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Simbiosi e complessità: le parole chiave per il post COVID-19

Aldo Di Benedetto

Si continuano a rilanciare messaggi di ripresa come se nulla fosse cambiato e nulla cambierà rispetto al pre-Covid-19. E invece la ripartenza dovrebbe fondarsi su alcuni punti chiave, nei quali le regole e le condizioni sono diverse rispetto al passato.
Per far fronte alle conseguenze della pandemia da virus SARS-COV-2, che ha coinvolto aspetti non solo sanitari ma anche sociali ed economici, ritengo non si possa prescindere da un innovativo modello scientifico e istituzionale, abbandonando quei presupposti riduzionistici che ci hanno condotto in un vicolo cieco. Questo vale per la ricerca scientifica: ci eravamo illusi di aver eliminato la malattie infettive, invece siamo in piena emergenza pandemica; quanto alle istituzioni pubbliche pagano lo scotto di avere perso il controllo delle regole dello sviluppo economico, finito nelle mani di grandi gruppi finanziari che hanno condizionato la globalizzazione dei mercati e le regole del gioco. La ripartenza, quindi, dovrà fondarsi su una visione complessa e un approccio sistemico che faccia leva su una nuova organizzazione delle istituzioni sanitarie e sociali e su una visione integrata e coerente degli obiettivi sanciti dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile.

"Più si comunica, meno si comunica": il paradosso della società
Credo che questo sia un percorso obbligato, tuttavia si continuano a rilanciare messaggi di ripresa come se nulla fosse cambiato e nulla cambierà rispetto al passato. Quotidianamente assistiamo alla inflazione di informazioni che imperversa sui mass media e sui social, alla contrapposizione di esperti e scienziati nel dare riscontro alle domande che vengono dai cittadini, inermi di fronte a un drammatico scenario.
Al riguardo vorrei citare un’affermazione molto significativa del filosofo ed epistemologo Mauro Ceruti: “C’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo interdipendenti e meno siamo solidali. Il morbo della semplificazione è andato di pari passo con la frammentazione dei saperi e delle discipline, che ha isolato gli esperti nelle rispettive specialità”.
Gli scienziati chiamati in causa spesso si rifugiano nell’incertezza; in molti sostengono che questo virus non lo conosciamo, per questo abbiamo la necessità di raccogliere più dati e pubblicazioni! Forse non ci si vuole rassegnare alla complessità dove la certezza è pura illusione, mentre sarebbe necessaria la cooperazione fondata sulla condivisione delle conoscenze e sulla cooperazione delle discipline.

Simbiosi, i vantaggi della cooperazione
Lo studio delle basi della biologia ci insegna che i virus sono microrganismi che formano partenariati simbiotici con specie eucariotiche (e non solo) e ne abbracciano tutti gli stadi evolutivi. Come ha scritto lucidamente Aldo Sacchetti, nella sua ultima opera “Scienza e Coscienza”: “L’evento fondamentale di tutto il percorso evolutivo verso l’uomo, il sorgere della cellula eucariotica, non è stato una semplice mutazione, né il trionfo della macabra competizione predatoria spesso offerta dai programmi naturalistici televisivi, bensì la progressiva instaurazione di una simbiosi multipla, di un saldo legame interspecifico che illumina la coerenza cooperativa alla base di tutto l’ordine vivente. La nostra mente non può misurare la complessità della natura. Ne è misurata”.
In un recente articolo di approfondimento, l’illustre ricercatore di microbiomi umani David Relman ipotizza che "le simbiosi sono gli ultimi esempi di successo che si fondano sulla collaborazione e sui potenti benefici delle relazioni intime". Questa espressione eloquente sottolinea i vantaggi che la cooperazione con i partner microbici offre a tutte le forme di vita, compresi i virus. Documentare la diversità dei microbi presenti nelle diverse specie ospiti, potrà consentire alla ricerca interdisciplinare di porre nuove domande sulla natura delle interazioni tra le specie.

Come cambia una relazione
Le simbiosi microbiche sono comunemente classificate come parassitismo, commensalismo o mutualismo, tuttavia la relazione simbiotica può cambiare a seconda dei processi evolutivi che possono essere condizionati dai cambiamenti nelle condizioni ambientali e dello stato di salute dell'ospite primordiale, costretto ad adattarsi ad habitat diversi per la perdita della sua nicchia ecologica. Due aspetti, questi, che connotano lo spillover e la conseguente trasformazione opportunistica del virus che potrà diffondersi a macchia d’olio sul nuovo ospite come nel caso delle epidemie.
È il nostro modello di sviluppo e le conseguenti azioni e manipolazioni che hanno turbato questi stadi evolutivi, favorendo il passaggio da una condizione di mutua collaborazione a una condizione di invadenza opportunistica di altre specie ospiti e di diffusione epidemica e pandemica per noi esseri umani. Peter Daszak, ecologo delle malattie e presidente di EcoHealth Alliance, in un articolo pubblicato sul New York Times nel febbraio 2020 sostiene che: “la nostra impronta ecologica ci avvicina sempre di più alla fauna selvatica in aree prima inaccessibili del pianeta, il commercio, anche per collezionismo, porta questi animali nei centri urbani. La costruzione di strade con un ritmo senza precedenti comporta in molte aree una deforestazione senza seguire criteri di sostenibilità, al tempo stesso la bonifica e lo sfruttamento massiccio dei territori per fini agricoli, nonché i viaggi e il commercio ormai globale, ci rendono estremamente sensibili ai patogeni come i coronavirus”.
Orbene, affermare che siamo in guerra contro un nemico chiamato SARS-COV-2 è un’asserzione fuorviante che non fa capire l’origine del problema, alimenta le incertezze e il disorientamento, come se dovessimo armarci per combattere un nemico che non vediamo; allora, una volta “vinta la guerra” riprenderemo le nostre vecchie abitudini insostenibili. D’altro canto, per come si evolvono le epidemie un rimedio verosimilmente efficace sarebbe il vaccino che, in verità, non rappresenta un’arma ma un sussidio per stimolare una reazione compensativa del nostro sistema immunitario per ristabilire la propria omeostasi, alla sanità pubblica per offrire uno presidio per la profilassi di ulteriori contagi.

Il quadro dei sistemi sanitari
Il paradossale quadro organizzativo dei servizi sanitari ha evidenziato tutte le contraddizioni di politica sanitaria messe in atto nel corso degli anni, che ha enfatizzato le strutture ospedaliere cosiddette di eccellenza, mettendo in secondo piano i servizi territoriali di base e di prevenzione. Di conseguenza, per far fronte alla drammatica pandemia si è dovuta potenziare la rete ospedaliera delle terapie intensive, sovraffollate, scaricando gli eccedenti nelle case di riposo e sugli hospice, del tutto inadeguati ad affrontare situazioni di emergenza.
Nell’evocare il ruolo della sanità pubblica, ci si riferisce impropriamente all’assistenza ospedaliera, ciò che invece ha dimostrato clamorosamente questa epidemia è la debolezza delle organizzazioni territoriali di base finalizzate alla prevenzione primaria e alla sanità pubblica; anche nei Dipartimenti di prevenzione sussiste la frantumazione delle competenze disciplinari, burocratizzate e scarsamente integrate, con gravi limitazioni nell’approccio One Health che sarebbe dirimente per affrontare la complessità delle problematiche collegate al rischio delle EID (Emergency Infectious Diseases), alla sorveglianza sanitaria e alla prevenzione primaria.
Questo quadro drammatico ci sollecita, pertanto, ad attrezzarci per il futuro, ma con regole e condizioni diverse dalle note dolenti del passato, a partire da un potenziamento e un rinnovamento organizzativo e funzionale dei servizi territoriali di base e dei Dipartimenti di Prevenzione, alimentando un profondo rinnovamento culturale e organizzativo, con la consapevolezza di un approccio sistemico, per salvaguardare i sacrifici e i grandi investimenti ci accingiamo a mettere in atto per “ripartire”.
Streicker suggerisce che: “il lavoro futuro dovrebbe concentrarsi sui tratti del virus che potrebbero migliorare la loro propensione a saltare alle persone e dovrebbe considerare come il commercio della fauna selvatica e il cambiamento ambientale, spingano gli animali a contatto con più persone e influenzino l'emergere di virus”.
Per di più, la risoluzione delle complesse relazioni tra biodiversità e rischio EID consentirebbe un risparmio di milioni di vite umane e di costi economici esorbitanti per far fronte alle epidemie; al riguardo la strategia One Health offre una piattaforma globale per l'integrazione della mitigazione del rischio EID nella pianificazione dello sviluppo sostenibile, “equilibrando le tre dimensioni dell’Agenda 2030: economico, sociale e ambientale", con vantaggi sostanziali per i sistemi sanitari, la produzione di bestiame, la sicurezza dei cittadini, la salvaguardia degli ecosistemi.

Da: www.scienzainrete.it

Ripartire, ma in modo sostenibile

Riccardo Graziano

Siamo arrivati alla “Fase 2”, quella della ripartenza. Tutti la chiedevano a gran voce, per la necessità, l’urgenza, la smania di tornare a produrre, consumare, o almeno uscire di casa. Perché il Paese, si dice, ha voglia di tornare alla “normalità”. Ma di quale “normalità” parliamo? Quella di prima? Siamo proprio sicuri?

