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Codice Forestale Camaldolese - Le radici della sostenibilità

Dom Salvatore Frigerio

La comunità monastica di Camaldoli, fin dal suo primo sorgere attorno al 1024, stabilì un rapporto vitale con l’ambiente forestale, fino ad assumerlo a simbolo e custode della vita monastica. Qui troviamo il nodo che collega la tradizione camaldolese a quella biblica.
Nel 1080 Rodolfo, il quarto Priore dell’Eremo, codifica per la prima volta le consuetudini di vita della comunità romualdina (Liber eremiticae regulae aeditae a Rodulpho eximio doctore. Biblioteca della città di Arezzo, cod. 333, sec XI). La sua opera viene ampliata da Rodolfo II all’inizio del XII secolo. In questo nuovo codice camaldolese l’Autore ci offre pagine altamente dimostrative del rapporto tra i monaci e la foresta. In una pagina particolarmente ricca di poesia è raccolta tutta la tensione ascetica dei monaci che vivono in sintonia con l’ambiente, fino a registrare la loro “identificazione” con gli alberi. Il brano (cap. 49) canta i sette alberi elencati nel libro di Isaia quali segno della fertilità della terra rifondata da Dio (Is 41,19) e, contemplandone le proprietà, vi scopre l’indicazione di quelle virtù che ogni monaco deve possedere. Ma va oltre affermando che ogni monaco deve diventare quegli alberi!

“Pianterò, Egli dice, nel deserto, il cedro e il biancospino, il mirto, l’olivo, l’abete, l’olmo e il bosso”. Se dunque desideri di possedere di questi alberi in abbondanza o se brami di essere tra loro annoverato (ut inter eos computari), tu chiunque sii, studiati di entrare nella quiete della solitudine (in solitudine quiescere). Quivi infatti potrai possedere, o diventare tu stesso (aut cedrus fieri) un cedro del Libano che è pianta di frutto nobile, di legno incorruttibile, di odore soave: potrai diventare, cioè, fecondo di opere, insigne per limpidezza di cuore, fragrante per nome e fama; e come cedro che si innalza sul Libano, fiorire di mirabile letizia (mira iocunditate florescas). Potrai essere anche l’utile biancospino, arbusto salutarmene pungente, atto a far siepi, e varrà per te la parola del profeta “sarai chiamato ricostruttore di mura, restauratore di strade sicure”. Con queste spine si cinge la vigna del Signore: “affinché non vendemmi la tua vigna ogni passante e non vi faccia strage il cinghiale del bosco né la devasti l’animale selvatico”. Verdeggerai altresì come mirto, pianta dalle proprietà sedative e moderanti; farai cioè ogni cosa con modestia e discrezione, senza voler apparire né troppo giusto né troppo arrendevole, così che il bene appaia nel moderato decoro delle cose. Meriterai pure di essere olivo, l’albero della pietà e della pace, della gioia e della consolazione. Con l’olio della tua letizia illuminerai il tuo volto e quello del tuo prossimo e con le opere di misericordia consolerai i piangenti di Sion. Così darai frutti soavi e profumati “come olivo verdeggiante nella casa del Signore e come virgulto d’olivo intorno alla sua mensa”. Potrai essere abete slanciato nell’alto, denso di ombre e turgido di fronde, se mediterai le altissime verità, e contemplerai le cose celesti, se penetrerai, con l’alta cima, nella divina bontà: “sapiente delle cose dell’alto”. E neppure ti sembri vile il diventare olmo, perché quantunque questo non sia albero nobile per altezza e per frutto, è tuttavia utile per servire di sostegno: non fruttifica, ma sostiene la vite carica di frutti. Adempirai così quanto sta scritto:”Portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di Cristo”. Finalmente non tralasciare di essere bosso, pianticella che non sale molto in alto ma che non perde il suo verde, così che tu impari a non pretendere d’essere molto sapiente, ma a contenerti nel timore e nell’umiltà e, abbracciato alla terra, mantenerti verde. Dice il profeta:”Non alzate la testa contro il cielo” e Gesù: “chi si umilia sarà esaltato”. Nessuno dunque disprezzi o tenga in poco conto i ministeri esteriori e le opere umili, perché per lo più le cose che esteriormente appaiono più modeste, sono interiormente le più preziose. Tu dunque sarai un Cedro per la nobiltà della tua sincerità e della tua dignità; Biancospino per lo stimolo alla correzione a alla conversione; Mirto per la discreta sobrietà e temperanza; Olivo per la fecondità di opere di letizia, di pace e di misericordia; Abete per elevata meditazione e sapienza; Olmo per le opere di sostegno e pazienza; Bosso perché informato di umiltà e perseveranza.”

Il testo esalta virtù che appartengono indistintamente ai monaci e agli alberi, in un sorprendente reciproco confondersi. In questa pagina è gettato il fondamento di tutta l’attenzione amorosa ed edificatrice che i monaci hanno offerto alla “loro” foresta. Proprio da qui si dipana il lavoro di custodi appassionati, che nel turgore della foresta riflettono il turgore della loro ascesi e che ritrovano le tappe del loro cammino monastico negli alberelli posti a dimora. Per questo non vi sarà più una legislazione successiva, riguardante la vita della comunità monastica, che tralascerà di disciplinare il rapporto monaco-foresta, se non quando questo sarà interrotto dalle soppressioni civili che ne toglieranno ai monaci la cura, nel 1810 (soppressione napoleonica) e nel 1866 (soppressione sabauda tuttora vigente). Si verifica quindi una legislazione forestale del tutto singolare: non viene promulgato un codice a parte, specifico per la gestione forestale, ma questa è parte integrante delle Costituzioni che regolano la vita dei monaci. Si tratta di un caso unico in tutto il monachesimo cristiano. Nel 1520, stampato con i tipi in legno della nuovissima tipografia installata nel monastero, viene pubblicato un libro di grande importanza: la Regola di vita eremitica (Paulus Justiniani, Eremitice vite regula a beato Romualdo Camaldolensibus Eremitis tradita: seu Camal.Eremi Istitutiones, Monasterio Fontis Boni MDXX, p.37 ss.). Si tratta della prima organica legislazione, promulgata dal priore Paolo Giustiniani, dotto umanista veneziano (1476-1528). Quest’opera, che possiamo considerare il primo compendio ben articolato di tutte le precedenti norme stabilite dai Camaldolesi, ci dimostra come il rapporto con la foresta fosse parte integrante della regola di vita di quei monaci. Silvano Razzi, abate del Monastero fiorentino di S. Maria degli Angeli, ci dà, nel 1575, una traduzione della Regola del Giustiniani in lingua toscana (Regola della Vita Eremitica… Le Constituzioni Camaldolesi tradotte dalla lingua latina nella toscana, a cura di Silvano Razzi, Fiorenza MDLXXV, pp. 22-23 e p. 198). Da questa riprendiamo alcuni passi.

“… se saranno gl’Eremiti studiosi veramente della solitudine, bisognerà che habbiano grandissima cura, & diligenza, che i boschi, i quali sono intorno all’Eremo, non siano scemati, ne diminuiti in nium modo, ma piu tosto allargati, & cresciuti. Si possono adunque tagliare Abeti, per edificazione della Chiesa, delle Celle, & dell’altre stanze, & officine dell’Eremo; (…) con la sola licenza, & concessione del Maggiore [il Priore. Ndr]. Quando poi bisogna tagliarne quantità maggiore (…) ciò si faccia, ma con speciale licenza del Capitolo dell’Eremo: ne altri si conceda licenza di tagliare Abeti. (…) Procurino (…) con diligente cura che per ogni modo, si piantino ciascun’anno, in luoghi opportuni, & vicini all’Eremo, quattro, ò cinque mila Abeti. (…) La qual cosa, se per sorte, un anno (che Dio nol voglia) non si facesse, l’anno seguente facciasi per l’uno, & per l’altro. Ne altrimenti si possano tagliare Abeti, se ciò prima non sarà stato fatto” .“Alla cura finalmente de gl’Abeti, si dee deputare uno del numero dei fratelli (…); l’ufficio del quale sia attendere con diligente cura, & sollecitudine, che non siano ne tagliati, ne offesi, ò vero guasti in alcun modo; & procurare, che di nuovo, come si è detto sopra a suo luogo, se ne piantino. & usare ogni diligenza alli piantati, accio che possano crescere; & quando se n‘ha da tagliare, mostrare quali, & dove si possa fare con manco danno della bellezza della selva; & fare in breve con diligenza tutte le cose, che appartengono alla cura, & custodia de gl’Abeti”.

Nel 1639 le nuove Costituzioni di Camaldoli introducono la Guardia Forestale. Così recita l’articolo 7:
“Molto importa che le selve dei nostri eremi siano ben guardate, e conservate, e però si habbi l’occhio chi sia, e di condizione, il custode di quelle: perciò deve essere giovane, e robusto, che possa una volta, et ancora due bisognando, ogni giorno circondare le selve, et cacciare via gli animali di vicini, et procurare che non si facci danno.” (da G. Cacciamani, L’antica foresta di Camaldoli, Ed. Camaldoli, 1965, p. 31).

