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La tutela del paesaggio: principio costituzionalmente rilevante e preminente sulla indiscriminata diffusione degli impianti “green”

Stravolgere il paesaggio, quale bene comune, determina la cancellazione della memoria storica collettiva quindi la distruzione del nostro futuro. Secondo Zanzotto «un bel paesaggio una volta distrutto non torna più, e se durante la guerra c'erano i campi di sterminio, adesso siamo arrivati alla sterminio dei campi: fatti che, apparentemente distinti fra loro, dipendono tuttavia dalla stessa mentalità».

 

Ing. Donato Cancellara, Associazione VAS per il Vulture Alto Bradano

 

 

1. Il caso dell'impianto eolico alle porte di Matera

Ancora una volta il T.A.R. Basilicata si esprime sull'annosa vicenda dell'impianto eolico, denominato "Matine", della Zefiro Energy S.r.l. alle porte del Comune di Matera. Un impianto costituito da 15 aerogeneratori e dalle relative opere connesse, di potenza elettrica complessiva di 37.5 MW. Pale eoliche di potenza 2.5 MW ciascuna con altezza torre di 100 metri, diametro rotore 90 metri ed altezza complessiva 145 metri. Sin dal rilascio dell'autorizzazione unica da parte della Regione Basilicata, nel lontano 2013, svariate le contestazioni da parte di alcuni organi istituzionali locali e di svariate associazioni ambientaliste per l'ingiustificabile sfregio al contesto paesaggistico materano di altissimo pregio nonché al patrimonio storico, artistico e naturalistico. Prima di richiamare l'attenzione sulla recente pronuncia dei giudici amministrativi lucani, tramite la sentenza n. 23 del 3 gennaio 2020, occorre ritornare indietro con la memoria.

 

2. Prima importante pronuncia del TAR Basilicata sul caso Zefiro

Era il 20 dicembre 2014 quando il T.A.R. Basilicata pubblicò la sentenza n. 869/2014 successivamente confermata dal Consiglio di Stato con decisione n. 4947 del 29 ottobre 2015. Una sentenza che definimmo, sulla pagine di alcuni quotidiani locali, storica per la Lucania in quanto venne evidenziata la priorità dell'Ambiente, del Paesaggio e dei Beni culturali sulla realizzazione di un impianto eolico autorizzato dalla Regione Basilicata con D.G.R. n. 597/2013 a pochi chilometri da siti vincolati rispetto ai quali, pur non essendo direttamente interessati dalle croci d'acciaio rotanti, comunque avrebbe potuto arrecare negative conseguenze.

La società proponente il progetto "green" è la Zefiro Energy S.r.l. Tre furono i ricorrenti che nell'anno 2013 vollero affrontare la società Zefiro e la Regione Basilicata dinanzi al tribunale amministrativo: il Comune di Matera; la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici della Basilicata e l'Ente Parco della Murgia materna. Ricorsi che vennero unificati per l'analoga richiesta di annullamento della Deliberazione della Giunta regionale avente ad oggetto l'Autorizzazione Unica per la costruzione ed esercizio dell'impianto eolico della Zefiro con i relativi atti di istruttoria compreso il verbale della Conferenza di Servizi del 16 aprile 2013.

Sentenza lunga decine e decine di pagine, ma a nostro avviso la frase meritevole di apprezzamento fu sicuramente quella con cui viene bacchettata la Regione Basilicata. Nella sentenza si legge: "Alcuna norma o principio, a livello comunitario o nazionale, riconoscerebbe come prevalente l'esigenza energetica rispetto a quella di tutela paesaggistica, per cui il regime di favore per gli impianti eolici non potrebbe mai condizionare in maniera assoluta il giudizio di compatibilità ambientale, nel senso di obbligare il rilascio dell'autorizzazione in relazione ai benefici legati all'efficienza energetica per la collettività". Ed inoltre, emerge che il parere della Soprintendenza non sarebbe stato presentato in seno alla Conferenza di Servizi motivo per cui, secondo il parere della società resistente Zefiro, il diniego espresso andava considerato inammissibile. Di parere opposto, il T.A.R. Basilicata secondo cui "tale assunto sarebbe errato [...] l'omessa valutazione del parere obbligatorio e vincolante reso dalla Soprintendenza renderebbe, quindi, invalidi ed inefficaci tutti gli atti amministrativi emessi in Conferenza di Servizi e l'Autorizzazione Unica, quale atto finale e conclusivo del procedimento".

Possiamo concludere che bene fece il T.A.R. Basilicata a ribadire ciò che di fatto è già insito nelle norme nazionali. Infatti, l’art. 12 comma 7 del D.lgs. n. 387 del 2003consente la realizzazione, in area agricola, di impianti alimentati da fonti di energia rinnovabile purché ciò avvenga nel rispetto del paesaggio rurale.

 

3. Rilevante sentenza del Consiglio di Stato nel 2014

Quanto evidenziato dal TAR Basilicata nel 2014, sul caso Zefiro, venne ribadito dalConsiglio di Stato, con riferimento ad altra vicenda, con la sentenza n. 2222 del 2014: “il paesaggio è bene primario e assoluto, la tutela del paesaggio è quindi prevalente su qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante, sia di carattere pubblico che privato [...] essere considerato come bene «primario» ed «assoluto», in quanto abbraccia l’insieme «dei valori inerenti il territorio» concernenti l’ambiente, l’eco-sistema ed i beni culturali che devono essere tutelati nel loro complesso, e non solamente nei singoli elementi che la compongono”.

 

4. Seconda importante pronuncia del TAR Basilicata sul caso Zefiro

La società Zefiro non ha voluto rinunciare alla realizzazione dell'impianto eolico così da ritornare all'attacco evidenziando, con una nota del 24 febbraio 2016, che i provvedimenti giurisdizionali non hanno riguardato il parere reso dal Comitato Tecnico regionale per l'Ambiente (C.T.R.A.) del 21 febbraio 2013 e che lo stesso andava considerato ancora valido ed efficace con necessaria conclusione del sub-procedimento di V.I.A. Tuttavia, è sfuggito alla società quanto affermato dalla Regione e condiviso dai giudici amministrativi: "benché non vi sia una disposizione che limiti l'efficacia temporale del parere del C.T.R.A., giova ricordare che, ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006, il giudizio di compatibilità che ingloba il parere tecnico del C.T.R.A., ha una validità quinquennale, per cui un parere reso nel 2013 andrebbe, di fatto, riesaminato in ragione delle intervenute condizioni ambientali e normative".

La Regione Basilicata non ha voluto dare seguito alle richieste della Zefiro, tanto da rendere necessaria la nomina di un commissario ad acta tramite Decreto prefettizio del 24 agosto 2017. Il Commissario si espresse per la conclusione negativa della Conferenza dei Servizi del 12.11.2018, costatando le criticità dell'impianto in relazione alla L.R. n. 54/2015 "Recepimento dei criteri per il corretto inserimento nel paesaggio e sul territorio degli impianti da fonti di energia rinnovabili ai sensi del D.M. 10 settembre 2010"; le criticità rappresentate dal Comune di Matera, dall'Ufficio Urbanistica e pianificazione territoriale della Regione Basilicata e dalla Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio in ordine all'impatto visivo rispetto al Parco archeologico storico naturale delle chiese rupestri del materano,

Nella recente sentenza del T.A.R. Basilicata n. 23/2020, viene richiamata l'interferenza dell'impianto eolico con l'area buffer di 8.000 metri a partire dal perimetro esterno del sito UNESCO e con l'area buffer di 3.000 metri dal perimetro del manufatto "Torre Spagnola" su cui grava un vincolo archeologico - storico - monumentale diretto ed indiretto (Decreto del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali del 20.07.1988).

Viene affermato dai giudici amministrativi che la conclusione negativa della Conferenza di servizi non si è affatto limitata ad affermare un'assoluta preclusione all'istallazione del parco eolico nel sito prescelto. Infatti, l'esito negativo non è frutto dell'applicazione meccanica della legge regionale n. 54/2015 avendo tenuto conto anche dei motivati dissensi espressi dal Comune di Matera, dall'Ufficio Urbanistica e Pianificazione territoriale, della Soprintendenza e dell'Ente Parco quali amministrazioni preposte alla tutela paesaggistico - territoriale e del patrimonio storico - artistico.

Sono i giudici amministrativi ad evidenziare che "la ricorrente non si avvede che ben 3 aerogeneratori distano 734 mt, 2761 mt e 3758 mt da Torre Spagnola, dalla Masseria Danesi e dal limite esterno del Parco delle Chiese Rupestri, violando inevitabilmente, le prime due, la prescrizione di un buffer dui 3000 mt e la terza la prescrizione del buffer degli 8.000 mt".

Pertanto, le disposizioni di cui alla L.R. n. 54/2015 non si pongo affatto in contrasto con le disposizioni previste dalle Linee Guida nazionale, D.M. 10 settembre 2010, così come alcun contrasto viene rilevato con l'art. 12, comma 10 del D.Lgs. n. 387/2003.

Nel rigettare il ricorso della Zefiro Energy S.r.l. secondo cui il diniego alla realizzazione del suo impianto si sarebbe posto in violazione delle norme costituzionale e comunitarie tese all'applicazione del principio della massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, i giudici del T.A.R. Basilicata sentenziano che "non si versa in ipotesi di totale preclusione dell'installazione di impianti eolici in tutto il territorio del Comune di Matera, bensì in una ben delimitata area in cui è ritenuto prevalente, con motivazione non manifestamente erronea o irragionevole, l'interesse costituzionalmente protetto alla tutela dell'ambiente e del paesaggio".