Il 15 maggio, alla vigilia della partenza della “Fase 2”, a Porto Marghera è esplosa una fabbrica chimica: bilancio, 6 feriti di cui due gravi e grande nube tossica sull’abitato che costringe i cittadini a tapparsi in casa per non respirare veleni. Tanto per ricordarci cos’era la nostra “normalità”: incidenti sul lavoro, inquinamento, rischio disoccupazione. E una crisi economica iniziata ben prima del blocco forzato causa pandemia, con tagli allo stato sociale e sacrifici quotidiani. Senza dimenticare riscaldamento globale, perdita della biodiversità e inquinamento da plastiche, reso oggi ancora più grave dalle tonnellate di dispositivi di protezione monouso da smaltire. Ecco, questa era la nostra “normalità”, nel caso ce lo fossimo scordato.
La crisi sanitaria, la più grave da un secolo, ha colpito duro. E le sue conseguenze peseranno a lungo. Ma, paradossalmente, ci ha dato un’opportunità, quella di ripartire sì, ma in modo nuovo, diverso, più sostenibile. Come se avessimo resettato il nostro “sistema operativo”. Ne saremo capaci, ne usciremo davvero migliori?
Forse, ma una cosa deve essere chiara: non ci sono alternative, o ne usciremo migliori, o non ne usciremo affatto. Perché il modello di sviluppo portato avanti finora è giunto ai limiti della sostenibilità, non può più reggere. Anzi, possiamo affermare che le sempre più frequenti epidemie degli ultimi anni sono fra le conseguenze del nostro eccessivo sfruttamento del pianeta, in particolare della deforestazione e del cambio d’uso dei suoli, fattori che ci mettono a contatto con virus sconosciuti.
Vale la pena dunque riflettere su come impostare la ripartenza su basi nuove, in ogni ambito. Adottando un nuovo paradigma produttivo, con la consapevolezza che tecnologie e prodotti obsoleti dovranno essere messi da parte, naturalmente tutelando o riconvertendo i lavoratori coinvolti, per evitare un aumento esponenziale della disoccupazione, destinata fatalmente a crescere. Del resto, momenti traumatici come questo si sono già presentati nella Storia, con impatti notevoli: Rivoluzione industriale, automazione, digitalizzazione…
Ora siamo nuovamente di fronte a una svolta che imporrà necessariamente delle scelte, a volte dolorose. Proviamo a fare qualche considerazione.

Innanzitutto, nonostante la narrazione in termini bellici che se ne è fatta, ricordiamoci che questa non è una guerra, è un’epidemia. Sono innumerevoli e insistenti le voci che chiedono di togliere vincoli e azzerare le procedure per poter cominciare subito a costruire, per dare impulso all’edilizia. Ma questo poteva avere un senso nel dopoguerra del secondo conflitto mondiale, in un’Italia rasa al suolo da bombe e cannonate, dove case, fabbriche, ponti e strade erano ridotti in macerie. Oggi le costruzioni sono intatte, ma le macerie rischiamo di essere noi.
Quindi, ciò che occorre veramente è una politica – ma soprattutto un’economia – che rimetta al centro la persona, garantendo nuovamente uno stato sociale degno di tale nome, a partire dalla Sanità pubblica, di cui abbiamo capito la centralità strategica e ineludibile. Occorre riprendere ad assumere personale medico, infermieristico e ausiliario, creando migliaia di posti di lavoro veri, orientati alla cura e al benessere di una popolazione che invecchia sempre di più.

Discorso analogo sul versante opposto dal punto di vista generazionale, quello dei bambini e ragazzi, con interventi straordinari in ambito scolastico, sia sulle strutture, sia sulla didattica. Occorre prevedere interventi di ristrutturazione sul patrimonio edilizio scolastico, spesso obsoleto, a volte fatiscente, approfittandone per riqualificare gli edifici dal punto di vista energetico e tenendo conto delle nuove esigenze della didattica, compresa quella del mantenimento delle distanze. Parallelamente, occorrerà implementare il corpo docenti – come sembra essere nelle intenzioni dello stesso Governo – e rivedere i programmi didattici, per preparare i cittadini di domani ad affrontare un mondo fatalmente diverso da quello attuale.
Certo, per fare questo occorrono investimenti ingenti, ma potremmo recuperarli congelando almeno momentaneamente quelle “grandi opere” che magari non sono così strategiche come sostiene certa propaganda non proprio disinteressata. O meglio ancora, tagliando una parte di quei 26 miliardi che destiniamo alle spese militari, visto che le epidemie si curano con gli ospedali, non con i carri armati, e che per far ripartire il Paese occorre creare posti di lavoro, non bombardare da qualche parte…  
Difficile, in un Paese che in tempo di quarantena ha immediatamente chiuso scuole, musei, cinema, teatri e tutto quanto avesse a che fare col settore “cultura”, ma ha tenuto costantemente in attività le industrie belliche, evidentemente ritenute necessarie quanto il comparto alimentare o la logistica. Ma, appunto, questa crisi drammatica potrebbe essere l’occasione buona per invertire la rotta in molti settori.

Prendiamo l’edilizia, da tempo in sofferenza: per garantirne la ripresa in modo sostenibile e duraturo, occorre rivedere profondamente le logiche con cui si è proceduto finora, perché il modello portato avanti negli ultimi decenni sta mostrando tutti i suoi limiti, come evidenziano i dati numerici.
L’ISTAT ha stimato che nel nostro Paese ci sono oltre 7 milioni di abitazioni non utilizzate, 700 mila capannoni dismessi, 500 mila negozi vuoti. A fronte di un tale patrimonio immobiliare inutilizzato, con un Paese che non cresce né dal punto di vista demografico, né da quello produttivo, non ha senso continuare a costruire. Eppure il Piemonte, una delle Regioni più colpite dal contagio, ha appena emanato una legge che sembra scritta apposta per facilitare ulteriore cementificazione, un’offerta immobiliare che verosimilmente resterà priva di domanda, peggiorando la situazione delle imprese invece di migliorarla.
Per contro, appare più sensata la direzione intrapresa dal Governo, con il decreto che prevede un incentivo del 110% a favore di chi riqualificherà il proprio immobile soddisfacendo alcuni requisiti specifici. Attualmente, salvo modifiche in fase di conversione in legge, occorre realizzare almeno uno dei due “interventi trainanti”, ovvero, semplificando, “cappotto termico” e/o sostituzione caldaia, ai quali si possono aggiungere altri interventi (quelli già previsti nel bonus 65%, per esempio) con l’obiettivo di guadagnare (almeno) due categorie energetiche. Se si soddisfano questi parametri, in pratica si viene pagati dallo Stato per rendere più energeticamente efficiente la propria casa, il che consente un risparmio immediato in bolletta, oltre a diminuire le emissioni inquinanti. E, naturalmente, si crea una marea di opportunità di lavoro per le imprese edili, senza consumare un solo metro di territorio per nuove costruzioni.

Altrettanto rilevanti sarebbero gli interventi antisismici, volti a prevenire quelle tragedie alle quali troppo spesso abbiamo assistito, anche per terremoti di lieve entità. Discorso analogo può essere fatto per i rischi idrogeologici, da frane e alluvioni. E l’elenco potrebbe continuare: recupero di borghi e centri storici in abbandono; riconversione di aree industriali dismesse; messa in sicurezza del territorio; ripristino delle reti idriche “colabrodo”; bonifica delle aree inquinate e altro ancora.

Intervenire sugli edifici esistenti presenta dunque molti vantaggi, senza dimenticare l’imperativa necessità di azzerare il consumo di suolo, vitale non solo per il comparto agricolo, ma per i numerosi servizi eco sistemici che offre, dal filtraggio delle acque piovane alla cattura di anidride carbonica: aspetti che, oltre all’indubbia valenza ambientale, hanno anche ricadute economiche rilevanti, che qualcuno ha quantificato in milioni di euro all’anno.
In sostanza, ripartire in modo sostenibile dopo questa emergenza, rispettando le persone e l’ambiente, non soltanto è doveroso, ma conviene.

Brigitte Bardot, i modelli, la crescita e Greta

Riflessioni per il dopo pandemia

Valter Giuliano

Continuo a vedere, nelle pubblicità dei prodotti alla moda - abiti, profumi, automobili, alimenti dietetici... - modelle straordinariamente somiglianti a Brigitte Bardot o Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Jennifer Lopez....
Stereotipi della bellezza femminile; donne belle e attraenti che continuano a “funzionare” per l’immaginario collettivo facendo sognare. Piacciono, rappresentano un valore assoluto.
Sono riconosciute icone di un mondo a trazione maschilista che si permette di giudicare l’aspetto e il vestire di una grande professionista del nostro mestiere, la giornalista RAI Giovanna Botteri, oggi inviata a Pechino, il cui look semplice e spontaneo non apparirebbe adeguato a chi, spesso, trucca se stesso e anche la verità delle notizie che ci propina.
È il pensiero unico predominante che, quanto a informazione, non ci offre ormai che qualche residuale prospettiva.
Se l’informazione sui social è malata, quella della grandi testate tradizionali sta poco bene, compresa quella sedicente pubblica.
A tal proposito, continuo a sentire e a leggere nelle reti televisive e sui giornali più diffusi un unico coro che fa appello alla crescita.
Straordinariamente simile a quelli del boom economico e del lancio della società consumistica dei tempi di B.B....
Quello che Pier Paolo Pasolini definì efficacemente «sviluppo senza progresso».
Uno stereotipo del modello di sviluppo desiderabile che è stato assunto acriticamente e artificialmente a livello di un vasto arco politico, senza distinzione alcuna, pena l’esclusione dalla modernità. Ha contaminato, penetrando come un virus, anche coloro che, prima, proponevano uno schema alternativo - a dire il vero poco raccomandabile nelle più note declinazioni pratiche -  e che ben presto si sono rassegnati a quello vincente.
Bush e Teacher hanno indicato la rotta, Blair si è presto adeguato proponendo una terza via impercorribile, come lui stesso, troppo tardi, ha ammesso.
Così è nato il sistema unico che i cloni nazionali degli uni e dell’altro hanno supinamente accettato.
Le conseguenze le stiamo vedendo e pagando. Quel sistema è indubbiamente piaciuto.
Piacerà ancora? Qualche dubbio comincia ad affacciarsi.
Oggi rappresenta sempre di più, drammaticamente, per molti, un disvalore, un clamoroso errore di valutazione sulla strada per il futuro.
Che potrà esserci solo se si sapranno recuperare atteggiamenti più sobri e più attenti anche ai princìpi di giustizia sociale, essenziali nel modello perdente.
Occorrerà forse una sintesi, per progettare nuove prospettive, probabilmente altrettanto belle e gratificanti da vivere.
Sta alle nuove generazioni impegnarsi in questa direzione.
Noi possiamo solo continuare a suggerire i necessari cambiamenti radicali noti sin dall’inizio del Novecento.
La loro necessità si evidenziò, in maniera esplosiva, con la saggistica statunitense della prima metà degli anni Settanta, ampiamente ripresa anche in Italia.
Ma è stata dimenticata troppo presto. E per esorcizzare le verità che annunciava si sono istituite Giornate mondiale dell’Ambiente, Feste della Natura, Conferenze internazionali per l’Ambiente, Concorsi per la Forestazione mondiale, cCampagne per difendere ogni specie animale o vegetale.
Pur di distogliere l’attenzione dal fatto che il problema era ed è politico, di funzionamento della società, di rapporti tra le classi sociali, di disequilibrio intollerabile tra aree geopolitiche, di sfruttamento non più tollerabile - né in assoluto né nei metodi-  delle risorse del Pianeta.
Noi che veniamo da una storia eretica come quella dalla Pro Natura, senza mai cedimenti alle lusinghe di chi ci avrebbe volentieri accolti nel recinto della tollerata opposizione, queste cose le sappiamo bene perchè veniamo dalla scuola di Valerio Giacomini e di Dario Paccino.
Oggi, è evidente, stanno per schierare i loro armamenti (non necessariamente derivati dall’industria bellica, ma spesso dalla disponibilità di dati o da strategie finanziarie e di mercato) tutte le potenze del Pianeta, sulla mappa delle grandi regioni geopolitiche: Cinindia (unione di Cina e India); America (tra USA e Canada); Paesi Arabi del petrolio (fino a quando durerà); e, in subordine, nell’attesa di essere inghiottite, Russia, Giappone ed Europa. Con la Gran Bretagna che, lasciata l’Europa, sogna un aggancio agli Stati Uniti e il ricomporsi del Commonwealth con Australia e Nuova Zelanda, però poco influenti nello scacchiere internazionale.
In questo scenario restano terreni di scontro e di conquista il continente africano (diviso dall’area del Magreb), esposto alle mire espansionistiche turche e alle mire cinesi e il Sudamerica (percorso da tensioni contrapposte e reiterati attacchi da parte degli Stati Uniti, che vorrebbero farne una colonia, come decenni di promozione o sostegno a vari golpe militari testimoniano).
Ma su questo terreno lasciamo ad altri ipotesi di futuro che non siamo in grado di sviluppare. Di cui, tuttavia, siamo preoccupati perchè al prevalere dell’una o dell’altra parte, cambiamo i destini del Pianeta.
Che tuttavia resta, lo si voglia o no, insensibile ai poteri delle umane società, e risponde solo ad altre ancestrali regole cui noi, poveri umani, ci illudiamo di poter sfuggire.
Il virus avrebbe dovuto darci consapevolezza, riportando a terra la nostra arrogante presunzione.