Nel 1850 un Regolamento del Priore dell’Eremo documenta la creazione di un Caporale che sovrintende al lavoro dei Taglialegna (Bifolci) e dei Macchiaioli (D.G.B. Casini, Regolamento per i Macchiajoli, 1850, copia ms. Archivio di Camaldoli).
L’ultimo intervento risale al 1866, esattamente due mesi prima della soppressione Sabauda. In via ordinaria era esclusiva competenza del Capitolo di Camaldoli, cioè dell’assemblea della Comunità, prendere tutte le decisioni necessarie per garantire la buona gestione della foresta. In quelle assemblee, i cui Atti Capitolari ci offrono ampia documentazione, spettava al Priore e al Cellerario (economo) dell’Eremo presentare le proposte; dopo la discussione si procedeva alla votazione segreta; decideva solo la maggioranza assoluta (50%+ I). La proposta approvata passava agli Atti Capitolari e neppure il Priore poteva modificarla. Qualora questo si fosse verificato, il responsabile, fosse anche il Priore Generale, incorreva nella ‘scomunica”! E non sembri esagerato il provvedimento, dal momento che la decisione era stata presa dalla Comunità in modo solenne, e dunque, trasgredirla significava “rompere la comunione” con la Comunità stessa. Se, nell’ambito della vita civica, emanare leggi e osservarle è un atto di maturità etica, nella Comunità monastica diviene espressione e testimonianza di condivisione del cammino di fede. Anche questo può diventare monito per tutti noi, cittadini, amministratori e politici! Anche in questo la regola di vita camaldolese può essere richiamo per tutti.
Le maggiori preoccupazioni della suddetta legislazione erano:
I) La custodia della foresta, e in particolare degli abeti, non intesa come “imbalsamazione”: la foresta era “viva” ed era “sacra” e perciò doveva essere “nutrita” con un premuroso avvicendamento che la rinvigorisse. Per il mondo cristiano il sacro non è statico ma dinamico!
2) Da quanto sopra derivava una regolamentazione del taglio degli abeti, controllato da disciplina ferrea.
3) La piantagione degli abeti. I primi documenti al riguardo risalgono al XVI secolo: nella Regola del I520 si disciplinò per la prima volta la messa a dimora dell”Abies Alba”, presente da sempre in quella foresta. Vi fu fissato un numero minimo di 4-5000 abeti l’anno. Anche questo numero andò crescendo, fino ad arrivare ai 30.000 annui del 1801.
4) La vendita degli abeti. La prima documentata risale al 1313, fatta al Fiorentino Guiduccio Tolosini: si trattava di un taglio di 3.000 tronchi, al prezzo complessivo di 2.500 fiorini d’oro. Ciò intensificò il rinnovamento ciclico della foresta che però non fu mai sottoposta a sfruttamento irrazionale. Essa fu sempre difesa, anche quando si prospettò la Soppressione. Proprio in quella occasione nel 1866 i monaci rifiutarono l’offerta di un milione di lire di un ricco mercante di Livorno per un vasto taglio di abeti che avrebbe compromesso l’integrità del patrimonio forestale. 

Nel 1866 la soppressione sabauda ha interrotto definitivamente l’opera forestale dei Monaci Camaldolesi.
Dicevo, introducendo, come, oltre ai libri, la vita della foresta fosse regolata da una miriade di fogli sparsi lungo i secoli, la cui importanza è determinante per documentare la vivace dinamica della silvicoltura camaldolese.
Si tratta di decreti di priori; atti capitolari; tariffari per il prezzo del legname confrontato con quello di altre segherie; note per il pagamento dei barrocciai che trasportavano il legname fino al porto di Poppi, sull’Arno; tabelle per gli stipendi dei dipendenti; ricevute doganali; contratti di vendita del legname; atti di acquisto di nuovi terreni boschivi; liti per lasciti testamentari o per problemi di vicinato, particolarmente vivaci con le confinanti foreste dell’Opera del Duomo di Firenze; lettere che chiedono consigli tecnici; documenti con i quali il Granduca di Toscana nel 1817 affida ai Camaldolesi le suddette foreste dell’Opera del Duomo; memorie presentate al Parlamento del nuovo Stato Italiano dai Comuni del Casentino per scongiurare la soppressione della comunità monastica e della sua foresta; carte della nuova amministrazione demaniale che si serve della competenza tecnica dei “monaci soppressi” e di uno in particolare che lavora a tempo pieno presso il nuovo ufficio statale
Da questa costellazione di fogli è possibile apprendere, passando a volte di sorpresa in sorpresa:
- le tecniche per la rinnovazione del bosco, artificiali per i vivai e naturali tramite il prelievo dei selvaggioni in bosco;
- i tipi di taglio, pochissimi a raso, fitosanitari con ripuliture del sottobosco, e “a scelta” per assortimenti particolari (alberi maestri per navi);
- le strutturazioni coetanee e pure di abete bianco, con l’adozione dei “ronchi utili” per depurare il terreno dai parassiti, con la rotazione di colture, con la rinnovazione naturale che garantiva la selezione;
- la disposizione per spazi conservati alla silvicoltura spontanea;
- l’uso di marchiare a martellatura le piante destinate al taglio;
- le numerose elemosine in legname per i più diversi destinatari;
- le punizioni per i trasgressori delle norme di taglio;
- lo scavo dei laghetti per l’irrigazione dei vivai;
- l’assistenza gratuita ai dipendenti malati, accolti nell’ospedale del Monastero allestito nel 1046 accanto alla Foresteria o Hospitium di Fontebona e gestito dai monaci fino alla soppressione napoleonica del 1810 (da notare che Spedale e Hospitium erano sostenuti nel loro servizio gratuito dall'utile ricavato dall'amministrazione della foresta);
- le pensioni di vecchiaia per gli stessi dipendenti;
- la provvigione della dote di nozze alle figlie dei dipendenti o alle giovani indigenti del territorio;
- le percentuali sugli utili del legname trasportato via fiume concesse al gestore del porto di Poppi;
- il contratto per la fornitura di 360 travi per la ricostruzione del tetto e della soffittatura della Basilica di S.Paolo in Roma, distrutta dall’incendio del 1832.
Questi “Fogli” preziosi sono conservati nell’Archivio del Monastero di Camaldoli e nell’Archivio di Stato di Firenze e sono ora consultabili grazie al lavoro svolto in tre anni di ricerca che ne ha digitalizzato oltre 45.000 permettendo così la pubblicazione di quattro volumi, come risulta dal Sito www.forestaetica.com.

Vi era poi la coltivazione di un orto botanico dove i monaci “speziali” coltivavano le numerose erbe medicamentose (officinali) che si aggiungevano a quelle che spontaneamente nascevano in foresta, usate per la confezione dei medicinali per lo “Spedale” (da G. Ciocci, Cenni storici del S. Eremo di Camaldoli, Firenze 1864, pp.102-104).
E poi ancora gli innumerevoli e diversificati interventi sul territorio e oltre, che provvedevano alla costruzione di lazzaretti, ospedali, opifici o addirittura, in Firenze (XIII sec.), all’edificazione del quartiere popolare di San Frediano, primo esempio di architettura popolare realizzato per venire incontro al problema delle masse contadine che dalle campagne ormai insicure si riversavano in città (fenomeno di urbanesimo allora in corso). Dunque un modo di operare che non nasceva da meri progetti di investimento economico ma dalla preoccupazione di edificare un rapporto con gli uomini e l’ambiente secondo il progetto proposto dalla Parola di Dio rivelata nella Scrittura Giudaico-Cristiana.
E ancora lettere di visitatori, illustri e no, che descrivono l’incanto di quei luoghi che testimoniano “quanto possa operar natura, quando non la si maltratta, e quanto essa contraccambi l’amor dell’uomo”, come scrive Halfred Bassermann nel suo commento alla Divina Commedia di Dante Alighieri, riferendosi proprio alla foresta di Camaldoli, descrivendo il Casentino nel XXX Canto dell’Inferno (vv.64-67).
Si tratta dunque di un materiale veramente prezioso nei contenuti e incalcolabile nella quantità.
Materiale testimone di “un mondo che non è solo una riserva di alberi e di animali, ma che, proprio perché è un mondo, è un risultato di vite, di storie, di processi, di testimonianze, di ricerche, di fatiche, di lotte e di successi, di sconfitte e di vittorie, di solitudini e di incontri non riducibili a un mero problema tecnico ed economico; questo solo non si addice certamente a una realtà viva e perciò depositaria di un mistero che solamente la sua storia può far percepire e che nessun tecnico può mutare ma solo ascoltare e servire perché tale mistero sia conservato. (…) Qui tutti, dalla possente e secolare quercia al trepido e armonioso capriolo, sono depositari di una storia che nessun turista, e tanto meno nessun tecnico, ha il diritto di ignorare (…) soprattutto oggi che questi splendidi luoghi (…) possono rischiare di essere trasformati in doloroso oggetto di consumo, destinato a quell’usa e getta a cui ci stiamo tanto abituando, salvo poi a pagarne tutti insieme e singolarmente le dolorose conseguenze.” (Simone Borchi, Foreste Casentinesi, prefazione di Salvatore Frigerio, pagg.8-9, Ediz. DREAM, 1989).
Oltre ottocentocinquanta anni di lavoro complesso e appassionato che attende di essere conosciuto perché molto può offrire alla conoscenza storica del nostro Paese, alla riflessione di chi non vede nella natura un idolo inappellabile ma una realtà che con l’uomo e per mezzo dell’uomo cammina verso il suo compimento armonico; alla competenza tecnica di chi, oggi, lavora affinché il “servizio all’ambiente” sia sempre più un servizio all’uomo riappacificato con se stesso e con tutto il cosmo. Sono convinto che solo questa riappacificazione possa promuovere quella “qualità della vita” che oggi si ripropone come “esigenza nuova” come segno della capacità insita nell’Uomo di “emergere” dalle sue obnubilazioni passate e presenti, capacità che non deve sfuggire a coloro che nella comunità civile, nella ‘polis”, hanno esattamente il compito di “educare” i rapporti, gestendo e individuando tutti gli strumenti atti a sostenere e a dare compimento a questa vocazione dell’Uomo e dell’Ambiente in comunione tra loro.
È dunque altamente significativo il fatto che l’UNESCO abbia posto  l’attenzione a questa Etica monastica camaldolese nei confronti del rapporto Uomo/Ambiente, avviando il progetto del suo riconoscimento quale Valore Immateriale Universale in questi nostri giorni tanto bisognosi di attenzione amorosamente operativa nei confronti di tutta questa nostra Madre Terra, di questo Giardino che è stato a noi consegnato perché lo “servissimo” (è il termine esatto di Genesi 2,15 che ha un valore cultuale!) per poterlo coltivare.

