, la sopravvivenza di questa popolazione è minacciata da un cambiamento di gestione del pascolo sull’isola. Infatti, fino al 2015 il promontorio veniva usato da pastori locali per il pascolo invernale delle capre. Da quando questa pratica è stata interrotta, la vegetazione avventizia ha iniziato una crescita incontrollata, andando a coprire le essenze tipiche del promontorio e favorendo un ambiente idoneo alla crescita demografica del ratto. La combinazione di questi due fattori sta determinando un peggioramento dello stato di questa popolazione di lucertola delle Eolie. Sono infatti diminuiti negli ultimi anni sia il numero di individui che le condizioni di salute delle lucertole (intese come massa corporea). Per migliorare lo stato di conservazione generale della lucertola delle Eolie e salvaguardare la sopravvivenza della popolazione di Capo Grosso nasce il progetto LIFE EOLIZARD.

LIFE EOLIZARD è un progetto quinquennale che vede la collaborazione di diversi enti di ricerca Nazionali e Internazionali coordinato dal Dipartimento di Scienze dell’Università degli Studi Roma Tre. Per garantire un futuro alla lucertola delle Eolie questo progetto prevede diverse azioni ambiziose e innovative: da una parte la protezione della popolazione di Capo Grosso controllando il numero di ratti e ripristinando l’habitat idoneo, contemporaneamente, l’istituzione di nuove popolazioni di P. raffonei e di un Santuario che ne garantisca la sopravvivenza a lungo termine. Per la creazione del Santuario è necessaria la disponibilità di isolotti “lizard-free” ovvero dove non sia presente la competitiva lucertola campestre. Isolotti con tali caratteristiche esistono nell’arcipelago ma sono tutti di dimensioni pari o inferiori a quelli ad oggi colonizzati dalla lucertola delle Eolie, e proprio per l’assenza di popolazioni vitali di lucertola non garantiscono la presenza di un habitat idoneo a supportare popolazioni di lacertidi. Per questo EOLIZARD ha previsto la traslocazione della lucertola campestre da due isolotti di dimensioni significativamente maggiori, gli isolotti di Lisca Bianca e Bottaro prospicienti l’isola di Panarea, per la creazione di nuove popolazioni di P. raffonei. Nei primi tre anni di progetto, tramite delle trappole a caduta disposte a rete sui due isolotti, saranno catturate le lucertole campestri presenti su Lisca Bianca (Fig. 7) e Bottaro, che dopo una breve detenzione saranno poi liberate sull’Isola di Panarea, abitata anch’essa da P. siculus. Contemporaneamente, nei centri di riproduzione in cattività costruiti appositamente con i fondi del progetto al Bioparco di Roma e a Malfa (Salina), saranno allevate in cattività lucertole delle Eolie provenienti dalle popolazioni di Scoglio Faraglione (Fig. 8) e Capo Grosso. Gli individui riproduttori saranno scelti grazie ad analisi genetiche e genomiche che permettono di caratterizzare gli individui e creare le coppie più idonee secondo criteri oggettivi, determinando la più alta varietà genetica possibile nelle nuove popolazioni a garanzia della massimizzazione della fitness degli animali da rilasciare nel santuario.

 

Letteratura citata

- Cox, N., Young, B. E., Bowles, P., Fernandez, M., Marin, J., Rapacciuolo, G., ... & Xie, Y. (2022). A global reptile assessment highlights shared conservation needs of tetrapods. Nature, 605(7909), 285-290.

- Sindaco, R., & Razzetti, E. (2021). An updated check-list of Italian amphibians and reptiles. Natural History Sciences, 8(2), 35-46.

- Todd, B. D., Willson, J. D., & Gibbons, J. W. (2010). The global status of reptiles and causes of their decline. Ecotoxicology of amphibians and reptiles, 47, 67.