Natura non vincitur nasi parendo / non possiamo comandare la Natura se non obbedendole (Francis Bacon, Novum organum).
Proprio così. Siamo, singolarmente, separate cellule che appartengono a una struttura più complessa che si sviluppa in famiglie; comunitaria per costituzione, sino all’appartenenza all’organismo biologico per eccellenza, la Terra.
È questa la condizione che abbiamo dimenticato e della quale dobbiamo tornare ad avere consapevolezza e coscienza.
La meccanica quantistica ci indica addirittura la nozione per cui ogni singola cellula di ogni vivente sarebbe in contatto, al di là degli umani concetti di spazio e di tempo, con ogni altra cellula: ma questa è già un’altra storia, buona per il futuro della ricerca. Scientifica e umanistica.
La decrescita infelice che in questi mesi, obtorto collo, si è imposta può essere occasione di rinascita che può ricondurci da un determinismo cartesiano a una nuova visione animistico-olistica. Abbandonare l’ossessione della crescita ai fini del solo profitto per rendersi conto che l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità, è responsabilità di tutti.
Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio della collettività.
Bisogna tornare, come nelle società arcaiche tradizionali, a comprendere la vera direzione verso cui muoversi, la stabilità.
Che non significa affatto immobilismo.
Oggi la proliferazione delle cellule che compongono la società umana è sempre più simile a quella delle cellule cancerogene, la cui finalità è, appunto, la crescita infinita.
Il risultato è drammaticamente noto: la distruzione dell’organismo che le ospita sino alla morte. Così è per gli uomini e il pianeta.
Ecco perché è necessario quell’immaginario, radicalmente nuovo, cui siamo invitati da Papa Francesco come da Greta and Fiends.
Bisogna premere il tasto Reset e avere la forza di ricominciare un nuovo percorso che azzeri l’arrogante presunzione che ci ha condotti all’attuale, insostenibile, situazione.
Bisogna diffidare dei richiami per le allodole, che per decenni ci hanno indotti in tentazione.
Come quelle della “Confindustria statunitense” disponibile a convertirsi al green, pur di continuare a fare profitti inseguendo la mutata sensibilità dei cittadini e dunque dei consumatori e quindi del mercato.
Una cosmesi ambientalista che non convince e che segue la precedente esperienza, datata anni Settanta, quando il mondo industriale si lanciò a capofitto nel business del disinquinamento, promettendo un Pianeta ripulito da chi lo stava avvelenando per garantirsi con l’equazione “inquinare per disinquinare”, ulteriori profitti.
Non ha funzionato. Non poteva funzionare.
Ecco allora che gli “ambientalisti per caso”, quando si passa all’azione - che per essere efficace non può che prevedere ricette radicali - fanno emergere i distinguo, i “non esageriamo” e il timore di “deriva ambientalista irrazionale” della società.
Eppure di irrazionale c’è solamente il continuare sul percorso sin qui seguito, perseverando nell’attuale modello di sviluppo. Che ci propone, con grande enfasi, scorciatoie semplicistiche e inefficaci: le bottigliette di alluminio e le sporte di tela in sostituzione delle plastiche, la mobilità elettrica in sostituzione dei combustibili fossili.
Accontentatevi.
«Così siete tutti ecologisti, in pace con le vostre coscienze», soffia il fiato fetido di morte di chi si oppone al vero cambiamento verso la sostenibilità.
Neppure piantare un albero a testa va a compenso della distruzione delle foreste tropicali o dell’intollerabile consumo di suolo; e non porta alcun risultato sensibile di riconversione ecologica.
Qualcuno ricorda l’albero da piantare per ogni nuovo bimbo nato?
E sa dare indicazioni sulla sua applicazione?
Spot per qualche pagina di giornale e di breve durata. Certamente azioni utili e segni di responsabilizzazione e di impegno nel prendersi cura della Terra. Ma, altrettanto certamente, inefficaci e inapplicate.
Per ritornare seriamente alla ragionevolezza, senza la quale il futuro della nostra specie sul Pianeta diventa incerto, non abbiamo bisogno di misure placebo, distrazioni propagandistiche. Ma di cure energiche. Pena l’inefficacia di azioni blande, buone solo per la propaganda e capaci unicamente di dilazionare il tempo della resa dei conti, ma non per affrontare seriamente, in maniera responsabile e alla radice, l’emergenza ecologica.
Intanto occorre superare lo sviluppo sostenibile, astuzia semantica che mette sullo stesso piano e tenta di conciliare le ragioni della crescita economica con quelle della salvaguardia della biosfera.
Poi farsi domande di futuro che, ad esempio, tornino a prendere in considerazione la crescita della popolazione a livello globale e la necessità di stabilire un equilibrio tra popolazione umana e risorse planetarie.
Altro che allarme per la crescita zero della popolazione italiana e incentivi alla procreazione!
Far nascere figli è un atto di consapevolezza e di responsabilità, oltre che un atto d’amore; non possiamo soggiogarlo ad aberranti logiche utilitaristiche seguendo le quali si debbono fare figli per garantire badanti gratuiti e sostegno alle pensioni per gli anziani.
La bomba demografica non è disinnescata e per poterlo fare bisognerà uscire da logiche locali per considerare quelle globali su cui navighiamo, ma che utilizziamo a seconda delle convenienze.
Ma su questo tema sarà opportuno tornare, anche per dare risposte a qualche movimento spontaneo che evocando la popolazione dei mari, in gravissima riduzione, ha pensato che sulla terra ci si trovasse in analoghe condizioni. Ha riempito le piazze, ma ora è bene che riempia anche i cervelli e le coscienze, di contenuti. Altrimenti rischia di emulare un altro movimento.
I problemi che abbiamo riguardano la Terra, non le stelle né il mare.
Cosa si frappone all’adozione delle misure radicali?
L’ignoranza, appunto.
Dei vari Bolsonaro, Trump e compagnia cantante.
Che si manifesta nelle loro dichiarazioni e nelle loro azioni. Improvvisazioni che sottraggono autorevolezza a quelli che dovrebbero essere i riferimenti di una Nazione e, a volte, dell’intero mondo.
Il potere politico, anche ai livelli più alti di rappresentanza è, oggi, irresponsabile. E non si rende conto di come le parole e le azioni che propongono scatenano pulsioni ed emulazioni nella coscienza dei popoli.
La classe politica, un tempo, era conscia di questa responsabilità.
Ora?
A giudicare da twitt, comparsate televisive, blog, parrebbe proprio di no.
Si liberano pensieri come se si fosse al bar tra amici o in casa all’ora del cazzeggio.
In realtà, si tratta di ignoranza associata a vuoto pneumatico di capacità di elaborazione di pensiero innovativo e dunque adeguamento al conformismo e irresponsabile complicità nel perpetrare la società del consumismo.
Pensiamo che la responsabilizzazione di noi tutti, attraverso azioni di pratica di sostenibilità quotidiana siano utili e necessarie; ma, altrettanto convintamente, le riteniamo non sufficienti e diamo ragione al movimento di Greta che tallona i grandi decisori mondiali della politica, dell’industria e della finanza, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e chiedendo di promuovere una vera e propria rivoluzione verde.
E rivoluzione significa cambiamento radicale, non essendo più adeguato il timido riformismo ambientale che ha segnato il percorso dalla prima Conferenza mondiale sull’ambiente di Stoccolma ’72 ad oggi: decine di Summit, di risoluzioni e di “agende” tanto utili e interessanti quanto inascoltate e inapplicate.
Non bastano richiami e suggerimenti che ci spingono verso azioni virtuose.
Sono necessarie ma non sufficienti. Come piantare un albero (mentre il Testo Unico Forestale facilita l’abbattimento dei boschi); raccogliere le cicche di sigaretta in spiaggia o nei parchi; utilizzare le bottigliette di alluminio in sostituzione della plastica inquinante, ecc.
Per porre rimedi seri al degrado del pianeta, nei fatti e non solo con le parole, la conversione degli atteggiamenti personali è condizione indispensabile ma da sola è perdente.
La risposta non può essere solo il richiamo alla responsabilità dei singoli, oggi più che mai condizionata dalla potenza della pubblicità.
Occorrono azioni politiche profonde di governo dello sviluppo in maniera autenticamente sostenibile da coordinarsi a livello globale.
Di questo è indifferibile prendere coscienza a dimensione planetaria, altrimenti i Summit, da Stoccolma 1972 a New York 2019, rischiano di non essere altro che inutili farse.
Destinate, ben presto, a volgersi in tragedia.