 

5. Il Consiglio di Stato ribadisce la rilevanza costituzionale della tutela paesaggistica e del patrimonio culturale

Non ci potrebbe essere conclusione migliore se non quella offerta dal Consiglio di Stato la cui recente pronuncia sancisce, nuovamente, la rilevanza della tutela paesaggistica e del patrimonio culturale quale principio costituzionale e, come tale, prevalente su altre materie legate al governo del territorio che sono evidentemente collocate in posizione subordinata ai principi della nostra Costituzione. Prendendo in prestito alcune frasi della sentenza del Consiglio di Stato n. 7839/2019, si spera in un anno 2020 maggiormente rivolto alla salvaguardia della memoria storica collettiva insita nel Paesaggio nel quale il nostro territorio, quindi tutti coloro che lo abitano, rappresenta parte integrante ed inscindibile:

"Giova premettere che la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico è principio fondamentale della Costituzione (art. 9) ed ha carattere di preminenza rispetto agli altri beni giuridici che vengono in rilievo nella difesa del territorio, di tal che anche le previsioni degli strumenti urbanistici devono necessariamente coordinarsi con quelle sottese alla difesa di tali valori.

La difesa del paesaggio si attua eminentemente a mezzo di misure di tipo conservativo, nel senso che la miglior tutela di un territorio qualificato è quella che garantisce la conservazione dei suoi tratti, impedendo o riducendo al massimo quelle trasformazioni pressoché irreversibili del territorio propedeutiche all’attività edilizia; non par dubbio che gli interventi di antropizzazione connessi alla trasformazione territoriale con finalità residenziali, soprattutto quando siano particolarmente consistenti per tipologia e volumi edilizi da realizzare, finiscono per alterare la percezione visiva dei tratti tipici dei luoghi, incidendo (quasi sempre negativamente) sul loro aspetto esteriore e sulla godibilità del paesaggio nel suo insieme. Tali esigenze di tipo conservativo devono naturalmente contemperarsi, senza tuttavia mai recedere completamente, con quelle connesse allo sviluppo edilizio del territorio che sia consentito dalla disciplina urbanistica nonché con le aspettative dei proprietari dei terreni che mirano legittimamente a sfruttarne le potenzialità edificatorie".

 

Il cinghiale: nemico pubblico o trastullo per i cacciatori?

Spesso viene presentato come il più grande disastro ambientale contemporaneo. Ma perché il cinghiale è proliferato in modo così rapido e massiccio? E soprattutto, quanto si sta facendo per contrastarne la diffusione è veramente efficace? Numerosi studi scientifici sollevano molti dubbi. E quasi mai si prendono in considerazione le possibili alternative.

 

Piero Belletti

 

Nel periodo medioevale il cinghiale era diffuso in gran parte del nostro Paese. A partire dal 1500 cominciò tuttavia, a causa delle uccisioni da parte dell’uomo, un declino, che culminò all’incirca un centinaio di anni fa, quando la specie, ad esempio, risultava del tutto assente nell’Italia nord-occidentale. Pare che proprio nel 1919 alcuni esemplari provenienti dalla Francia ritornarono in Piemonte e Liguria, dando il via ad un processo di ricolonizzazione che, dapprima lentamente, ma via via sempre più velocemente ha portato alla situazione attuale. Le cause dell’espansione del cinghiale sono fondamentalmente due: la prima è l’accresciuta disponibilità di territorio a lui congeniale, grazie all’abbandono di boschi e campi (soprattutto in aree montane e collinari) e alla grandissima capacità di adattamento della specie. Ma altrettanto, se non più importanti, sono state le massicce immissioni, compiute a scopo venatorio da Associazioni di cacciatori, ma anche da Amministrazioni pubbliche, che si effettuarono a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso e che sono durate (quasi) fino ai giorni nostri. Peccato che queste immissioni, come afferma l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) siano state “inizialmente operate con soggetti catturati all’estero e, successivamente, con animali prodotti in allevamenti che si sono andati progressivamente sviluppando in diverse regioni italiane. Ciò ha creato problemi di incrocio tra sottospecie differenti e di ibridazione con le forme domestiche, che hanno determinato la scomparsa dalla quasi totalità del territorio della forma autoctona peninsulare” (Carnevali L., Pedrotti L., Riga F., Toso S., 2009. Banca Dati Ungulati - Status, distribuzione, consistenza, gestione e prelievo venatorio delle popolazioni di Ungulati in Italia, Collana “Biologia e Conservazione della Fauna”, Volume 117). In pratica, la maggior parte degli esemplari liberati apparteneva al ceppo est-europeo (l’ecotipo autoctono dell’Italia settentrionale si era nel frattempo estinto), più grande e prolifico di quello maremmano, quindi caratterizzato da un maggior interesse venatorio.

Quindi, se oggi la situazione è quella che conosciamo, sia ben chiaro che la principale responsabilità è del mondo venatorio. Mondo venatorio che però approfitta della situazione e si propone quale unico soggetto in grado di risolvere un problema da lui stesso creato. In realtà, i cacciatori non hanno nessuna intenzione di risolvere il problema cinghiale, che sopperisce a una carenza di altre specie di interesse venatorio sempre più evidente. Non solo, poiché il cinghiale viene anche cacciato nell’ambito di piani di selezione (che prevedono l’abbattimento di individui predeterminati in base al sesso e all’età e che non sono limitati alla stagione venatoria, ma estesi per tutto l’anno) ecco che ai cacciatori si concede la possibilità di divertirsi di fatto per 12 mesi all’anno, e non più per due o tre come avveniva in un recente passato.

E questo non lo affermiamo solo noi ambientalisti, notoriamente tacciati di incompetenza ed emotività quando si affrontano questioni che riguardano la fauna. Lo dice il citato ISPRA (ricordiamo, massima autorità scientifica italiana in materia di caccia), il quale, commentando il piano di controllo del cinghiale della Regione Toscana per il periodo 2019-22 afferma testualmente: “Ciò che invece appare evidente è come l’attività di caccia di selezione e più complessivamente gli interventi autorizzati (che dovrebbero avere precise finalità di contenimento della specie) non appaiono essere stati recepiti ed attuati come strumenti specificatamente finalizzati alla riduzione degli impatti causati dai cinghiali, e come la programmazione realizzata non si differenzia in modo incontrovertibile dalla normale attività venatoria, Al riguardo le azioni condotte potrebbero essere lette più come una opportunità per estendere tempi e aree di caccia che come interventi finalizzati al raggiungimento degli obiettivi di contenimento dei danni previsti dalla legge regionale. In particolare, dalla relazione inviata (dalla Regione Toscana, n.d.r.), emerge come si continui a fare ampio uso della braccata (modalità di caccia mediante la quale gli animali selvatici, in questo caso cinghiali, vengono spinti da mite di cani verso i luoghi ove i cacciatori sono appostati, n.d.r.), anche in ambiti protetti e in periodi (ottobre-febbraio) in cui lo stadio di sviluppo delle colture garantirebbe, invece, la massima visibilità e contattabilità di eventuali animali presenti nelle aree agricole che potrebbero, pertanto, essere efficacemente rimossi attraverso il prelievo in selezione. Al riguardo, si evidenzia come l’attività di controllo, così come programmata e realizzata, appare configurarsi solo come una estensione dell’attività di caccia in braccata al di fuori degli ambiti e dei tempi previsti dalle norme, nonché un ampliamento del personale coinvolto a figure non esplicitamente previste dalla normativa medesima”.

Ma al di là di queste considerazioni, che comunque già da sole dovrebbero innescare una profonda riflessione sulle modalità di controllo del cinghiale, c’è da rilevare come le azioni che si intraprendono oggi sono spesso inutili se non addirittura favorevoli ad una ulteriore diffusione della specie. Azioni: in realtà avremmo dovuto usare il singolare, visto che l’unico intervento che si propone e si attua per controllare i cinghiali sono gli abbattimenti.

Quindi gli abbattimenti favoriscono la diffusione della specie, invece di contrastarla? Sembra strano ma in gran parte è proprio così. E vediamone i motivi.

In primo luogo gli abbattimenti, soprattutto se effettuati attraverso il deprecabile metodo della braccata, tendono a disgregare i branchi. Questi sono di solito costituiti da femmine con i loro piccoli, mentre i maschi tendono ad avere comportamenti più solitari. Il branco è guidato dalla scrofa più anziana (quindi anche quella di maggiori dimensioni), la quale, tramite messaggi di tipo ormonale, riesce in qualche modo a controllare l’estro delle femmine più giovani, all’evidente scopo di favorire i propri discendenti, e quindi il proprio patrimonio genetico. Quando i branchi di disperdono, soprattutto in caso di abbattimento della femmina alfa (peraltro obiettivo principale dei cacciatori, perché, come detto, si tratta di un esemplare di grandi dimensioni), spesso poi si assiste alla formazione di branchi più piccoli, con il conseguente aumento di femmine che vanno in calore (spesso anche anticipato) e, in definitiva, del tasso riproduttivo della specie. Non solo, la destrutturazione dei branchi determina anche spesso la diffusione degli animali in aree limitrofe a quelle in cui prediligono insediarsi, e cioè quelle boschive, determinando di fatto le condizioni idonee per una crescita del numero complessivo di animali e dell’aumento dei danni alle coltivazioni agrarie. Non solo, aumenta anche la probabilità di incidenti. Le statistiche a tale proposito sono chiarissime: la maggior parte degli investimenti di cinghiali, ma non solo, avviene nei mesi autunnali, durante la stagione venatoria.

E tutto questo senza contare l’enorme disturbo che la caccia al cinghiale, soprattutto se eseguita con la braccata determina ad altre specie animali, che spesso vengono disturbate proprio nella delicatissima fare riproduttiva.