Posidonia: le foreste sottomarine

Ferdinando Boero

Posidonia oceanica, una delle più importanti piante dell’area Mediterranea, è spesso confusa con un’alga. È invece una pianta con fiori e frutti, che abita i fondali mediterranei dalla superficie fino a 30-40 m e, se l’acqua è particolarmente limpida, anche a profondità maggiori. Come molte altre piante, la posidonia perde le foglie e queste si accumulano sulle spiagge dove, di solito, vengono chiamate “alghe” da chi non sia molto esperto di mare. La città sarda di Alghero deve il suo nome agli ingenti ammassi di foglie di posidonia che si accumulano da tempi immemorabili sulle sue spiagge e che, ovviamente, sono da sempre considerati alghe.
La posidonia ha radici che si insinuano tra le rocce o la sabbia (a seconda del fondale), un fusto, detto rizoma, e un fascio di foglie. I rizomi morti restano sul posto e su di essi crescono i nuovi rizomi, formando piattaforme che innalzano il livello del fondo marino, rendendolo compatto. Le praterie di posidonia sono presenti lungo tutte le coste italiane, con l’eccezione di quelle del centro e del nord Adriatico. Molte specie oggetto di protezione sono rare, ma la posidonia è un habitat prioritario per l’Unione Europea proprio per la grande diffusione delle sue praterie.
Perché sono così importanti?
Il primo motivo, ovviamente, è che sono un’espressione della natura, e già solo per questo meritano rispetto. Ma le praterie di posidonia rivestono grande utilità anche per la nostra specie. Dato che le piattaforme sono vere e proprie biocostruzioni, come le formazioni coralline tropicali, se c’è la posidonia, il fondale è “vivo” e cresce. Se manca la posidonia il fondale va più facilmente in erosione a causa del moto ondoso. Il primo servizio che la posidonia ci offre, quindi, è di proteggere le coste dall’erosione e non è solo la presenza dei rizomi attaccati al fondo a smorzare l’azione delle onde. Le foglie vive, attaccate ai rizomi, infatti, attutiscono il moto ondoso e lo rendono meno devastante. Anche le foglie morte svolgono ruoli importanti. Queste, infatti, sulle spiagge formano ammassi enormi, abitati da una fauna molto particolare, su cui si frangono le onde. Invece di portar via la sabbia, le onde si accaniscono sulle foglie morte che, quindi, sono un’efficace difesa costiera. Le foglie si sfilacciano e le onde le “lavorano” facendole diventare quelle palle di fibre che i biologi chiamano egapropili. Sono in molti a considerare come sporcizia gli ammassi di foglie che, quindi, vengono rimossi. Chi va al mare, spesso, vorrebbe essere come in piscina, e considera “sporcizia” ogni manifestazione della natura. Un grave errore. Assieme alle foglie, infatti, si rimuove anche la sabbia e, tolta la protezione, le onde erodono la spiaggia “pulita”. Oltre a proteggere la costa dall’erosione, inoltre, le praterie di posidonia sono un habitat accogliente per molte specie di pesci di valore commerciale, soprattutto per gli stadi giovanili che trovano rifugio tra foglie e rizomi: la posidonia aumenta la pescosità del mare! Oltre ai pesci, spesso considerati come l’unica manifestazione di un qualche valore della vita marina, la posidonia ospita numerose specie che vivono solo in questo habitat. Si tratta di piccoli invertebrati, e di alghe. La maggior parte della biodiversità è costituita da specie poco appariscenti che, a occhi profani, non rivestono particolare importanza. Sono queste specie a rendere possibile il funzionamento degli ecosistemi e, quindi, anche l’esistenza della fauna che tanto ci piace. Come tutte le piante, inoltre, la posidonia assorbe anidride carbonica e produce ossigeno. Le nostre attività, invece, consumano ossigeno e producono anidride carbonica. La deforestazione è un moltiplicatore del cambiamento climatico dovuto a eccesso di anidride carbonica in atmosfera, e la perdita di praterie di posidonia è una forma di deforestazione, con conseguenze identiche a quelle riscontrate a terra: diminuisce la biodiversità, aumenta l’erosione, si perde il “servizio” di rimozione di anidride carbonica e di produzione di ossigeno.
L’elenco di attività che costituiscono un pericolo per l’integrità delle praterie è molto lungo. La pesca a strascico è illegale nelle praterie di posidonia, ma viene comunemente praticata, assieme a molti altri tipi di pesca che, invariabilmente, lasciano profonde cicatrici nelle piattaforme di rizomi, contribuendo alla loro erosione. Anche l’ancoraggio delle barche da diporto ferisce le piattaforme di posidonia, per non parlare di trincee scavate per far passare condotte sottomarine. La sedimentazione causata dalle attività umane tende a soffocare la prateria: le difese costiere, le massicciate, le discariche sono assolutamente proibite in presenza di posidonia, ma il divieto viene spesso ignorato. Chi non conosce l’importanza della posidonia trova inconcepibile che una qualsiasi attività possa essere proibita per la sua presenza, e persino chi deve far rispettare le regole spesso non è molto sensibile a queste tematiche.
Si innescano così processi di degrado causati da profonda ignoranza. Se gli ammassi di foglie sulla spiaggia sono rimossi, la spiaggia arretra. Ogni metro di spiaggia rappresenta un reddito per i balneari, e così la spiaggia viene ricostituita attraverso opportuni ripascimenti: si deposita sabbia sulla linea di costa, per sostituire quella portata via dal mare. Le foglie che si accumulano vengono opportunamente rimosse, così l’erosione continua. Il mare, invece di portar via le foglie, porta via la sabbia e la deposita sulla prateria, soffocandola. Così, oltre alla protezione delle foglie morte, viene meno anche l’azione di smorzamento delle onde dovuta alla presenza della prateria viva. L’erosione aumenta e i ripascimenti non bastano più. Si ricorre alle difese rigide e si costruiscono massicciate per proteggere il litorale, magari uccidendo gli ultimi resti della prateria. In questo modo si sostituisce una costa rocciosa (la massicciata) alla costa sabbiosa, e spesso si forma una lagunetta putrida tra la massicciata e la spiaggia, oramai priva di qualunque attrattiva. Il processo può richiedere molti anni e avviene in modo graduale, così si stenta a comprendere quali siano le cause di questa catastrofe. La spiaggia che si voleva proteggere e “pulire”, magari per avere un reddito con la gestione degli stabilimenti balneari, viene distrutta. Finita la posidonia, il mare è anche meno pescoso e la varietà dei pesci diminuisce.
Come spesso avviene quando si distrugge il capitale naturale (in questo caso la posidonia) per incrementare il capitale economico (la gestione della spiaggia a fini turistici), nel lungo termine si hanno svantaggi economici (in termini di perdita di metri di spiaggia) ben superiori rispetto agli iniziali vantaggi. Distruggere la natura non conviene neppure economicamente.

Queste le cattive notizie, ma ve ne sono anche di buone. Il Mediterraneo, cinque milioni di anni fa, si prosciugò quasi completamente e restarono solo lagune molto salate nelle aree più profonde. Questo periodo di regressione viene chiamato Crisi del Messiniano. Alcune specie che abitavano quel mare quasi prosciugato (la Tetide) sopravvissero e ripresero il loro spazio quando, aperto lo stretto di Gibilterra, l’acqua dell’Atlantico entrò a costituire il Mediterraneo odierno. La posidonia è un “relitto tetideo”: una specie che è sopravvissuta alla crisi del Messiniano. Dagli stagni sul fondo dell’antica Tetide, la posidonia è risalita verso la superficie man mano che si innalzava il livello del nuovo mare: il Mediterraneo.
Le nuove condizioni, però, probabilmente non erano così favorevoli ad una specie che vive in condizioni di elevata temperatura e salinità. Nella parte settentrionale del Mediterraneo, a memoria d’uomo, la posidonia si è riprodotta solo asessualmente, con nuovi rizomi originati dai vecchi rizomi, senza produrre fiori e frutti e senza produrre, quindi, nuove piante attraverso la riproduzione sessuale. Le fioriture di posidonia si osservavano soltanto sulle coste africane del Mediterraneo.
A partire dagli anni 80 del secolo scorso, però, le fioriture di posidonia sono diventate via via più frequenti, assieme all’attecchimento dei semi e la nascita di nuove piante per riproduzione sessuale. Siamo tutti preoccupati per il riscaldamento globale, ma pare che l’innalzamento della temperatura del Mediterraneo stia favorendo la pianta più importante del bacino che, quindi, potrebbe anche affrontare con maggiore resistenza le traversie dovute alle nostre pratiche dissennate. La riproduzione sessuale, inoltre, tende a far aumentare la variabilità genetica e permette una diversificazione su cui agisce la selezione naturale: le varianti più idonee tendono a prevalere su quelle più deboli e la specie si “rinforza”.
È ancora presto per poter dire che la posidonia è in ottime condizioni, visto che nel Mediterraneo orientale, e precisamente in Libano, è recentemente scomparsa a causa dello sconsiderato sviluppo costiero e dell’inquinamento. Sono inoltre pochissimi gli studi sull’impatto sulle piante marine degli erbicidi usati in agricoltura: i pesticidi dilavano in mare attraverso le falde e i fiumi e, come sono programmati per uccidere le piante nocive all’agricoltura, così potrebbero avere effetti negativi sulle piante marine. Questo campo di indagine è ancora quasi inesplorato.