Perché si possa immaginare che un reale cambiamento possa realizzarsi, grazie anche alla necessità di riparametrare lo sviluppo oggi più che mai urgente, occorre il consenso dell’impresa e del mercato.
Ciò che oggi pensa l’imprenditoria nostrana è ben rappresentato dal pensiero terra terra del presidente di Confindustria Bari Bat, Sergio Fontana: «Non c’è felicità senza benessere e non c’è benessere senza produzione. (Non fatevi incantare dalle false sirene della decrescita felice...)».
Ma anche il nuovo Presidente di Confindustria nazionale non pare più illuminato. Falco e degno rappresentante degli im“prenditori”, vorrebbe continuare a distribuire dividendi agli azionisti e ricevere sostegni a fondo perduto dallo Stato, dunque da noi. Il vecchio sistema di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Tutti buoni a fare gli im-prenditori così.
In più ha evocato libertà di impresa durante la chiusura per la pandemia e ora chiede contratti aziendali e non nazionali.
Quando poi addirittura Avvenire, quotidiano di ispirazione cattolica, diretto dall’ottimo Marco Tarquinio, mette in prima pagina “Lavorare meno, tutti” (nel programma dei Verdi dall’inizio degli anni Ottanta), apriti cielo!
Liquidata come una provocazione.
Come quella della richiesta dello Stato di entrare temporaneamente nei Consigli di amministrazione delle aziende sostenute a fondo perduto per evitare almeno – com’è già accaduto - che incassati i contributi pubblici (cioè delle nostre tasse) delocalizzino licenziando in Italia per assumere là dove i diritti sindacali stanno a zero.
Come vorrebbero fare i nuovi latifondisti dell’agricoltura che sfruttano, a livello di schiavitù, i braccianti, senza neppure garantire loro un riparo.
Finché i vertici delle aziende – che sovente criticano la rappresentanza politica per incapacità di selezione - non saranno in grado di meglio selezionare le loro guide - scegliendo personaggi meno arcaici, gretti e ottocenteschi (perduranti “padroni del vapore”) - la dichiarata conversione ai temi ambientali e l’annunciata adesione ai principi dell’economia circolare continueranno a puzzare, lontano un miglio, di opportunistica, spudorata menzogna.
E non è infatti un caso che a fronte di quelle sospette conversioni, si continuino a sfornare prodotti ad obsolescenza programmata. Come se non produrre rifiuti o riciclarli fossa un po’ la stessa cosa.
Eppure trascorso il tempo dell’individuazione delle responsabilità, oramai ben conosciute, è giunto il momento di praticare soluzioni per le quali vi è la necessità di una grande e complessa alleanza tra politici, scienziati, agricoltori, industriali, lavoratori, studenti, commercianti, investitori...
Purché ognuno faccia atto di pentimento, riconosca gli errori e si ponga consapevolmente e responsabilmente a disposizione di un progetto di futuro diverso da quello che è stato sin qui praticato.
L’orizzonte è quello di dimostrare, nei fatti, che si può vivere meglio ed essere più felici consumando meno, liberandoci dal lavoro per poterlo ridistribuire insieme al tempo di vita, considerando comportamenti virtuosi che possano diventare anche convenienti e dunque praticabili come scelta politica valida per tutti e non solo per qualche persona motivata e illuminata.
Questo significa anche disertare, sino ad abolire, le guerre di potere che insanguinano il mondo creando perpetua insicurezza. Significa convertire le ingenti risorse destinate agli armamenti ad un grande piano globale internazionale per guarire la Terra, la nostra comune casa.
Già nel 1909 il Mahatma Gandhi spiegava i mali della civiltà moderna condannando lo sviluppo lineare e mettendo quella che si sarebbe manifestata come globalizzazione sul banco degli imputati. Inascoltato profeta.
Inascoltati anche gli appelli che, in questo tempo sospeso a causa della pandemia, si fanno strada per suggerire nuove strategie di futuro?
I decisori internazionali, molto probabilmente, per far fronte all’improvvisa e non prevista crisi, immetteranno sul mercato mondiale liquidità in quantità mai viste.
Per agire su un vero cambiamento epocale guai se tale liquidità finisse sul mercato finanziario speculativo o nelle mani di imprenditori come quelli che abbiamo prima citato.
Sarebbe impossibile ricominciare, se non sulle basi sbagliate, continuando sulla strada della decrescita infelice.
Quella concezione d’impresa è meglio lasciarla scivolare verso il fallimento, che era già insito nelle loro basi, indifferente al valore sociale del lavoro e tesa solo a massimizzare i profitti di una cerchia sempre più ristretta di persone disinteressati alla società sofferente chi li circonda.
Cadremmo dalla padella alla brace: il mercato finanziario cui ci siamo affidati ha già dimostrato di non essere all’altezza delle ultime sfide, a partire, ad esempio, da quella del 2008, quando si pensò di uscire dalla crisi con un grande trasferimento di risorse pubbliche alla finanza privata.
I risultati li abbiamo constatati.
Lo Stato paga, ma si pretende non abbia alcuna voce in capitolo nella gestione dei denari pubblici e non debba interferire sugli assetti di potere delle imprese che salva dal fallimento. Meno che mai mettere mano ai modelli di sviluppo che sono all’origine del collasso.
Singolare pretesa.
Più che mai, il tempo del corona virus ci pone di fronte alla domanda: deve essere il mercato che regola lo Stato o lo Stato che regola il mercato?. In quale delle due opzioni c’è più democrazia?
La risposta non è indifferente, anche per le questioni ambientali.

In arrivo, tosto o tardi, ci saranno da affrontare , infatti, le emergenze provocate dalla crisi ambientale planetaria.
Appare oggi evidente che sono le istituzioni del settore pubblico quelle rivelatesi cruciali e dunque da sostenere finanziariamente.
Bisogna cogliere questo momento per virare verso un’economia definitivamente sostenibile per davvero e inclusiva, con misure di salvataggio che ridimensionino il ruolo delle multinazionali del profitto e le depotenzino, impedendo il riacquisto di azioni proprie.
Da rivedere, infine, il rapporto tra pubblico e privato che il più delle volte si è rivelato essere più una collaborazione parassitaria che una vera simbiosi come avrebbe dovuto essere nelle intenzioni.
Forse è il tempo di reinterrogarsi sulla necessità di Stati imprenditori, almeno nei settori strategici per il bene pubblico che non possono essere abbandonati nelle braccia delle logiche di pura massimizzazione del profitto.
Si rischierebbe altresì che gli investimenti dello Stato, nella formazione e nella ricerca, sfocino poi unicamente in enormi profitti privati.
Gli investimenti pubblici debbono essere restituiti alla collettività che li ha generati, impedendo che i loro benefici siano privatizzati con l’unico obiettivo del profitto.
Sono storture oggi connaturate al sistema vigente.
È tempo di cambiarlo radicalmente. C’è l’occasione per farlo.
Finché siamo in tempo.
E purché si sia ancora in grado di mettere in atto una ribellione globale all’ingiustizia sociale su cui si regge oggi il sistema mondiale.
Viviamo tempi in cui siamo educati a un rassegnato e quieto servilismo, che tiene sotto controllo inquietudini e ribellioni, che toglie fiato anche alle opportunità di discussione sui modelli alternativi di società.
Se guardiamo all’arco dei partiti politici presenti in Parlamento, registriamo un appiattimento generalizzato e diventa davvero difficile scegliere sulla base di distinguo impercettibili che certo non prospettano idee diverse di futuro.
Le strategie della paura e del precariato hanno raggiunto il loro obiettivo, nelle scuole, nelle Università, nel mondo della ricerca, nelle istituzioni pubbliche: pensiero annullato, progressiva anestesia mentale dell’intera società.
Non si protesta, non si rischia, non si espongono idee diverse. Ha vinto il ricatto.
Anche la paura catastrofista della questione ambientale è strettamente legata a questa logica e diviene strumentale per assorbire ogni potenziale sovversivo presente nella società.
Che va invece nutrito nell’esercizio di una nuova visione del mondo, cui ci dobbiamo preparare se vogliamo assicurarci nuove prospettive di vita planetaria.
Il sistema va resettato e riconfigurato. Per essere radicalmente cambiato.
Uscendo dal determinismo cartesiano per riprendere una visione animistica sia pure depurata dalla superstizione delle antiche civiltà e ricondotta alla conoscenze scientifiche.
Ciò sarà possibile in un sistema liberale e capitalistico in cui le reali strategie appartengono non già alla politica, ma alle corporazioni e alle lobby che si sono ormai inserite nei gangli decisionali a causa di una politica sempre più debole per visione e per autorevolezza etica e morale?
Avremo la forza di far tacere le lobbies e la Borsa che oggi regolano le nostre vite?

E allora, che fare?
La debolezza della politica e dei Governi è evidente.
La democrazia è ormai una finzione.
Imprese multinazionali hanno bilanci che superano di gran lunga quelli degli Stati.
Molte di loro hanno in mano fette consistenti di debito pubblico.
Le decisioni non si prendono più nei Parlamenti, ma altrove.
E non a caso le lobbies indirizzano sempre di più la politica, decidono chi sono gli eletti e poi li pilotano verso comportamenti ad esse consoni.
Sono in pochi, ormai, a sfuggire a queste logiche perverse.
E occorrerebbe una rivoluzione globale per sovvertire il sistema vigente.
Basterà la pandemia per ridefinire il nostro futuro?
Nascerà un movimento capace di convincere i cittadini a riconvertire i loro comportamenti per garantire un futuro a quei figli che in questi mesi hanno protetto e di cui, giustamente, hanno reclamato diritti e libertà?
Sanno che se tutto tornerà come prima, quegli stessi figli non avranno garanzia né degli uni né dell’altra?
L’augurio è che il “tempo sospeso” del corona virus ci abbia dato l’opportunità di riflettere su ciò che conta davvero e su ciò che vogliamo per la generazione di Grata e dei suoi amici.