Le Associazioni ambientaliste da anni propongono l’adozione di strategie alternative agli abbattimenti per limitare i danni che il cinghiale arreca alle attività agricole, così come peraltro previsto dalla legislazione nazionale in materia venatoria, che impone, prima di procedere con gli abbattimenti di specie che creano problemi, la verifica dell’efficacia di metodi cosiddetti “ecologici”. Quasi inutile ribadire come questa norma non venga praticamente mai seguita. Tra le possibili modalità alternative in grado di limitare la diffusione e i danni provocati dal cinghiale ricordiamo il divieto dell’allevamento e del trasporto di animali (che troppo spesso sfocia, guarda caso, in fughe di animali in ambienti aperti….), l’uso di recinzioni elettrificate per proteggere le colture più pregiate, dissuasori ad ultrasuoni, l’uso di prodotti contraccettivi. Certo, in quest’ultimo caso, i problemi da superare sono ancora molti, Però è evidente che fino a quando non si affronta un problema con convinzione, mezzi e risorse adeguati, ben difficilmente si sarà mai in grado di risolverlo….

Ricordiamo infine che il cinghiale non è quella specie così pericolosa per l’uomo come certa propaganda interessata vuol farci credere (la stessa cosa capita per il lupo). Il cinghiale, come tutti gli animali selvatici, teme l’uomo e fugge in sua presenza. Solo in casi del tutto particolari (animale ferito e cui sia preclusa ogni via di fuga, persona che viene a trovarsi tra la madre e i suoi piccoli) è possibile un attacco. Si tratta comunque di episodi estremamente rari, anche alla luce dell’elevato numero di cinghiali oggi presenti nel nostro Paese: quanti siano esattamente nessuno lo sa, ma si sente parlare di stime che arrivano fino a 2 milioni di esemplari.

Su questi temi il Tavolo Animali e Ambiente di Torino (Comitato che raccoglie numerose Associazioni ambientaliste ed animaliste, tra cui Pro Natura Torino) sta organizzando un convegno, che dovrebbe tenersi il prossimo 20 giugno a Torino. Il condizionale è tuttavia d’obbligo, stante l’attuale situazione legata all’epidemia di coronavirus. È quindi possibile che l’evento verrà rimandato, forse all’autunno. Chi fosse interessato può chiedere informazioni rivolgendosi alla Segreteria di Pro Natura Torino (tel. 011 5096618, torino@pro-natura.it).

Politica Agricola Comune: manca una visione globale

Franco Rainini

 

Nel quadro del (così chiamato) Green New Deal, La commissione Europea ha avviato il percorso che produrrà una comunicazione sulla necessità di stabilire una filiera che fornisca alimenti sani, sicuri, accessibili economicamente alla popolazione e “sostenibili”, “dal campo alla forchetta”. Una prima fase consistente nella consultazione aperta al pubblico è stata conclusa negli scorsi giorni, a questa consultazione la Federazione Pro Natura ha partecipato ponendo la maggior enfasi sugli aspetti di sostenibilità, sulla base delle considerazioni che seguono. In primo luogo riteniamo che la maggiore criticità nello sviluppo di una filiera agroalimentare sostenibile sia nella gerarchia degli obiettivi che la UE si è data per la PAC, con maggiore enfasi sul contenimento dei prezzi delle derrate agricole, perseguito come sostegno all’incremento dell’intensità produttiva (aumento della quantità di capitale per capo o unità di superficie) e con l’inevitabile conseguenza di incrementare forme di agricoltura ad elevato input di concimi chimici, biocidi e intensità di motorizzazione, inevitabilmente più connesse alla semplificazione degli agroecosistemi, alla riduzione di biodiversità e alla perdita di servizi ecosistemici.

Detto in altri termine, la PAC attribuisce risorse agli agricoltori costringendoli al massimo sforzo produttivo allo scopo di ottenere prodotti agricoli che spesso vengono pagati comunque troppo poco. La presenza di realtà agrarie tanto difformi all’interno del mercato unico provoca inevitabilmente effetti di dumping economico e/o sociale e/o ambientale che alcuni (forse tutti) i paesi praticano. Dentro c’è la contraddizione di voler assicurare prezzi bassi delle derrate, redditi adeguati agli agricoltori, tutela dell’ambiente e magari anche dei diritti di chi lavora. Evidentemente nelle condizioni date non tutto si tiene. A perdere sono innanzitutto l’ambiente e in seconda battuta i soggetti più deboli: lavoratori salariati e piccoli agricoltori.

Se dal punto di vista teorico la strada da seguire per superare questo problema è facilmente individuata dalle proposte della nostra Coalizione italiana “Cambiamo agricoltura”, nella pratica del confronto politico è lampante che questa non è solo una stortura nata all’inizio della Politica Agricola Comune che ci trasciniamo per inerzia e neghittosità delle burocrazie: l’errore è sistemico e si trova nell’obiettivo non dichiarato della PAC, cioè il sostegno alle industrie che forniscono prodotti agli agricoltori (a monte) e la trasformazione dei prodotti agricoli (a valle).

I produttori agricoli si confrontano sia all’atto dell’acquisto dei mezzi di produzione che alla vendita delle derrate con soggetti molto più grandi ed economicamente solidi delle loro aziende e sono costretti ad accettare le condizioni del rapporto da queste imposte. In sintesi la PAC sovvenziona le industrie fornitrici e clienti del sistema agricolo dando soldi a soggetti che sono inevitabilmente condannati a cedere loro i soldi ricevuti. Dovendo operare non in condizioni di libera concorrenza ma in mercati dominati da soggetti che operano in oligopolio. È opportuno ricordare a questo punto l’aforisma di Richard Levins (biologo, agroecologo, della Harvard School of Public Health) per cui “coltivare significa ottenere il raccolto di arachidi dalla terra, mentre l’agricoltura fa burro di arachidi dal petrolio”.

Da questa contraddizione riescono ad uscire con successo i produttori biologici e biodinamici, mentre vi rimangono invischiati la gran parte dei produttori di commodities. Forse l’agricoltura organica non è perseguibile da tutti gli agricoltori, ma è un passaggio indispensabile per molti ed insieme la dimostrazione che è possibile uscire dalla trappola.

Sulle conseguenze sociali del sistemi agroindustriale dominante: è opportuno citare il caso (che riteniamo non segnali un fenomeno isolato) dei risultati della missione ONU sull'impatto sociale dell'agricoltura italiana. Le condizioni di lavoro (sicurezza, salari sotto il limite della sopravvivenza, degrado sociale ed abitativo) è da tempo sotto attenzione

https://unric.org/it/esperta-onu-per-la-prima-volta-in-italia-per-esaminare-lo-stato-del-diritto-allalimentazione/

Da entrambe le fonti citate traspare come l'impatto ambientale della PAC si rifletta perfettamente sul piano sociale. Da queste valutazioni emerge fortemente l’esigenza di un approccio agroecologico, che affronti in modo integrato gli aspetti ambientali, sociali ed economici. Riconoscendo la centralità della realtà produttiva in campo, valutando positivamente le forme produttive a ridotto input esterno, preferendo la trasformazione nell’ambito agro-zootecnico locale, favorendo una uniforme distribuzione dei carichi di lavoro all’interno dell’azienda per tutto il corso dell’anno (il che permetterebbe l’ integrazione sociale e la stabilizzazione dei migranti).

Di primaria importanza è la questione dell’importazione di materie prime proteiche per mangimi, soprattutto per suini e vacche da latte, quindi destinati in parte cospicua a diventare reflui zootecnici sparsi sul suolo o smaltiti con modalità tale da porre a serio rischio la qualità delle acque ad uso alimentare e igienico, e la sussistenza stessa di molti ecosistemi (terrestri, acquatici e marini) oligotrofici. Secondo l’annuario 2019 di Assalzoo, l’Associazione Nazionale dei Produttori di Alimenti Zootecnici (https://www.assalzoo.it/wp-content/uploads/2019/08/Annuario_2019_WEB.pdf) la dipendenza del sistema mangimistico italiano per quanto riguarda la soia e i suoi derivati è di circa tre milioni di tonnellate, equivalente alla coltivazione di un milione di ettari (circa 10.000 Km2. Le importazioni arrivano in gran parte dall’emisfero americano, in quota rilevante dal Sud America.

La dipendenza da fonti proteiche (ma anche energetiche) estere è particolarmente rilevante in aree come la Lombardia, che ospita una quota ingente (30-40%) del patrimonio zootecnico italiano. In effetti queste storture ambientali sono create e anche rese economicamente convenienti dalla “delocalizzazione” della coltivazione della componente proteica degli alimenti per i nostri animali. Il sintomo più appariscente è la difformità di distribuzione degli allevamenti rispetto alla superficie coltivabile, quindi al disaccoppiamento della produzione zootecnica da quella agricola, oltre che su scala intercontinentale anche su scala europea e nazionale.