Le associazioni ambientaliste hanno maturato, negli ultimi decenni, una sensibilità ai temi ambientali che va ben oltre le specie carismatiche che tutti ben conosciamo. Se è facile puntare sull’emotività del grande pubblico chiedendo la protezione di animali come i delfini o le tartarughe, è senz’altro più difficile convincere chi è digiuno di questioni ambientali che non bisogna “pulire” le spiagge dalle foglie morte di posidonia e che quegli ammassi sono una benedizione per l’ecologia costiera.  L’alfabetizzazione ecologica è ancora un pio desiderio che renderà finalmente effettiva la conversione ecologica predicata da Papa Francesco in Laudato Si’. Per convertirsi a una scienza, l’ecologia, è necessario conoscerla. Nei percorsi di formazione, dalle elementari alle medie superiori, l’ecologia trova pochissimo spazio e viene spesso sacrificata per approfondire altre discipline. Si tratta di un errore madornale: non si può proteggere e rispettare ciò che non si conosce, e non si può concepire la natura solo come manifestazione estetica (il paesaggio e gli animali carismatici) senza comprendere il ruolo essenziale delle specie apparentemente poco importanti, come la posidonia. Ancora trattata alla stregua di spazzatura che lorda le spiagge e che deve essere prontamente rimossa.

Foreste al macello

Riccardo Graziano

È di qualche settimana fa il rapporto di Greenpeace “Foreste al Macello”, che mette in luce il rapporto tra la carne che viene importata in Europa e Italia dal Sudamerica e la deforestazione in atto in quei territori, in particolare nell’Amazzonia brasiliana.
L’organizzazione ambientalista spiega nel dettaglio come avviene in genere il processo che porta a insediare allevamenti intensivi di bovini nelle zone di foresta disboscata: “La foresta, che appartiene al pubblico demanio, viene distrutta (spesso illegalmente) e trasformata in pascoli da una determinata azienda agricola; tramite un’autodichiarazione, l’azienda agricola iscrive l’area forestale, deforestata e occupata, nel Registro Ambientale Rurale per regolarizzarne la proprietà; dopo un certo periodo di tempo, gli animali che pascolano sull’area deforestata vengono venduti a un’altra azienda agricola che opera in aree non legate a deforestazione; la nuova azienda agricola acquista regolarmente il bestiame e lo vende a un macello o ad aziende di lavorazione della carne; le aziende di lavorazione della carne la rivendono sul mercato nazionale o internazionale; nei nostri fast-food, ristoranti, supermercati arriva, assieme ad altre produzioni, carne prodotta a scapito delle foreste, di cui spesso i rivenditori europei ignorano l’origine”.
Infatti i vari passaggi servono proprio a “confondere le acque”, cioè a nascondere la “reale provenienza della carne, occultando il legame fra produzione della carne e deforestazione”. Per accertare il reale luogo di provenienza occorrerebbe un’indagine approfondita sulla filiera di produzione, cosa che in genere non viene fatta, per cui è possibile che la carne venduta da noi sia “contaminata” dalla deforestazione.
Nel rapporto, asserisce Greenpeace “abbiamo analizzato il caso dell’azienda agricola Paredão, edificata e avviata all’interno del parco statale Ricardo Franco, nello stato del Mato Grosso in Brasile. L’area è classificata come protetta e Paredao è accusata di spostare il bestiame fuori dal parco prima di venderlo, per nascondere il legame delle sue attività con le aree deforestate illegalmente nel Parco. Secondo le nostre indagini, tra aprile 2018 e giugno 2019, l’azienda Paredão ha venduto 4.000 capi di bestiame all’azienda Barra Mansa, che si trova fuori dai confini del Parco. Barra Mansa rifornisce le principali aziende di lavorazione della carne del Brasile: JBS, Minerva e Marfrig, che a loro volta esportano carne in tutto il mondo, Italia inclusa”.
È già di per sé singolare il fatto che si consenta l’insediamento di una simile attività produttiva all’interno di un parco. In questo caso è poi particolarmente grave, visto che l’area protetta, come ci evidenzia la stessa Greenpeace, presenta caratteristiche peculiari di notevole rilievo: “Il parco statale Ricardo Franco, creato nel 1997, copre un’area di 158 mila ettari (una superficie superiore all’estensione della città di Roma) e si trova al confine tra il Brasile (stato del Mato Grosso) e la Bolivia, dove si incontrano l’Amazzonia, il Cerrado, la savana più ricca di biodiversità del Pianeta e il Pantanal, la più grande zona umida del mondo. Si tratta quindi di un’area preziosa, in cui interagiscano specie animali e vegetali uniche, dando origine a una biodiversità ricchissima che include 472 specie di uccelli e numerosi mammiferi in via di estinzione, come il formichiere gigante. Nonostante la sua importanza, il parco non è mai stato adeguatamente protetto e nel corso degli anni il 71 per cento della sua estensione è stato occupato da 137 aziende agricole, interessate a creare pascoli per bestiame destinato al macello, a scapito della foresta”.
Questo disastro ecologico, che va a incidere su uno dei più grandi polmoni verdi del pianeta e su una riserva di biodiversità unica al mondo, avviene con la complicità (inconsapevole?) degli importatori europei, che non si curano particolarmente di capire quale sia la reale provenienza della carne importata dal Sudamerica, nonostante siano ormai numerose le evidenze che dimostrano come troppo spesso la produzione avviene a scapito della foresta. In particolare, Greenpeace stima che: “i consumi nell’Unione europea sono legati al 10 per cento della deforestazione globale, che avviene prevalentemente al di fuori dei confini dell’Ue”.
Il problema è legato principalmente alle aziende importatrici, ma non bisogna dimenticare che “i cittadini europei – ammonisce Greenpeace – rischiano di essere complici inconsapevoli della distruzione di foreste fondamentali per il Pianeta, come l’Amazzonia”. Per tale motivo l’organizzazione ambientalista ha chiesto alla Commissione europea “di presentare rapidamente una normativa che garantisca che carne e altri prodotti, come la soia, l’olio di palma e il cacao, venduti sul mercato europeo, soddisfino rigorosi criteri di sostenibilità e non siano legati alla distruzione o al degrado degli ecosistemi naturali e alle violazioni dei diritti umani”.
È importante sottolineare, infatti, che la deforestazione, oltre a incidere sui meccanismi del riscaldamento globale e contribuire alla perdita della biodiversità, spesso va a colpire le popolazioni indigene, che vedono ridursi i territori e le risorse che permettono loro di vivere da sempre in armonia con l’ambiente che li circonda. Per tale motivo, esorta Greenpeace “multinazionali e governi devono impegnarsi immediatamente ad interrompere le relazioni commerciali con chi distrugge biomi essenziali per le persone e il Pianeta!”.
Un monito rivolto ai vertici, ma che occorre declinare anche a livello di noi cittadini/consumatori. Infatti, occorre sottolineare che, in definitiva, sono le nostre scelte a orientare il mercato: diminuire il consumo di carne – come evidenziato da numerosi studi e rapporti internazionali – è uno dei metodi più efficaci per ridurre il nostro impatto sul pianeta, sia in termini di emissioni nocive, sia per porre un freno alla deforestazione e alla perdita della biodiversità.
Soprattutto, è un modo per tutelare la nostra salute, visto che gran parte delle epidemie degli ultimi anni, compresa l’attuale, devastante Covid-19, appartiene alla categoria delle zoonosi, ovvero malattie di provenienza animale spesso causate dall’insediamento di allevamenti in territori un tempo coperti di vegetazione naturale. È proprio in quei luoghi, infatti, che ci sono le più elevate possibilità di spillover, ovvero il cosiddetto, temutissimo “salto di specie”, quello che porta virus sconosciuti a passare dagli animali selvatici a quelli domestici e da questi all’uomo.

Tratto da Agendadomani (www.agendadomani.it)

Simbiosi e complessità: le parole chiave per il post COVID-19

Aldo Di Benedetto

Si continuano a rilanciare messaggi di ripresa come se nulla fosse cambiato e nulla cambierà rispetto al pre-Covid-19. E invece la ripartenza dovrebbe fondarsi su alcuni punti chiave, nei quali le regole e le condizioni sono diverse rispetto al passato.
Per far fronte alle conseguenze della pandemia da virus SARS-COV-2, che ha coinvolto aspetti non solo sanitari ma anche sociali ed economici, ritengo non si possa prescindere da un innovativo modello scientifico e istituzionale, abbandonando quei presupposti riduzionistici che ci hanno condotto in un vicolo cieco. Questo vale per la ricerca scientifica: ci eravamo illusi di aver eliminato la malattie infettive, invece siamo in piena emergenza pandemica; quanto alle istituzioni pubbliche pagano lo scotto di avere perso il controllo delle regole dello sviluppo economico, finito nelle mani di grandi gruppi finanziari che hanno condizionato la globalizzazione dei mercati e le regole del gioco. La ripartenza, quindi, dovrà fondarsi su una visione complessa e un approccio sistemico che faccia leva su una nuova organizzazione delle istituzioni sanitarie e sociali e su una visione integrata e coerente degli obiettivi sanciti dall’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile.

"Più si comunica, meno si comunica": il paradosso della società
Credo che questo sia un percorso obbligato, tuttavia si continuano a rilanciare messaggi di ripresa come se nulla fosse cambiato e nulla cambierà rispetto al passato. Quotidianamente assistiamo alla inflazione di informazioni che imperversa sui mass media e sui social, alla contrapposizione di esperti e scienziati nel dare riscontro alle domande che vengono dai cittadini, inermi di fronte a un drammatico scenario.
Al riguardo vorrei citare un’affermazione molto significativa del filosofo ed epistemologo Mauro Ceruti: “C’è un paradosso nella nostra società: più si comunica e meno si comunica, più piovono informazioni e meno siamo informati, più siamo interdipendenti e meno siamo solidali. Il morbo della semplificazione è andato di pari passo con la frammentazione dei saperi e delle discipline, che ha isolato gli esperti nelle rispettive specialità”.
Gli scienziati chiamati in causa spesso si rifugiano nell’incertezza; in molti sostengono che questo virus non lo conosciamo, per questo abbiamo la necessità di raccogliere più dati e pubblicazioni! Forse non ci si vuole rassegnare alla complessità dove la certezza è pura illusione, mentre sarebbe necessaria la cooperazione fondata sulla condivisione delle conoscenze e sulla cooperazione delle discipline.