Per una rivalutazione della ricerca scientifica in Italia

Paolo Pupillo

Stiamo uscendo, forse, dal momento apicale della peggior crisi economica, sociale e sanitaria che si ricordi negli ultimi cent’anni e i giornali sono pieni di auspici o raccomandazioni su ciò che il Paese dovrà fare in futuro per risollevarsi e per non ricascarci, con quello hashtag “niente sarà come prima” che va a fare il paio con l’iniziale (e surreale) “andràtuttobene”. La “scienza” è tornata al centro della scena, i politici contano quanti malati occorrono per infettarne un altro e i luminari si contendono la ribalta spiegando al popolo che deve lavarsi le mani … e infatti il consumo di acqua e di plastiche usa e getto è aumentato esponenzialmente. Manca, come sempre, l’uso ragionato della scienza vera: la scienza diffusa, vasta, popolare, quella che dà a ciascuno di noi una percezione immediata e autonoma degli eventi, delle probabili verità e delle sciocchezze. Quello che solo una scuola di qualità può assicurare a tutti, o a una maggioranza; farne cittadini consapevoli, non marionette in balia dell’ultima novità da smartphone.

Com’è indietro la scienza diffusa in Italia, ragionavo in questi mesi. Non che manchino i ricercatori e neppure i centri di ricerca, le università sono abbastanza buone, tanti studiosi italiani formati qui da noi si recano all’estero dove si distinguono nella ricerca scientifica, e in fondo che male c’è in questo fenomeno, nella “fuga dei cervelli”? Non esiste forse un ambiente sovranazionale della scienza creato apposta per superare le antiche barriere, ridare slancio alla ricerca della vecchia Europa in affanno e offrire maggiori opportunità ai giovani? Certo, ma la domanda è: l’Italia fa qualcosa di serio per trattenerli?
Perché se guardiamo dentro alle cose senza infingimenti, il problema non è di oggi. Un giorno ebbi occasione di entrare nel rettorato di una cittadina tirolese chiamata Innsbruck e vedo alle pareti dell’atrio una fila di ritratti di premi Nobel per la chimica che lì hanno servito. Poi vidi il rettorato di Strasburgo, in Francia, altra sfilza di Nobel per la fisica, e a Friburgo in Germania… Ma come, vien da riflettere, e gli Italiani vincono dei Nobel (20 in tutto) per materie scientifiche? Non troppo male con la Fisica 5 su 20 (da Marconi 1909 a Fermi 1938, Segré 1959, Rubbia 1986, Giacconi 2002) e nemmeno in Medicina con 6 (da Golgi 1906 a Bovet 1952, Luria 1969, Dulbecco 1975, Levi Montalcini 1984, Capecchi 2007), non fosse che molti di loro hanno operato in prevalenza altrove per scelta o per necessità (le cosiddette “leggi razziali”). Ma è mai possibile che abbiamo un solo vincitore in Economia (Modigliani 1985) e in Chimica (Natta 1963), con la quantità di economisti e di chimici che sono passati per le nostre università e il CNR? Della biologia non parlo non esistendo Nobel ad hoc, in quanto all’epoca di Darwin e di Mendel non era nemmeno considerata una scienza e non aveva ricevuto il suo nome (ma è una bella mancanza, anche se chimica e medicina suppliscono in parte!). Ma insomma converrete che un primo sintomo c’è: pochi Nobel per una nazione che era stata prima nella cultura e nella scienza in un passato lontano, e oggi si scopre ad arrancare in tutti i campi. Perciò una cosa andrebbe detta a gran voce agli italiani e a chi li governa a vario titolo e livello: senza una cultura e una scienza diffusa, almeno in vasti strati della popolazione, non c’è speranza di ripresa per l’Italia. La globalizzazione non farà sconti, se non ci si prepara ad essere competitivi in tutti i settori. Dall’ambiente all’informatica alle tecnologie.

Non c’è questa consapevolezza, purtroppo. Per il “rilancio” post CoVid leggo la dichiarazione della viceministra Laura Castelli, torinese, che indica in “turismo, ristorazione, made in Italy” le priorità da rifinanziare; e dispero. O se no il coro greco di quanti invocano, panacea d’ogni male, le “grandi infrastrutture” (tri-quadriplicazione di autostrade col fatale completamento della famigerata PiRuBi, pedemontane, trasversali di pianura e gronde a grandine, alte velocità e trafori a pioggia: forse per scongiurare tutto ciò parlava d’altro la sig.a Castelli) con tanto di commissari ad acta per l’inevitabile “abolizione della burocrazia”; e qui si intende l’evirazione finale delle soprintendenze, già ora semivive, con ogni residua remora ambientale paesaggistica. Già si rivedono cose che credevamo d’un tempo che fu, sfasci brutali come in questi giorni quello del piccolo Lago Santo di Cembra, delizioso e remoto SIC ridotto a spiaggia tipo Alassio con rive di ghiaia. Mentre si buttano i pochi soldi a palate in grandi imprese spesso inutili o dannose, i nodi di fondo restano sempre gli stessi. Una nazione in cui si sono sottratti linearmente fondi e posizioni alla sanità, alla scuola, all’università e alla ricerca: se ci dicono che l’Italia spende troppo, mentre gli evasori assommano alla metà dei contribuenti al fisco, noi tagliamo il 10% a quello che funziona e avanti così.

Certo, gli ultimi avvenimenti hanno convinto tutti o quasi che la sanità non può essere smantellata e richiede personale qualificato, investimenti adeguati, un’idea del futuro. Come diceva giorni fa il ministro della sanità della Repubblica Federale di Germania Jens Spahn, parlando con legittimo orgoglio della difesa tedesca dal virus: la tutela della salute crea lavoro qualificato, progresso scientifico e occupazione. Se facessimo così anche noi, i medici tornerebbero a fare i medici, gli infermieri gli infermieri, biologi e i farmacisti i rispettivi mestieri, i sofisticati macchinari di diagnosi e cura sarebbero rifinanziati e aggiornati.
Ma la necessità di un ripensamento complessivo (verrebbe da dire “un nuovo modello di sviluppo”, ma fa un po’ ridere quasi 50 anni dopo la vacua voga di quella vaga terminologia), investe molti altri settori vitali per l’Italia e il suo posto nel mondo. Le arti, i beni culturali, l’archeologia, di cui abbiamo patrimoni favolosi che si possono meglio salvaguardare e, questi sì, valorizzare: vedere per credere il rilancio del complesso di Pompei o della reggia di Caserta. Le materie tecnologiche d’avanguardia naturalmente, oggi la fisica e l’informatica, l’intelligenza artificiale, su cui l’Europa investe molto, ma sempre con un occhio prevalente a finanziare le imprese più che ai contenuti scientifici. La nuova chimica e la farmaceutica molecolare, non solo in funzione delle pandemie che ci sono e che verranno: ma anche della sanitazione dell’ambiente dalla “vecchia” chimica, un compito gigantesco a cui ogni Paese che si voglia dire avanzato dovrebbe attendere con priorità assoluta. L’energia, in primis quella da risparmiare. Le centrali nucleari (e non) da dismettere, riconvertire, smantellare. L’enorme questione irrisolta dei rifiuti, che va affrontata con indipendenza di giudizio e innovazioni tecnologiche adeguate, senza più pensare di risolverla trasferendola sull’estero. Tutto questo ha a che fare con la questione centrale delle questioni, che è quella climatica. L’elenco delle cose da fare in un domani che si voglia rendere “sostenibile” - e scusate quest’uso appropriato di un temine di cui si fa abuso - è immenso e qui si può solo accennare a qualcuna delle grandi tematiche aperte, su cui il Paese intero dovrebbe confrontarsi per un rilancio che torni a renderlo protagonista. O, se non si arriva a questo, almeno ne faccia un soggetto sano che non sia da trattare come un paziente sintomatico, come l’Europa sta (giustamente) facendo con l’Italia.

Una considerazione merita la massima attenzione, a mio avviso: non basta privilegiare la ricerca “eccellente”, come fanno in tutta Europa e come si è voluto fare in questi anni in Italia (al solito modo, s’intende): è la ricerca di base buona e diffusa quella che crea sviluppo e progresso. Oggi occorrono più ricercatori, mentre si è abolita e svuotata la categoria nominale e si è resa la vita più difficile ai giovani. Occorre un finanziamento adeguato della ricerca, attingibile da qualsiasi proposta razionale e innovativa anche se non necessariamente giudicata “eccellente” - che poi è termine largamente autoreferenziale. Una volta si diceva: piove sempre sul bagnato… ma una simile zonizzazione delle piogge è evidente che non aiuta gli assetati. Fuor di metafora, non ha davvero senso concedere fondi a una proposta di ricerca su venti. Occorrono poi valutazioni obiettive non influenzate da appartenenze politiche, logge o altre lobbies, e soprattutto senza confini disciplinari invalicabili. Voglio dire: noi siamo sempre stati quelli delle conventicole che si scambiano favori all’interno di un orticello chiuso. Col risultato di non aprire veramente all’innovazione, al confronto, alla visione di ciò che si fa in campi attigui o all’estero, al pieno riconoscimento dei valori dei vicini di casa. Una chiusa settorialità, come il localismo, come il familismo, non possono portare a reali avanzamenti. Ancora oggi le avare porte della scienza in Italia si aprono prima per gli italiani, con svantaggio per l’Italia.