L’Autorità di bacino del fiume Po, sulla base di questi numeri calcola un carico zootecnico di una quarantina di milioni di abitanti equivalenti all’interno del bacino stesso, che comprende il Piemonte, la Lombardia, gran Parte dell’Emilia Romagna e una parte del Veneto (il 33% dei 114 milioni di ab.eq. stimati totali!), Questi animali mangiano e producono deiezioni in quantità assai superiore a quanto succede in distretti agricoli meno intensivi: il ciclo di vita di un pollo da ingrasso (broiler) è di una cinquantina di giorni scarsi, non è infrequente riscontrare produzioni di latte in allevamento che superano i quaranta litri al giorno, l’incremento di peso dei suini da ingrasso supera il mezzo chilogrammo al giorno. Da ciò risulta la necessità di grandi quantità di alimenti standardizzati, con elevati livelli di nutrienti e da questo deriva la nostra dipendenza dalle fonti di approvvigionamento estero, perché le superfici agricole destinate a seminativi in pianura sono in riduzione, a causa del consumo di suolo per costruzioni civili, industriali e soprattutto commerciali e di infrastrutture. Il commento di ISTAT al dato del VI censimento dell’agricoltura per la Lombardia (https://www.istat.it/it/files//2013/02/Focus_Agr_Lombardia_revMalizia_rivistoMarina_26feb.pdf) serve a inquadrare il problema:

In ambito regionale i gruppi colturali hanno evidenziato nel decennio andamenti differenziati. La variazione negativa più consistente si è verificata per la superficie destinata a prati permanenti e pascoli (- 41.297 ettari, pari al -15,0%), la cui estensione media aziendale è solo lievemente aumentata (da 9,6 a 10,8 ettari), segnalandone il progressivo abbandono nell’area montana ove sono prevalentemente localizzati.

Con un calo modesto, pari al 2,1% rispetto al 2000 (-15.000 ettari), seguono i seminativi che mostrano un incremento di rilievo delle estensioni medie aziendali (da 15,2 a 20,3 ettari per azienda) per una flessione del numero delle aziende pari al-27,7%.

In sintesi, nella composizione della SAU gestita dalle imprese si rafforza il peso dei seminativi (la cui quota passa dal 70,3% al 72,5%) e delle coltivazioni legnose agrarie (dal 3,1% al 3,7%) mentre diminuisce quello dei prati permanenti e pascoli (dal 26,5% al 23,8%). “

 

Il fenomeno descritto è quindi quello dell’abbandono delle aree di montagna, dove l’agricoltura non è redditizia, perché legata al pascolo del bestiame, mentre una riduzione pesante (15.000 ettari sono centocinquanta chilometri quadrati!) vi è anche a carico dei seminativi, che tuttavia vedono aumentata la loro presenza relativa, a dimostrazione della riduzione delle aree agricole. Le aziende diventano più grandi per estensione, fenomeno confermato anche dalla dimensione media degli allevamenti (vedi i dati del consorzio Clal in https://teseo.clal.it/?section=vacche_italia, dove risulta anche la sproporzionata distribuzione del patrimonio lattifero nazionale, evidentemente slegata dalla produzione agricola e alla disponibilità di foraggi).

 

Le conseguenze globali provocate anche dall’insostenibile sistema agricolo europeo sono rese evidenti dall’allarme mondiale sollevato negli scorsi mesi dallo sviluppo di vasti incendi in varie parti del Sud America, che nell’immaginario collettivo si è coagulato nell’immagine dell’Amazzonia che va in cenere. Il fenomeno, genericamente attribuito ai cambiamenti climatici, sembra avere una genesi più complessa, non è l’apocalisse immediata e repentina dovuta a temperature più alte, ma è la maturazione di un processo lungo e complesso di trasformazione del sistema agroalimentare mondiale che ha interessato il Sud America quale base produttiva di materie prime destinate alla produzione zootecnica: bovini, suini ,avicoli. Per i primi questa trasformazione ha riguardato il trasferimento di buona parte degli allevamenti estensivi al pascono in allevamenti feedlot (pubblicazione Agri Benchmark https://literatur.thuenen.de/digbib_extern/dn054620.pdf), una pratica zootecnica che in opposizione al pascolo (grass feed) prevede l’allevamento degli animali in grandi recinti, in aziende spesso con decine di migliaia di capi. Questi animali vengono allevati con farine di cereali e soia. La trasformazione di parte degli allevamenti da pascolo feedlot in Sud America, unita alla richiesta mondiale di cereali e soia, ha portato alla trasformazione di pascoli, a volte derivati dalla distruzione della foresta primaria in seminativi. Accelerando il grado di distruzione della foresta e incrementando il “rischio” di incendi.

La trasformazione della foresta in seminativo ha comportato costi ecologici resi universalmente noti dai grandi incendi segnalati negli scorsi mesi, ma si deve anche ricordare che i costi sociali non sono stati irrilevanti: spesso le popolazioni residenti sono state sgomberate con mezzi spesso criminali, tra cui l’uso della violenza, fino all’omicidio e allo stupro agervolati dalla corruzione di funzionari pubblici. Un resoconto è presente nel volume “Agricolture and Food in Crisis” MR Press NY a cura di Fred Magdoff e Brian Toker, al saggio 9 – “The battle for sustainable Agricolture in Paraguay” di April Howard.

Nello specifico della situazione che si è recentemente creata con la segnalazione dell’aumento degli incendi nelle aree in gran parte perimetrali o esterne alle foreste primarie si veda un illuminante articolo di The Guardian https://www.theguardian.com/environment/2019/aug/23/amazon-fires-what-is-happening-anything-we-can-do). Naturalmente il dramma si sta svolgendo anche nel contesto economico generale entro cui si sta svolgendo il dramma, caratterizzato dallo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti riguardo al riequilibrio della bilancia commerciale bilaterale, attualmente sbilanciata a favore dei cinesi. Tra le misure di ritorsione prospettate da questi ultimi è il dazio sulle importazioni di soia dagli USA, il che, oltre a mettere in crisi il seguito politico di Trump negli stati agricoli, aumenterebbe la domanda di soia da altri paesi. Questo potrebbe in prospettiva aggravare la pressione sulle foreste Sud americane (di passaggio: lo stato del Brasile che produce più soia si chiama Mato Grosso, cioè grande bosco, una bella premessa per il futuro). Letta invece con un po’ di dietrologia la cosa spiegherebbe invece l’esplosione sui media della crisi degli incendi “in Amazzonia”, che non è cosa nuova, seppure mai così grave.

Questa nota non può essere in alcun modo considerata esaustiva dei problemi posti dal sistema agricolo europeo. Le criticità sono ampie e variegate ben oltre l’orizzonte di qualsiasi soggetto. Volendo riassumere in poche parole il senso di quanto esposto riteniamo importante che siano affermati i principi della sicurezza alimentare, in primo luogo per il contenuto di pesticidi negli alimenti, di sicurezza ed equità sociale per i diritti dei lavoratori e dei piccoli produttori, di solidarietà globale ad evitare che gli interessi particolari di un piccolo numero di soggetti economici basati in Europa abbiano conseguenze nefaste su paesi economicamente meno forti, equità ambientale basata su una corretta distribuzione e articolazione dei carichi agricoli e zootecnici, permettendo al contempo la robusta presenza di una rete ecologica (aree protette) all’interno dei nostri territori.

La ballata dei lupi ribelli

Vincenzo Rizzi

 

Ci sono ben pochi animali predatori, come il lupo, che hanno intrecciato così tanto le loro sorti con l’uomo, in un rapporto spesso tragico, basato sull'invidia per la forza e la libertà che gode questo straordinario predatore sociale. Un rapporto intriso di crudeltà e sangue a scapito principalmente di uno solo dei contendenti: il lupo. Questo canide selvatico, nell'immaginario umano è sempre in bilico tra divinità positive e negative, il lupo piegato ai voleri dell'uomo e che si tramuta nel suo migliore amico, il cane.

L’uomo che s’inchina alla natura selvaggia e si trasforma in un licantropo. Il lupo predone, il lupo silenzioso, il lupo genitore e fondatore, il lupo specchio della turbolenta anima umana, il lupo che in ogni sua recondita sfaccettatura è il simbolo della forza della vita, ma al contempo rappresenta la parte oscura dell’animo umano, Homo homini lupus.

Facendo un salto indietro nel tempo, Zenobio, un sofista greco del II secolo d.C., asserì: Il lupo è sempre sotto accusa, colpevole o meno che sia. Tutto questo astio nei confronti del lupo crebbe esponenzialmente passando dall'età classica a quella moderna. Infatti, nel secolo breve, 6 forse 7 sottospecie del lupo grigio (Canis lupus) sono state cacciate fino all'ultimo esemplare. Il lupo, malgrado tutto, riesce ancora ad essere fra noi in Capitanata e forse questo miracolo può essere mirabilmente sintetizzato da un proverbio russo: “un lupo sopravvive grazie ai suoi piedi

L’Epopea dello sterminio delle sottospecie di lupo a causa dell'uomo è una narrazione interessante e ricca di elementi di riflessioni sulla visione che l’uomo, negli ultimi cinquecento anni, ha di questo incredibile predatore. In particolare, nel nuovo mondo, la lotta tra uomo e lupo è stata durissima, basti pensare che negli Stati Uniti questo scontro presenta similitudini con la guerra tra gli invasori europei e i nativi americani, dove spesso i nativi rispondevano militarmente all'invasione con tecniche di guerriglia. Infatti, in una visione culturalmente antropomorfa, anche tra i lupi ci furono diversi animali che vendettero cara la propria pelle e, stranamente, molti di questi avevano elementi distintivi come il mantello bianco o nero, che rafforzavano il loro mito e, al contempo, fortificavano l’odio irrazionale che ha caratterizzato la cultura pastorale americana nei confronti del lupo. Basti pensare che nel 1638, nello Stato del Massachusetts, era in vigore una legge che stabiliva che "chiunque nella città sparasse in qualsiasi occasione non necessaria o a qualsiasi animale selvatico, eccetto a un indiano o a un lupo, dovrà pagare 5 scellini per ogni colpo sparato."