Simbiosi, i vantaggi della cooperazione
Lo studio delle basi della biologia ci insegna che i virus sono microrganismi che formano partenariati simbiotici con specie eucariotiche (e non solo) e ne abbracciano tutti gli stadi evolutivi. Come ha scritto lucidamente Aldo Sacchetti, nella sua ultima opera “Scienza e Coscienza”: “L’evento fondamentale di tutto il percorso evolutivo verso l’uomo, il sorgere della cellula eucariotica, non è stato una semplice mutazione, né il trionfo della macabra competizione predatoria spesso offerta dai programmi naturalistici televisivi, bensì la progressiva instaurazione di una simbiosi multipla, di un saldo legame interspecifico che illumina la coerenza cooperativa alla base di tutto l’ordine vivente. La nostra mente non può misurare la complessità della natura. Ne è misurata”.
In un recente articolo di approfondimento, l’illustre ricercatore di microbiomi umani David Relman ipotizza che "le simbiosi sono gli ultimi esempi di successo che si fondano sulla collaborazione e sui potenti benefici delle relazioni intime". Questa espressione eloquente sottolinea i vantaggi che la cooperazione con i partner microbici offre a tutte le forme di vita, compresi i virus. Documentare la diversità dei microbi presenti nelle diverse specie ospiti, potrà consentire alla ricerca interdisciplinare di porre nuove domande sulla natura delle interazioni tra le specie.

Come cambia una relazione
Le simbiosi microbiche sono comunemente classificate come parassitismo, commensalismo o mutualismo, tuttavia la relazione simbiotica può cambiare a seconda dei processi evolutivi che possono essere condizionati dai cambiamenti nelle condizioni ambientali e dello stato di salute dell'ospite primordiale, costretto ad adattarsi ad habitat diversi per la perdita della sua nicchia ecologica. Due aspetti, questi, che connotano lo spillover e la conseguente trasformazione opportunistica del virus che potrà diffondersi a macchia d’olio sul nuovo ospite come nel caso delle epidemie.
È il nostro modello di sviluppo e le conseguenti azioni e manipolazioni che hanno turbato questi stadi evolutivi, favorendo il passaggio da una condizione di mutua collaborazione a una condizione di invadenza opportunistica di altre specie ospiti e di diffusione epidemica e pandemica per noi esseri umani. Peter Daszak, ecologo delle malattie e presidente di EcoHealth Alliance, in un articolo pubblicato sul New York Times nel febbraio 2020 sostiene che: “la nostra impronta ecologica ci avvicina sempre di più alla fauna selvatica in aree prima inaccessibili del pianeta, il commercio, anche per collezionismo, porta questi animali nei centri urbani. La costruzione di strade con un ritmo senza precedenti comporta in molte aree una deforestazione senza seguire criteri di sostenibilità, al tempo stesso la bonifica e lo sfruttamento massiccio dei territori per fini agricoli, nonché i viaggi e il commercio ormai globale, ci rendono estremamente sensibili ai patogeni come i coronavirus”.
Orbene, affermare che siamo in guerra contro un nemico chiamato SARS-COV-2 è un’asserzione fuorviante che non fa capire l’origine del problema, alimenta le incertezze e il disorientamento, come se dovessimo armarci per combattere un nemico che non vediamo; allora, una volta “vinta la guerra” riprenderemo le nostre vecchie abitudini insostenibili. D’altro canto, per come si evolvono le epidemie un rimedio verosimilmente efficace sarebbe il vaccino che, in verità, non rappresenta un’arma ma un sussidio per stimolare una reazione compensativa del nostro sistema immunitario per ristabilire la propria omeostasi, alla sanità pubblica per offrire uno presidio per la profilassi di ulteriori contagi.

Il quadro dei sistemi sanitari
Il paradossale quadro organizzativo dei servizi sanitari ha evidenziato tutte le contraddizioni di politica sanitaria messe in atto nel corso degli anni, che ha enfatizzato le strutture ospedaliere cosiddette di eccellenza, mettendo in secondo piano i servizi territoriali di base e di prevenzione. Di conseguenza, per far fronte alla drammatica pandemia si è dovuta potenziare la rete ospedaliera delle terapie intensive, sovraffollate, scaricando gli eccedenti nelle case di riposo e sugli hospice, del tutto inadeguati ad affrontare situazioni di emergenza.
Nell’evocare il ruolo della sanità pubblica, ci si riferisce impropriamente all’assistenza ospedaliera, ciò che invece ha dimostrato clamorosamente questa epidemia è la debolezza delle organizzazioni territoriali di base finalizzate alla prevenzione primaria e alla sanità pubblica; anche nei Dipartimenti di prevenzione sussiste la frantumazione delle competenze disciplinari, burocratizzate e scarsamente integrate, con gravi limitazioni nell’approccio One Health che sarebbe dirimente per affrontare la complessità delle problematiche collegate al rischio delle EID (Emergency Infectious Diseases), alla sorveglianza sanitaria e alla prevenzione primaria.
Questo quadro drammatico ci sollecita, pertanto, ad attrezzarci per il futuro, ma con regole e condizioni diverse dalle note dolenti del passato, a partire da un potenziamento e un rinnovamento organizzativo e funzionale dei servizi territoriali di base e dei Dipartimenti di Prevenzione, alimentando un profondo rinnovamento culturale e organizzativo, con la consapevolezza di un approccio sistemico, per salvaguardare i sacrifici e i grandi investimenti ci accingiamo a mettere in atto per “ripartire”.
Streicker suggerisce che: “il lavoro futuro dovrebbe concentrarsi sui tratti del virus che potrebbero migliorare la loro propensione a saltare alle persone e dovrebbe considerare come il commercio della fauna selvatica e il cambiamento ambientale, spingano gli animali a contatto con più persone e influenzino l'emergere di virus”.
Per di più, la risoluzione delle complesse relazioni tra biodiversità e rischio EID consentirebbe un risparmio di milioni di vite umane e di costi economici esorbitanti per far fronte alle epidemie; al riguardo la strategia One Health offre una piattaforma globale per l'integrazione della mitigazione del rischio EID nella pianificazione dello sviluppo sostenibile, “equilibrando le tre dimensioni dell’Agenda 2030: economico, sociale e ambientale", con vantaggi sostanziali per i sistemi sanitari, la produzione di bestiame, la sicurezza dei cittadini, la salvaguardia degli ecosistemi.

Da: www.scienzainrete.it

Ripartire, ma in modo sostenibile

Riccardo Graziano

Siamo arrivati alla “Fase 2”, quella della ripartenza. Tutti la chiedevano a gran voce, per la necessità, l’urgenza, la smania di tornare a produrre, consumare, o almeno uscire di casa. Perché il Paese, si dice, ha voglia di tornare alla “normalità”. Ma di quale “normalità” parliamo? Quella di prima? Siamo proprio sicuri?

Il 15 maggio, alla vigilia della partenza della “Fase 2”, a Porto Marghera è esplosa una fabbrica chimica: bilancio, 6 feriti di cui due gravi e grande nube tossica sull’abitato che costringe i cittadini a tapparsi in casa per non respirare veleni. Tanto per ricordarci cos’era la nostra “normalità”: incidenti sul lavoro, inquinamento, rischio disoccupazione. E una crisi economica iniziata ben prima del blocco forzato causa pandemia, con tagli allo stato sociale e sacrifici quotidiani. Senza dimenticare riscaldamento globale, perdita della biodiversità e inquinamento da plastiche, reso oggi ancora più grave dalle tonnellate di dispositivi di protezione monouso da smaltire. Ecco, questa era la nostra “normalità”, nel caso ce lo fossimo scordato.
La crisi sanitaria, la più grave da un secolo, ha colpito duro. E le sue conseguenze peseranno a lungo. Ma, paradossalmente, ci ha dato un’opportunità, quella di ripartire sì, ma in modo nuovo, diverso, più sostenibile. Come se avessimo resettato il nostro “sistema operativo”. Ne saremo capaci, ne usciremo davvero migliori?
Forse, ma una cosa deve essere chiara: non ci sono alternative, o ne usciremo migliori, o non ne usciremo affatto. Perché il modello di sviluppo portato avanti finora è giunto ai limiti della sostenibilità, non può più reggere. Anzi, possiamo affermare che le sempre più frequenti epidemie degli ultimi anni sono fra le conseguenze del nostro eccessivo sfruttamento del pianeta, in particolare della deforestazione e del cambio d’uso dei suoli, fattori che ci mettono a contatto con virus sconosciuti.
Vale la pena dunque riflettere su come impostare la ripartenza su basi nuove, in ogni ambito. Adottando un nuovo paradigma produttivo, con la consapevolezza che tecnologie e prodotti obsoleti dovranno essere messi da parte, naturalmente tutelando o riconvertendo i lavoratori coinvolti, per evitare un aumento esponenziale della disoccupazione, destinata fatalmente a crescere. Del resto, momenti traumatici come questo si sono già presentati nella Storia, con impatti notevoli: Rivoluzione industriale, automazione, digitalizzazione…
Ora siamo nuovamente di fronte a una svolta che imporrà necessariamente delle scelte, a volte dolorose. Proviamo a fare qualche considerazione.