Ma torniamo al nostro primo scopo come Federazione Pro Natura, che è non solo scopo sociale ma impegno individuale: esso sta principalmente nella Natura e in tutto ciò che la riguarda. E qui un minimo di bilancio va fatto. Dalla grande novità della legge 394 in poi, con la fioritura dei parchi nazionali e la creatività delle Regioni in campo ambientale, ci siamo illusi che vincolare il 10% del territorio nazionale avrebbe finalmente assicurato la tutela complessiva del territorio, di animali, piante, microrganismi, la conservazione del paesaggio che da tutti questi fattori nasce con l’apporto dell’uomo, e quindi la tutela della storia stessa del paesaggio. Abbiamo creduto che i fattori di disturbo e distruzione si sarebbero attenuati da soli col crescere dell’acculturazione e del benessere. Negli ultimi anni ci siamo resi conto che non è così. Regioni ed enti locali sono sempre più orientati alla rincorsa sfrenata alla “crescita” ad ogni costo (il piccolo esempio del Lago Santo di Cembra ne è una ennesima prova), con sguardo miope e scarso successo; le leggi urbanistiche vengono svuotate e irrise, l’agricoltura e l’allevamento industriale dilagano con labili e flebili misure di contenimento dei danni all’ambiente ed alla biodiversità. E le aree protette? Queste servono soprattutto a fare business.
No, qui ci vuole una inversione di tendenza. La ricerca va rilanciata, con priorità sull’ambiente e sulla biodiversità: che oggi col venir meno di ogni supporto pubblico sono diventati dominio di volontari e pensionati che per indagare e tutelare i nostri preziosi beni naturali, gli animali e le piante, le foreste e i prati, ci mettono molto del proprio tempo, lavoro e soldi. Che lo Stato e le Regioni dunque riprendano il loro compito primario di conservare il territorio dando anche ossigeno alla ricerca naturalistica, e a quella ricerca che cerca soluzioni tali da annullare l’uso nefasto della chimica in agricoltura, salvando gli insetti dallo sterminio in atto. Di questo si deve parlare, anche, quando si fanno proposte per lo sviluppo, l’occupazione, la benedetta “crescita”: che il bene pubblico primario, la Vita, riprenda il suo ruolo primario nel dibattito pubblico; con tutto ciò che ne deve conseguire.

La scuola e le scienze naturali al tempo del coronavirus

Mauro Furlani

In questi mesi di forzata segregazione e di sospensione di molte attività si è parlato diffusamente degli effetti che la prolungata sosta potrà avere, oltre che sul tessuto produttivo, anche su quello sociale, economico e più in generale sul futuro del Paese.
Ripartenza, ripresa, sono forse i termini più usati, come se si fosse trattato di una sosta forzata del tutto accidentale, con la certezza che da lì si ripartirà, esattamente da dove ci si è fermati, e, soprattutto diretti nella stessa direzione verso cui stavamo andando.
Crediamo che così non sarà, così non dovrebbe essere. Seppure quanto accaduto non ci abbia insegnato molto, gli eventi difficilmente ci consentiranno di percorrere la stessa direzione.
Il meccanismo trituratore dell’informazione, diventato spettacolo, protratto per mesi, oltre che numeri, statistiche e curve esponenziali, ha macinato e fagocitato anche la scienza che oltre a trovarsi impreparata rispetto a questa pandemia, ancora più disarmata è apparsa a resistere all’assalto mediatico a cui è stata sottoposta. Scienziati consultati come oracoli, dalle cui parole sembrava far derivare il futuro, si sono spesso sottoposti ad una sovraesposizione mediatica a cui non erano preparati.
La vanità personale, il momento di ribalta mediatico ha soppiantato spesso la cautela, il rigore scientifico e un linguaggio misurato che l’incertezza dei dati e l’imprevedibilità delle proiezioni avrebbe richiesto.
Dal dibattito, scienziati diventati improvvisamente nuovi protagonisti di talk-show, in contraddizione frequente tra loro, sono rimasti lontani o assenti due soggetti: l’ambiente e il sistema dell’istruzione.
Entrambi sono cardini di un nuovo assetto i cui fatti ci costringono a considerare e a porre al centro di modelli di sviluppo; la pandemia ha solo reso ineludibile e stringente questa necessità.
Le alterazioni dell’ambiente naturale, la sua usurpazione, e dunque l’inderogabile riconciliazione, dovrebbero essere poste al centro di ogni piano di sviluppo; al contrario, la tutela ambientale viene percepita come un fastidio, un impiccio nella ripresa di un cammino interrotto.
Se di ambiente altri riflettono su queste pagine, la scuola e l’istruzione meritano un primo approfondimento e una prima riflessione.

Quali saranno gli effetti che produrrà per il futuro dei ragazzi questo loro allontanamento forzato dai luoghi che gli sono più familiari, non credo sia al momento valutabile.
Per quanto riguarda l’istruzione una grande energia è stata destinata ad affrontare il contingente: come proseguire le lezioni mantenendo coesione di intere generazioni con l’istituzione scolastica; con quali modalità e precauzioni sanitarie affrontare gli esami nei vari ordine di istruzione; come valutare gli esiti didattici di uno studente la cui partecipazione al processo formativo è stata solo virtuale.
Qualche proiezione è stata fatta in merito alla ripresa della didattica del prossimo anno. Nessuna visione prospettica, nessuna riflessione in merito agli effetti culturali e le ricadute che l’assenza del contatto fisico, del confronto culturale, generazionale, spesso assente in famiglia, potrà avere per il futuro, soprattutto se questa situazione riapparirà e si protrarrà anche nel prossimo anno scolastico.
Attraverso la scuola, con i suoi studenti, passa la visione del futuro, quella di un paese e del mondo. L’istruzione dei giovani pone orizzonti ampi con ricadute nei decenni.

Nei mesi precedenti lo scoppio della pandemia, pur con mille contraddizioni, questo soggetto giovanile si è reso visibile e protagonista con le manifestazioni per il clima e per l’ambiente, che proprio all’interno del mondo della scuola ha trovato la sua coesione.
Questo incrina anche un’altra certezza, quella di coloro che riteneva questi movimenti giovanili altro non fossero se non una estensione del mondo virtuale autoalimentato dalla rete.
I fatti dimostrano che non era così, o forse non solo così. Il luogo fisico di aggregazione, di scambio di idee, di emozioni, non era la rete. Al contrario, durante questi mesi di isolamento, l’uso di strumenti informatici, pur avendo avuto una forte espansione, non è riuscito a sostituire i luoghi fisici di aggregazione e di discussione reali, come avviene nel mondo della scuola.

È proprio all’interno di questo insostituibile spazio fisico e culturale che può maturare il confronto di idee, la consapevolezza e, attraverso il confronto, lo studio e anche lo scontro, la crescita.
Da parte di molti, mai come in questo periodo è stata forte la tentazione, per sfuggire alle ansie di una situazione nuova e angosciante, rifugiarsi in spiegazioni e in atteggiamenti irrazionali.
Quanto è emerso non è stato solo una carenza di informazione, ma il riemergere di dogmatismi mai sopiti, che evidenziano una carenza di base nella cultura naturalistica e scientifica, un deficit culturale di questo Paese. Come spiegare altrimenti l’acuirsi di fobie e ostilità, ad esempio nei confronti dei pipistrelli, ritenuta essere stata la specie serbatoio dalla quale il virus pandemico ha effettuato il salto, lo spillover? Fenomeno questo che può essere anche vero ma che non può certo accomunare tutte le specie.
Addirittura analoga fobia irrazionale ha coinvolto anche i nostri animali domestici, cani e gatti, il cui abbandono è aumentato significativamente.

Quando nel 1963, grazie anche alla spinta del nascente Movimento per la Protezione della Natura, venne reintrodotto in tutte le scuole l’insegnamento delle Scienze naturali, emarginato dal regime fascista, questo insegnamento rispondeva ad una nuova sensibilità naturalistica prima che ambientalista.
Questa emarginazione della cultura scientifica, in particolare delle scienze naturali, ha origini ancora più profonde rispetto a Giovanni Gentile, che le mise in atto con la riforma scolastica durante il regime fascista. Benedetto Croce così si espresse:
“Gli uomini di scienza (...) sono l’incarnazione della barbarie mentale, proveniente dalla sostituzione degli schemi ai concetti, dei mucchietti di notizie all’organismo filosofico-storico” (da “Il risveglio filosofico e la cultura italiana”, 1908).
Per riportare questo insegnamento nelle nostre scuole un ruolo centrale lo ebbe proprio Alessandro Ghigi, il cui percorso scientifico e personale, con luci e ombre, si interseca profondamente con quello della Federazione. Il suo giudizio rispetto alla Riforma Gentiliana, almeno rispetto alle scienze naturali, era netto e senza appello “eliminò dalla cultura italiana la conoscenza della natura”.

Il ripristino delle Scienze naturali ha restituito dignità a questa disciplina, senza tuttavia mai farle raggiungere il peso formativo di altre ritenute più centrali, quali la fisica, la matematica e in parte la chimica. Nonostante questo ritrovato interesse per le scienze, l’eredità gentiliana della netta separazione tra il mondo umanistico e quello scientifico ancora oggi fa fatica a trovare un momento di sintesi e di riappacificazione. Le scienze naturali, per questa loro collocazione a cavallo tra le due, potrebbero rappresentare quel ponte culturale tra due mondi che ancora oggi stentano a riallacciare un legame e un dialogo.
Le scienze naturali, nelle loro indagini e argomentazioni, utilizzano sia strumenti tipici delle discipline scientifiche cosiddette dure, sia strumenti tipici delle discipline storico/umanistiche. Si pensi al riguardo alla formalizzazione matematica applicata all’ecologia di popolazione, esattamente un secolo fa dal matematico Vito Volterra, oppure interi volumi, senza neppure una formula matematica, dedicati alla definizione del concetto di specie.
Questa contraddizione non si è mai del tutto sanata, anzi, le scienze naturali, spingendosi sempre più in campi biochimici, si sono ulteriormente allontanate da quello studio della natura e dell’ambiente da cui sono nate.
Del tutto emarginate dall’insegnamento attuale sono le discipline più direttamente afferenti allo studio della natura, degli ecosistemi, della biodiversità e alla comprensione delle dinamiche e delle interazioni tra dimensione antropica e naturale.
La biologia divenuta sempre più lo studio e l’insegnamento dell’infinitamente piccolo, in una dimensione estraniante dalla sperimentazione. Il microscopico non legato al macroscopico.
I pochi timidi tentativi che la scuola aveva cercato di portare avanti in questi anni, rispetto ad una innovazione non solo metodologica, ma anche didattica con l’apertura a tematiche come quelle dello studio dell’ambiente, sembrano al momento quasi completamente azzerati, sopraffatti dal contingente. Lo studio della natura ha bisogno di esperienze reali, di confronto, di sperimentazione laboratoriale e osservazione sul campo e quel poco che la scuola stava portando avanti è stato brutalmente interrotto.
L’allontanamento delle scienze della natura dal vissuto quotidiano, alienando le discipline sperimentali dell’approccio emozionale ed empatico, mina profondamente una acquisizione consapevole.