In Virginia, nel 1703, un uomo di chiesa, per spiegare la necessità morale per cui gli indiani dovevano venire cacciati anche con i cani e quindi sterminati, scriveva che "essi si comportano come lupi e come lupi vanno trattati". Edward Curnow, nella sua storia dello sviluppo dell'industria dell'allevamento e dell'estinzione del lupo in Montana, afferma che prima del 1878 i coloni erano più assillati dagli indiani, ma una volta che questi furono confinati nelle riserve e con l'arrivo delle nuove ondate di coloni, il lupo per gli allevatori "divenne oggetto di un odio patologico".

Tornando al mito del lupo guerrigliero che si è tramandato fino ai nostri giorni, ricordiamo alcuni dei più conosciuti che hanno operato tra il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo: Snowdrift Wolf di Judith Basin, Custer Wolf del Sud Dakota, la lupa di Split Rockn detta anche Three Toes di Harding County in Sud Dakota, il lupo di Custer attivo nelle Colline Nere presso Custer, nel Dakota del Sud, Badlands Billy (detto anche Big Dark) e il lupo di Roosevelt del North Dakota, Wolf di Sycan Marsh nell'Oregon, Old Whitey di Bear Springs Mesa, Colorado, Bucher Wolf e Old Lefty della Contea di Eagle in Colorado, Big Foot conosciuto anche come Old Whitey & Three Toes di Bear Springs Mesa, presso Thatcher, Colorado, Spring Creek Wolf, Truxton Wolf, di Virden Wolf, Rags lo scavatore ("Rags the Digger") di Cathedral Bluffs, presso Meeker nel Colorado, Gray Terror, (il lupo macellaio) Colorado, Gray di Cuerno Verde in Colorado, Two Toes Colorado, Old Sister, il lupo di Greenwood e il branco di Keystone sempre nel Colorado, The Truxton Wolf e Aquila Wolf in Arizona, il lupo di Chiricahua dei monti Chiricahua, Lupo Spring Valley Arizona, Old one Toe e Old Auguila in Arizona, Wolf e Black Buffalo runner in Manitoba, Winnipeg Wolf, Ghost Wolf del Montana, Big Timber Killer del Montana, Old Grazy Mountain Wallis del Montana, White Wolf of Cheyenne del Montana, Snow Slide of the High Wood Mountains del Montana, Lefty of Fort Mc Ginnie del Montana, Old Cripple Foot del Montana, Big Foot, Bob Brew, Unnamed Large, Custer, Unnamed White, Yellow hammer, Cushion Foot, Five Toes, Red Flash, Scar Face e Two Toes tutti lupi del Wyoming, Two Toes del Kansas, Lobo Giant Killer Wolf of the North del Minesota, Las Margarita e Old One Toe Messico, Big Foot Terror of the lane County del Colorado, Phantom Wolf of Big Salt Wash, del Colorado, Green Horn Wolf del Colorado, Old Club Foot del Colorado, Three Toes of the Apishapa del Colorado, Big Boy, El Lobo Diablo, Black Worrior, e El Comanche tutti Nuovo Messico, Were Wolf nel Saskatchewan, Old Two Toes Baytield County del Wisconsis, Lobo White del Texas.

Ovviamente molti di questi lupi si riteneva provenissero dalle riserve indiane (ulteriore punto di convergenza): Pine Ridge Wolf dalla riserva di Pine Ridge, Pryor Creek Wolf dalla riserva Crow, Ghost Wolf delle Little Rochies dalla riserva di Fort Belknap. Non mancavano poi i lupi mutilati dalle tagliole. Uno in particolare aveva perso una zampa ed era conosciuto con il nome di Old Lefty di Burns Hole Colorado. Il più temuto era invece un certo Tre dita di Harding Country del Sud Dakota e, secondo Stanley Young, furono impiegati ben 150 uomini, per 13 anni, prima che venisse catturato nell'estate del 1925, dopo che, secondo gli allevatori, aveva causato danni per circa 50.000 dollari.

L’epopea degli ultimi lupi ribelli riecheggiò negli scritti di diversi letterati e naturalisti. Tra i più celebrati c'è la ballata di Currumpaw Wolf (Lobo), della sua compagna Blancaedi altri quattro membri del suo branco che vissero nel New Messico settentrionale. Lobo veniva descritto come un lupo di notevoli dimensioni del peso di 68 Kg e con una altezza di 91 cm al garrese. Nel suo branco oltre alla sua compagna, la lupa bianca ribattezzata “blanca” c’era anche un lupo di colore giallastro: entrambi furono responsabili, in una sola notte, della morte di 250 pecore. Pare che durante le battute di caccia, il ruolo di Lobo all'interno del branco era di abbattere le prede grazie alla sua mole, lasciando poi agli altri membri del branco il compito di uccidere le prede. Questa storia fu narrata da Ernest Thompson Seton nel suo libro più famoso, Wild Animals I have Known, (1898). Nel 1894 questo naturalista viene invitato da un suo amico allevatore perché ogni tipo di trappola veniva sistematicamente aggirata da una banda di lupi. Dopo che anche Setton costatò l'abilità del Lupo Currumpaw e della sua compagna di aggirare le trappole, ideò un astuto piano suggerito da vecchi cacciatori: amalgamò formaggio con il grasso ottenuto dai reni di una giovenca macellata, provvide a cucinare il tutto per poi tagliarlo con il coltello di osso per evitare l'odore del metallo. Una volta che questo intruglio fu raffreddato, lo spezzò e introdusse in ogni singolo pezzo una grossa dose di stricnina e cianuro, contenuta in apposite capsule per non rilasciare odori o sapori, poi sigillò i buchi con del formaggio.

Durante tutte le operazioni indossò dei guanti che aveva immerso nel sangue della giovenca ed evitò persino di espirare sull'esca. Dopo aver preparato il tutto, lo inserì in una sacca che in precedenza era stata strofinata con il sangue. Con questo preparato cavalcò, trascinando il fegato e i reni della giovenca, percorrendo circa 15 km, gettando ovunque esche avvelenate durate il percorso. Nonostante tutti questi accorgimenti Currumpaw ignorò le trappole e anzi ne raggruppò ben quattro di esse su cui defecò sopra.

Sfortunatamente la femmina Blanca finì in una tagliola nelle primavera del 1894. Setton e i mandriani si avvicinarono a cavallo dopo di che il naturalista dichiara: "accadde l'inevitabile tragedia, al pensiero della quale, in seguito, rabbrividii più che al momento stesso. Ognuno di noi lanciò un lazzo al collo della lupa e avviammo i cavalli in direzioni opposte finché il sangue non le sgorgò dalla bocca e, con gli occhi vitrei, gli arti rigidi, infine si accasciò". La lupa fu portata al ranch, il maschio la seguì e il giorno successivo finì nelle trappole poste a protezione della fattoria.

Venne incatenato e lasciato in vita per tutta la notte, ma al mattino lo trovarono morto, senza nessun segno. Setton rimase colpito da quanto si era verificato e distese il corpo del maschio di fianco a quello della sua compagna.

Il compenso per l'uccisione di quel lupo era di 1000 dollari. Mi piace immaginare che il grande naturalista americano, che tanto contribuì alla creazione del movimento per la conservazione della natura in America, non abbia riscosso quella taglia. Di certo fu così tanto turbato da rinunciare per sempre alla caccia e dedicò molto del suo tempo alla difesa dei lupi e dei popoli nativi americani.

Attualmente i teschi di Lobo e Blanca sono esposti nel Canadian Museum of Nature, mentre la pelle del primo è tenuto nel Philmont Museum a Cimarron nel Nuovo Messico. Il resoconto dato da Seton dell'evento fu poi reso popolare attraverso un lungometraggio della Disney, La leggenda di Lobo.

Biosfera sotto attacco

Eccellenze Alimentari e Composti Azotati: c’è attenzione per il territorio?

Collaborazione fra Associazioni lombarde aderenti alla Federazione nazionale Pro Natura

 

Umberto Guzzi – idrogeologo, Gruppo Naturalistico della Brianza, Canzo (CO)

Franco Rainini – agronomo, Associazione per i Vivai ProNatura, San Giuliano Milanese (MI)

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Il tracollo della biodiversità

Riccardo Graziano

 

Molti di noi sanno che la biodiversità, ovvero la varietà delle specie viventi del globo, è in costante declino. Ma pochi si rendono realmente conto di quanto sia drammatica la situazione, non solo nell’opinione pubblica, ma anche fra ambientalisti e “addetti ai lavori”, perché spesso non siamo a conoscenza di molti dati e indicatori che rendono invece evidente la gravità del problema e possono darci l’esatta percezione di quanto sia esteso e profondo il danno che abbiamo arrecato e stiamo arrecando al pianeta. Questa diffusa mancanza di consapevolezza fa sì che non venga avvertita a sufficienza l’urgenza di prendere provvedimenti seri per arginare questo tracollo.

L’estensione del danno è globale, ma si manifesta con livelli diversi di gravità nei vari ecosistemi del pianeta, risultando più o meno evidente a seconda dei contesti. Al tempo stesso, non vi è ormai dubbio che la causa del problema sia la pressione esercitata dalla specie umana sulla biosfera, da cui il termine Antropocene con cui viene identificata l’era geologica contemporanea, nella quale è appunto l’Homo sapiens a determinare i mutamenti planetari. Esaminiamo la situazione con una serie di esempi, non esaustivi, che possono aiutarci a visualizzare il quadro della situazione attuale e magari a valutare in prospettiva le possibili conseguenze.

Cominciamo col dire che oltre i due terzi (70%) della superficie terrestre sono stati alterati dall’azione umana (disboscamento, agricoltura, cementificazione…), spesso in maniera difficilmente reversibile. Una delle conseguenze di tutto questo è che nel corso della storia umana – periodo relativamente breve, su scala geologica - la biomassa della vegetazione terrestre si è dimezzata, perdendo oltre il 20% della varietà delle specie.