Sforzi ricompensati, estinzione scampata. Il ritorno della lince

Valter Giuliano

Può anche accadere che specie che ritenevamo sull’orlo dell’estinzione, ritrovino nuovi spazi per garantirsi il futuro.
Al Parco nazionale del Gran Paradiso il regalo più importante per il compleanno centenario potrebbe averlo portato la lince. L’ha avvistata, a fine ottobre, una fototrappola che ha immortalato l’animale, rendendo certa la segnalazione. Tenendo, com’è prudente fare in queste situazioni, riservato il luogo esatto dell’avvistamento per proseguire le verifiche sulla effettiva presenza, al Parco dicono che si tratta, con ogni probabilità, di un individuo in dispersione, alla ricerca di nuovi territori.
Sin dagli anni ’80 si sono registrati avvistamenti dubbi e numerose segnalazioni. Ora, per la prima volta, la presenza viene documentata con certezza. L’ultimo dato di presenza certa della lince nel territorio del Parco risale al 1916, quando l’area protetta non era ancora stata istituita. Ai tempi della Riserva Reale di Caccia frequenti furono gli abbattimenti attuati dalle guardie, che erano incentivate al prelievo di quello che era considerato un nemico dello stambecco.
Sulle Alpi la specie si è estinta agli inizi del ‘900 a causa della persecuzione dell’uomo. Si registrano dati relativi agli ultimi esemplari nel Cadore (1837) in Alto Adige/Südtirol (1872), in Valle Roya (1918) e nella Val Varaita (1937).
Solo recentemente, dagli anni Ottanta, è ricomparsa in Italia con esemplari in transito, probabilmente provenienti da Svizzera e Slovenia. Sono state raccolte varie segnalazioni nelle valli di confine con Francia e Svizzera; le più recenti, documentate, ad agosto e novembre 2022, rispettivamente in Val Isorno (VCO) e in Val d’Ayas (AO).
La specie è invece al centro del Progetto Lince Italia che vede capofila l’Università di Torino e che ha promosso la reintroduzione del felino nel Tarvisiano, a fine novembre dello scorso anno, con cinque esemplari: due femmine provenienti dalla Svizzera, un maschio e una femmina dalla Romania e un maschio dalla Croazia.
Attualmente, tra Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige/Südtirol ci sarebbero tra i 10 e i 15 animali.
Osservazioni di lince sono state di recente effettuate anche in Valle d’Aosta, confermate dal Corpo Forestale Regionale, e queste ripetute segnalazioni fanno presagire la possibilità di un ritorno della preziosa specie. Se il ritorno al Parco del Gran Paradiso fosse confermato, riempirebbe un vuoto che dura da oltre un secolo. E al quale si cercò, qualche tempo fa, di porre rimedio.
Era la stagione in cui, grazie soprattutto all’impegno dell’allora direttore Francesco Framarin, furono presi in considerazione progetti di possibile restauro della biodiversità originaria, in particolare per quel che concerne la fauna. Una testimonianza scritta di quelle progettualità la si ritrova nello studio di Holloway C.W. & Jungius H., Reintroduzione di alcune specie di mammiferi  e di uccelli nel Parco Nazionale Gran Paradiso (1975).
Il ritorno del gipeto, il cui ultimo esemplare sulle Alpi venne abbattuto in Val di Rhêmes il 29 ottobre 1913, ha avuto successo e dal 1986 il maestoso uccello è tornato a volare libero nei cieli delle Alpi.
Non così è accaduto per la lontra in Vasavarenche, oggi presente con tre individui nel “Centro Lontra”, area faunistica a Rovenaud.
Meno che mai per la lince, il cui tentativo di reintroduzione si frantumò a causa del mancato arrivo delle femmine dal Parco degli Alti Tatra, nell’allora Cecoslovacchia.
Era una notte dell’estate 1975 quando insieme a un paio di altri coraggiosi partigiani dell’ambiente (eravamo le prime Guide della Natura del Parco) percorremmo le valli valdostane del Parco - non senza rischio e pericolo - incollando, educatamente, a fianco dei manifestini che attaccavano il Parco nazionale i nostri, che riportavano frasi dell’artista e poeta Samivel. Ha ricordato Piero Belletti che di quel “commando” faceva parte: «In quel periodo i rapporti tra parco nazionale e abitanti locali erano particolarmente tesi: la decisione della magistratura di Aosta di inglobare anche il fondovalle della Valsavarenche nel territorio protetto non era stata digerita dagli abitanti, che lo ritenevano una inattesa e imprevista violazione dei loro diritti. (...) Tra le prime iniziative di protesta vi fu appunto l’affissione di numerosi manifestini multicolori contenenti frasi tipo “PNGP=SPQR” e quella in vernice durevole sulla cappella del Buillet “Defenden les ommo, pas les fleures”, simmetrica nel regno vegetale a quella precedente di una decina d’anni, comparsa a Pescasseroli nel Parco nazionale d’Abruzzo: “Prima l’uomo, poi l’orso”». I testi dei nostri “tazebao” «inneggiavano all’importanza della tutela ambientale, come “Il parco nazionale protegge contro l’ignoranza e il vandalismo: beni e bellezze che appartengono a tutti”, “Acque libere, uomini liberi: qui comincia il paese della libertà, la libertà di comportarsi bene“, “Il parco nazionale è il grande giardino di tutti ed è anche una vostra eredità personale”».
Seppi anni dopo da un protagonista dell’impegno per la tutela della lingua francoprovenzale valdostana (in cui vennero scritte quelle rivendicazioni), di cui divenni amico, che il Parco in quegli anni fu messo nel mirino degli attacchi di chi si batteva per l’autonomismo regionale ed eretto a simbolo delle presunte vessazioni coloniali da parte dello Stato nazionale. Così mi spiegai quelle innaturali avversioni destinate fortunatamente a convertirsi, tempo dopo, in proficue collaborazioni.
Finimmo il nostro blitz ecologista confluendo all’alba nella casa del Parco di Rhêmes Notre Dame, dove nel frattempo erano arrivati a ristorarsi anche i guardaparco che nella notte avevano partecipato al tentativo di reintroduzione della lince con il lancio di alcuni esemplari.
Peccato che l’intesa con il parco nazionale cecoslovacco fece sì che vennero consegnati soltanto esemplari maschi, destinati ben presto a dileguarsi - come legge di natura vuole - alla ricerca di femmine rimaste distanti migliaia di chilometri.
Negli stessi anni la lince risultava peraltro presente in Svizzera, come mirabilmente raccontato in un bel documentario del 1988 di Michel Strobino (Au domaine du Lynx), presentato al Filmfestival di Trento. In terra elvetica si è prestata particolare attenzione alla tutela della specie.
Come è accaduto in Francia, dove uno specifico piano quinquennale è stato avviato per proteggere gli esemplari giunti attraverso la Svizzera a partire dagli anni Settanta e che ora si concentrano nei Vosgi e nel massiccio del Giura, dove vivono i 2/3 dei circa 150 individui presenti oltralpe.
Dell’Italia abbiamo detto. Della lince che sembra essere tornata in quel Gran Paradiso che quasi cinquant’anni fa avrebbe voluto riaccoglierla, ci auguriamo possa stabilizzarsi, per completare una catena biologica e alimentare preziosa per la biodiversità del territorio del Gran Paradiso.
Lasciatemi pensare che l’esemplare catturato dalle fototrappole possa essere un pronipote di una di quelle rilasciate, senza successo. che ha voluto tornare sulle tracce dei suoi antenati.