Certo, la tecnologia offre numerosi strumenti didattici, incrementati notevolmente in questi ultimi tempi sotto la spinta della necessità didattica. Tuttavia l’assenza del contatto fisico con l’oggetto della sperimentazione attenua quel saper fare e quel coinvolgimento emotivo e partecipato che dovrebbe accompagnare il sapere teorico.
Se la normale frequentazione degli spazi didattici riprenderà in tempi brevi, già dall’inizio del prossimo anno, gli effetti dal punto di vista educativo e culturale potranno essere limitati. Al contrario, se l’anno che si aprirà presenterà le stesse problematiche vissute nell’ultima parte di quest’anno, queste potranno incidere in profondità sui livelli culturali di queste generazioni con ferite profonde e forse non rimarginabili.
L’educazione ambientale che ogni Ministro negli ultimi anni ha interpretato in genere come una sorta di educazione alle buone abitudini ambientali, e quasi mai come scienze dell’ambiente, come scienza dotata di una propria metodologia di indagine, dovrebbe diventare strumento di formazione insostituibile, con un suo apparato teorico in grado di legare attorno a sè tutte le altre discipline. Ricongiungendo quell’unico sapere che dai due rami principali, umanistico e scientifico si è poi diramato ulteriormente in mille rivoli perdendo di vista i punti di partenza.

La paralisi del sistema scolastico fa emergere anche un altro problema, ben noto, ma sempre accantonato e ora non più eludibile, quello degli spazi fisici dentro i quali la didattica è praticata. Spazi fisici e strutture scolastiche spesso inadeguate, sia ad assicurare il distanziamento che il Covid-19 obbligherebbe, sia a sviluppare una didattica adeguata.
Un piano di rilancio del sistema produttivo del Paese dovrebbe ripartire proprio dalla centralità del sistema dell’istruzione, da una ridefinizione dei contenuti didattici ma anche degli spazi all’interno dei quali questi contenuti sono discussi ed elaborati, accantonando definitivamente quelle infrastrutture faraoniche che ciclicamente, come un fiume carsico, riemergono.

Ripensare la mobilità e puntare sull'elettrico

Riccardo Graziano

Il 2020 verrà ricordato nelle cronache come annus horribilis, funestato da una pandemia di portata planetaria. Al tempo stesso, possiamo considerarlo un anno di svolta. Sono infatti in parecchi a ritenere che dopo questa drammatica esperienza il mondo non potrà più essere come prima. Ciò è vero sotto molteplici aspetti, tra cui quello della mobilità.
È possibile che, una volta usciti a fatica dall’emergenza sanitaria, dovremo abituarci a un mondo ridimensionato: la produzione industriale vedrà una marcata flessione, così pure probabilmente gli scambi commerciali e gli spostamenti in genere. Non possiamo infatti dimenticare che un’epidemia nata in Cina si è propagata per tutto il pianeta con una rapidità un tempo impensabile, a causa della globalizzazione che favorisce o addirittura impone un vorticoso spostamento di merci e persone. All’opposto, il rimedio più efficace per contenere il contagio è stato ridurre gli spostamenti. Finita la fase emergenziale, dovrebbe apparire dunque chiaro come occorra comunque ridurre gli scambi globali, tornando a filiere locali che avvicinino produzione e consumo, riducendo le necessità logistiche dettate dall’attuale modello mercantilista.
La riduzione degli spostamenti deve essere poi attuata anche a livello locale. Nei giorni di blocco forzoso imposti dalla quarantena abbiamo sperimentato le ampie possibilità del telelavoro, dell’istruzione da casa, delle conferenze e dibattiti da remoto, restando tranquillamente nelle proprie abitazioni, senza perdere ore nel traffico. Abbiamo capito che tutto ciò è più comodo, più efficiente, più economico. E abbiamo riscontrato che può produrre una riduzione dell’inquinamento con una rapidità e un’ampiezza che non immaginavamo.

Naturalmente, è impensabile continuare così sul lungo periodo: scuole, uffici, fabbriche dovranno riaprire, le persone dovranno tornare a muoversi. Ma con una visione differente, sapendo che molti spostamenti potranno essere evitati, semplicemente collegandoci da casa tramite internet. Ne potrebbe conseguire una sensibile diminuzione del traffico privato, tale da favorire una valorizzazione del trasporto pubblico o della mobilità ecologica. Per capirci, un autobus non più imbottigliato nel traffico sarebbe in grado di portarci a destinazione in metà tempo, mentre potremmo (ri)scoprire la comodità e l’economicità di andare in giro in bici con maggiore sicurezza.
Nel frattempo, dovremmo rompere gli indugi e mettere compiutamente in atto quella transizione ormai avviata verso la mobilità elettrica, impiegando tempo e risorse per adeguarci rapidamente a un cambiamento inevitabile, piuttosto che per cercare di posticiparlo forzosamente. Prima che lo scoppio dell’epidemia stravolgesse ogni aspetto del nostro vivere, i segnali erano inequivocabili: dalle dichiarazioni degli addetti ai lavori all’interesse degli automobilisti, passando per le pubblicità, nella quali auto ibride ed elettriche comparivano regolarmente, tutto faceva capire che la direzione era quella. Anche il Salone di Ginevra, che a causa dell’epidemia già serpeggiante in Europa, si era svolto solo in modalità “virtuale”, aveva presentato svariati modelli con propulsione elettrica.

Dopo la quarantena, sia il Governo italiano che l’Unione Europea hanno deciso di puntare sulla mobilità elettrica, stanziando fondi ed emanando normative ad hoc. Analizziamo dunque  le prospettive di questa tecnologia ormai avviata verso una fase matura, evidenziando i suoi (molti) pro e (pochi) contro.
Dopo anni di ostracismo, fomentato dalle case automobilistiche tradizionali e dalle compagnie petrolifere che vedevano nell’auto elettrica un grave pericolo per i loro interessi miliardari, ora questo nuovo paradigma della mobilità sta prendendo piede e, nonostante resistenze preconcette e una inevitabile inerzia iniziale, arriverà a rivoluzionare il nostro modo di muoverci.
Intendiamoci: la mobilità elettrica non è e non sarà la panacea di tutti i mali, ma può produrre un sensibile miglioramento nella lotta all’inquinamento e al riscaldamento globale, grazie all’assenza di emissioni allo scarico e alla superiore efficienza rispetto ai motori termici. Argomenti che vale la pena approfondire, perché su questo c’è molta disinformazione, spesso voluta e non certo disinteressata.
Il testo di riferimento in materia è senz’ombra di dubbio la “Roadmap per la mobilità sostenibile”, pubblicato nel maggio 2017 sotto l’egida congiunta di tre Ministeri - Ambiente, Infrastrutture e Trasporti, Sviluppo Economico - alla cui stesura hanno partecipato tutti i “portatori di interesse”, compresi costruttori di auto e aziende petrolifere, oltre a produttori di energia, organizzazioni ambientaliste, enti statali e altro ancora. Dunque una pubblicazione che tiene conto di tutti i punti di vista e i cui dati possono essere assunti come certi e imparziali.

Per quanto riguarda gli inquinanti, vengono considerati più rilevanti il monossido di carbonio (CO), gli ossidi di azoto (NOx) e le polveri sottili (PM10 e PM2,5), misurati su cicli distinti individuati dalle sigle WTT (Well-to-Tank, dalla fonte al serbatoio), TTW (Tank-to-Wheel, dal serbatoio alle ruote) e WTW (Well-to-Wheel, in pratica la somma dei primi due). Prendendo in considerazione il ciclo TTW, ovvero quello che misura le emissioni delle automobili in marcia, pertanto il più rilevante per quanto riguarda l’inquinamento nei centri urbani, scopriamo che i motori a benzina, gpl e metano emettono molto più monossido di carbonio dei diesel, mentre questi ultimi emettono più ossidi di azoto e polveri sottili, particolarmente insidiose per la salute dei cittadini, fermo restando che le motorizzazioni più recenti hanno in generale emissioni inferiori rispetto a quelle dei motori più obsoleti.
All’opposto, i veicoli elettrici, semplicemente, NON hanno emissioni. Dal loro tubo di scappamento non esce nulla. Anzi, nemmeno ce l’hanno, il tubo di scappamento. Per questo possiamo dire che non è un semplice miglioramento dell’esistente, è proprio un radicale cambio di paradigma, come quando siamo passati dall’illuminazione con le candele alle lampadine. Con questa nuova tecnologia a disposizione, non ha più senso spendere milioni in ricerche tecnologiche per migliorare i motori termici, conviene invece investire per riconvertire le filiere alla produzione di veicoli elettrici.
E non è un caso se utilizziamo il termine “veicoli”. Perché è la stessa automobile intesa come mezzo di trasporto privato che verrà messa in discussione, in un mercato che sta lentamente transitando dalla mentalità del “possesso” a quella del “servizio”. Una modalità nuova, che abbiamo iniziato a conoscere col car-sharing, una delle nuove forme di mobilità condivisa, formula con la quale non si acquista più un mezzo proprio, ma la possibilità di utilizzarlo quando serve. Un passaggio necessario, perché la riduzione dei mezzi di trasporto individuali è fondamentale per abbattere gli inquinanti e rendere più vivibili le nostre città. Perché è vero che un’auto elettrica inquina infinitamente meno di una col motore a scoppio ed è anche più silenziosa, ma tiene lo stesso spazio nella circolazione e nei parcheggi. Meglio dunque incentivare il trasporto pubblico, purché sia ovviamente a sua volta elettrificato, sostituendo al più presto gli obsoleti bus a combustibili fossili.