Innanzitutto, nonostante la narrazione in termini bellici che se ne è fatta, ricordiamoci che questa non è una guerra, è un’epidemia. Sono innumerevoli e insistenti le voci che chiedono di togliere vincoli e azzerare le procedure per poter cominciare subito a costruire, per dare impulso all’edilizia. Ma questo poteva avere un senso nel dopoguerra del secondo conflitto mondiale, in un’Italia rasa al suolo da bombe e cannonate, dove case, fabbriche, ponti e strade erano ridotti in macerie. Oggi le costruzioni sono intatte, ma le macerie rischiamo di essere noi.
Quindi, ciò che occorre veramente è una politica – ma soprattutto un’economia – che rimetta al centro la persona, garantendo nuovamente uno stato sociale degno di tale nome, a partire dalla Sanità pubblica, di cui abbiamo capito la centralità strategica e ineludibile. Occorre riprendere ad assumere personale medico, infermieristico e ausiliario, creando migliaia di posti di lavoro veri, orientati alla cura e al benessere di una popolazione che invecchia sempre di più.

Discorso analogo sul versante opposto dal punto di vista generazionale, quello dei bambini e ragazzi, con interventi straordinari in ambito scolastico, sia sulle strutture, sia sulla didattica. Occorre prevedere interventi di ristrutturazione sul patrimonio edilizio scolastico, spesso obsoleto, a volte fatiscente, approfittandone per riqualificare gli edifici dal punto di vista energetico e tenendo conto delle nuove esigenze della didattica, compresa quella del mantenimento delle distanze. Parallelamente, occorrerà implementare il corpo docenti – come sembra essere nelle intenzioni dello stesso Governo – e rivedere i programmi didattici, per preparare i cittadini di domani ad affrontare un mondo fatalmente diverso da quello attuale.
Certo, per fare questo occorrono investimenti ingenti, ma potremmo recuperarli congelando almeno momentaneamente quelle “grandi opere” che magari non sono così strategiche come sostiene certa propaganda non proprio disinteressata. O meglio ancora, tagliando una parte di quei 26 miliardi che destiniamo alle spese militari, visto che le epidemie si curano con gli ospedali, non con i carri armati, e che per far ripartire il Paese occorre creare posti di lavoro, non bombardare da qualche parte…  
Difficile, in un Paese che in tempo di quarantena ha immediatamente chiuso scuole, musei, cinema, teatri e tutto quanto avesse a che fare col settore “cultura”, ma ha tenuto costantemente in attività le industrie belliche, evidentemente ritenute necessarie quanto il comparto alimentare o la logistica. Ma, appunto, questa crisi drammatica potrebbe essere l’occasione buona per invertire la rotta in molti settori.

Prendiamo l’edilizia, da tempo in sofferenza: per garantirne la ripresa in modo sostenibile e duraturo, occorre rivedere profondamente le logiche con cui si è proceduto finora, perché il modello portato avanti negli ultimi decenni sta mostrando tutti i suoi limiti, come evidenziano i dati numerici.
L’ISTAT ha stimato che nel nostro Paese ci sono oltre 7 milioni di abitazioni non utilizzate, 700 mila capannoni dismessi, 500 mila negozi vuoti. A fronte di un tale patrimonio immobiliare inutilizzato, con un Paese che non cresce né dal punto di vista demografico, né da quello produttivo, non ha senso continuare a costruire. Eppure il Piemonte, una delle Regioni più colpite dal contagio, ha appena emanato una legge che sembra scritta apposta per facilitare ulteriore cementificazione, un’offerta immobiliare che verosimilmente resterà priva di domanda, peggiorando la situazione delle imprese invece di migliorarla.
Per contro, appare più sensata la direzione intrapresa dal Governo, con il decreto che prevede un incentivo del 110% a favore di chi riqualificherà il proprio immobile soddisfacendo alcuni requisiti specifici. Attualmente, salvo modifiche in fase di conversione in legge, occorre realizzare almeno uno dei due “interventi trainanti”, ovvero, semplificando, “cappotto termico” e/o sostituzione caldaia, ai quali si possono aggiungere altri interventi (quelli già previsti nel bonus 65%, per esempio) con l’obiettivo di guadagnare (almeno) due categorie energetiche. Se si soddisfano questi parametri, in pratica si viene pagati dallo Stato per rendere più energeticamente efficiente la propria casa, il che consente un risparmio immediato in bolletta, oltre a diminuire le emissioni inquinanti. E, naturalmente, si crea una marea di opportunità di lavoro per le imprese edili, senza consumare un solo metro di territorio per nuove costruzioni.

Altrettanto rilevanti sarebbero gli interventi antisismici, volti a prevenire quelle tragedie alle quali troppo spesso abbiamo assistito, anche per terremoti di lieve entità. Discorso analogo può essere fatto per i rischi idrogeologici, da frane e alluvioni. E l’elenco potrebbe continuare: recupero di borghi e centri storici in abbandono; riconversione di aree industriali dismesse; messa in sicurezza del territorio; ripristino delle reti idriche “colabrodo”; bonifica delle aree inquinate e altro ancora.

Intervenire sugli edifici esistenti presenta dunque molti vantaggi, senza dimenticare l’imperativa necessità di azzerare il consumo di suolo, vitale non solo per il comparto agricolo, ma per i numerosi servizi eco sistemici che offre, dal filtraggio delle acque piovane alla cattura di anidride carbonica: aspetti che, oltre all’indubbia valenza ambientale, hanno anche ricadute economiche rilevanti, che qualcuno ha quantificato in milioni di euro all’anno.
In sostanza, ripartire in modo sostenibile dopo questa emergenza, rispettando le persone e l’ambiente, non soltanto è doveroso, ma conviene.

Brigitte Bardot, i modelli, la crescita e Greta

Riflessioni per il dopo pandemia

Valter Giuliano

Continuo a vedere, nelle pubblicità dei prodotti alla moda - abiti, profumi, automobili, alimenti dietetici... - modelle straordinariamente somiglianti a Brigitte Bardot o Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Jennifer Lopez....
Stereotipi della bellezza femminile; donne belle e attraenti che continuano a “funzionare” per l’immaginario collettivo facendo sognare. Piacciono, rappresentano un valore assoluto.
Sono riconosciute icone di un mondo a trazione maschilista che si permette di giudicare l’aspetto e il vestire di una grande professionista del nostro mestiere, la giornalista RAI Giovanna Botteri, oggi inviata a Pechino, il cui look semplice e spontaneo non apparirebbe adeguato a chi, spesso, trucca se stesso e anche la verità delle notizie che ci propina.
È il pensiero unico predominante che, quanto a informazione, non ci offre ormai che qualche residuale prospettiva.
Se l’informazione sui social è malata, quella della grandi testate tradizionali sta poco bene, compresa quella sedicente pubblica.
A tal proposito, continuo a sentire e a leggere nelle reti televisive e sui giornali più diffusi un unico coro che fa appello alla crescita.
Straordinariamente simile a quelli del boom economico e del lancio della società consumistica dei tempi di B.B....
Quello che Pier Paolo Pasolini definì efficacemente «sviluppo senza progresso».
Uno stereotipo del modello di sviluppo desiderabile che è stato assunto acriticamente e artificialmente a livello di un vasto arco politico, senza distinzione alcuna, pena l’esclusione dalla modernità. Ha contaminato, penetrando come un virus, anche coloro che, prima, proponevano uno schema alternativo - a dire il vero poco raccomandabile nelle più note declinazioni pratiche -  e che ben presto si sono rassegnati a quello vincente.
Bush e Teacher hanno indicato la rotta, Blair si è presto adeguato proponendo una terza via impercorribile, come lui stesso, troppo tardi, ha ammesso.
Così è nato il sistema unico che i cloni nazionali degli uni e dell’altro hanno supinamente accettato.
Le conseguenze le stiamo vedendo e pagando. Quel sistema è indubbiamente piaciuto.
Piacerà ancora? Qualche dubbio comincia ad affacciarsi.
Oggi rappresenta sempre di più, drammaticamente, per molti, un disvalore, un clamoroso errore di valutazione sulla strada per il futuro.
Che potrà esserci solo se si sapranno recuperare atteggiamenti più sobri e più attenti anche ai princìpi di giustizia sociale, essenziali nel modello perdente.
Occorrerà forse una sintesi, per progettare nuove prospettive, probabilmente altrettanto belle e gratificanti da vivere.
Sta alle nuove generazioni impegnarsi in questa direzione.
Noi possiamo solo continuare a suggerire i necessari cambiamenti radicali noti sin dall’inizio del Novecento.
La loro necessità si evidenziò, in maniera esplosiva, con la saggistica statunitense della prima metà degli anni Settanta, ampiamente ripresa anche in Italia.
Ma è stata dimenticata troppo presto. E per esorcizzare le verità che annunciava si sono istituite Giornate mondiale dell’Ambiente, Feste della Natura, Conferenze internazionali per l’Ambiente, Concorsi per la Forestazione mondiale, cCampagne per difendere ogni specie animale o vegetale.
Pur di distogliere l’attenzione dal fatto che il problema era ed è politico, di funzionamento della società, di rapporti tra le classi sociali, di disequilibrio intollerabile tra aree geopolitiche, di sfruttamento non più tollerabile - né in assoluto né nei metodi-  delle risorse del Pianeta.
Noi che veniamo da una storia eretica come quella dalla Pro Natura, senza mai cedimenti alle lusinghe di chi ci avrebbe volentieri accolti nel recinto della tollerata opposizione, queste cose le sappiamo bene perchè veniamo dalla scuola di Valerio Giacomini e di Dario Paccino.
Oggi, è evidente, stanno per schierare i loro armamenti (non necessariamente derivati dall’industria bellica, ma spesso dalla disponibilità di dati o da strategie finanziarie e di mercato) tutte le potenze del Pianeta, sulla mappa delle grandi regioni geopolitiche: Cinindia (unione di Cina e India); America (tra USA e Canada); Paesi Arabi del petrolio (fino a quando durerà); e, in subordine, nell’attesa di essere inghiottite, Russia, Giappone ed Europa. Con la Gran Bretagna che, lasciata l’Europa, sogna un aggancio agli Stati Uniti e il ricomporsi del Commonwealth con Australia e Nuova Zelanda, però poco influenti nello scacchiere internazionale.
In questo scenario restano terreni di scontro e di conquista il continente africano (diviso dall’area del Magreb), esposto alle mire espansionistiche turche e alle mire cinesi e il Sudamerica (percorso da tensioni contrapposte e reiterati attacchi da parte degli Stati Uniti, che vorrebbero farne una colonia, come decenni di promozione o sostegno a vari golpe militari testimoniano).
Ma su questo terreno lasciamo ad altri ipotesi di futuro che non siamo in grado di sviluppare. Di cui, tuttavia, siamo preoccupati perchè al prevalere dell’una o dell’altra parte, cambiamo i destini del Pianeta.
Che tuttavia resta, lo si voglia o no, insensibile ai poteri delle umane società, e risponde solo ad altre ancestrali regole cui noi, poveri umani, ci illudiamo di poter sfuggire.
Il virus avrebbe dovuto darci consapevolezza, riportando a terra la nostra arrogante presunzione.