Anche nel Regno animale le cose non vanno meglio: dal tardo pleistocene (12.000 anni fa) a oggi la globalità della fauna selvatica si è ridotta di tre quarti, un assottigliamento che ha causato l’estinzione di molte specie. La riduzione progressiva del numero di individui di una certa specie porta infatti inesorabilmente ad arrivare sotto una soglia limite che possa garantire la prosecuzione della specie medesima, determinandone fatalmente l’estinzione. E non si tratta di una questione meramente quantitativa, ma anche qualitativa, perché la variabilità intraspecifica è importante quanto quella fra specie. Infatti, solo un elevato numero di individui garantisce quella variabilità che può consentire alla singola specie di superare eventi potenzialmente fatali, come l’aggressione di nuovi patogeni o l’improvvisa alterazione dell’habitat.

Dal XVI secolo le cronache registrano la scomparsa di oltre 700 specie di vertebrati e circa 600 di piante, ma è probabile che la perdita sia più elevata, perché molte estinzioni potrebbero essere passate inosservate o riguardare specie nemmeno censite.

Questa tendenza è purtroppo tuttora in corso: si calcola che dal 1970 a oggi, in pochi decenni, oltre il 60% di tutti i vertebrati terrestri sia scomparso. Questa imponente perdita numerica si traduce in una minaccia di estinzione che riguarda almeno un milione di specie sul totale stimato di 7,3-10,0 milioni di specie di eucarioti, gli organismi viventi le cui cellule sono dotate di nucleo, definizione che ricomprende tra gli altri animali, piante e funghi.

Negli ultimi anni, questo declino precipitoso ha iniziato a colpire anche gli insetti, considerati fino a non molto tempo fa un possibile serbatoio di proteine in alternativa alla carne. In particolare desta preoccupazione la progressiva scomparsa degli impollinatori, il cui ruolo è pressoché insostituibile per la riproduzione di moltissimi vegetali, fra i quali anche buona parte di quelli utilizzati nella nostra alimentazione.

Ma la Terra, come ben sappiamo, è soprattutto un pianeta di acque, che ricoprono la maggior parte della sua superficie. Purtroppo, anche qui le cose non vanno bene, dal momento che oltre i due terzi dell'area oceanica sono stati in parte compromessi dalle attività umane. La nostra attenzione si focalizza in genere sui mammiferi, verso i quali proviamo una maggiore empatia, per cui sappiamo che balene, delfini e foche sono in pericolo. Ma anche la maggioranza delle altre specie è in grave difficoltà, a causa della pressione della pesca intensiva, mentre i grandi pesci predatori sono diminuiti di un terzo nel corso di un secolo. Senza contare l’inquinamento, dalle pervasive microplastiche agli sversamenti di greggio.

Critica anche la situazione delle altre creature marine, a partire dai coralli, la cui copertura si è dimezzata rispetto a quella presente a metà del XIX secolo. Fatali in questo caso i cambiamenti climatici, che provocano innalzamento del livello della temperatura e del grado di acidificazione delle acque. L’estensione delle foreste di alghe si è ridotta del 40%, le praterie marine nell’ultimo secolo hanno perso il 10% della superficie ogni decennio.

Non va meglio con le acque dolci. Le zone umide attuali sono meno del 15% di quelle presenti nel XVIII secolo. I corsi d’acqua sono sempre più imbrigliati, dai piccoli torrenti fino ai grandi fiumi: più dei tre quarti di quelli lunghi oltre 1000 km presentano barriere lungo il percorso, come la diga di Assuan sul Nilo o la Hoover Dam e la Glen Canyon Dam che impediscono al Colorado di arrivare fino alla foce, o le dighe del sistema Gibe che sbarrano il fiume Omo provocando il progressivo prosciugamento del lago Turkana, come già avvenuto per quello di Aral.

Tornando alla biodiversità animale, qualcuno ha calcolato che sul totale della biomassa, ben il 59% sia composto dal bestiame e il 36% dagli esseri umani viventi, cosicché solo un residuale 5% contiene tutta la fauna selvatica di mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. In altre parole, il 95% della massa animale terrestre è rappresentata dalla specie umana e dagli animali domestici che usa per nutrirsi.

Peraltro, anche le specie addomesticate non sono esenti dal declino: il 10% dei mammiferi domestici si è già estinto e un migliaio di razze sono in pericolo. Discorso analogo per i vegetali coltivati, con 200 specie minacciate e una progressiva riduzione della variabilità alimentare, ormai basata a livello mondiale su un ventaglio di prodotti sempre meno variegato.

Tutti questi dati testimoniano in modo piuttosto evidente che stiamo vivendo quella che è la Sesta estinzione di massa del nostro pianeta, un evento paragonabile a quello che ha sterminato i dinosauri. Solo che oggi, a rischiare l’estinzione, ci siamo noi.

 

Che cos'è la decrescita felice

Maurizio Pallante

 

Il concetto di decrescita felice è stato da me formulato e teorizzato nel libro omonimo che ho pubblicato nel 2005 con gli Editori Riuniti e riassumo in questo breve testo.

Il concetto di decrescita non di rado viene confuso col concetto di recessione, mentre ha un significato totalmente diverso, che si può dedurre solo da una corretta interpretazione del concetto di crescita economica. La crescita economica non è, come generalmente si crede, l'aumento dei beni prodotti e dei servizi forniti da un sistema economico e produttivo nel corso di un anno, perché il parametro con cui si misura, il prodotto interno lordo, è un valore monetario, costituito dalla somma dei prezzi dei beni e dei servizi a uso finale e venduti nel corso di quel periodo di tempo.

Gli oggetti e i servizi che vengono venduti sono le merci. Il concetto di "merce" non coincide col concetto di "bene", che definisce gli oggetti e i servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio. Siccome nei paesi industrializzati da due o tre generazioni siamo abituati a comprare tutto ciò che ci serve (ciò che compriamo sono le merci, ciò che ci serve sono i beni) abbiamo finito col confondere i due concetti. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti la parola merce praticamente non esiste più. Se si cerca sul vocabolario il corrispettivo è la parola goods, che significa “beni”.

Per capire il significato della parola "decrescita" occorre ripristinare la consapevolezza che i concetti di “bene” e di “merce” sono differenti. Differenti non significa opposti. L'opposto di "bene" non è "merce", ma oggetto inutile o dannoso. L'opposto di "merce" non è bene, ma oggetto o servizio non in vendita.

Due caratteristiche opposte non possono coesistere in uno stesso soggetto o in uno stesso oggetto. Un uomo non può essere contemporaneamente alto e basso, né grasso e magro. Due, o più, caratteristiche diverse invece sì. Se sono due possono dare origine a quattro combinazioni: un uomo può essere alto e magro, basso e magro, alto e grasso, basso e grasso.

Tra le merci e i beni si possono creare quattro combinazioni: le merci che non sono beni, i beni che non sono merci, i beni che possono esistere solo sotto forma di merci e i beni che non possono esistere sotto forma di merci.

1. La decrescita felice si può realizzare in prima istanza riducendo la produzione e il consumo delle merci che non sono beni: gli sprechi. Per esempio: l'energia che si disperde dagli infissi, dal sottotetto e dalle pareti nel riscaldamento degli ambienti (dai 2/3 ai 4/5); il cibo che si butta (almeno il 3% del PIL); i materiali contenuti negli oggetti dismessi che vengono interrati o bruciati. La riduzione di uno spreco non fa diminuire il benessere. Ogni spreco causa un danno ambientale. La riduzione di uno spreco fa risparmiare dei soldi e riduce un danno ambientale. A differenza della recessione, che è la diminuzione generalizzata di tutta la produzione di merci, indipendentemente dal fatto che siano o non siano beni, la decrescita felice è una riduzione selettiva e governata. Non si limita a mettere il segno "meno" davanti al PIL, perché in questo modo non si esce dal criterio quantitativo di chi pretende di far precedere il PIL sempre dal segno "più". È il meno quando è meglio. La recessione causa disoccupazione, la decrescita selettiva degli sprechi crea un'occupazione utile, che paga i suoi costi d'investimento con i risparmi sui costi di gestione che consente di ottenere (esempio: la riduzione dei costi energetici negli edifici ristrutturati).

2. La decrescita felice si può realizzare, in seconda istanza, con l'aumento della produzione e dell'uso di beni che non vengono comprati, ma autoprodotti o scambiati sotto forma di dono reciproco del tempo nell'ambito di rapporti comunitari. Nel giro di due o tre generazioni nei paesi occidentali è stato sradicato dal patrimonio delle conoscenze collettive il saper fare, che consentiva di autoprodurre molti beni in casa (l'economia vernacolare di cui parla Ivan Illich) e tutti i rapporti interpersonali sono stati trasformati in rapporti commerciali (perdita del valore della solidarietà). Come mai? Coloro che non sanno fare niente e non possono contare su una rete di rapporti di collaborazione devono comprare tutto ciò di cui hanno bisogno, per cui fanno crescere il PIL più di coloro che non devono comprare tutto. Conseguenze: totale subordinazione al mercato, perdita delle capacità che distinguono la specie umana da tutte le altre specie viventi, identificazione della ricchezza col denaro.

3. Ci sono beni che si possono avere solo sotto forma di merci: i beni che richiedono tecnologie evolute o competenze professionali specialistiche. Esempi: computer, risonanza magnetica, elettrodomestici. La decrescita non sarebbe felice se si realizzasse con una diminuzione dei beni che si possono avere solo sotto forma di merci. Tuttavia, anche in questo ambito si può realizzare una decrescita felice: producendo oggetti fatti per durare, producendo oggetti riparabili, disegnando gli oggetti in modo che al termine della loro vita utile possano essere smontati facilmente consentendo di suddividere i materiali di cui sono composti per tipologie omogenee in modo da poterli riutilizzare o riciclare per fare altri oggetti.