Tornando alla mobilità individuale, non possiamo scordare che una parte rilevante del PM, il particolato fine che si insinua nei nostri polmoni, deriva dall’usura, sia quella provocata sulle “pastiglie” dall’utilizzo dei freni, sia quella degli pneumatici (e dello stesso asfalto) provocata dal rotolamento delle ruote. Problemi dai quali non sono esenti nemmeno le auto elettriche, che però godono di un enorme vantaggio, quello della frenata rigenerativa, che consente il recupero dell’energia cinetica come ricarica delle batterie, anziché dissiparla sotto forma di calore come avviene nei veicoli tradizionali. Un altro punto a vantaggio delle auto elettriche.

Ma prima ancora di tutto ciò c’è un altro aspetto fondamentale che fa pendere la bilancia verso il motore elettrico rispetto a quello a scoppio, cioè il suo miglior rendimento assoluto, ovvero la capacità di sfruttare meglio l’energia. I rendimenti dei motori termici migliori si attestano intorno al 30% per i benzina e 40% per i diesel, mentre i motori elettrici possono superare il 90%. Si tratta dunque di un sistema più efficiente di utilizzo dell’energia, che consente il risparmio sui consumi e di conseguenza minori emissioni inquinanti.
Naturalmente, sono in molti a far notare che l’energia elettrica occorre prima produrla. E qualcuno arriva addirittura a dire che se la si produce col carbone si inquina ancora di più che coi motori a scoppio. Indice di una mentalità fossile - nel senso di ancora troppo legata ai combustibili fossili – analoga a quella che non molti anni fa asseriva che le fonti rinnovabili “non potevano essere competitive”. Invece oggi sappiamo che lo sono, perché coprono ormai circa un terzo del fabbisogno energetico del nostro Paese e hanno anche raggiunto la grid parity, ovvero il pareggio di costo rispetto alle fonti fossili, come certificato a fine ottobre 2019 da Bloomberg, specializzato in stime finanziarie.

E a proposito di finanze, qualcuno ha iniziato a fare i conti su un parco vetture ormai significativo, giungendo a concludere che l’auto elettrica, a fronte di un maggiore esborso iniziale, consente risparmi notevoli, in grado di ammortizzare in pochi anni la differenza con i corrispettivi modelli termici. Un dato rilevante, perché sappiamo che nelle scelte di molti consumatori pesa più il portafoglio della coscienza ambientale o delle preoccupazioni per la salute collettiva.

L’auto elettrica costa davvero di più?

Riccardo Graziano

Il mercato delle auto elettriche in Italia è ancora una questione di nicchia, contrariamente a quanto succede in Norvegia, il Paese più avanzato in questo senso, dove queste vetture rappresentano ormai oltre un terzo delle nuove immatricolazioni.
Il mercato norvegese si è fortemente indirizzato in questa direzione grazie a cospicui incentivi statali, perché il Governo di Oslo ha scelto di puntare decisamente verso queste motorizzazioni meno inquinanti, fatto sorprendente se si considera che il Paese nordico è il maggior produttore petrolifero d’Europa (Russia esclusa), ma che denota la lungimiranza di una classe dirigente che progetta un futuro maggiormente ecosostenibile. Naturalmente, il successo dell’auto elettrica in Norvegia non sta solo nell’incentivo economico iniziale, ma anche nella soddisfazione degli utenti per il mezzo e nell’efficienza delle infrastrutture dedicate, ovvero la rete delle colonnine di ricarica.
Gli stessi fattori che, all’opposto, frenano la diffusione di queste vetture nel nostro Paese, dove gli utenti sono largamente influenzati da un’informazione che mette in risalto molto più le problematiche della mobilità elettrica rispetto ai numerosi vantaggi, peraltro “dimenticandosi” dei problemi ancor più rilevanti causati dalle motorizzazioni a scoppio. È per questo motivo, per esempio, che nell’opinione pubblica è più diffusa la preoccupazione di dover smaltire le batterie delle auto elettriche fra trent’anni, piuttosto che l’allarme per l’aria che respiriamo oggi nelle nostre città, appestate dalle emissioni dei motori termici.

In realtà, l’auto elettrica sconta certamente svariati problemi legati a una tecnologia agli inizi, ma la situazione sta evolvendo in maniera piuttosto rapida, anche se i più non se ne rendono conto, perché il sistema mediatico è ancora troppo sbilanciato a tutela delle energie fossili e delle vetture termiche e non mette in evidenza i progressi nel settore della mobilità elettrica.
Prendiamo le colonnine di ricarica: una delle obiezioni più frequenti di chi non si fida a comprare l’auto elettrica è che poi è difficile trovare dove ricaricare. In realtà, oggi in Italia abbiamo già più di 4.000 colonnine e ogni giorno se ne aggiungono di nuove. In Piemonte, per fare un esempio, si è passati dalle 2 (due!) del 2015 a circa un centinaio attuali, in poco più di quattro anni.
Ma il maggior freno all’acquisto di un’auto elettrica è la convinzione (errata) che costi enormemente di più di una vettura tradizionale. Questo sempre a causa di un’informazione sbagliata, ma anche perché a volte si identificano le auto elettriche con il leader di mercato, ovvero Tesla, azienda decisamente all’avanguardia rispetto a tutti gli altri concorrenti, che produce solo veicoli elettrici e dunque ha dovuto puntare su vetture di alta gamma per recuperare in tempi più brevi gli elevati investimenti che ha dovuto sostenere puntando su qualcosa di totalmente nuovo. È chiaro che, in questo caso, si tratta di auto non alla portata di tutti. Ma sarebbe come identificare il motore a scoppio con le Ferrari. In realtà ci sono elettriche per tutti i portafogli, grazie anche agli incentivi previsti per l’acquisto di vetture nuove e alla crescita di un mercato dell’usato con occasioni interessanti.

Ma il bello viene dopo l’acquisto, come dimostra un recente studio del Politecnico di Milano, lo Smart Mobility Report 2019, che mette a confronto i costi di gestione della motorizzazione elettrica e a benzina. L’analisi è stata fatta sul segmento “B” del mercato, quello delle utilitarie, dove le elettriche vantano diversi modelli. In effetti, si è visto che il prezzo iniziale di un’auto tradizionale di questa fascia è mediamente di 21.700 euro, mentre per l’elettrica si sale a 34.600. Una bella differenza, che però non tiene conto degli incentivi e del fatto che in tale cifra è ricompresa anche l’installazione di una wall-box, ovvero l’apparecchiatura per la ricarica domestica, che secondo l’indagine copre il 60% del fabbisogno di ricariche. Il resto è ripartito fra un 10% di ricariche normali, un 5% di “fast”, le ricariche veloci per quando si viaggia, e ben il 25% gratis, grazie alle colonnine di centri commerciali e strutture che le utilizzano come “bonus” per i clienti.
Con queste percentuali, si è calcolato che per una percorrenza annua di 11.000 km, al costo attuale dell’energia, l’esborso sarebbe di 283,8 euro, contro i 1.056 euro che si spenderebbero per fare lo stesso percorso a benzina, con un risparmio di 772,2 euro. A questo occorre aggiungere che, al momento, anche le polizze assicurative risultano più basse per i veicoli elettrici, che spesso godono anche di altre agevolazioni su base locale (esenzione dal bollo per 5 anni in quasi tutte le Regioni, parcheggi gratis in alcuni Comuni, ecc.). Non ultimo, i costi di manutenzione annua, ancora a favore dell’elettrica, mediamente 150 euro contro i 500 del termico.

Questi calcoli denotano un risparmio medio di 1.300 euro l’anno, in grado di ammortizzare nell’arco di dieci anni la differenza di prezzo iniziale, ma al lordo degli incentivi, come si diceva sopra. Se invece teniamo conto del bonus statale, il periodo di pareggio si dimezza a 5 anni. E va ancora meglio a quei cittadini che vivono in Regioni o Comuni che a loro volta erogano ulteriori contributi all’acquisto.
Nei casi più fortunati, si arriva al pareggio dopo un solo anno, nonostante l’apparente divario di costo iniziale, poi si è in guadagno per tutto il tempo di vita utile dell’auto, che è comunque meno soggetta a usura rispetto a una col motore a scoppio, grazie alla maggior semplicità costruttiva e di funzionamento dei propulsori elettrici che, tanto per fare un esempio, non necessitano del cambio marce.
Questo perché, come spiegherebbe un tecnico, il motore elettrico è sempre “in coppia”, dunque in grado di erogare in ogni istante il massimo della potenza, dalla partenza alla velocità massima. Caratteristica questa che consente accelerate brucianti e prestazioni sempre brillanti, il tutto nel più assoluto silenzio.
È proprio questo mix di potenza e comfort a far sì che chiunque provi a guidare elettrico, difficilmente torna indietro. Molti di coloro che si sono indirizzati su queste motorizzazioni per motivazioni “ecologiche”, per abbattere le emissioni, sono rimasti affascinati dalla insospettabile brillantezza delle auto “a batteria”. Dall’altro lato, chi non vuole rinunciare alla guida sportiva, può continuare a farlo con un minore impatto sull’ambiente.
Occorre solo quel pizzico di coraggio e determinazione necessari per fare un “salto” verso una tecnologia nuova, che richiede piccoli adattamenti rispetto a ciò a cui siamo abituati. Ma oggi il fattore economico potrebbe indurre molti a prendere seriamente in considerazione questa opzione, ormai uscita dalla fase pionieristica.

E poi, se proprio non ci si osa a fare il “grande balzo in avanti”, un’ottima soluzione di transizione può essere una vettura Phev, cioè l’ibrida con entrambi i motori, termico ed elettrico, ma anch’essa ricaricabile alle colonnine. Un modo per entrare nel nuovo paradigma della mobilità elettrica, con la sicurezza di non rimanere a piedi per mancanza di colonnine, grazie al motore a scoppio, da utilizzare il meno possibile, ma utilissimo per non soffrire di “ansia da ricarica” come a volte capita agli elettrici puri.