Natura non vincitur nasi parendo / non possiamo comandare la Natura se non obbedendole (Francis Bacon, Novum organum).
Proprio così. Siamo, singolarmente, separate cellule che appartengono a una struttura più complessa che si sviluppa in famiglie; comunitaria per costituzione, sino all’appartenenza all’organismo biologico per eccellenza, la Terra.
È questa la condizione che abbiamo dimenticato e della quale dobbiamo tornare ad avere consapevolezza e coscienza.
La meccanica quantistica ci indica addirittura la nozione per cui ogni singola cellula di ogni vivente sarebbe in contatto, al di là degli umani concetti di spazio e di tempo, con ogni altra cellula: ma questa è già un’altra storia, buona per il futuro della ricerca. Scientifica e umanistica.
La decrescita infelice che in questi mesi, obtorto collo, si è imposta può essere occasione di rinascita che può ricondurci da un determinismo cartesiano a una nuova visione animistico-olistica. Abbandonare l’ossessione della crescita ai fini del solo profitto per rendersi conto che l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità, è responsabilità di tutti.
Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio della collettività.
Bisogna tornare, come nelle società arcaiche tradizionali, a comprendere la vera direzione verso cui muoversi, la stabilità.
Che non significa affatto immobilismo.
Oggi la proliferazione delle cellule che compongono la società umana è sempre più simile a quella delle cellule cancerogene, la cui finalità è, appunto, la crescita infinita.
Il risultato è drammaticamente noto: la distruzione dell’organismo che le ospita sino alla morte. Così è per gli uomini e il pianeta.
Ecco perché è necessario quell’immaginario, radicalmente nuovo, cui siamo invitati da Papa Francesco come da Greta and Fiends.
Bisogna premere il tasto Reset e avere la forza di ricominciare un nuovo percorso che azzeri l’arrogante presunzione che ci ha condotti all’attuale, insostenibile, situazione.
Bisogna diffidare dei richiami per le allodole, che per decenni ci hanno indotti in tentazione.
Come quelle della “Confindustria statunitense” disponibile a convertirsi al green, pur di continuare a fare profitti inseguendo la mutata sensibilità dei cittadini e dunque dei consumatori e quindi del mercato.
Una cosmesi ambientalista che non convince e che segue la precedente esperienza, datata anni Settanta, quando il mondo industriale si lanciò a capofitto nel business del disinquinamento, promettendo un Pianeta ripulito da chi lo stava avvelenando per garantirsi con l’equazione “inquinare per disinquinare”, ulteriori profitti.
Non ha funzionato. Non poteva funzionare.
Ecco allora che gli “ambientalisti per caso”, quando si passa all’azione - che per essere efficace non può che prevedere ricette radicali - fanno emergere i distinguo, i “non esageriamo” e il timore di “deriva ambientalista irrazionale” della società.
Eppure di irrazionale c’è solamente il continuare sul percorso sin qui seguito, perseverando nell’attuale modello di sviluppo. Che ci propone, con grande enfasi, scorciatoie semplicistiche e inefficaci: le bottigliette di alluminio e le sporte di tela in sostituzione delle plastiche, la mobilità elettrica in sostituzione dei combustibili fossili.
Accontentatevi.
«Così siete tutti ecologisti, in pace con le vostre coscienze», soffia il fiato fetido di morte di chi si oppone al vero cambiamento verso la sostenibilità.
Neppure piantare un albero a testa va a compenso della distruzione delle foreste tropicali o dell’intollerabile consumo di suolo; e non porta alcun risultato sensibile di riconversione ecologica.
Qualcuno ricorda l’albero da piantare per ogni nuovo bimbo nato?
E sa dare indicazioni sulla sua applicazione?
Spot per qualche pagina di giornale e di breve durata. Certamente azioni utili e segni di responsabilizzazione e di impegno nel prendersi cura della Terra. Ma, altrettanto certamente, inefficaci e inapplicate.
Per ritornare seriamente alla ragionevolezza, senza la quale il futuro della nostra specie sul Pianeta diventa incerto, non abbiamo bisogno di misure placebo, distrazioni propagandistiche. Ma di cure energiche. Pena l’inefficacia di azioni blande, buone solo per la propaganda e capaci unicamente di dilazionare il tempo della resa dei conti, ma non per affrontare seriamente, in maniera responsabile e alla radice, l’emergenza ecologica.
Intanto occorre superare lo sviluppo sostenibile, astuzia semantica che mette sullo stesso piano e tenta di conciliare le ragioni della crescita economica con quelle della salvaguardia della biosfera.
Poi farsi domande di futuro che, ad esempio, tornino a prendere in considerazione la crescita della popolazione a livello globale e la necessità di stabilire un equilibrio tra popolazione umana e risorse planetarie.
Altro che allarme per la crescita zero della popolazione italiana e incentivi alla procreazione!
Far nascere figli è un atto di consapevolezza e di responsabilità, oltre che un atto d’amore; non possiamo soggiogarlo ad aberranti logiche utilitaristiche seguendo le quali si debbono fare figli per garantire badanti gratuiti e sostegno alle pensioni per gli anziani.
La bomba demografica non è disinnescata e per poterlo fare bisognerà uscire da logiche locali per considerare quelle globali su cui navighiamo, ma che utilizziamo a seconda delle convenienze.
Ma su questo tema sarà opportuno tornare, anche per dare risposte a qualche movimento spontaneo che evocando la popolazione dei mari, in gravissima riduzione, ha pensato che sulla terra ci si trovasse in analoghe condizioni. Ha riempito le piazze, ma ora è bene che riempia anche i cervelli e le coscienze, di contenuti. Altrimenti rischia di emulare un altro movimento.
I problemi che abbiamo riguardano la Terra, non le stelle né il mare.
Cosa si frappone all’adozione delle misure radicali?
L’ignoranza, appunto.
Dei vari Bolsonaro, Trump e compagnia cantante.
Che si manifesta nelle loro dichiarazioni e nelle loro azioni. Improvvisazioni che sottraggono autorevolezza a quelli che dovrebbero essere i riferimenti di una Nazione e, a volte, dell’intero mondo.
Il potere politico, anche ai livelli più alti di rappresentanza è, oggi, irresponsabile. E non si rende conto di come le parole e le azioni che propongono scatenano pulsioni ed emulazioni nella coscienza dei popoli.
La classe politica, un tempo, era conscia di questa responsabilità.
Ora?
A giudicare da twitt, comparsate televisive, blog, parrebbe proprio di no.
Si liberano pensieri come se si fosse al bar tra amici o in casa all’ora del cazzeggio.
In realtà, si tratta di ignoranza associata a vuoto pneumatico di capacità di elaborazione di pensiero innovativo e dunque adeguamento al conformismo e irresponsabile complicità nel perpetrare la società del consumismo.
Pensiamo che la responsabilizzazione di noi tutti, attraverso azioni di pratica di sostenibilità quotidiana siano utili e necessarie; ma, altrettanto convintamente, le riteniamo non sufficienti e diamo ragione al movimento di Greta che tallona i grandi decisori mondiali della politica, dell’industria e della finanza, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e chiedendo di promuovere una vera e propria rivoluzione verde.
E rivoluzione significa cambiamento radicale, non essendo più adeguato il timido riformismo ambientale che ha segnato il percorso dalla prima Conferenza mondiale sull’ambiente di Stoccolma ’72 ad oggi: decine di Summit, di risoluzioni e di “agende” tanto utili e interessanti quanto inascoltate e inapplicate.
Non bastano richiami e suggerimenti che ci spingono verso azioni virtuose.
Sono necessarie ma non sufficienti. Come piantare un albero (mentre il Testo Unico Forestale facilita l’abbattimento dei boschi); raccogliere le cicche di sigaretta in spiaggia o nei parchi; utilizzare le bottigliette di alluminio in sostituzione della plastica inquinante, ecc.
Per porre rimedi seri al degrado del pianeta, nei fatti e non solo con le parole, la conversione degli atteggiamenti personali è condizione indispensabile ma da sola è perdente.
La risposta non può essere solo il richiamo alla responsabilità dei singoli, oggi più che mai condizionata dalla potenza della pubblicità.
Occorrono azioni politiche profonde di governo dello sviluppo in maniera autenticamente sostenibile da coordinarsi a livello globale.
Di questo è indifferibile prendere coscienza a dimensione planetaria, altrimenti i Summit, da Stoccolma 1972 a New York 2019, rischiano di non essere altro che inutili farse.
Destinate, ben presto, a volgersi in tragedia.