4. Ci sono beni che non si possono avere sotto forma di merci: i beni relazionali: la fiducia, la stima, l'amore non si possono comprare. Le società che hanno finalizzato l'economia alla crescita della produzione di merci, danno più valore al tempo che si dedica al lavoro per produrre merci in cambio di un reddito monetario che consente di acquistare merci, rispetto al tempo che si dedica alle relazioni umane, alla propria creatività, alla spiritualità. La decrescita felice si realizza riducendo il tempo che si dedica al lavoro e aumentando il tempo che si dedica alle relazioni.

I punti 1 e 3 consentono di impostare le uniche proposte di politica economica e industriale che possono farci uscire dalla crisi economica e creare un'occupazione utile in attività che riducono la crisi ecologica. I punti 2 e 4 comportano un cambiamento dei modelli di comportamento e del sistema dei valori, che sono in grado di dare un senso alla vita. L'economia è stata finalizzata alla crescita della produzione di merci dal modo di produzione industriale. La decrescita felice è una rivoluzione culturale che si sta sviluppando perché si sta chiudendo l'epoca storica iniziata con la rivoluzione industriale nella seconda metà del diciottesimo secolo. Quando un’epoca storica si chiude, entra in crisi il sistema dei valori su cui ha conformato il modo di pensare degli esseri umani, per cui comincia a diffondersi la consapevolezza dei suoi limiti e ad affermarsi l'esigenza di costruire un nuovo paradigma culturale. La decrescita felice è una rivoluzione culturale con queste caratteristiche, nella sua fase aurorale. Affinché arrivi la luce del giorno occorre il contributo di idee, di passione, di competenze professionali di un numero di persone molto più ampio di coloro che sono rimasti svegli per vedere l'aurora.

Avviso per la generazione Greta

Resettare e riconfigurare il sistema

Valter Giuliano

Haeckel quando parla di scambi e ambienti nella situazione istantanea individua, di fatto, l’economia della natura.
Il concetto dell’evoluzione darwiniana aveva messo in crisi tutte le cosmogonie accettate, secondo cui un Dio onnipotente concepisce e regola l’Universo.
Il concetto di ecologia mette in crisi la situazione di metà Ottocento, quando l’Uomo, attraverso la scienza e la tecnologia, si illude di essere in grado di dominare il mondo e assicurargli un roseo avvenire. La Terra appare, unicamente, un terreno da sfruttare con il massimo dei rendimenti possibili - cosa consentita dall’esordio dell’industria chimica e della meccanizzazione agraria - in maniera inesorabile e illimitata.
L’ecologia sovverte queste radicate convinzioni, rompe queste certezze e introduce il concetto del finito, dunque di limite.
Subito la sua verità destabilizzante si fa pensiero sovversivo da combattere.
Consumismo ed ecologismo entrano in rotta di collisione: il primo è quello su cui si fonda il capitalismo liberale, la seconda ci avverte di una verità ingombrante che va al più presto rimossa.
Per farlo la si accusa di settarismo radicale o di ancoramento a un immaginifico sogno incapace di confrontarsi con la realtà economica e sociale.
Strategia che abbiamo constatato a partire dei primi anni Settanta quando gli allarmi degli ecologisti cominciarono a diffondersi ad ampio raggio.
Non ha funzionato del tutto, davanti alla evidenza della realtà.
Ecco allora fare la sua comparsa la tecnica, più raffinata, dell’inglobamento, con l’obiettivo di assorbire l’istanza ecologica e la sua possibile dirompente rivoluzione che si oppone al sistema produttivista cieco confidente dell’illusoria assenza di limiti.
Magicamente, fa il suo ingresso in campo il concetto di sviluppo sostenibile, per opporsi a crescita zero o, addirittura, alla decrescita, indicati dal tempo della ricerca del Massachusset Insitute of Tecnology con “I limiti della crescita” promosso dal Club di Roma di Aurelio Peccei, come uniche contromisure efficaci ad arrestare la corsa verso il suicidio dell’Umanità.
Compare “sostenibile” ma resta crescita, parola taumaturgica, mantra che continuiamo a sentire anche nelle situazioni in cui appare un gigante dalle fondamenta di fragile argilla.
La finzione si afferma con il sistema delle compravendita dei crediti ecologici, le compensazioni che, di fatto, sanciscono il diritto a continuare a inquinare.
Che si tratti di un raggiro ipocrita è piuttosto evidente.
Eppure, ecco che prende piede la green economy, altro inganno spesso camuffato in maniera subdola. Tutto diventa sostenibile, tutto, improvvisamente, come per magia, è green.
Le dinamiche economicistiche del produrre-vendere-consumare sono salve.
Anche l’ecologia è assorbita nello stritolante meccanismo liberale, funzionale alla massimizzazione di profitti che può continuare, indisturbato, nel saccheggio del Pianeta.
Fino a quando abuseranno della nostra credulità?
Che è di comodo, perché giustifica la nostra frattarietà al cambiamento, consentendo di cullarci in dimensioni di privilegio che si reggono sull’ingiustizia globale.
I cambiamenti climatici, che altro non sono che la manifestazione più evidente della crisi ambientale, chiamano in maniera naturale a difenderci contro l’unico vero nemico comune che minaccia tutte le comunità umane, senza distinzione alcuna, a livello globale.
É un nemico che sta dentro il sistema stesso e che ci sta portando, dritti dritti, al suicidio.
Che fare?
Viviamo tempi in cui siamo educati a un rassegnato e quieto servilismo, che tiene sotto controllo inquietudini e ribellioni, che toglie fiato anche alle opportunità di discussione sui modelli alternativi di società.
Se guardiamo all’arco dei partiti politici presenti in Parlamento, registriamo un appiattimento generalizzato e diventa davvero difficile scegliere sulla base di distinguo impercettibili che certo non prospettano idee diverse di futuro.
Le strategie della paura e del precariato hanno raggiunto il loro obiettivo, nelle scuole, nelle Università, nel mondo della ricerca, nelle istituzioni pubbliche: pensiero annullato, progressiva anestesia mentale dell’intera società.
Non si protesta, non si rischia, non si espongono idee diverse. Ha vinto il ricatto.
Anche la paura catastrofista della questione ambientale è strettamente legata a questa logica e diviene strumentale per assorbire ogni potenziale sovversivo presente nella società.
Che va invece nutrito nell’esercizio di una nuova visione del mondo, cui ci dobbiamo preparare se vogliamo assicurarci nuove prospettive di vita planetaria.
É ciò che ci propone Gilles Clement (L’Alternativa ambiente, Quodlibet, 2015) quando prospetta l’alternativa ambiente come terza via, l’unica possibile, tra green business e decrescita.
Dopo oltre mezzo secolo di presa di coscienza della crisi ecologica è tempo di dissociarsi dai parametri consueti con cui si avrebbe la pretesa di farvi fronte.
La domanda di fondo sul come far vivere la popolazione umana in crescita costate su un territorio finito è rimasta senza risposta e più si avvicina il tempo del non ritorno, più si manifesta la nostra impotenza e si fa spazio la rassegnazione.
É evidente – pena la sconfitta finale – che occorrono nuove modalità di gestione per poter governare il futuro.
L’unica maniera perché ciò possa accadere è guardare il Pianeta con occhi diversi, mutando radicalmente il paradigma.
Il sistema va resettato e riconfigurato.
Uscendo dal determinismo cartesiano per riprendere una visione animistica sia pure depurata dalla superstizione delle antiche civiltà e ricondotta alla conoscenze scientifiche.
Ciò sarà possibile in un sistema liberale capitalistico in cui le reali strategie appartengono non già alla politica, ma alle corporazioni e alle lobby che si sono ormai inserite nei gangli decisionali a causa di una politica sempre più debole per visione e per autorevolezza etica e morale?
La risposta è no.
Far tacere le lobby e la Borsa: ecco, secondo Clement, il lavoro di una futura generazione, capace di scegliere come affrontare davvero la crisi del Pianeta che è, ormai, una vera necessità.
Il treno della crescita senza limiti procede oramai ad alta velocità verso il baratro dell’esaurimento delle risorse che ne interromperà i binari.
Limite raggiunto, binari esauriti, fine corsa, schianto
C’è chi lo vorrebbe rallentare, chi chiede sia fermato, chi vorrebbe farlo andare in retromarcia, lentamente, per quella che è stata chiamata decrescita felice.
La possibile soluzione non sta in nessuna di queste due prospettive.
Il problema non è il treno che avanza a crescente velocità, né quello che inserisce la retromarcia.
Il problema reale è il treno.
Tra le due ipotesi di sviluppo bisogna promuoverne una terza che, tuttavia, non è data se non si cambia completamente il paradigma, cioè il treno.
Se si continua a ragionare con i parametri dell’ecologia radicale o della green economy che si prefigge solo di sostituire il business, non se ne verrà a capo.
E le rotaie, sia in un caso che nell’altro, inevitabilmente, un po’ prima o un po’ dopo finiranno...
La terza via l’ha indicata qualche anno fa l’acuta analisi del citato Gilles Clèment -docente all’Ecole Nationale Supèrieure du Paysage di Versailles - e l’ha chiamata “Alternativa ambiente”.
Si tratta della necessità di un progetto politico orientato dall’urgenza ecologica.
Attraverso un’alternativa ambientale che sperimenti innovative pratiche territoriali e sociali sostenute da una rivoluzione culturale che metta al primo posto la coscienza della nostra appartenenza planetaria in opposizione alla strategia delle paura.
Occorre ripartire da un percorso che ci conduca dal dominio sulla Natura al dialogo con essa attraverso un atto di scambio e di condivisione delle ricchezze.
Per fare ciò è indispensabile mettere a punto una riflessione che comporta la ridefinizione dei valori, la riqualificazione dei beni e degli usi, la loro disponibilità, la ripartizione che si sostituisca alla mera accumulazione nelle mani di una minoranza dominante.
Insomma, radicali cambiamenti che comportano come parametro di misura del benessere di una società non più il PIL ma il FIL (Felicità Interna Lorda).
Questo progetto di futuro, ecologista e umanista insieme, deve portare a cambiare il modello di cupidigia dei beni materiali e del loro consumo verso il benessere vero, per una gestione equilibrata ed ecologica del pianeta.
Ciò va auspicabilmente fatto non con sbocchi violenti dettati da un’emergenza in futuro sempre più stringente, ma con un movimento dolce, di sostituzione progressiva.
E necessita della condivisione di impresa, mercato e finanza, i soggetti che oggi decidono i nostri comportamenti e i nostri consumi, molto più della politica.
Forse andrebbe aggiunto il sistema della comunicazione.
La riconversione ecologica richiede tempi medio lunghi.
Anche se i tempi lunghi ce li siamo progressivamente bruciati, e non li abbiamo più a disposizione.
Per accelerarla va coinvolto anche il sistema monetario dominante - avverte Clement - che dovrebbe prevedere il passaggio alla cosiddetta moneta complementare che favorisce gli investimenti a lungo termine piuttosto che la speculazione immediata, uscendo dal vigente “modello di cupidigia”.
Un modello messo a punto da Bernard Lietaer e ispirato ad antiche consuetudini già adottate nell’antico Egitto

Qualcuno sorriderà, riversando la consueta accusa di luddismo e di ritorno al passato.
Ma la ricerca dell’innovazione ha spesso tratto spunto da elaborazione del passato recuperate e rivisitate in chiave moderna e soprattutto futuribile.
Assodato che i binari su cui ci stiamo muovendo portano verso la capitolazione (e ricordiamoci che Cassandra aveva ragione!) bisogna prendere atto che l’umanità deve prepararsi a scrivere una nuova visione del mondo che necessita di paradigmi radicalmente diversi da quelli dell’era industriale che ha sconvolto il mondo.
Forse sarà il caso che l’Uomo cominci ad attivare qualcun altro dei sette ottavi del suo cervello che oggi non utilizza.
«Il pensiero ecologista non dimostra soltanto come l’economia di gestione sia intimamante legata alla sopravvivenza della specie, alla qualità dei sostrati; non si limita a proporre uno sfruttamento razionale della diversità (il Giardino Planetario), che condiziona il nostro futuro, bensì svela la finitezza del nostro territorio, ed è a partire da questa rivoluzione che deve ridefinirsi l’interezza del progetto politico». Verso l’Uomo simbiotico.

Pandemie, zoonosi e antibiotico-resistenze

Riccardo Graziano

 

L’umanità è stata più volte flagellata da epidemie che, ciclicamente, colpivano e decimavano la popolazione. Solo per citare le più note, ricordiamo la peste nera del 1300 e l’influenza spagnola del 1918-1919. Si tratta di eventi in genere associati alla comparsa di un nuovo agente patogeno, spesso contratto dagli animali, in particolare dal bestiame domestico, cioè facenti parte della categoria delle zoonosi.

Anche l’attuale Covid-19 è con ogni probabilità una zoonosi, visto che il focolaio iniziale è stato identificato con il mercato del pesce della città di Wuhan in Cina, all’interno del quale si vendevano anche numerosi animali vivi. Del resto, molte delle malattie infettive emergenti (EID, Emerging Infectious Diseases) sono zoonosi, malattie appunto causate da organismi patogeni presenti negli animali che riescono a effettuare lo spillover, ovvero il salto di specie.

Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto purtroppo vari esempi di queste patologie estremamente pericolose, perché potenzialmente in grado di causare pandemie, ovvero contagi globali con elevata morbilità e mortalità: nel 2002-2003 la SARS, sindrome respiratoria acuta grave causata dal virus SARS-CoV; l’influenza H1N1 nel 2009; la sindrome respiratoria del Medio Oriente identificata per la prima volta in Arabia Saudita nel 2012; Ebola, che ha colpito a più riprese vari Paesi dell’Africa equatoriale con una virulenza elevatissima. Fino ad arrivare all’attuale pandemia, causata dal virus denominato SARS-CoV-2 perché individuato come parente stretto di quello responsabile della SARS (SARS-CoV), entrambi appartenenti alla famiglia dei Coronavirus (CoV).

I CoV provengono probabilmente dai pipistrelli e a volte transitano attraverso una specie ponte (spesso animali domestici) prima di arrivare all’uomo. Questo transito intermedio è stato documentato in alcune delle recenti epidemie, ma nel caso attuale potrebbe esserci stato un passaggio diretto, dopodiché il virus si è propagato rapidamente attraverso il contagio fra umani.

Il fatto è che gli animali selvatici possono essere portatori sani di virus, nel senso che convivono tranquillamente con questi organismi che li abitano, esattamente come noi abbiamo trovato un equilibrio sinergico con i batteri che si trovano nel nostro organismo e ci aiutano nelle funzioni vitali, a partire dalla flora intestinale. Se gli ecosistemi funzionassero in maniera normale, difficilmente gli umani e gli animali domestici arriverebbero a stretto contatto con questa fauna selvatica.

Ma l’espansione antropica sempre più pervasiva, a colpi di deforestazione e colonizzazione di porzioni sempre più ampie del pianeta, riduce drammaticamente gli spazi vitali a disposizione della fauna selvatica e aumenta le probabilità di contagi da parte di questi microrganismi estranei alla nostra specie, contro i quali il nostro sistema immunitario non ha mai avuto occasione di approntare difese specifiche.

La distruzione degli habitat, i cambiamenti climatici, l’espansione degli insediamenti abitativi portano la fauna selvatica sempre più a stretto contatto con gli umani. Un fenomeno esacerbato in Cina, dove la pressione demografica è probabilmente la più elevata al mondo. Se a questo aggiungiamo che nel gigantesco Paese asiatico mondi arcaici convivono con una modernità dirompente, possiamo capire perché moltissime infezioni nascono e si sviluppano qui.

L’attuale Covid-19 è un esempio paradigmatico: i commercianti di animali vivi hanno introdotto i pipistrelli, con relativo virus, nel mercato cittadino di una megalopoli come Wuhan, con milioni di abitanti. Una sorta di prateria sconfinata per i virus, con una platea vastissima di potenziali “ospiti” assolutamente indifesi rispetto alla loro penetrazione.

Se a questo aggiungiamo che alcuni studi ci dicono che l’inquinamento atmosferico – una costante del territorio cinese – è un fattore che può agevolare la diffusione del virus, ecco che abbiamo il quadro completo. Come se ciò non bastasse, sappiamo che la Cina è da tempo al centro del sistema produttivo mondiale, il che comporta una elevatissima mobilità di merci, ma anche di persone, che a loro volta in modo del tutto inconsapevole veicolano il virus in luoghi anche lontanissimi, in tempi straordinariamente brevi. All’epoca di Marco Polo, un viaggiatore infetto avrebbe impiegato mesi per giungere in Occidente e magari sarebbe morto lungo il percorso, stroncato dalla malattia. Oggi può arrivare in poche ore, portando in sé una bomba batteriologica pronta a esplodere. Infatti così è successo.

Questo dovrebbe già farci capire che l’attuale modello di sviluppo è potenzialmente patogenico, nel senso che rischia di esporci con sempre maggior frequenza a eventi pandemici. Per questo dovremmo ridurre la nostra pressione sugli ecosistemi, preservando habitat naturali che possano garantire la separazione fra noi e la fauna selvatica con il suo peculiare carico microbico. Ma stiamo facendo esattamente il contrario, continuando ad abbattere le foreste per ottenere nuovo suolo coltivabile, spesso destinato a produrre mangimi per i nostri animali da allevamento, in costante aumento.

E proprio dagli allevamenti intensivi , vere e proprie fabbriche di carne, arriva un’altra insidia per la nostra salute. Non ci riferiamo al colesterolo in eccesso, che pure è un problema, ma al fenomeno crescente delle antibiotico-resistenze.

È noto che i batteri mutano con una velocità enormemente superiore a quella degli altri esseri viventi, noi compresi. Questo consente loro, nell’arco di poche generazioni, di diventare immuni o comunque molto resistenti rispetto agli antibiotici che usiamo per debellarli in caso di malattia. Per questo si dice sempre che gli antibiotici vanno assunti solo in caso di reale necessità e dietro prescrizione medica. Purtroppo però, quasi il 70% degli antibiotici venduti sono destinati agli allevamenti intensivi, dove vengono utilizzati in maniera massiccia per contrastare le numerose infezioni causate dal sovraffollamento, dalle precarie condizioni igieniche, dalla condizione di costrizione in cui si trovano gli animali.

Già oggi si calcola che nella sola Italia ogni anno muoiano circa 10.000 persone a causa di batteri resistenti alle terapie antibiotiche, 700 mila nel mondo. Un’emergenza sanitaria ancora più rilevante dell’attuale epidemia, della quale però poco si parla, mentre invece dovrebbe indurci a riconsiderare con urgenza il nostro sistema produttivo e le nostre scelte alimentari. Ma anche in questo caso, non sembra di vedere che ci sia una particolare determinazione ad agire in questo senso.