Perché si possa immaginare che un reale cambiamento possa realizzarsi, grazie anche alla necessità di riparametrare lo sviluppo oggi più che mai urgente, occorre il consenso dell’impresa e del mercato.
Ciò che oggi pensa l’imprenditoria nostrana è ben rappresentato dal pensiero terra terra del presidente di Confindustria Bari Bat, Sergio Fontana: «Non c’è felicità senza benessere e non c’è benessere senza produzione. (Non fatevi incantare dalle false sirene della decrescita felice...)».
Ma anche il nuovo Presidente di Confindustria nazionale non pare più illuminato. Falco e degno rappresentante degli im“prenditori”, vorrebbe continuare a distribuire dividendi agli azionisti e ricevere sostegni a fondo perduto dallo Stato, dunque da noi. Il vecchio sistema di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Tutti buoni a fare gli im-prenditori così.
In più ha evocato libertà di impresa durante la chiusura per la pandemia e ora chiede contratti aziendali e non nazionali.
Quando poi addirittura Avvenire, quotidiano di ispirazione cattolica, diretto dall’ottimo Marco Tarquinio, mette in prima pagina “Lavorare meno, tutti” (nel programma dei Verdi dall’inizio degli anni Ottanta), apriti cielo!
Liquidata come una provocazione.
Come quella della richiesta dello Stato di entrare temporaneamente nei Consigli di amministrazione delle aziende sostenute a fondo perduto per evitare almeno – com’è già accaduto - che incassati i contributi pubblici (cioè delle nostre tasse) delocalizzino licenziando in Italia per assumere là dove i diritti sindacali stanno a zero.
Come vorrebbero fare i nuovi latifondisti dell’agricoltura che sfruttano, a livello di schiavitù, i braccianti, senza neppure garantire loro un riparo.
Finché i vertici delle aziende – che sovente criticano la rappresentanza politica per incapacità di selezione - non saranno in grado di meglio selezionare le loro guide - scegliendo personaggi meno arcaici, gretti e ottocenteschi (perduranti “padroni del vapore”) - la dichiarata conversione ai temi ambientali e l’annunciata adesione ai principi dell’economia circolare continueranno a puzzare, lontano un miglio, di opportunistica, spudorata menzogna.
E non è infatti un caso che a fronte di quelle sospette conversioni, si continuino a sfornare prodotti ad obsolescenza programmata. Come se non produrre rifiuti o riciclarli fossa un po’ la stessa cosa.
Eppure trascorso il tempo dell’individuazione delle responsabilità, oramai ben conosciute, è giunto il momento di praticare soluzioni per le quali vi è la necessità di una grande e complessa alleanza tra politici, scienziati, agricoltori, industriali, lavoratori, studenti, commercianti, investitori...
Purché ognuno faccia atto di pentimento, riconosca gli errori e si ponga consapevolmente e responsabilmente a disposizione di un progetto di futuro diverso da quello che è stato sin qui praticato.
L’orizzonte è quello di dimostrare, nei fatti, che si può vivere meglio ed essere più felici consumando meno, liberandoci dal lavoro per poterlo ridistribuire insieme al tempo di vita, considerando comportamenti virtuosi che possano diventare anche convenienti e dunque praticabili come scelta politica valida per tutti e non solo per qualche persona motivata e illuminata.
Questo significa anche disertare, sino ad abolire, le guerre di potere che insanguinano il mondo creando perpetua insicurezza. Significa convertire le ingenti risorse destinate agli armamenti ad un grande piano globale internazionale per guarire la Terra, la nostra comune casa.
Già nel 1909 il Mahatma Gandhi spiegava i mali della civiltà moderna condannando lo sviluppo lineare e mettendo quella che si sarebbe manifestata come globalizzazione sul banco degli imputati. Inascoltato profeta.
Inascoltati anche gli appelli che, in questo tempo sospeso a causa della pandemia, si fanno strada per suggerire nuove strategie di futuro?
I decisori internazionali, molto probabilmente, per far fronte all’improvvisa e non prevista crisi, immetteranno sul mercato mondiale liquidità in quantità mai viste.
Per agire su un vero cambiamento epocale guai se tale liquidità finisse sul mercato finanziario speculativo o nelle mani di imprenditori come quelli che abbiamo prima citato.
Sarebbe impossibile ricominciare, se non sulle basi sbagliate, continuando sulla strada della decrescita infelice.
Quella concezione d’impresa è meglio lasciarla scivolare verso il fallimento, che era già insito nelle loro basi, indifferente al valore sociale del lavoro e tesa solo a massimizzare i profitti di una cerchia sempre più ristretta di persone disinteressati alla società sofferente chi li circonda.
Cadremmo dalla padella alla brace: il mercato finanziario cui ci siamo affidati ha già dimostrato di non essere all’altezza delle ultime sfide, a partire, ad esempio, da quella del 2008, quando si pensò di uscire dalla crisi con un grande trasferimento di risorse pubbliche alla finanza privata.
I risultati li abbiamo constatati.
Lo Stato paga, ma si pretende non abbia alcuna voce in capitolo nella gestione dei denari pubblici e non debba interferire sugli assetti di potere delle imprese che salva dal fallimento. Meno che mai mettere mano ai modelli di sviluppo che sono all’origine del collasso.
Singolare pretesa.
Più che mai, il tempo del corona virus ci pone di fronte alla domanda: deve essere il mercato che regola lo Stato o lo Stato che regola il mercato?. In quale delle due opzioni c’è più democrazia?
La risposta non è indifferente, anche per le questioni ambientali.

In arrivo, tosto o tardi, ci saranno da affrontare , infatti, le emergenze provocate dalla crisi ambientale planetaria.
Appare oggi evidente che sono le istituzioni del settore pubblico quelle rivelatesi cruciali e dunque da sostenere finanziariamente.
Bisogna cogliere questo momento per virare verso un’economia definitivamente sostenibile per davvero e inclusiva, con misure di salvataggio che ridimensionino il ruolo delle multinazionali del profitto e le depotenzino, impedendo il riacquisto di azioni proprie.
Da rivedere, infine, il rapporto tra pubblico e privato che il più delle volte si è rivelato essere più una collaborazione parassitaria che una vera simbiosi come avrebbe dovuto essere nelle intenzioni.
Forse è il tempo di reinterrogarsi sulla necessità di Stati imprenditori, almeno nei settori strategici per il bene pubblico che non possono essere abbandonati nelle braccia delle logiche di pura massimizzazione del profitto.
Si rischierebbe altresì che gli investimenti dello Stato, nella formazione e nella ricerca, sfocino poi unicamente in enormi profitti privati.
Gli investimenti pubblici debbono essere restituiti alla collettività che li ha generati, impedendo che i loro benefici siano privatizzati con l’unico obiettivo del profitto.
Sono storture oggi connaturate al sistema vigente.
È tempo di cambiarlo radicalmente. C’è l’occasione per farlo.
Finché siamo in tempo.
E purché si sia ancora in grado di mettere in atto una ribellione globale all’ingiustizia sociale su cui si regge oggi il sistema mondiale.
Viviamo tempi in cui siamo educati a un rassegnato e quieto servilismo, che tiene sotto controllo inquietudini e ribellioni, che toglie fiato anche alle opportunità di discussione sui modelli alternativi di società.
Se guardiamo all’arco dei partiti politici presenti in Parlamento, registriamo un appiattimento generalizzato e diventa davvero difficile scegliere sulla base di distinguo impercettibili che certo non prospettano idee diverse di futuro.
Le strategie della paura e del precariato hanno raggiunto il loro obiettivo, nelle scuole, nelle Università, nel mondo della ricerca, nelle istituzioni pubbliche: pensiero annullato, progressiva anestesia mentale dell’intera società.
Non si protesta, non si rischia, non si espongono idee diverse. Ha vinto il ricatto.
Anche la paura catastrofista della questione ambientale è strettamente legata a questa logica e diviene strumentale per assorbire ogni potenziale sovversivo presente nella società.
Che va invece nutrito nell’esercizio di una nuova visione del mondo, cui ci dobbiamo preparare se vogliamo assicurarci nuove prospettive di vita planetaria.
Il sistema va resettato e riconfigurato. Per essere radicalmente cambiato.
Uscendo dal determinismo cartesiano per riprendere una visione animistica sia pure depurata dalla superstizione delle antiche civiltà e ricondotta alla conoscenze scientifiche.
Ciò sarà possibile in un sistema liberale e capitalistico in cui le reali strategie appartengono non già alla politica, ma alle corporazioni e alle lobby che si sono ormai inserite nei gangli decisionali a causa di una politica sempre più debole per visione e per autorevolezza etica e morale?
Avremo la forza di far tacere le lobbies e la Borsa che oggi regolano le nostre vite?

E allora, che fare?
La debolezza della politica e dei Governi è evidente.
La democrazia è ormai una finzione.
Imprese multinazionali hanno bilanci che superano di gran lunga quelli degli Stati.
Molte di loro hanno in mano fette consistenti di debito pubblico.
Le decisioni non si prendono più nei Parlamenti, ma altrove.
E non a caso le lobbies indirizzano sempre di più la politica, decidono chi sono gli eletti e poi li pilotano verso comportamenti ad esse consoni.
Sono in pochi, ormai, a sfuggire a queste logiche perverse.
E occorrerebbe una rivoluzione globale per sovvertire il sistema vigente.
Basterà la pandemia per ridefinire il nostro futuro?
Nascerà un movimento capace di convincere i cittadini a riconvertire i loro comportamenti per garantire un futuro a quei figli che in questi mesi hanno protetto e di cui, giustamente, hanno reclamato diritti e libertà?
Sanno che se tutto tornerà come prima, quegli stessi figli non avranno garanzia né degli uni né dell’altra?
L’augurio è che il “tempo sospeso” del corona virus ci abbia dato l’opportunità di riflettere su ciò che conta davvero e su ciò che vogliamo per la generazione di Grata e dei suoi amici.